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Per Aspera Ad Veritatem n.8
Vivere la trasparenza

Sergio ZAVOLI




Vorrei chiarire il senso della mia presenza, oggi, tra voi, esprimendo innanzi tutto il piacere di partecipare a questo incontro. Non sono qui per tenere la cosiddetta lezione magistrale, ma per tentare di capire, insieme con voi, come si sta vivendo in questo Palazzo, così emblematico, così frainteso, così chiacchierato e così celebrato, cioè nel bene e nel male, la stagione dei cambiamenti che il nostro Paese sta attraversando.
Il Paese, infatti, vive un momento della sua storia che trae fondamento proprio dalla qualità di ciò che cambia. Nel vostro ambito si tratta di una qualità fondamentale perché connota il problema della trasparenza dello Stato: trasparenza dei suoi ordinamenti, dei suoi organi, dei suoi poteri, delle sue funzioni e dei suoi uomini. C'è un rapporto fiduciario tra cittadino e Stato che va rifondato, in direzione di qualche cosa di essenziale.
Per la mia inchiesta "Viaggio nella Giustizia" ho scelto uno spot promozionale in cui mi sono ingegnato di capire che cosa avrei potuto dire di non ammiccante, ma leale, su un tema forte del cambiamento. Alla fine ho fatto ricorso a questa semplicissima frase "Vi raccontiamo che cos'è la giustizia in un Paese libero, libero anche di criticarla".
Potrebbe essere un distico da apporre in cima a qualche discorso sulla trasparenza, e quindi al vostro stesso Palazzo.
Viviamo una stagione concitata, contraddittoria, che ogni giorno si annuncia con una novità più o meno strepitosa, che ogni giorno smentisce un po' la verità precedente, presunta o vera che sia; e in cui, ogni giorno, è difficile formarsi un giudizio su quanto accade. Credo, tuttavia, che godiamo di un grandissimo privilegio, quello di poter dire, grazie alle nostre libere istituzioni, chi siamo e che cosa vogliamo. Penso al verso montaliano, scritto in tempi in cui questa libertà non c'era: "Questo soltanto posso dire: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".
Pensate che passo enorme si è compiuto all'interno della nostra storia se oggi, ribaltando quelle meste parole, possiamo invece dire "chi siamo e che cosa vogliamo".
Certo, parlare di trasparenza in uno dei Palazzi dell'Intelligence potrebbe sembrare contraddittorio, anacronistico, persino provocatorio.
In realtà, Servizi Segreti sono due termini suggestivi, inquietanti, chiari e oscuri allo stesso tempo, e sui quali stentiamo a ragionare per capirne il senso reale.
E' accaduto che, non potendo disconoscere il sostantivo, Servizi, ci si è accaniti, in qualche modo tentando di screditarlo, sull'aggettivo: Segreti.
A me sembra importante salvare la prima delle due parole, la seconda è fumosa, sembra presa dal repertorio, ingenuo e inquietante, della letteratura gialla, poliziesca, d'avventure, cospirativa, spionistica. Qui invece, occorre esser chiari.
Io non ho familiarità in senso stretto con questa materia, ma suppongo che quando, nelle grandi emergenze, come lo stragismo, si è fatto uso degli uomini dei Servizi quel ruolo è rimasto segnato, nell'immaginazione della gente, da un sentore di ambiguità, non certamente di chiarezza.
La chiarezza dei compiti è il primo requisito per la loro esplicazione e riuscita, ma soprattutto per la possibilità di comunicare se stesso, di rappresentarsi, e quindi di poter chiedere alla cittadinanza un rapporto fiduciario, senza il quale il Servizio rischia davvero di essere Segreto in un modo inquietante.
D'altronde, in quegli anni, erano cresciute, dissennatamente cresciute, le contiguità, chiamiamole così, tra Poteri, Organi e Ruoli; ma dire contiguità è un eufemismo, in realtà si è trattato spesso di attraversamenti, di invasioni di campo, di depistaggi. E fu a tal punto minacciato il criterio stesso di giurisdizione, che il richiamare ciascuno ai propri "doveri istituzionali" rappresenta oggi una sorta di restituzione alla cultura della trasparenza, dell'efficacia e della responsabilità.
