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Per Aspera Ad Veritatem n.8
La sicurezza dell'Unione europea dopo la revisione dei Trattati di Roma

Silvio FAGIOLO




Ringrazio il Direttore per le parole cortesi e per aver promosso questa occasione di scambiare alcune considerazioni sul concetto della sicurezza in Europa e nell'Unione Europea, concetto che va ripensato alla luce dei radicali mutamenti degli ultimi anni.
Vi parla un diplomatico di professione che ha servito in varie sedi all'estero: a Mosca, a Bonn, da ultimo a Washington, e che di recente si è occupato della revisione dei Trattati di Roma, prima con Maastricht e adesso con questa seconda riscrittura che dovrebbe concludersi ad Amsterdam, nel giugno prossimo.
Il tema di oggi è la sicurezza, la nuova sicurezza che riguarda sia l'interno che l'esterno nell'Unione Europea. Mi soffermerò, quindi, anche sulla collaborazione a livello europeo sul piano della sicurezza interna, perché questo tema è oggetto di riforma dei trattati, di un negoziato internazionale molto intenso.
Proporrei di dividere questa mia esposizione che precederà il dibattito in tre sottocategorie.
Inizierei dalla nuova situazione, dai caratteri nuovi dei problemi della sicurezza.
Naturalmente, noi diplomatici ci occupiamo piuttosto della sicurezza esterna, intesa nel senso più tradizionale, quale politica estera di sicurezza nel nuovo ambiente strategico nel quale ci muoviamo con i mutamenti che esso impone.
Quindi tratterei brevemente le regole che questa nuova situazione richiede, i principi che stanno alla base di una sicurezza europea e infine quali meccanismi ci accingiamo ad adottare per disporre a livello dell'Unione Europea di un efficace strumento, appunto di sicurezza.
Si credeva che con la caduta del Muro di Berlino, con la fine dell'antagonismo Est-Ovest, cominciasse un periodo di pace perpetua ed invece ci si è accorti che, in luogo di questo conflitto, che poi era un conflitto virtuale, che non dava luogo a uso di armi o d'offesa reciproca, sono sorti e continuano a manifestarsi conflitti locali molto meno prevedibili e spesso anche molto più dolorosi di un conflitto generale.
Ricordo che il Capo della CIA, in uno incontro avvenuto quand'ero a Washington, disse al nostro Ambasciatore: "Abbiamo ucciso il drago ma ci sono ancora un sacco di serpenti in giro". Quindi, una situazione nuova che comporta un mutamento di clima generale e alcuni passaggi obbligati.
Non si tratta, come nel vecchio conflitto Est-Ovest, di difendere una frontiera, di indicare un "limes" da salvaguardare con la minaccia permanente dell'uso di armi nucleari, ma si tratta piuttosto di assicurare, al di fuori dei confini di questa Unione Europea, o ai margini, il rispetto di certi principi.
Le forme di intervento in materia di sicurezza oggi riguardano piuttosto, come in Albania, in Jugoslavia, l'imposizione di certi metodi, di certe regole finalizzate a favorire l'insediamento di un Governo democratico, attraverso uno svolgimento regolare delle elezioni.
Quella di difendere le frontiere resta sempre una finalità che affidiamo ad una struttura collettiva quale l'Alleanza Atlantica.
Il secondo passaggio lo chiamerei, in termini estremamente sintetici, il passaggio dalla dissuasione alla persuasione, dato che il nostro sistema di sicurezza era basato, fino a ieri, essenzialmente sulla capacità di prevenire il conflitto insita nella minaccia dell'uso delle armi nucleari, per cui nessuno saprà fino a che punto le armi nucleari hanno impedito che ci fosse un conflitto vero, reale tra Est-Ovest.
Citando Kissinger, "la storia di questa dissuasione nucleare è la storia delle cose che non sono accadute".
