L'attuale disciplina del segreto di Stato e l'assetto organizzativo e funzionale delle istituzioni preposte all'esercizio dei poteri previsti al riguardo dall'ordinamento sono da tempo oggetto di rilievi critici e di proposte di riforma complessiva. Si sono registrate in tale direzione iniziative, di segno e di contenuto diverso, sia a livello istituzionale, sia sul piano della riflessione scientifica, sia ancora ad opera di privati cittadini o di associazioni.
Il dato di partenza che accomuna tali iniziative è costituito dalla riconosciuta e condivisa lacunosità del dettato legislativo, fermo sostanzialmente alle prescrizioni di principio fissate nella legge 24 ottobre 1977, n. 801. Ad esse non è infatti seguita l'emanazione di una "nuova legge organica relativa alla materia del segreto", cui pure fa espresso riferimento l'articolo 18 della legge testé menzionata, con ciò attribuendo, sul piano del diritto positivo, un connotato di provvisorietà all'intero impianto della disciplina ivi dettata in materia di segreto.
I riflessi di tale aleatorietà sono stati avvertiti tanto a livello organizzativo, con riferimento cioè alla definizione dei soggetti competenti e responsabili in materia, quanto a livello funzionale, con particolare riguardo alla normativa destinata a disciplinare non solo l'esercizio in concreto delle prerogative poste a tutela del segreto, ma - sul piano sostanziale - lo stesso ambito di estensione della figura del segreto.
Sembra dunque opportuno, particolarmente nel quadro del dibattito sulla complessiva riorganizzazione del sistema dei servizi di informazione e sicurezza nel nostro Paese, soffermare brevemente l'attenzione sull'aspetto specifico della disciplina del segreto di Stato, che, soprattutto in relazione a taluni profili di particolare delicatezza istituzionale, ben potrebbe essere oggetto di appositi interventi legislativi di riforma e di razionalizzazione, la cui efficacia meglio potrebbe esplicarsi nell'ambito di un contesto di complessiva revisione del "sistema intelligence" italiano.
Alla luce delle premesse sopra indicate, appare a tal fine prioritario, sul piano metodologico, distinguere i profili organizzativi da quelli funzionali (pur se evidentemente in concreto tra loro strettamente connessi), partendo dal dato normativo vigente, analizzando quindi le questioni sollevate a riguardo e prospettando, ove possibile, le vie da seguire per eventuali interventi correttivi.
Il sistema istituzionale si incentra, come è noto, sulla responsabilità per la politica generale del Governo che la Costituzione imputa al Presidente del Consiglio dei ministri (articolo 95, primo comma, primo periodo, Cost.). In coerenza con tale prescrizione, l'articolo 1, primo periodo, della l. n. 801 del 1977 attribuisce al Presidente del Consiglio "l'alta direzione, la responsabilità politica generale e il coordinamento della politica informativa e di sicurezza nell'interesse e per la difesa dello Stato democratico e delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento".
A tale impianto di poteri e di responsabilità è funzionale l'amplissimo potere regolamentare che il successivo secondo periodo attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri. Questi infatti "impartisce le direttive ed emana ogni disposizione necessaria per l'organizzazione ed il funzionamento delle attività" attinenti ai fini previsti nel precedente periodo.
Per quanto riguarda più specificamente il segreto di Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri:
- controlla la corretta applicazione dei criteri relativi all'apposizione del segreto di Stato e all'individuazione degli organi a ciò competenti;
- esercita la tutela del segreto di Stato. Tale norma di chiusura dispone dunque inequivocamente che il potere sostanziale di decidere in ultima istanza circa la ricorrenza o meno di una fattispecie da tutelare mediante il segreto di Stato spetta in via esclusiva al Presidente del Consiglio.
Di fatto, i poteri di indirizzo in materia di politica informativa e di tutela del segreto di Stato assai di rado sono stati esercitati direttamente dal Presidente del Consiglio dei ministri. La situazione che si è venuta a consolidare in materia può essere così sintetizzata:
- le funzioni di indirizzo e di coordinamento della politica informativa sono state delegate ad un sottosegretario di Stato, mediante provvedimenti ad hoc che hanno attribuito ai soggetti delegati compiti ulteriori rispetto alla semplice presidenza del CESIS (che, ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge n. 801 del 1977, può appunto essere delegata dal Presidente del Consiglio dei ministri ad un sottosegretario di Stato);
- l'effettivo esercizio dei poteri afferenti alla tutela del segreto di Stato è stato invece delegato ad un alto funzionario, che ha assunto nella prassi la denominazione di "Autorità nazionale per la sicurezza" (ANS); sino al 1991, tale funzionario è stato individuato nel direttore del servizio informativo militare; successivamente, le funzioni in questione sono state delegate al Segretario generale del CESIS;
- le attività istruttorie e di supporto alle funzioni dell'ANS sono state affidate ad un'unità organizzativa costituita nell'ambito della Presidenza del Consiglio, l'Ufficio centrale per la sicurezza (UCSI); a tale ufficio sono affidate le funzioni di coordinamento degli organi delle pubbliche amministrazioni competenti, ciascuna nel proprio ambito, alla tutela del segreto, nonché la competenza al rilascio del cosiddetto NOS (nulla osta di segretezza).
