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Per Aspera Ad Veritatem n.8
Costo del mercato interno in rapporto alla globalizzazione del mercato

Carlo JEAN




Con la fine della guerra fredda sono terminate le eleganti semplicità del mondo bipolare. L'economia non è più condizionata dalla sicurezza. La competizione economica internazionale si è liberata dai vincoli che quest'ultima le poneva. Si sono accelerate tendenze che esistevano già dalla fine degli anni sessanta. A mercati prevalentemente nazionali corrispondenti ai territori dei vari Stati, è subentrato un unico mercato globale ma gli Stati sono rimasti, anzi, il loro numero sta rapidamente crescendo. In tale mercato agiscono forze transnazionali su cui la politica ha perso gran parte del precedente controllo (1) . Il Leviathan sembra essere divenuto la "mano invisibile" del mercato.
Gli Stati moderni, nati per fare la guerra, cioè territoriali e militareschi, si erano trasformati in stati del benessere, dopo il secondo conflitto mondiale. Essi mantenevano la loro coesione interna con il trasferimento di risorse dalle regioni e dai ceti più ricchi alle regioni e alle classi sociali più povere. In cambio assicuravano difesa esterna, ordine interno e cospicue commesse statali. Con barriere tariffarie gli stati proteggevano le loro industrie della concorrenza straniera. Durante la guerra fredda, il trasferimento di risorse fu finalizzato anche al contrasto della penetrazione comunista nelle masse.
Il controllo dello Stato sul territorio e sull'economia permetteva non solo il protezionismo, ma anche l'adozione di politiche keynesiane, che si sono tradotte con l'accumulazione di enormi debiti pubblici. L'entità del debito italiano è ora dell'ordine di quelli che si erano formati nei due conflitti mondiali. Il rallentamento della crescita economica e le resistenze alla modifica di un sistema di protezione sociale non più sostenibile - non solo come costo del lavoro (pensioni comprese), anche come scarsa mobilità dello stesso - ha portato, specie in Italia, ad una politica di "strage degli innocenti", cioè di sacrificio dei giovani. Lasceremo loro in eredità debiti, minore dotazione infrastrutturale e tecnologica, servizi pubblici da Terzo Mondo ed un sistema educativo inadeguato alle esigenze di un'economia moderna.
La vittoria dell'Italia nella Terza Guerra Mondiale, come la chiama l'Ambasciatore Incisa di Camerana, cioè nella guerra fredda, rischia di essere vanificata. Il nostro Paese potrebbe essere marginalizzato nella nuova divisione internazionale del lavoro, che globalizzazione e turbocapitalismo stanno provocando con una velocità superiore a quanto comunemente si pensi. La nostra permanenza in Europa è a rischio. L'integrazione europea continua ad essere vista in Italia non tanto come investimento, sfida e opportunità, ma come una Fata Turchina (2) al tempo stesso Dama di San Vincenzo, che risolverà i nostri problemi, e come maestra severa, che ci impone gli adattamenti culturali e strutturali che da soli non saremmo capaci di fare (ma perché?). L'etica della responsabilità non è subentrata a quella onirica e ipocrita dei buoni sentimenti e delle prediche virtuose (magari i comportamenti concreti sono del tutto diversi, ma .... poco importa!). Tale etica è tanto più incredibile in quanto mira a negare l'evidenza dei fatti, peraltro calcolabili ed evidenti. Se i conti non tornano, è colpa dei ragionieri! E' come negli anni settanta, quando si affermava che il costo del salario è una variabile indipendente.
Gli Stati moderni non devono più far fronte alla rivolta dei poveri, come capitava in passato, ma a quella dei ricchi (3) . Marx aveva torto. Quella che è internazionale non è la classe operaia - diventata ora un concetto alquanto mitico, anche perché industria e agricoltura rappresentano una percentuale sempre più piccola del prodotto interno lordo. Internazionali sono i ceti più ricchi, che non hanno alcuna difficoltà ad emigrare e ad abbandonare la nave che affonda. Essi comunque possono investire i loro capitali o delocalizzare le loro industrie nelle aree - come il Sud Est asiatico o il Mercosud - che offrono migliori condizioni di profitto.