Si deve essere certi, allora, che in questo ambito si opera essenzialmente e primariamente per la sicurezza delle istituzioni democratiche. E poiché le istituzioni hanno da essere non soltanto legittime, ma anche stabili, occorre allertarsi, predisporre strumenti conoscitivi, darsi procedure operative quando si manifestino segni, o prove, di illegalità e di instabilità.
Mi sono fatto l'idea che la cultura dei Servizi debba essere semplicemente ispirata da un interesse di carattere generale, quello di tutelare la norma costituzionale. Per individuare e capire ciò che tende a uscirne creando i presupposti del disordine, della destabilizzazione, dell'eversione.
Ora, poiché viviamo in un Paese libero, neppure i Servizi, ovviamente, si sentiranno immuni da errori e quindi esigeranno da noi un plauso che non può essere accordato a priori, per giunta da una collettività ammaestrata al disincanto, alla sfiducia, al pessimismo da tante amare vicende nazionali.
Non essendo il garante di nulla, se non delle mie affermazioni, mi limiterò a dire che certamente i Servizi, al pari di tanti altri "pezzi" dello Stato, devono guadagnarsi il rispetto, e oserei aggiungere la fiducia, e l'interesse, della collettività. Il che sta accadendo, in una misura fino a ieri insperata.
La necessità di un organismo di questa natura è comunque un dato acquisito in un Paese di maturità democratica ormai accertata. Con tutte le sue turbolenze, con tutte le aggressioni ai suoi ordinamenti, questa Repubblica ha dato prova di avere una avvedutezza, una pazienza, una capacità di mediazione, una saggezza, quasi genetiche; che l'hanno aiutata non poco nei momenti di grave allarme e persino di grave pericolo.
Ma tralasciamo gli errori compiuti, le vere e proprie trasgressioni ormai consegnate alla nostra non sempre limpida storia repubblicana, e occupiamoci di quelli che sarebbe possibile compiere oggi se la cultura della trasparenza e del rigore non prevalesse risolutamente su quella, chiamiamola così dell'imprecisione e dell'ambiguità, dell'infedeltà e della fellonia.
Nelle poche ore trascorse con il nuovo Direttore del Servizio, il Prefetto Vittorio Stelo - il quale ha la sensibilità e il vigore intellettuale per interpretare correttamente un quadro che è frutto della fedeltà al sistema dei diritti e dei doveri su cui si fonda una democrazia - ho avvertito questa volontà di affermare, all'interno e all'esterno, una cultura che esca dal Palazzo, che non resti estranea ai grandi contratti fiduciari tra società civile e società politica, tra cittadini e istituzioni, tra popolo e nazione. Si tratta, quindi, di "educarsi" secondo una cultura che conosca e valuti la linea d'ombra tra la dinamica politica e i suoi sconfinamenti.
Avere ingenerato, o lasciato che perdurasse, la deformazione di questi principi, è una responsabilità di tanti; io stesso partecipo, come comunicatore, a quelle della comunicazione. Sono responsabilità, tutte quante, cresciute con le pigrizie, le sottovalutazioni, e le malizie, che non di rado hanno prevalso sulla necessità e sul dovere di mettere in luce su distorsioni, mene lobbistiche, e un numero imprecisabile di interessi oscuri.
L'alibi di una devianza ingovernabile e misteriosa, i cui effetti si sarebbero manifestati comunque, ha screditato anche la politica, che non sempre è stata nella condizione, qualunque fosse il governo del Paese, di difendersi dalla rete delle attività occulte.
E anche questo è andato al di là del segno: perché non tutti i Servizi, e non tutta la politica, hanno tralignato.
Inutile ricordare qui, e proprio a voi, a quali e a quanti scenari occorre oggi guardare; non più, o non soltanto, nelle rare occasioni in cui "l'antistato", variamente inteso, si manifesta nelle forme cupe, e persino cruente, che sappiamo.
In passato si riteneva che i Servizi fossero nati e dovessero esistere solo in funzione di ciò che covava, per dir così, o deflagrava nel cuore dello Stato; oggi invece sappiamo che devono agire anche rispetto a una serie di compiti che hanno a che vedere con qualcosa di altrettanto significativo, come affrontare e decifrare la complessità del rischio, per esempio, sociale.