La situazione ora descritta è stata oggetto di numerosi rilievi critici sotto differenti profili:
- sul punto della legittimità formale, si è osservato che tanto l'ANS quanto l'UCSI sono articolazioni amministrative non previste dalla legge, essendo la prima individuata a seconda del soggetto di volta in volta delegato dal Presidente del Consiglio dei ministri all'esercizio delle funzioni in materia di segreto e trovando la seconda la propria fonte istitutiva ed organizzativa in provvedimenti amministrativi privi di fondamento in esplicite prescrizioni legislative;
- sul piano della responsabilità politica generale, si è sottolineata l'inopportunità di mantenere la dissociazione di fatto tra l'effettivo esercizio dei poteri afferenti alla tutela del segreto di Stato e la responsabilità complessiva per la politica informativa e della sicurezza.
Taluni degli aspetti di criticità di cui al paragrafo precedente sono stati per altro oggetto di differente valutazione, in particolare nell'ambito delle motivazioni in punto di diritto sviluppate dalla seconda Corte d'assise di Roma in una recente sentenza (21 dicembre 1996). Il testo della sentenza è pubblicato in stralcio a pag. 815.
Viene infatti ivi rilevato:
- per quanto riguarda l'Autorità nazionale per la sicurezza, è da ritenersi legittima la delega da parte del Presidente del Consiglio dei ministri delle funzioni attinenti al segreto di Stato; l'attribuzione di tali funzioni in capo al Presidente del Consiglio non implica la conseguenza che queste debbano necessariamente essere esercitate personalmente ed esclusivamente dal medesimo; la possibilità di "emanare ogni disposizione necessaria per l'organizzazione ed il funzionamento delle attività" di cui egli è investito (art. 1, secondo periodo, l. n. 801 del 1977) e la facoltà, prevista esplicitamente, di controllare l'applicazione dei criteri relativi all'apposizione del segreto di Stato e della individuazione degli organi a ciò competenti, presuppongono proprio la non esclusività dell'esercizio delle relative funzioni;
- per quanto riguarda l'UCSI, la legittimità di tale struttura è da fondarsi sul potere organizzativo attribuito al Presidente del Consiglio dei ministri dall'articolo 1 della l. n. 801 del 1977, e dunque sulla potestà di emanare "ogni disposizione necessaria per l'organizzazione ed il funzionamento delle attività" in materia di politica informativa e di tutela del segreto di Stato; l'UCSI è infatti inserito funzionalmente nella struttura del CESIS ed è organizzativamente riconducibile alla complessa organizzazione della Presidenza del Consiglio dei ministri; non si versa dunque in un'ipotesi di violazione dell'articolo 10 della l. n. 801 del 1977, secondo cui "nessuna attività comunque idonea per l'informazione e la sicurezza può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge".
Se pure gli spunti offerti dalla giurisprudenza possono valere a fondare la legittimità della situazione esistente, consolidatasi del resto in una prassi oramai ventennale, permangono tuttavia le ragioni delle perplessità sopra evidenziate in merito alla funzionalità di un sistema sostanzialmente "bicefalo" (sottosegretario delegato per la politica informativa e ANS), dimostratosi scarsamente coeso dal punto di vista della responsabilità politica finale. In tal senso, obiettivo prioritario appare quello di ridurre drasticamente la distanza tra vertice politico ed apparati di intelligence, individuando una figura istituzionale effettivamente responsabile, in grado non solo di dettare indirizzi, ma anche - e soprattutto - di "coprire" politicamente, con adeguata cognizione di causa ed immediata percezione degli interessi strategici sottostanti, le fasi maggiormente delicate dell'attività degli organismi di informazione e sicurezza. Le decisioni generali relative alla tutela del segreto di Stato non risulterebbero in tal modo l'esito di una valutazione discrezionale di natura amministrativa, sia pure posta a livello di alta amministrazione, ma assumerebbero il necessario carattere di politicità, che dovrebbe essere loro proprio e che discende dall'apprezzamento in ultima istanza della ricorrenza in concreto degli interessi previsti dall'articolo 12 della l. n. 801 del 1977.