Il moderno Stato geoeconomico - che deve subentrare a quello della guerra e a quello del welfare - lotta per la valorizzazione del suo territorio, per attirare su di esso i flussi di ricchezza che circolano in un mercato globale senza frontiere. Alla geopolitica degli spazi è subentrata quella dei flussi. La ricchezza si è dematerializzata e in gran parte deterritorializzata. I mercati finanziari mondiali hanno una dimensione superiore di 50 volte al commercio mondiale di beni e servizi. Il 40% del commercio mondiale è monopolizzato dalle prime imprese multinazionali. E' una realtà con cui fare i conti. Se non si affronta responsabilmente saremo spazzati via. Al riguardo sembra opportuno ricordare una frase, che Alberto Einstein riferiva all'atomo: "ogni cosa è cambiata, ma non il nostro modo di pensare. Se non lo cambiamo, andremo incontro a catastrofi di dimensioni mai verificatesi in passato".
La politica non si è adeguata alla nuova realtà. Per questo non è entrata in crisi. Rischia di essere sostituita dalla "mano invisibile" del mercato, che beninteso tende a fare i propri interessi, senza farsi porre vincoli dalla politica. Il capitalismo tende ad essere monopolistico. E' la politica che deve porre regole per la libera concorrenza. Se però la politica è scriteriata e non tiene conto delle regole dell'economia, rischia di essere travolta, di delegittimarsi, di gettare nella povertà interi popoli, come ha dimostrato eloquentemente il fallimento del comunismo come esperienza storica. Ma perché non lo si insegna nelle nostre scuole?
Globalizzazione e turbocapitalismo non pongono solo vincoli esterni, ma penetrano nelle società e nelle economie. Qualsiasi progetto politico di rilancio delle funzioni e dell'efficienza delle politica, cioè dello Stato deve tener conto di essi. Non bisogna indulgere al fatalismo più o meno scettico, rassegnato e conservatore, volto al mantenimento dei privilegi esistenti. In Italia esso finora si è tradotto, come si è già detto, nella politica della "strage degli innocenti", cioè nel sacrificio dei giovani e dei nascituri (4) . Lo Stato e la nazione dovrebbero rappresentare anche essi, anche se non votano ancora. E' stato un vero tradimento, spesso praticato, ahimè!, dietro al paravento di una parola magica: solidarietà. Verso chi di grazia? Chi ne trae vantaggi e chi finirà per pagarne il conto? Insomma, basta con le frasi fatte e gli slogans ingannatori! Occorre distinguere fra solidarietà sociale e solidarietà nazionale, intergenerazionale.
Occorre con i fatti e non solo con le chiacchiere investire sui giovani e sul futuro. Non sui vecchi e sul presente, anche se a taluni conviene politicamente. Occorrono nuove regole del gioco. Solo esse possono aver un effetto di retroazione negativa e garantire l'ordinato sviluppo del sistema. In caso contrario quest'ultimo rischia di essere destabilizzato dal gioco delle retroazioni positive, che, con sempre maggiore rapidità, sono provocate, come già si è detto, da turbocapitalismo e globalizzazione. Come affermava Jefferson, ogni generazione ha diritto ad una propria costituzione, anche economica. La difesa acritica e ad oltranza di quella che ha servito egregiamente l'Italia di questi ultimi cinquant'anni, è pericolosa. Può provocare, come ci insegna la teoria delle catastrofi, improvvise discontinuità, cioè appunto catastrofi e caos.
La crisi della politica non dovrebbe far gioire nessuno. Occorre invece la sua rigenerazione. Ciò richiede una leadership attenta alle realtà e una visione del futuro. Solo con una visione ampia e a lungo termine del futuro - che poi è già realtà presente - ciò sarà possibile. La crisi della politica è crisi dei valori. Globalizzazione e turbocapitalismo rappresentano gli stimoli per un rinnovamento profondo dello Stato-nazione, che rimane e rimarrà fondamento della cittadinanza, e quindi della solidarietà, della democrazia e del sistema delle relazioni internazionali. Lo Stato è il luogo di conciliazione fra libertà e solidarietà, che non è solo fra ricchi e poveri, ma anche fra vecchi e giovani. Lo Stato non è morto. Va profondamente rinnovato per adeguarlo alle nuove condizioni interne e internazionali. Rimane il centro della politica.
Come rinnovare lo Stato? Quali sono le difficoltà ed i condizionamenti da superare? Per cercare di rispondere a tali quesiti verrà esaminato dapprima che cosa sia la globalizzazione e, poi, quali siano le caratteristiche che deve possedere lo Stato per far fronte alle sfide di un futuro, che ormai incalza e vive già nel presente.