E' certo che collocare il rischio di un conflitto, dalle conseguenze tanto gravi, ad un livello così alto ha contribuito a renderlo improbabile e le armi nucleari sono recedute sempre più come strumento di sicurezza ad armi di ultima istanza.
Si tratta, piuttosto che di dissuadere gli altri o un nemico potenziale, di persuadere, cioè di convincere i bosniaci o gli albanesi, ecc. a vivere in un certo modo, a darsi delle strutture di mercato, democratiche, che siano più simili alle nostre e che consentano loro di partecipare in modo più efficiente alla vita internazionale.
Il terzo mutamento al quale assistiamo in questi anni è il passaggio dagli eserciti di leva agli eserciti di mestiere, sempre come conseguenza del mutamento dell'ambiente strategico, laddove viene meno o comunque diventa meno probabile l'ipotesi di uno scontro di tipo classico.
Durante la Guerra Fredda i luoghi possibili erano la frontiera con la Germania, oppure la frontiera orientale italiana dove sarebbe stato più probabile uno scontro tra i due sistemi.
Oggi si pensa, mi pare, più a livello europeo, in termini di proiezione di forza anche a distanza. Persino l'esercito francese, che è quello in cui tradizionalmente la leva era parte della storia nazionale, perché traeva origine dalla Rivoluzione Francese, si adegua a questa nuova realtà.
Anche da noi è in corso un ammodernamento, un adeguamento delle Forze Armate, un nuovo modello di difesa che in parte introduce questa novità.
Il quadro generale, le regole, i principi cui i Paesi europei si conformano nel darsi degli strumenti collettivi di sicurezza, dal momento che questa sicurezza non è più un fatto soltanto nazionale, nasce dalla collaborazione molto stretta dei Paesi dell'Unione.
La sicurezza ha una duplice faccia: una interna ed una esterna. Quella interna nasce dai fenomeni nuovi che creano insicurezza all'interno dei Paesi più avanzati: sono fenomeni anche criminosi che hanno carattere transnazionale, dal terrorismo alle immigrazioni incontrollate, al traffico di droga alla criminalità organizzata. Intorno a queste nuove minacce ormai si è convinti che sia possibile soltanto un'azione collettiva e, quindi, all'interno dell'Unione Europea, è in corso una forte azione convergente perché si fronteggino con strumenti comuni.
In questo caso, rinunciando, o mettendo in comune parti di sovranità nazionale in un settore tradizionalmente considerato prerogativa dello Stato, si realizza un processo graduale di integrazione crescente.
Quello che è nuovo rispetto al passato è proprio questo mettere insieme degli strumenti della sovranità per eccellenza, la moneta, la sicurezza interna, la creazione di un unico spazio di sicurezza, di giustizia, di libertà all'interno del territorio dell'Unione e la proiezione esterna, cioè la politica estera e di sicurezza comune.
Questi fattori di insicurezza o di sicurezza interna sono strettamente legati perché le minacce non sono solo più quelle tradizionali di difesa dell'integrità territoriale da un attacco esterno.
Piuttosto si deve dare al cittadino un senso di sicurezza in uno spazio che, per altri aspetti, ha molto accresciuto la propria libertà. L'Unione Europea, già Comunità Europea, è nata innanzitutto come spazio di libertà, cioè come abolizione di frontiere, di controlli, libertà di movimento, di iniziativa.
Ecco, questa grande libertà deve accompagnarsi ad una collaborazione contro fenomeni che rappresentano un'insidia, un pericolo, come la criminalità organizzata o il terrorismo, fenomeni che attraverso il controllo delle frontiere potevano essere meglio arginati.
C'è una dimensione interna che sarà uno dei risultati più importanti nella riforma dei Trattati, attraverso un rafforzamento di istituzioni come l' Europol, che in qualche modo si avvicina, almeno nella visione di nuove proposte, ad un vero e proprio FBI, alla definizione di norme e di alcune pene massime e minime per alcuni reati di carattere transnazionale in modo che ci sia una uniformità di giudizio in tutti i Paesi dell'Unione.