Conseguentemente, data la riconosciuta impossibilità pratica per il Presidente del Consiglio di esercitare direttamente tali funzioni, tra i diversi modelli proposti appare preferibile quello che si incentra sull'istituzione di un Ministro senza portafoglio per la sicurezza nazionale. Rispetto alla diversa soluzione, sia pure autorevolmente suggerita, di un sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri cui delegare le funzioni di Autorità nazionale per la sicurezza, quella dianzi prospettata sembra assistita dalla più forte legittimazione istituzionale che verrebbe a connotare la nuova figura governativa. In primo luogo, infatti, ne risulterebbe assai più saldamente fondata l'autorevolezza, basata sull'intuitus personae che verrebbe a collegare il Ministro per la sicurezza nazionale con il capo dell'Esecutivo. In secondo luogo, dato il rango formale di Ministro, il soggetto preposto verrebbe a sedere in Consiglio dei Ministri. Ciò consentirebbe un migliore coordinamento dell'attività dei servizi di informazione e sicurezza con le varie amministrazioni dello Stato, che di essa potrebbero diventare, in un certo senso, "utenti", nell'ambito di un solido e sistematico raccordo istituzionale.
La legge definisce il quadro degli interessi primari per la cui salvaguardia, a tutela dell'esistenza stessa dello Stato, può essere vietata la libera circolazione di informazioni e documenti.
Ai sensi dell'articolo 12 della legge 24 ottobre 1997, n. 801, "sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività ed ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno all'integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, all'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione ed alla difesa militare dello Stato. In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordine costituzionale".
Il complesso delle regole e delle procedure per assicurare la salvaguardia in concreto di tali interessi si rinviene invece in un atto normativo di natura secondaria, per altro classificato come "riservato", approvato da ultimo nel 1987 dall'Autorità nazionale per la sicurezza pro tempore. Nell'ambito di tale complesso normativo si rinvengono i seguenti principi generali:
- le forme di segreto sono graduate nelle tipologie riservato, riservatissimo, segreto e segretissimo, in relazione all'entità del danno la cui rivelazione non autorizzata potrebbe determinare allo Stato italiano o agli Stati membri della NATO o della UEO; la classificazione attribuita al documento determina l'applicazione di una specifica disciplina in merito alla sua emissione, diffusione, trasmissione, custodia, visione, riproduzione e distruzione;
- l'autorità competente a disporre la classifica di segretezza (o la classifica di sicurezza NATO/UEO) è individuata nel vertice dell'ente nel cui ambito si forma il documento; così, per l'amministrazione statale stricto sensu, responsabili sono i singoli Ministri; tale facoltà può essere delegata a funzionari di elevato livello gerarchico nell'ambito dello stesso ente;
- la classifica attribuita è soggetta a revisione annuale da parte dello stesso ente originatore, che può procedere, in relazione agli eventuali mutamenti del contesto nel cui ambito si colloca il documento, all'attribuzione di una nuova qualifica, superiore o inferiore, o alla declassificazione tout court; una diversa classificazione può essere motivatamente disposta in ogni momento dall'Autorità nazionale per la sicurezza o da ente gerarchicamente sovraordinato a quello emittente;
- nel caso in cui sorga contenzioso circa la classificazione, decide l'Autorità nazionale per la sicurezza;
- la possibilità di prendere visione di documenti o di venire a conoscenza di notizie coperte a vario titolo dal segreto di Stato può essere concessa a determinati soggetti che ne facciano specifica richiesta in relazione all'esercizio delle rispettive attività professionali; è al riguardo necessaria una specifica "abilitazione", che va sotto il nome di NOS (nulla osta di segretezza), l'istruttoria per il cui rilascio è compito specifico e qualificante dell'UCSI.