Sotto il profilo quantitativo complessivo, la globalizzazione è un mito. Infatti, per quantità sia del commercio mondiale sia degli investimenti diretti, non ci troviamo in condizioni molto diverse da quelle che esistevano nel periodo immediatamente precedente il primo conflitto mondiale. La percentuale dell'export globale sul PIL era nel 1914 del 12,9% e nel 1993 del 14,3%. Gli investimenti diretti all'estero ammontavano al 3% del PIL nel 1913 e al 4% nel 1990.
Sotto il profilo qualitativo le cose sono invece radicalmente cambiate.
a) Non è più valida la teoria del ciclo-prodotto. Nel passato i paesi industrializzati avevano produzioni tecnologicamente superiori - e quindi a più alto valore aggiunto - di quelle dei paesi di nuova industrializzazione che non potevano far concorrenza ai primi. I loro prodotti erano fuori mercato e riguardavano tecnologie superate o obsolete. I primi quindi dominavano il mercato mondiale. Ad esempio, il tessile inglese produsse il collasso di quello indiano. Ora invece sono le imprese dei paesi emergenti a mettere fuori mercato quella dei paesi di più vecchia industrializzazione. Basti pensare alle produzioni elettroniche del Sud-est asiatico. I lavoratori dei paesi industrializzati non sono più protetti dalla concorrenza di quella dei paesi emergenti, che hanno salari e protezioni sociali, e quindi un costo del lavoro, estremamente inferiori. Una tassa su tale disparità è estremamente problematica, anche poiché rallenterebbe lo sviluppo del Terzo Mondo. D'altronde ora, con l'espansione che conosce il commercio mondiale non vi sono problemi. La crescita del mercato del Sud-Est asiatico si è tradotta in un vantaggio anche per l'Europa, che esporta di più, anche se perde in termini relativi, cioè in percentuale mondiale del commercio. Se si determinasse un arresto della crescita economica mondiale, le cose si metterebbero però male per l'Europa. Occorre ricordarsi che fu la sovrapproduzione a provocare la crisi del 1929, una delle cause principali della seconda guerra mondiale.
b) Le barriere tariffarie non tengono più. Le frontiere non possono più essere chiuse. Sono diventate porose. Il mercato nazionale non può più essere protetto né avere chiusure autarchiche. Protezionismo e autarchia comporterebbero la decadenza e l'emarginazione dal mercato mondiale. Gran parte della ricchezza si è poi dematerializzata. I mercati finanziari prevalgono sulle istituzioni finanziarie. Il flusso giornaliero sul mercato mondiale è superiore alle riserve delle banche centrali. In passato il GATT e oggi l'OMC regolano il commercio di beni materiali, ma non hanno molta efficacia sulla regolamentazione degli investimenti diretti o dei diritti di proprietà intellettuale.
c) Porosità delle frontiere e impraticabilità di barriere tariffarie (ormai ridotte fortemente: ad esempio sono solo circa del 6% per le esportazioni americane in Europa e del 3% per quelle europee negli Stati Uniti), rendono impossibili misure protettive e difensive del tipo di quelle praticate con il protezionismo e l'autarchia. La competizione economica mondiale si fonda quindi su un atteggiamento offensivo. Si basa sulla competitività dei sistemi paese (5) . Occorre cioè rendere più competitivi i propri territori e i propri lavoratori (infrastrutture, servizi, ricerca e sviluppo, educazione e formazione professionale, cioè "colbertismo high-tech") ed attrezzarsi per la competizione geoeconomica mondiale (definizione di standard e regole internazionali, intelligence economica, barriere non tariffarie, National Economic Council, Council for Competitiveness, ecc.). La competizione geoeconomica è subentrata a quella geopolitica (6) . Lo Stato geostrategico e quello del welfare devono trasformarsi in uno Stato geoeconomico. E' l'economia e non più la forza militare a determinare la gerarchia delle potenze sulla scena internazionale. Lo si vede in Europa fra Germania e Francia.