Quindi, una dimensione interna della sicurezza e una esterna, più tradizionale, quella appunto della politica estera e di sicurezza.
La situazione nuova impone degli adeguamenti, impone un nuovo modo di fare politica estera a questa Unione alla quale si rimprovera spesso di avere una grande coesione interna, di rappresentare una grande potenza economica e commerciale ma di essere, dal punto di vista della politica estera, un nano.
Ad ogni crisi che si ripropone, come l'ultima dell'Albania, la gente si chiede: "Ma che fa l'Europa? Perché l'Europa non fa niente? Perché in Albania non si è in grado di intervenire?"
Vedremo con quali strumenti si può immaginare di migliorare questa situazione, perché queste crisi sono sempre più percepite come crisi europee.
Attualmente non c'è ancora nell'Unione Europea la cultura politica che spinge a considerare queste crisi come episodi che riguardano tutto lo spazio europeo. Abbiamo poi difficoltà ad avere la solidarietà degli altri quando la crisi è nel Mediterraneo, ma se mai la crisi, un giorno, fosse nei Baltici è probabile che avverrebbe il contrario e avremmo forse, con gli attuali strumenti, la tendenza a dire: "Questa è una crisi vostra, gestitevela voi, Paesi confinanti".
E', comunque, una posizione sempre meno temibile perché, grazie al cosiddetto meccanismo di Schengen, al quale l'Italia sta per aderire completamente, una volta creati uno spazio unico e una frontiera non controllata, le conseguenze sono per tutti, perché all'interno ognuno è libero di muoversi come può.
Quindi, anche la crisi albanese diventa la crisi di tutti.
Ma ci sono anche altre relazioni tra la politica estera e la situazione interna in ogni Paese.
In una situazione di moneta unica, ad esempio, crisi come quella albanese possono avere conseguenze diverse nei singoli Paesi.
Un Paese si può trovare più degli altri esposto alle conseguenze, con ricadute di politica interna, in termini di stabilità o di continuità di governo, oppure di problemi contingenti, emergenze immigrazioni, eccetera. Ora, poiché tutti i Paesi saranno legati da un unico filo, da un unico segno monetario, qualsiasi crisi potrà avere incidenze negative oltre che sulla stabilità di un Paese anche sulla stabilità generale, perché tutti saranno legati da strumenti comuni, al livello più alto del sistema economico e monetario.
La politica estera o questa capacità dell'Unione di controllare le frontiere, di controllare lo spazio esterno e quello interno, è sempre meno, anzi non è più ormai un fatto nazionale, è un fatto comune del quale però non tutti i Paesi sono pienamente consapevoli.
C'è un po' un ritardo, mi pare, a prenderne consapevolezza e questo spiega anche le difficoltà nei negoziati internazionali, come quelli sui quali stiamo lavorando, la difficoltà a tradurre queste esigenze in norme specifiche, in strumenti.
Questo è lo scenario nel quale si deve cercare di costruire la nuova sicurezza. Ripeto, una situazione interna di Paesi che non hanno più barriere materiali l'uno con l'altro, contro una situazione esterna caratterizzata da possibili crisi, non apocalittiche, senza rischi di olocausti come in passato, ma più locali, meno prevedibili, più immediate e, soprattutto, crisi per le quali l'appello alla solidarietà può essere meno ovvio.
La struttura portante della sicurezza è sempre stata e resta tuttora per l'Italia quella della Alleanza Atlantica. Oggi le crisi, faccio ancora l'esempio della Jugoslavia o dell'Albania, non suscitano un'immediata solidarietà. Comincia un lungo negoziato su chi deve intervenire, in che misura si deve coinvolgere l'Alleanza Atlantica, con quali strumenti, etc., proprio perché non ci sono più i presupposti per i quali l'Alleanza Atlantica era stata originariamente pensata ed era stata strutturata.