La normativa ora descritta è stata oggetto di critiche assai serrate e ricorrenti. Si è in particolare osservato che: la disciplina delle regole e delle procedure che governano l'esercizio in concreto delle funzioni in materia di segreto di Stato è contenuta in un atto normativo di livello secondario e non conoscibile alla generalità dei consociati, in quanto esso stesso classificato come "riservato"; non esiste un sistema sanzionatorio per far valere la responsabilità dell'autorità che, nel formare il documento, vi abbia apposto una qualifica non adeguata o che, non sussistendone le ragioni ai sensi dei principi dell'ordinamento, lo abbia comunque assoggettato a classificazione, così sottraendolo alla normale conoscibilità da parte dei soggetti legittimati (in particolare, dell'autorità giudiziaria); la norma che impone la periodica revisione delle classifiche non sembra essere stata adeguatamente attuata dagli organi competenti; non essendo prescritti dalla legge termini per la durata del segreto di Stato, esso, una volta apposto, finisce per risultare sostanzialmente illimitato nel tempo, anche se i mutamenti del contesto politico, sociale ed istituzionale non legittimerebbero più la protezione del documento o dell'informazione disposta a suo tempo; per quanto riguarda in particolare il provvedimento di concessione o di diniego del NOS, che incide in maniera determinante sulla vita professionale di numerosi soggetti (essenzialmente dipendenti pubblici civili e militari) e sull'attività delle imprese, i canoni per l'esercizio del potere in questione non sono disciplinati a livello legislativo e non esistono forme di controllo sul corretto e legittimo esercizio del medesimo; la discrezionalità sostanzialmente assoluta con cui si decide in merito al rilascio del NOS e la connessa assenza di istanze di garanzia potrebbero dunque determinare violazioni immotivate, anche gravi, dei principi costituzionali dell'uguaglianza, della libertà di iniziativa economica, dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, senza che l'ordinamento appronti a tale scopo adeguati rimedi.
La questione dei limiti posti alla conoscibilità della normativa secondaria in materia di segreto assume poi un rilievo assolutamente decisivo ai fini dell'applicazione delle prescrizioni del codice penale che puniscono le condotte poste in essere in violazione delle norme a tutela del segreto di Stato.
Ai fini della definizione delle fattispecie criminose di cui agli articoli da 256 a 263, il codice penale fa infatti riferimento alle nozioni di notizie "che debbono rimanere segrete" ovvero "di vietata divulgazione". Al riguardo, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 801 del 1977, risulta definita con chiarezza l'area degli interessi la cui tutela rende legittime le limitazioni alla libera circolazione di notizie ed informazioni. Appare dunque coerente con tale sistema l'indirizzo interpretativo che sostiene la necessità di far riferimento, tanto per le notizie segrete che per quelle riservate, al disposto dell'art. 1 della legge da ultimo citata. Tuttavia, nulla dice la legge penale in merito ai criteri per distinguere in concreto ciò che deve ritenersi segreto e ciò che invece rientra nella categoria delle notizie riservate. Si sarebbe dunque in presenza di precetti penali per la cui integrazione occorre fare riferimento ad entità concettuali disciplinate da altre fonti.
In tal senso, è stato rilevato come le norme codicistiche in argomento sarebbero da ascrivere alla categoria delle norme penali cosiddette "in bianco", la cui legittimità costituzionale è stata ripetutamente revocata in dubbio alla luce del principio di tassatività, che in tali fattispecie non verrebbe pienamente rispettato. In proposito, può osservarsi come alla nozione di norma penale "in bianco" sia riconducibile un'ampia ed eterogenea casistica di precetti penali, non tutti però necessariamente in conflitto con il principio di tassatività. Proprio nel caso delle norme penali a tutela del segreto, sembra anzi che, in astratto, il principio di tassatività non subisca un vulnus tale da revocarne in dubbio la costituzionalità. Si è infatti in presenza di precetti che descrivono compiutamente le condotte sanzionate e che rimettono ad altra fonte semplicemente il compito di specificare, in via tecnica, elementi di una fattispecie il cui nucleo essenziale è comunque legislativamente predeterminato.
Al riguardo, la normativa secondaria riservata più volte sopra richiamata dispone che, agli effetti della legge penale, si intendono "segreti" i documenti e le notizie soggette alle classificazioni "segreto" o "segretissimo", mentre si intendono "di vietata divulgazione" i documenti e le notizie soggette alle classificazioni "riservato" o "riservatissimo". Sul piano della tassatività, dunque, non sembrano sussistere fondati motivi di perplessità.