d) La geopolitica (o geoeconomia) dei flussi o delle reti ha sostituito (o almeno si è sovrapposta) a quella dei territori e degli spazi. La potenza economica, e quindi la prosperità, non dipendono più dalle dimensioni dei territori. La ricchezza tende a polarizzarsi in città-stato o regioni-stato (7) , ben collegate fra di loro ed inserite nei flussi globali. Lasciando andare le cose per il loro verso, invece dell' "economia-mondo" e del "villaggio globale", si creerà un sistema fondato su un "arcipelago di isole di ricchezze immerse in un oceano di povertà". La globalizzazione tende ad attenuare le differenze fra gli Stati - lo si vede nello sviluppo di parte del Terzo Mondo, anche se l'altra parte, cioè Africa, Islam ed ex-Unione Sovietica, è stata ributtata nell'indigenza e nella barbarie - ma a creare esclusioni e ad aumentare le differenze all'interno degli Stati. Si determinano nuovi rapporti fra "centro" e "periferia". Il "centro" diventa una rete di città e di regioni ben collegati fra di loro (quali siano, lo si può individuare dai grandi programmi di telecomunicazione, trasporti, infrastrutture informatiche e biotecnologie). Tale tendenza ha un effetto moltiplicatore delle diseguaglianze all'interno degli Stati e determina tensioni fra le regioni ricche e quelle povere.
e) Le multinazionali e la finanza internazionale tendono a ridefinire a loro vantaggio le regole del gioco imposte dagli Stati-Nazione. Cercano cioè di sfruttare a proprio vantaggio la competizione fra i "sistemi paese", cioè tra gli Stati. Taluni di questi ultimi stanno riarticolando le loro economie in funzione della globalizzazione. Quelli che non riescono a farlo, per motivi politici e culturali, rischiano marginalizzazione e decadenza. Agli oligopoli nazionali, tendono a subentrare oligopoli settoriali, in competizione fra di loro nel mercato globale. Ne viene profondamente modificata la dottrina del "cuore oligopolistico mondiale", altro concetto fondamentale - come quello del "ciclo-prodotto" - delle relazioni economiche internazionali del passato.
f) I mutamenti della congiuntura economica tendono a divenire sincronici, con effetti auto-semplificantesi. Basta vedere cosa capita nelle borse o nel campo delle speculazioni finanziarie. Manca ancora un insieme di regole - tipo quelle di Bretton Woods - che garantisca una nuova stabilità. Verosimilmente non conosceremo più regimi monetari stabili.
g) Una risposta alla globalizzazione è data dalla regionalizzazione, di cui l'Unione Europea è la realizzazione più importante. Essa non è una politica in grado di sostituire quella nazionale. La regionalizzazione tende a creare nuove differenze, anche se offre numerose opportunità di economie di scala e di competizione. In un certo senso la regionalizzazione è un apprendistato alla globalizzazione. Ma nei sistemi regionali permangono le differenze dovute alla cultura economico-politica e alla struttura e vocazioni nazionali. La regionalizzazione, anziché aperta, può tendere ad essere chiusa, come capita in Europa per la politica agricola comune. In questo caso, si dovrebbe parlare di regionalismo, non di regionalizzazione. Il regionalismo provoca una forte modificazione dei flussi a danno di talune categorie (ad esempio i consumatori) e a vantaggio di altre (gli agricoltori nel caso della politica agricola comune europea), modificando le regole del libero mercato.
h) L'aumento di produttività non crea lavoro. E' questo un fenomeno nuovo nella storia dell'economia. In Europa si è creata un'enorme massa di disoccupati, anche perché gli aumenti di produttività sono andati a favore di chi ha già lavoro, data la rigidità delle norme che lo regolano. Si rischia così un conflitto intergenerazionale: esso potrebbe assumere dimensioni catastrofiche, anche perché una politica, che possiamo eufemisticamente definire miope, fa sì che i lavoratori attuali siano obbligati a pagare sistemi di protezione sociale di cui non potranno mai fruire, dato l'invecchiamento della popolazione. Immaginiamo i giovani! E questa viene chiamata solidarietà! Ciò delegittima lo Stato e la Nazione, sta facendo emergere i peggiori egoismi e sta disgregando il tessuto sociale del Paese. Si creano le premesse per una deriva populistica, alla sudamericana, con rischi non solo per l'economia ma anche per la democrazia. La politica del deficit provoca sempre un deficit di democrazia. L'assistenzialismo ha trasformato i cittadini in questuanti e provoca ingiustificati trasferimenti di risorse dai produttori agli incapaci e ai fannulloni, cioè dai fessi ai furbi.