La stessa Alleanza naturalmente si adegua. Ma è un passaggio in cui bisogna adeguare non solo le istituzioni, ma anche le percezioni e le culture dei singoli Paesi. Questo tipo di conflitti sarà sempre più frequente, mentre recede l'ipotesi di un'aggressione da parte di una potenza continentale di grandi dimensioni come era la vecchia Unione Sovietica.
Vi saranno conflitti che saranno sempre troppo lontani dagli Stati Uniti perché loro se ne interessino e troppo vicini all'Europa perché l'Europa possa disinteressarsene.
Il nuovo sistema di sicurezza si sta negoziando in due sedi: nell'Unione Europea, attraverso la struttura della politica estera di sicurezza comune che verrà fuori dal Consiglio Europeo di Amsterdam a metà giugno e nell'Alleanza Atlantica, in termini di modifica delle strutture interne e di riequilibrio nel rapporto tra Europa e Stati Uniti.
Un percorso che comincerà con il Consiglio Atlantico di Madrid a luglio, nel quale verranno indicati i nuovi Paesi che faranno parte dell'Alleanza, (tre o quattro i nomi che vengono spesso menzionati: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, forse Slovenia e Romania).
Tra il ‘97 e il ‘99, a cinquant'anni della firma del Trattato di Washington, sarà completato anche il processo delle ratifiche di una nuova Alleanza Atlantica in termini di spazio, di perimetro, di ruolo dell'Europa al suo interno ed anche dei suoi rapporti con la Russia, perché uno degli aspetti di questa trasformazione è anche la conclusione di un accordo particolare tra l'Alleanza Atlantica e la Russia che dovrebbe essere firmato solennemente a Parigi, a fine maggio, in occasione appunto, di una visita del Presidente Eltsin.
Quindi, dicevo, le due sedi negoziali sono quelle della Unione Europea e dell'Alleanza Atlantica.
A quali principi si ispirerà questa sicurezza europea?
Intanto bisognerà tener conto di una certa gradualità in questo passaggio nella Unione Europea; mi riferisco adesso alla sicurezza esterna, non allo spazio interno di libertà e di sicurezza che riguarda la cooperazione di polizia giudiziaria, ma alla sicurezza tradizionale, politico-diplomatica. Sarà necessario tener conto di principi che potrei così sintetizzare: gradualità, complementarità, visibilità e credibilità.
Gradualità significa che, nel passaggio dall'uno all'altro modello di sicurezza, dovremo tener conto delle differenze che ci sono tra i Paesi Europei, soprattutto in questa Unione Europea più larga che si estende ormai vasta al Nord, a Paesi di tradizioni neutrali, e presto avrà anche Paesi dell'ex Patto di Varsavia.
Più si allarga, più questi Paesi sono disomogenei e più bisogna consentire passaggi, prevedere dei periodi transitori. Ad esempio, a Paesi come la Svezia o come l'Austria, in cui la neutralità è una delle regole della Costituzione interna, perché possano aderire ad un sistema di sicurezza con garanzie collettive di difesa territoriale, occorre dare del tempo per modificare culture politiche che hanno ragioni storiche.
Quindi questo processo di adeguamento è un processo per tappe che richiederà pazienza e reciproca comprensione; non possiamo chiedere a questi Paesi di rinunziare a certe loro caratteristiche, altrimenti apriremmo in essi una crisi politico-costituzionale.
Secondo principio è quello della complementarità.
Noi non possiamo avere una sicurezza europea che sia disgiunta da quella del quadro dell'Alleanza Atlantica. Potremmo certo ricreare una struttura e strumenti europei, paralleli a quelli esistenti nel quadro atlantico, rifare un esercito europeo oppure un sistema di intelligence o di trasporto di tipo soltanto europeo, ma sarebbe estremamente dispendioso in un periodo in cui tutti i Governi debbono tagliare le spese per soddisfare i criteri di Maastricht.
Sarebbe anche inutile. Quindi si tratta di creare un sistema di incastro per cui la sicurezza europea diventa in qualche modo una componente di una sicurezza più vasta che è quella Atlantica, in cui si ricostruisce all'interno della Alleanza Atlantica questa componente europea.