Il problema, risolto per un verso, viene tuttavia a spostarsi sulla diversa questione dell'elemento soggettivo del reato, in particolare alla luce del noto orientamento innovativo assunto dalla Corte Costituzionale in merito all'estensione del principio dell'ignoranza della legge penale. Le disposizioni che integrano i precetti penali posti a tutela del segreto sono infatti contenute, come più volte ricordato, in un atto normativo di cui non è assicurata la conoscibilità a tutti i consociati nelle forme ordinarie. Nel caso in cui un soggetto venga in possesso e divulghi il contenuto di un documento classificato, ad esempio, come "riservato" - nozione che, ai fini della legge penale, viene esplicitata appunto in un atto normativo di cui il soggetto medesimo non è giuridicamente abilitato a prendere conoscenza - potrebbe porsi la questione della sussistenza o meno dell'elemento soggettivo del reato, e dunque dell'intenzionalità della condotta criminosa, che il soggetto agente non è posto nelle condizioni di avvertire come tale. Onde eliminare ogni dubbio al riguardo, sembra dunque indispensabile disciplinare il sistema delle classifiche attraverso una fonte normativa ordinaria, fermo restando il contesto di ampia discrezionalità che deve essere riservato alla concreta attuazione delle relative disposizioni da parte degli organi competenti.
Nella citata sentenza della seconda Corte di assise di Roma del 21 dicembre 1996 è tuttavia possibile riscontrare talune considerazioni che valgono ad attenuare parzialmente le affermazioni in senso critico segnalate ai paragrafi precedenti. Si ricorda in particolare quanto segue: per quanto attiene alla classifica di riservatezza attribuita alle norme secondarie più volte richiamate, si è rilevato che tra i destinatari istituzionali di tali istruzioni è stata inserita anche la biblioteca della Corte dei conti, che, ai sensi del relativo regolamento di accesso, è aperta al pubblico, e non risulta dunque posta ad esclusivo servizio delle attività istituzionali della Corte medesima. Ciò consentirebbe di ritenere che, a seguito della diffusione così attribuita alle norme in esame, l'autorità competente abbia inteso declassificare il relativo documento, rendendolo estensibile alla generalità dei consociati, o che comunque il documento medesimo non rivesta più oggettivamente il carattere ad esso attribuito in sede di apposizione della classifica. Occorre inoltre sottolineare in proposito, al di là delle considerazioni della Corte d'assise, che una parte assai rilevante della pubblicazione in oggetto è stata riportata nell'ambito della relazione alla proposta di legge A.C. n. 3449 (IX legislatura), recante "Norme per conferire particolari abilitazioni di sicurezza per la tutela del segreto di Stato", di iniziativa del deputato Cerquetti ed altri; non sembra tuttavia priva di rilievo la circostanza che tale proposta di legge, successivamente ritirata dai presentatori, è stata quindi ripresentata nell'identico testo nella X legislatura (su iniziativa del deputato Antonino Mannino ed altri, A.C. n. 1793), ma senza alcun riferimento, nell'ambito della relazione, alle norme riservate; in merito alla possibilità di sindacare la correttezza della classifica apposta ad un documento o ad una informazione, la seconda Corte d'assise apre una linea senz'altro significativa. Malgrado la riconosciuta impossibilità per il giudice ordinario di apprezzare le modalità di esercizio di un potere discrezionale da parte della pubblica amministrazione e malgrado l'elevato tasso di discrezionalità insito nella determinazione di classificare un documento in vista della tutela del segreto di Stato, non è precluso al giudice penale l'accertamento del fatto che tale potere sia stato esercitato in conformità alle prescrizioni delle leggi n. 801 del 1977 e n. 241 del 1990; tale accertamento è infatti indispensabile per verificare l'integrazione in concreto delle fattispecie previste dal codice penale, non essendo più sufficiente a tal fine la verifica del solo dato formale, costituito dall'apposizione o meno di una qualifica purchessia da parte dell'autorità competente. Ciò vale a maggior ragione in relazione alla prescrizione dell'articolo 12, secondo comma, della l. n. 801 del 1977, che vieta l'apposizione del segreto di Stato in relazione a fatti eversivi dell'ordine costituzionale (1) . Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto illegittimamente apposta la classifica di "segretissimo" riferita ad un documento recante l'istituzione e l'organizzazione di un reparto speciale, denominato "OSSI" (operatori speciali del servizio italiano), destinato ad essere impiegato in operazioni di guerra non ortodossa. Il documento, in quanto attestante "l'esistenza di una organizzazione costituita anche da appartenenti alle forze armate e preordinata al compimento delle azioni di guerra, ancorché non ortodossa, al di fuori dell'unica istituzione che, in base all'ordinamento costituzionale, deve legittimamente ritenersi incaricata dello svolgimento di attività di difesa della Patria, e cioè al di fuori delle forze armate ed al di fuori di un qualsiasi controllo da parte del Capo dello Stato" (...), "deve essere ritenuto eversivo dell'ordinamento costituzionale" (...) "e, come tale, insuscettibile di apposizione di segreto" (ciò che vale a scriminare le condotte riferite a tale documento).