i) Il sistema post-polare è dominato da tre poli, ciascuno caratterizzato da un tipo particolare di capitalismo. Quello americano, ampiamente liberista, capace di assorbire la disoccupazione, ma caratterizzato la pauperizzazione di circa un terzo della popolazione. Quello europeo, meno dinamico, incentrato sulla protezione sociale dei lavoratori e degli anziani, da una minore crescita economica, ma dalla disoccupazione di masse di giovani. Il terzo tipo di capitalismo è quello confuciano, proprio del Sud-Est asiatico, caratterizzato da uno sfruttamento massiccio della forza lavoro, da un consumo indiscriminato di risorse ecologiche, ma da una crescita eccezionalmente rilevante (10% di incremento anno del PIL, rispetto al 3-4% degli USA e all' 1-2% dell'Europa). Se l'Europa non riesce a riprendere ritmi di crescita tali da consentirle di assorbire la disoccupazione, il suo sistema politico e sociale entrerà in collasso. Anche la crisi demografica, l'integrazione economica e la moneta unica non risolveranno i problemi. Anzi, possono aggravarli, almeno per taluni paesi. Il turbocapitalismo sta recuperando all'economia mondiale molti Stati, facendoli uscire dal sottosviluppo e dall'instabilità (Sud Est asiatico, Mercosur, Islam Marittimo), ma ha portato al collasso e all'instabilità l'Africa, il mondo islamico e in gran parte l'ex-URSS. L'Italia e l'Europa si trovano proprio circondati da tali archi di crisi e ne potrebbero essere travolti. Se non riprenderemo la crescita economica non solo non potremo sostenere lo sviluppo degli emarginati, ma neppure proteggere il nostro benessere e la nostra tranquillità della instabilità di questi ultimi. Finiremo per dipendere sempre più dagli Stati Uniti, il cui sostegno, rispetto al passato, è però costoso, in termini sia politici che economici.
l) In ultimo, la territorialità, la globalizzazione e la regionalizzazione sono modellate dai flussi globali che penetrano all'interno stesso degli Stati. Lo "spazio vitale" è stato sostituito dal "cyberspazio". La sovranità dello Stato non può più essere completa come una volta. In parte viene recuperata con il regionalismo, in parte con la partecipazione alle organizzazioni multilaterali e alla definizione degli standard e delle regole globali. I flussi non sono caratterizzati come gli spazi da dimensioni, distanze e posizioni, ma dalle loro velocità. Il tempo è diventato il fattore geopolitico fondamentale. La geopolitica è ormai anche crono politica. Lo spazio è quello elettronico, non quello territoriale (8) . Ma il territorio rimane lo spazio degli uomini, cioè dei cittadini, dell'identità, della democrazia e dello Stato. L'era spaziale, elettronica, informatica e mediatica non ha tolto valore alla geografia tradizionale (9) . La politica deve raccordare i flussi mondiali di ricchezza e di potenza al suo territorio e ai suoi cittadini. Deve tenere beninteso conto della logica di tali flussi e della loro velocità e, talvolta della loro imprevedibilità. Non esistono difese antiflussi, ad esempio contro speculazioni finanziarie massicce. Lo Stato deve mettersi in condizioni di prevenirli. L'orizzonte della politica deve allargarsi, per non essere travolto dal rapido e tumultuoso accavallarsi degli avvenimenti.
Occorre riconvertire i Servizi di Intelligence, estendendo le loro attività al campo economico e finanziario e non solo al contrasto di quello, già enorme, dominato dalla criminalità internazionale. Come in altri Paesi (ma non in Italia, in cui spesso i responsabili politici sembrano rappresentanti solo di loro stessi e si esprimono sfacciatamente, a ruota libera e a vanvera, sui più diversi problemi) occorre organizzare un National Economic Council, un National Security Council e un organismo per la comunicazione istituzionale specie di emergenza. Il "cyberspazio" implica una revisione istituzionale e forse anche costituzionale profonda.
Le condizioni dell'economia internazionale sono in sostanza per molti versi simili a quelle che esistevano nel 1914. Le contraddizioni esistenti nel sistema possono provocare improvvise rotture. Solo una ripresa della politica e del senso di responsabilità può porre il nostro Paese a riparo dalle turbolenze esistenti, che anche senza soluzioni di continuità possono provocare una nuova decadenza italiana.