Questo progetto era reso più difficile in passato dalla Francia, che aveva un atteggiamento critico e soprattutto non faceva parte della struttura integrata dell'Alleanza Atlantica. Ed è questo il messaggio che era stato convenuto già prima nel Consiglio Atlantico di Roma del dicembre ‘91 e poi in quello di Berlino dell'aprile ‘96.
Il terzo principio della sicurezza europea è la visibilità, di ciò che è riconducibile alla responsabilità e all'azione europea.
L'Unione Europea è visibile agli occhi dei cittadini, diventa legittima sempre più attraverso la sua capacità di garantire sicurezza.
Si parla spesso dell'europessimismo, della crisi del modello europeo in Paesi tradizionalmente europeisti come la Germania o la Francia, forse un po' anche da noi.
L'Unione Europea era una volta effettivamente lo strumento per garantire o per recuperare, per pacificare rivalità storiche come quella fra la Francia e la Germania, oppure per assicurare benessere, libertà di circolazione, finalità storicamente in parte superate.
Oggi si aggiungono nuove esigenze, soprattutto di sicurezza interna ed esterna e tanto più con la diffusione dei media, con la televisione che porta in casa l'immagine della crisi alle nostre porte.
Bisogna che i cittadini colgano veramente qual è il vantaggio di questa Unione, per la quale nel nostro Paese addirittura è stata introdotta una tassa che è difficile accettare se non si capisce il perché viene imposta.
Questo della sicurezza è un punto di legittimità, dicevo, ma per renderlo efficace occorre che il contributo europeo sia visibile, cioè che si capisca che la sicurezza è garantita da una struttura europea che si sa muovere, sganciare da questo più ampio quadro atlantico ed essere impiegata rapidamente ed in modo visibile.
E, vengo all'ultimo punto, deve essere credibile: cioè non deve soltanto limitarsi a proclami, inviti alle elezioni, deve sapere agire, deve potere intervenire sul terreno, deve potere magari fermare le immigrazioni improvvise oppure deve avere gli strumenti perché non sia limitata soltanto all'esercizio di una politica declaratoria.
In sintesi, anche se all'interno di una struttura più vasta, deve avere propri strumenti. Quali sono allora gli strumenti che emergono a fatica dalla conferenza intergovernativa per la revisione dei Trattati dell'Unione e che dovrebbero appunto essere sanzionati in un nuovo Trattato ad Amsterdam? Innanzitutto, si vorrà che l'Unione Europea abbia un meccanismo di analisi e programmazione della politica estera, che non sia solo la somma delle programmazioni ed analisi dei singoli Paesi. Siamo continuamente sorpresi da quello che succede: la Jugoslavia è esplosa sotto i nostri occhi, l'Albania è giunta all'improvviso: c'è una carenza di previsione e programmazione dell'azione collettiva.
Quando scoppiano le crisi, ci si domanda come prevenirle e anticiparle, ma non c'è rapidità nel decidere che cosa l'Unione può fare. E' una circolazione di carte, di analisi che si confrontano, di analisi contrastanti, come si è visto anche per la crisi albanese.
Allora ci vuole un primo momento di analisi e programmazione collettiva dell'azione dell'Unione che verrà introdotto con il nuovo trattato.
Si costituirà, a Bruxelles, un Centro di Analisi e Programmazione della politica estera che non sarà la somma delle analisi nazionali, ma sarà autonomo rispetto ai Paesi e in grado di studiare l'eventuale reazione europea e di suggerire alle istituzioni dell'Unione Europea, innanzitutto al Consiglio dei Ministri degli Esteri, come intervenire.
Questa struttura si avvarrà anche di contributi nazionali, ma dovrebbe avere un modo di pensare europeo e non nazionale.