Residuano tuttavia in materia profili che sembrano meritare ulteriore approfondimento e che, nella prospettiva di una riforma complessiva del settore, dovrebbero essere tenuti in adeguata considerazione dal legislatore:
a) le norme che disciplinano i criteri per l'apposizione delle classifiche hanno tuttora rilievo puramente amministrativo ed interno, non essendo dettate da una fonte normativa in senso proprio, ricompresa cioè tra quelle riconosciute come tali dall'ordinamento; l'incidenza che tali disposizioni esplicano sulla normale conoscibilità degli atti e dei documenti amministrativi (principio che, con l'entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241, ha positivamente assunto valenza generale) ne suggerirebbe il recepimento in atti normativi di cui possa essere assicurata la piena conoscibilità;
b) anche la procedura per il rilascio del NOS è disciplinata da atti normativi interni, che lasciano amplissimo spazio alla discrezionalità dell'ufficio preposto e non prevedono istanze di secondo grado o altre forme di gravame;
c) non esiste effettivamente un sistema sanzionatorio finalizzato ad accertare i casi di erronea apposizione di classifica ed a far valere le connesse responsabilità; è ben vero che, ove dovesse consolidarsi l'orientamento della seconda Corte d'assise di Roma sopra indicato, tale accertamento potrebbe essere effettuato dall'autorità giudiziaria; l'intervento di quest'ultima resterebbe tuttavia strettamente legato all'accertamento in giudizio di singole fattispecie, necessariamente caratterizzate, tra l'altro, dalla loro possibile rilevanza penale. Vi sarebbe altresì l'esercizio - ancora una volta - di una necessitata supplenza del magistrato penale in ambiti che dovrebbero essere anzitutto regolati con disposizioni organizzative o precettive di carattere amministrativo, comunque interne al sistema di regole del settore (nella specie, quello del segreto e della sicurezza).
Un cenno in particolare merita il profilo dell'estensione temporale del segreto di Stato. Del tutto inadeguato appare infatti il sistema vigente, che, in armonia con l'assetto reticolare delle competenze in materia di classificazione dei documenti, rimette essenzialmente all'iniziativa delle singole amministrazioni interessate la revisione delle classificazioni disposte, al fine di accertare la perdurante sussistenza delle ragioni poste a suo tempo alla base della secretazione.
Tale assetto si caratterizza in negativo sotto un duplice punto di vista. In primo luogo, come già dianzi segnalato, nessun rimedio specifico appronta la normativa vigente in caso di inerzia delle amministrazioni competenti. In secondo luogo, sul piano più generale della coerenza del sistema con i principi generali dell'ordinamento, la potenziale "eternità" che finisce per connotare la decisione di apposizione del segreto appare in aperto conflitto con i canoni della pubblicità e della trasparenza dell'azione dei pubblici poteri, da ritenere senz'altro, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, principi fondamentali dell'ordinamento, direttamente attuativi del precetto di cui all'articolo 97 della Costituzione.
E' per altro evidente la necessità di contemperare adeguatamente tale nuova impostazione di principio con gli interessi essenziali in vista della cui salvaguardia può essere apposto il segreto di Stato. In tale contesto, appare dunque possibile prospettare l'introduzione di un sistema elastico, non dissimile da quello vigente negli Stati Uniti in materia di tutela delle informazioni riservate.
In particolare, andrebbe affermato il principio generale della temporaneità del segreto di Stato, fissando un congruo termine finale oltre il quale nessuna informazione possa continuare ad essere tutelata con l'apposizione del segreto, salvo specifica, motivata determinazione assunta in senso contrario dall'autorità competente. Quanto alla durata in concreto del segreto, essa potrebbe inoltre essere graduata in relazione alla natura delle informazioni tutelate: per talune di esse potrebbe ad esempio ipotizzarsi una forma di declassificazione automatica, legata al mero decorso del tempo (sempre salvo specifico atto in senso contrario), mentre, per le notizie di maggiore rilevanza sul piano della sicurezza e della preservazione dell'integrità dell'ordinamento democratico, potrebbero essere individuate aree di più ampia discrezionalità, comunque assistite da adeguati meccanismi sanzionatori in caso di mancato esercizio a tempo debito dei poteri di valutazione.
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