Troppo facilmente taluni hanno pronosticato la fine dello Stato-nazione e la sua progressiva irrilevanza nel "villaggio globale". Di fatto gli Stati sono erosi da forze subnazionali (localismi, regionalismi, internazionalismi, ecc.), transnazionali (finanza, imprese multinazionali, ma anche criminalità internazionale) e sovranazionali (istituzioni internazionali, come l'ONU, o regionali come l'UE, la NATO, ecc.) (10)
Però, anche se la sua sovranità in molti settori - tecnologico, economico, strategico - è stata erosa, soprattutto negli Stati Europei che sono troppo grandi sotto certi aspetti (economia) e troppo piccoli per altri (sicurezza, ecologia), lo Stato rimane la struttura politica fondamentale dell'intero sistema internazionale. Deve essere ripensato e rifondato, perché il contesto interno ed internazionale è profondamente mutato.
Nulla fa pensare ad una scomparsa degli Stati. Anzi è probabile un loro generale consolidamento. Anche in campo economico le funzioni dello Stato rimangono essenziali. La politica non deve ridursi al mercato e deve riprendere la sua centralità (11) .
Lo Stato rimane il fondamento della democrazia e della libertà. La cittadinanza rimane alla base della solidarietà. Solo lo Stato è in condizioni di definire anche impositivamente valori, interessi e politiche; di gestire la propria identità nazionale e di proteggere le nuove generazioni.
Per mantenere la sua vitalità e centralità Stato e cultura politica devono essere profondamente rinnovati. La fine delle ideologie permette di effettuare riforme liberali che sono ben diverse dal liberismo, cioè dal "laissez faire" funzionale agli interessi del grande capitalismo internazionale, cioè delle imprese multinazionali. Come si è detto esse non vogliono sottostare a regole. Tendono anzi ad imporre la loro logica alla politica, minacciando ad esempio la delocalizzazione delle imprese negli Stati che offrono loro migliori condizioni di profitto. Di fronte alle loro pressioni, gli Stati sono oggi alquanto disarmati. O adattano la loro cultura politica, o decadranno rapidamente, provocando frammentazioni e convulsioni, anche violente, come si è visto nei casi della Jugoslavia e dell'Albania. Il rilancio del concetto di cittadinanza e di solidarietà nazionale oltre che sociale può avvenire solo con una riforma geoeconomica dello Stato. Giustizia senza ricchezza è un concetto privo di significato.
Occorre tener conto, nei rapporti esterni, che non esiste una comunità internazionale, ma solo interessi comuni fra gli Stati. L'interesse non è un concetto astratto, ma è legato alla capacità di raggiungerlo, cioè al potere di cui dispone lo Stato. Solo determinando condizioni per poter competere, uno Stato può concorrere con gli altri alla costruzione di un nuovo ordine confacente ai propri principi, valori ed interessi. In caso contrario diviene oggetto della storia; è espropriato dalla possibilità di influire sul destino proprio e su quello dei suoi cittadini.
Occorre abbandonare, in particolare, l'idea che "competizione" significhi esclusione del più debole. E' il contrario. Lo dice lo stesso significato etimologico del termine. Competere deriva da "cum petere", cioè "cercare assieme", come concorrenza significa "correre assieme". Cercare e correre presuppongono la libertà d'impresa e d'iniziativa, eliminando ostacoli e condizionamenti ingiustificati. "Insieme" significa solidarietà. Occorre stabilire un nuovo equilibrio fra libertà e solidarietà. In Italia si tratta di riscrivere la "costituzione economica", come ha recentemente proposto Alberto Quadrio Curzio (12) e di superare l'alibi della solidarietà, utilizzata come mascheratura per la protezione di ingiustificati interessi corporativi.
Quello che propone la geoeconomia non è solo un approccio di "economic engineering". E' anche uno di "social and politic engineering", volto ad una rifondazione dello Stato, della cultura politica e delle istituzioni. Solo con tali trasformazioni il sistema potrà divenire dinamico e i giovani protetti. Sono essi, e non i vecchi come me, il futuro e la speranza della Nazione. Occorre insomma un progetto nazionale al tempo stesso innovativo e realistico, che tenga conto delle trasformazioni provocate dalla guerra fredda.