Penso alla criminalità organizzata nel suo manifestarsi quotidiano, alla formazione dei grandi capitali di origine delittuosa, al riciclaggio del cosiddetto denaro sporco, ai fenomeni indotti dalle grandi emigrazioni, alla turbolenza di frange giovanili, magari indotte dalla droga, all'ingresso nel Paese di minoranze spesso incontrollabili, al celarsi, in questo o in quel gruppo, di velleità ideologicamente perverse, al crescere di confessioni religiose ma anche di sette, cioè di strutture che creano non soltanto problemi di convivenza, ma di natura criminale, il che esige misure quanto meno di controllo.
Questi ed altri fenomeni irrompono sempre più spesso nei territori della legittimità, la quale viene non di rado provocata, lesa, violata dai nuovi mille volti della trasgressione.
Tutto ciò avviene dentro la grande pancia del Paese, in quel mondo della ruminazione in cui la vita, tutta la vita, non soltanto quella, badate, di cui stiamo parlando - viene di continuo "triturata e digerita", come diceva Bertold Brecht, il quale non a caso chiamava gastronomica tanta parte della vita e persino della coscienza, di una persona e di una collettività, di un gruppo e di un popolo.
E ciò accade in un tempo segnato, per giunta, da una progressiva perdita del senso e del significato, un fenomeno inedito, creato dalla velocizzazione della storia. La storia si è come contratta, tanto che sembra perdersi la nozione della causa e dell'effetto, del prima e del dopo. Questa coriandolizzazione del reale è arrivata a un punto tale da ingenerare una sensazione di precarietà, di fungibilità, come se la realtà non indugiasse più per il tempo necessario a giudicarla. Questa velocizzazione della storia ha indotto lo storico Fukuyama a sostenere che la storia sta morendo.
E' un'iperbole: la storia, che può nascere e morire solo con noi, non è né buona né cattiva, né virtuosa né iniqua; la storia è il contenitore delle nostre azioni, buone o cattive che siano. Credo che la fine delle ideologie abbia determinato, sulle prime, un clima di incertezza. Perché quelle religioni laiche, bene o male, avevano organizzato la vita dell'umanità, avevano creato punti di riferimento, cui richiamarsi per costruire anche la propria identità, civile e umana, all'interno di gruppi, di grandi associazioni di individui e di cittadini, di grandi comunità nazionali e internazionali.
Le ideologie hanno avuto gravi torti e grandi meriti. Intanto, hanno ossificato un po' la storia: quando l'uomo si affida a un'ideologia perde una parte del suo dinamismo intellettuale, creativo, immaginativo; vengono a cadere, per esempio, categorie come l'utopia, come l'eresia. Alla fine delle ideologie è seguita una sorta di spaesamento, e un conseguente bisogno di ritrovare i motivi per uscire dalla quotidianità e riconoscersi in qualcosa che operasse in nome delle grandi questioni: dell'esistere, del voler crescere, del testimoniare. Di qui, forse, il ritorno della religiosità, che esprime il bisogno di un affidamento forte e durevole. In questo galleggiamento nell'effimero, ognuno avverte di doversi richiamare - con le proprie idealità, con i propri sentimenti, anche con i propri dubbi - a qualcosa che sia affidabile. E' in un tempo in cui nulla più sembra avere la natura per durare ci serve un'idea proprio di continuità.
Seguendo la lezione di Nietzche, pare che non esistano più i fatti, ma soltanto la loro interpretazione. Se così fosse, avremmo perduto il rapporto con la storia dei nostri atti, dei nostri desideri, delle nostre volontà. Ci serve, invece, vedere e capire.
Non a caso questo è il tempo dell'opinionismo: in ogni giornale vi è addirittura un abuso di opinionisti, di "prêt à pénser", cioè di persone sempre pronte a pensare per noi, a dirci che cosa dobbiamo pensare, quale è il modo corretto di interpretare un fatto. Finché, spesso, il fatto si perde e rimangono soltanto, come foglie di un albero, tante metafore, tante allusioni che riguardano sempre meno quel fatto, nel frattempo già finito nel frantoio della cronaca.