Secondo punto è il modo di decidere. Oggi nella politica estera dell'Unione Europea si decide all'unanimità: si è visto, per esempio, che quando l'Italia voleva che l'Unione Europea intervenisse in Albania sono bastati due Paesi per bloccare tutto. L'innovazione più importante nel nuovo Trattato sarà la possibilità di decidere a maggioranza.
Naturalmente il meccanismo è in corso di negoziazione, ma l'idea di massima che dovrebbe emergere è questa.
Il Consiglio Europeo, cioè i Capi di Stato e di Governo, dovrebbe indicare le linee generali della politica estera nelle aree di interesse comune, ad esempio verso i Balcani, verso la Russia o verso il Medio Oriente.
Le decisioni specifiche, di attuazione e quindi di intervento, le azioni comuni potrebbero essere decise a maggioranza dal Consiglio, cioè dai Ministri degli Esteri, che si riuniscono una volta al mese e anche "on call" entro 48 ore, se sono convocati dalla Presidenza.
Questo darebbe una maggiore flessibilità all'azione oppure, insieme ad un altro meccanismo che verrà inserito nel Trattato, quello della cosiddetta "astensione costruttiva".
Due o tre Paesi che non se la sentano di intervenire o non vogliano intervenire, possono però dare agli altri il consenso di intervenire sempre a nome dell'Unione. Sarà possibile che l'Unione decida, come gruppo di quindici Paesi, un intervento, anche se esso poi viene realizzato soltanto da quattro o cinque.
Potrebbero essere quelli che hanno un interesse geografico specifico ad agire, ma nel nome dell'Unione.
Il terzo punto è quello della rappresentanza o visibilità. Oggi non c'è un Ministro degli Esteri dell'Unione Europea, c'è una Presidenza ruotante ogni sei mesi e quindi non si riesce ad identificare la politica dell'Unione con una persona, come, ad esempio, è stato Kissinger per l'America. Non c'è un volto dell'Europa. C'è la Presidenza ruotante e c'è il Presidente della Commissione che non ha competenze in questo settore.
Ecco che allora, come terzo punto, come terza innovazione ci sarà un Ministro degli Esteri dell'Europa, che si chiamerà probabilmente Segretario Generale, sul modello di quello delle Nazioni Unite e della NATO. Esiste già un Segretario Generale del Consiglio dell'Unione Europea, che però ha funzioni interne di coordinamento e di preparazione delle riunioni, non ha una proiezione esterna.
Con il prossimo Trattato potremmo avere un Segretario Generale, che rappresenta, coadiuva la Presidenza. Continuerebbe ad esserci la Presidenza di sei mesi, ma per la politica estera e di sicurezza ci sarebbe questa personalità, questo "numero di telefono".
Ricordo una battuta di Kissinger: "Quando c'è una crisi io non so mai a chi telefonare in Europa". Questa personalità politica sarebbe al contempo capo della struttura interna amministrativa dell'Unione, e del Segretariato che gestisce le riunioni all'interno dell'Unione, ma allo stesso tempo avrebbe una proiezione esterna, un po' come il Segretario Generale delle Nazioni Unite che è l'ambasciatore delle Nazioni Unite e anche il responsabile di quella immensa burocrazia che sono le Nazioni Unite.
Quindi, c'è un momento, di programmazione, di decisione, di rappresentanza affidata a questo nuovo personaggio.
C'è un quarto momento, che è quello della esecuzione, di chi mette in pratica le disposizioni sulla sicurezza dell'Unione.
Per ora, esiste uno strumento che è l'Unione dell'Europa Occidentale, una struttura che è un'istituzione nata addirittura prima della Comunità, nel ‘54, e che è una specie di Agenzia alla quale l'Unione si rivolge come committente.
Naturalmente, questa è un'istituzione parallela che ha dei membri che non sono gli stessi dell'Unione, poiché ha dieci membri permanenti, ha dei membri associati.
Quindi, per ogni decisione bisogna riunire il Consiglio dell'Unione che dà mandato all'altro Consiglio, il Consiglio dell'UEO dei Ministri degli Esteri e della Difesa di questi Paesi.