La globalizzazione non è un'opzione . E' un dato di fatto e una sfida. Non conviene. Avviene. Se le scelte non ne tengono conto, ci si isola dal mondo e si decade, magari per mantenere un pugno di voti. Nessuno può più permettersi con la globalizzazione il lusso della diversità soprattutto nell'area regionale in cui è integrato. La globalizzazione impone agli italiani di essere forse meno europeisti, ma più europei. Sotto il profilo economico, della libertà d'impresa e di mercato, la nostra carta fondamentale è superata da quanto avviene in Europa e nel mondo. E' addirittura "orwelliano" volersi arroccare a sua difesa, anche se comprensibile perché; così facendo, si difendono privilegi e rendite di posizione economica e politica.
L'impatto della globalizzazione obbliga a ripensare i fondamenti stessi del concetto di cittadinanza e ad elaborare una strategia geoeconomia, posta alla base di una politica della responsabilità. Solidarietà non può significare né penalizzazione dei giovani né trasferire ricchezze dai produttori ai fannulloni e agli incapaci.
E' necessaria una profonda riforma dello Stato. Con ciò non si intende proporre una riscoperta dello Stato etico. Si intende affermare invece l'esigenza di eticità delle scelte pubbliche. Essa deve essere basata sulla responsabilità di tener conto della realtà della globalizzazione. Comporta modifiche costituzionali oltre che istituzionali. Occorre avere il coraggio e la volontà di modificare anche princìpi e leggi fondamentali forse validi in passato, ma non più idonei a far fronte alle sfide del mondo post-bipolare, del turbocapitalismo e della globalizzazione. (13)
La globalizzazione è in definitiva una realtà e una sfida, ma è anche un'opportunità per l'Italia. Rende necessario un profondo rinnovamento: etico, culturale, politico, economico e sociale del nostro Paese.


(*) Documento presentato al Congresso Banca Europa "Il futuro della Nazione". Roma, 26.5.1997
(1) F.Galgagno, S. Cassese, G.Tremonti e T.Treu, "Ricchezza senza nazioni. Nazioni senza ricchezza". Il Mulino, Bologna 1992.
(2) Paolo Savona, "Gli enigmi dell'economia", Mondadori, Milano 1996.
(3) Paolo Savona e Carlo Jean (a cura di), "geoeconomia - Lotta per il dominio dello spazio economico", F.Angeli, Milano 1996.
(4) Carlo Jaen. Introduzione de "Il sistema Italia",Centro Militare di Studi Strategici CeMISS, F.Angeli, Milano 1997, p.8.
(**) AA.VV., "Mondialisation, au-delà des mythes.". Les Dossiers de l'Etat du Monde. La Dècouverte, Parigi, 1997; Olfivier Dollfus, "La Mondialisation". Presse de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Parigi, 1997.
(5) Carlo Jean, "Geopolitica". Laterza, Roma-Bari, pp.131-157.
(6) Edward N. Luttwak, "from Geopolitics to Geo-economics: Logic of War, Grammar of Commerce", The National Interest, Summer 1990, pp.17-23.
(7) Kenicki Ohmae, "The End of Nation State: The Rise of Regional Economies". The Free Press, New York, 1995, pp.12-16.
(8) Gearòid O' Tuathail, "Critical Geopolitics", Routledge, Londra 1996, p.252 e ss.
(9) Colin S. Gray, "The Continued Primacy of Geography", Orbis, Spring 1996, pp.247-259; Fernerd Badie, "La fine des territoires. Essai sur le désordre international et sur l'utilité sociale du respect", Fayard, Parigi 1995.
(10) Carlo Jean (a cura di), "Morte e riscoperta dello Stato nazione", F. Angeli, Milano 1991, specie Sabino Cassese, "Morte e trasfigurazione dello Stato, pp.13-20 e Fausto Bertinotti, "Lo Stato e la dimensione del sociale", pp.49-55.
(11) Michael Porte, "The Relative Advantages of Nations", MacMillan, Londra 1990; Patrizio Bianchi, "La riscoperta dello Stato fra mercato globale e sistemi produttivi locali", in C.Jean (a cura di); "Morte e riscoperta dello Stato-nazione", cit., pp.157-168; Robert Boyer e Daniel Drache (eds), "States Against Markets: the Limits of Globalization", Routledge, Londra - New York, 1996.
(12) Alberto Quadrio Curzio, "perché rifare la Costituzione economica italiana", Il Mulino, n.3, 1996, pp.690-705.
(13) Giulio Tremonti, "La guerra civile", Il Mulino, Settembre-Ottobre 1996, pp.842-856.

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