Che sia vero quello che sostiene Wells, quando afferma che questa civiltà è "una continua rincorsa tra l'informazione e la catastrofe"? Consegnare la nostra opinione a quelli che ce la confezionano, ogni giorno, significherebbe, innanzitutto, punire la nostra dignità personale e il rispetto della nostra intelligenza, ma anche la capacità collettiva di esprimere, e di organizzare, consenso e dissenso. Di questo passo, altrimenti, esagerando epicamente si può immaginare addirittura la fine dell'opinione pubblica!
Ai giovani, soprattutto, va detto: "riappropriatevi del vostro giudizio, leggete, ascoltate, guardate, e fate sempre salvo il porto franco in cui state con la vostra testa, con il vostro cuore, con la vostra sensibilità. Uno per uno, poi a due a due, fino a formare la solidarietà, cioè i grandi contratti che si convengono in nome di ciò che la vita chiede non per un uomo alla volta, ma per tutti. Comunichiamoci, dunque, e condividiamo la vita.
Quanto al comunicare, in ispecie i valori, è altra cosa che informare. Informare vuol dire fornire dei dati sui cui ciascuno si forma delle conoscenze; comunicare, invece, vuol dire creare delle consapevolezze, indugiare intorno ai fatti per ricavarne il senso.
Comunicare è dare la parola all'altro. Padre Balducci diceva che è "l'epifania dell'altro". Comunicare è molto più che informare perché è la ricerca del significato. Le tradizionali, grandi, agenzie del significato - come la famiglia, la scuola, la Parrocchia, e se volete anche i partiti, i sindacati e l'associazionismo - hanno perduto molto della loro forza. Ed è grave, in una società civile. Ho letto di recente sul Messaggero che soltanto il 4,7% dei ragazzi concepisce il senso dell'impegno politico. E' un dato allarmante. Bisogna spiegare ai giovani che il loro futuro prenderà il volto delle loro azioni, che il domani sarà quello che facciamo oggi. Vanno scoraggiati il disincanto, la rassegnazione, la resa; ciò non può che produrre una società attonita, portata chissà dove da imprevedibili pastori. Non voglio drammatizzare, ma tutte le volte che sento i giovani demonizzare la politica, avverto un malessere, forse un pericolo. Capisco come ai giovani possa venire la tentazione di non riconoscersi nel loro Paese per le cattive prove date dalla politica, ma guai se non facessimo quel che si deve perché questa lontananza venga progressivamente meno. Non c'è mai tanto bisogno di politica come quando essa stessa sembra autorizzarci a voltarle le spalle.
Tutte le volte che parlo ai giovani rammento Giacomo OLIVI, un ragazzo di 17 anni, di Parma, sorpreso da un drappello nazista a distribuire del materiale inneggiante alla libertà. Era un partigiano liberale. Ebbene, prima di essere fucilato nel grande cortile del carcere di Parma - erano gli ultimi giorni di guerra, e credo sia stato una delle ultime vittime - scrisse una lettera ai genitori di cui vorrei ripetervi soltanto una frase: "...e non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere; pensate che tutto è successo perché non ne avevate più voluto sapere".
Oggi leggo su un giornale che sta tornando una scuola, per così dire, "di destra", semplicemente perché rivaluta il valore dell'applicazione, della costanza, dell'impegno. E se sottolineo che, in realtà, questa scuola "di destra" la concepisce un uomo "di sinistra", non è per fare l'elogio di nulla e di nessuno, ma solo per considerare, insieme a voi, un caso in cui una comunicazione sbagliata crea dell' ambiguità, non consente di mettere a fuoco gli obiettivi. Non rischiamo di essere poco chiari anche nei confronti dei nostri figli? Non dovremmo, invece, aiutarli a crescere confrontando consapevolezze e giudizi?
Certo, si cresce in virtù dei problemi che si è costretti a risolvere, e ciò vale per una persona come per una società. Ma se i giovani venissero presi dalla tentazione di credere che non vale più la pena di vivere questa realtà, - perché non ha nulla, in sé, per piacere - allora dovremmo chiederci come ristabilire un ordine valoriale senza il quale non si è più in grado di distinguere, cioè di scegliere o di rifiutare.