Insomma, il tutto è molto complicato. Per questo motivo l'Italia e altri Paesi hanno proposto che quest'altra istituzione in qualche modo nel tempo sparisca, che queste funzioni vengano assorbite dall'Unione e l'Unione stessa abbia un braccio armato, come ha una struttura di ricerca, come ha strutture per il controllo delle regole di concorrenza.
Una ipotesi da attuare con gradualità perché, come ho accennato prima, l'Unione dell'Europa Occidentale comporta delle ampie garanzie di difesa reciproche e alcuni Paesi, ad esempio i Paesi neutrali, sono riluttanti a legarsi ad un patto di questo tipo.
Nella prospettiva più lontana, questo dovrebbe essere il momento esecutivo, sia con l'assorbimento dell'Unione dell'Europa Occidentale nel Trattato, sia con un collegamento nuovo tra l'Unione Europea e la NATO, predisponendo all'interno dell'Alleanza Atlantica degli strumenti, delle forze che possano essere prelevate dall'Europa, nel momento in cui voglia agire da sola con il consenso anche degli Stati Uniti e degli altri.
A seguito delle decisioni del Consiglio Atlantico di Berlino, c'è tutto un sistema di individuazione, che è in corso di negoziazione, di queste forze, dei meccanismi per stabilire chi abbia la responsabilità operativa di questi strumenti, e di come essi, una volta usati dagli europei, ritornino poi nell'alveo dell'Alleanza Atlantica.
L'ultimo punto di questi strumenti è il finanziamento, senza ricorrere ogni volta alla tassa.
Ci sarà un bilancio per la politica estera all'interno dell'Unione, un bilancio collettivo, naturalmente.
Quando si tratterà poi di impiego di truppe, probabilmente si ricorrerà a contributi diretti degli Stati attraverso la partecipazione, ma, per altre azioni sarà non più una somma di azioni individuali ma un bilancio dell'Unione.
Adesso si discute come classificare questo bilancio, in che misura coinvolgere il Parlamento Europeo che vuole avere qualcosa da dire nella definizione di queste spese.
Ma, in ogni caso, il finanziamento non sarà più individuale, e questo dovrebbe rendere il tutto più credibile, più rapido e anche più giusto.
Direi, riassumendo, che questa sicurezza europea ha una dimensione interna che tocca la giustizia, gli affari interni, ed una esterna. In tutte e due le dimensioni è in corso un notevole salto di qualità della cooperazione, forse più forte in quella interna.
Nella giustizia e negli affari interni, problemi come l'immigrazione, l'asilo o il controllo delle frontiere diventeranno problemi dell'Unione e allo stesso modo della politica agricola, saranno interamente sottratti alla sovranità nazionale dei Paesi membri.
Altri, come la collaborazione di polizia o la collaborazione giudiziaria in materia penale saranno sempre intergovernativi, ma con misure più forti di sovranazionalità, con decisioni, per esempio a maggioranza, con interventi degli organi della Comunità, come la Corte di Giustizia.
Verso l'esterno, ci sarà egualmente una grossa convergenza, anche se non arriveremo ad una politica estera comune così come avremo una singola moneta.
Ci saranno sempre le politiche estere degli Stati anche se con una forte convergenza che nasce da una nuova situazione strategica.
Da essa scaturiscono dei principi ai quali la riforma si ispira: gradualità, complementarità, visibilità e credibilità. Dai principi discendono gli strumenti di programmazione, decisione, visibilità o rappresentanza esterna, esecuzione e finanziamento.
Questo in estrema sintesi è il quadro possibile di un negoziato che, ripeto, è ancora aperto e che dovrebbe chiudersi ad Amsterdam, il cui bilancio io vi ho un po' anticipato con i rischi di ogni anticipazione.


(*) Trascrizione della conferenza tenuta presso la Scuola di Addestramento del Sisde il 9 maggio 1997.

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