Anche voi, credo, dovete misurarvi con la velocità delle scelte: la rivoluzione, oggi, non è più il cambiamento ma la velocità del cambiamento. Sono finiti i tempi in cui nelle case si parlava delle stesse cose per settimane, per mesi. Oggi, della stessa cosa, non si parla più, né tantomeno insieme, che per il tempo dello stare a tavola, e l'argomento affrontato al momento della minestra è già dimenticato al momento della frutta. E' come una deriva alla quale ci abbandoniamo con un crescente senso di estraniazione. Bisogna credere invece nella novità, in ciò che nasce ogni giorno dalla nostra capacità di far nuove anche noi, come dice il salmista, tutte le cose.
Ricordo, in proposito, un episodio. Da giovane cronista, andai a intervistare Von Braun, che era sul punto di lanciare il Saturno 5. Arrivai ad Hunstville, nella base della NASA, con la ribalderia, il cipiglio di un giornalista europeo che crede di saperla più lunga dell'ex scienziato nazista approdato, poi, nella terra della libertà, gli dissi: "Professore, mi vuole spiegare a che cosa serve questo viaggio se lascia sulla Terra le cose così come stanno, le sue iniquità, i suoi problemi non risolti?". Lui fu paziente, sorrise, e mi disse: "Mi perdoni, ma a che cosa serve un bambino appena nato?". Grazie a quella lezione capii che tutto cresce con noi, per effetto della nostra voglia di esistere, di provocare il nostro tempo, di vivere il nostro impegno, i nostri progetti. Condivido l'ottimismo che faceva dire a Papa Giovanni: "Non ho mai visto un pessimista giovare a qualcuno o a qualcosa". E per fare una citazione laica ricorderò, con Mallarmé, l'espressione: "L'incredulità non ha genio". Allora, se è vero che ogni giorno ha la sua pena, dobbiamo anche dirci che ogni giorno ha la sua possibilità, che la storia accoglie chi si disegna e non chi si cancella, che tutto è davanti, che credere in ciò che facciamo è la prima possibilità di farcela.
Tutto questo avviene all'interno di una volontà organizzata anche socialmente. Gli organismi che in qualche modo contribuiscono a formare il criterio e il sentimento dell'affidabilità, e quindi lavorano attraverso la trasparenza e la chiarezza, sono quelli cui dobbiamo prestare, oltre alla nostra collaborazione, un'attenzione critica e vigile. E questo perché il tempo che viviamo è un tempo di contraddizioni, perché alle conquiste prodigiose della scienza, che ci hanno dato un mondo straordinario, non corrisponde sempre il nostro consenso interiore. Basti pensare all'ingegneria genetica.
Dobbiamo capire che gli scopi di qualunque organismo o istituzione che operi in nome della collettività debbono fondarsi sulla credibilità. Realisticamente, cioè sapendo che questo mondo cambiato sarà sempre da cambiare.
Nell'epoca nata dai lumi un miliardo di persone non conosce ancora la luce elettrica; e nel tempo della trasparenza, nella civiltà dell'immagine, lungo il Sud della Terra cinquantamila bambini muoiono ogni giorno di fame. Nella recente riunione della FAO, qui a Roma, gli esperti riuniti per risolvere il dramma di 800 milioni di persone che vivono ai livelli minimi di sopravvivenza hanno sollevato il problema delle responsabilità politiche e, insieme, grandi questioni etiche, interpellando anche la Chiesa, perché evangelizzi i poteri che lasciano i poveri nella povertà e i saperi che abbandonano gli ignoranti all'ignoranza.
In conclusione, senza lasciarci con ottimismo o pessimismo non motivati, ricorderò il pensiero di Sant' Agostino quando osserva: "...da due pericoli dobbiamo ugualmente guardarci: dalla disperazione senza scampo e dalla speranza senza fondamento".
Questo breve incontro, che aveva per titolo "Vivere la trasparenza", ci ha portato, qua e là, fuori dal seminato; ma ciò è avvenuto spontaneamente, improvvisando, nel desiderio di dire ciò che via via si affacciava alla mente, magari in maniera disordinata, seppure, voglio credere, trasparente. Un aggettivo che sembra il vostro nuovo sigillo, impresso al vostro modo nuovo di conoscere e di capire in nome di un compito difficile, delicato, non delegabile ad altri, seppure pronto al giudizio degli altri. Nell'interesse di ciascuno e di tutti, cioè della comunità.


(*) Il testo, trascritto dalla registrazione, è una parte della prolusione tenuta il 30 novembre 1996 in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico 1996/97 della Scuola di Addestramento del SISDe.

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