3. La nuova ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni
Una nuova ripartizione delle competenze ispirata dal principio di sussidiarietà deve prevedere, accanto alle competenze esclusive che rimangono allo Stato e all'ampliamento delle competenze esclusive delle Regioni, anche un certo numero di competenze concorrenti regolate da leggi organiche. Sebbene esista un significativo consenso su molte materie, permangono incertezze intorno a questioni, come le politiche per l'industria, per i beni culturali, per la scuola e per l'università. Su questi importanti temi, il testo presenta alcune ipotesi di soluzione.
In un sistema fortemente centralizzato, qual è quello italiano, vi è il bisogno di definire in modo molto chiaro gli obiettivi di un percorso federale, che non sarà breve, né agevole. Di conseguenza, un'esplicitazione e una delimitazione il più possibile chiare dell'articolazione territoriale delle funzioni e delle competenze di governo non potranno che giovare alla linearità del tragitto. È infatti superfluo sottolineare come gli equilibri tra poteri regionali e potere centrale, che vengono definiti attraverso l'individuazione delle competenze siano essenziali per definire il grado reale di federalismo del sistema; siano cioè una delle chiavi di volta, se non la principale, della forma di stato in cui si svilupperà la vita pubblica del nostro Paese.
L'attribuzione di tali competenze dovrà dunque ispirarsi a condivisibili princìpi generali, tra i quali naturalmente quelli menzionati nel
capitolo 1. Si può tuttavia notare come un solido ancoraggio ai princìpi non valga a risolvere automaticamente tutti i problemi di rapporto tra i poteri, data la difficoltà di dedurne conseguenze direttamente applicative.
In concreto si tratta, tenendo conto delle esperienze straniere e ricercando una certa coerenza con le premesse etico-politiche, di privilegiare quel livello territoriale di governo (o spesso quella integrazione tra livelli) che meglio si presti a garantire un equilibrio tra tutela della specificità ed economie di scala; tra efficienza, efficacia ed equità; tra differenziazione delle politiche ed esigenze di coesione del sistema nazionale; tra localizzabilità dei problemi e diffusione spaziale delle esternalità. Il senso specifico da dare a tali istanze dipenderà dalle caratteristiche della specifica politica pubblica, che devono essere anteposte alle istanze di simmetria giuridico-formale.
Se è comunque difficile definire con pretese di esaustività i criteri da utilizzare in positivo, più agevole è identificare le ispirazioni delle quali diffidare. Sarebbe, ad esempio, pericoloso attribuire le competenze sulla base della premessa ideologica per cui materie importanti o nobili, in una parola "alte", vanno lasciate allo Stato, e quelle meno importanti, "basse", affidate alla Regione, indipendentemente da ogni ragionamento sulla scala territoriale specifica alla quale le politiche pubbliche in questione si articolano, producono esternalità, consumano risorse, e così via. Altrettanto rischioso sarebbe individuare le competenze esclusive di Stato e Regione in modo ambiguo, o peggio contraddittorio, dando luogo a evidenti rischi di sovrapposizione, e quindi a conflitti o rinvii di responsabilità di cui l'esperienza italiana è fin troppo ricca.
È comunque evidente che qualunque ripartizione delle competenze di per sé sola non basterebbe a garantire un'efficace difesa dalle tentazioni centraliste, né a dare un'adeguata risposta alle esigenze di coordinamento e di coesione tra livelli di governo. Va perciò ribadito che in assenza di una partecipazione delle Regioni al processo legislativo nazionale, attraverso una Camera o Senato delle Regioni, si ripresenterebbero con ogni probabilità le difficoltà che hanno finora impedito l'emergere di una legislazione regionale degna di questo nome.
L'impostazione individuata dalla Commissione Bicamerale al termine della XI legislatura per quanto attiene alla individuazione di tre modalità fondamentali attraverso le quali articolare le competenze di Stato e Regioni, sembra, sia pur con diverse riserve, in buona parte da condividere:
a) un'area di competenza legislativa esclusiva dello Stato, nell'ambito della quale le Regioni potranno partecipare solo attraverso i poteri conferiti al Senato delle Regioni; tale area va definita esplicitamente in sede costituzionale, attraverso la riformulazione dell'art. 70. Le funzioni amministrative relative ad alcune di tali competenze dello stato potranno tuttavia essere delegate alle Regioni;
b) un'area di competenza esclusiva delle Regioni, nell'ambito della quale la loro attività legislativa dovrebbe tuttavia conformarsi al solo dettato costituzionale e non anche alle "leggi di riforma economico-sociale", come avrebbe voluto il testo congedato dalla Bicamerale; tale area andrà definita esplicitamente in sede costituzionale, attraverso la riformulazione dell'art. 117. Le funzioni amministrative relative a tali materie spetteranno alle Regioni e agli Enti Locali;
c) un'area di competenza "concorrente" tra Stato e Regioni, nell'ambito della quale lo Stato potrà definire, attraverso leggi organiche alla cui formulazione dovrà essere associato la Camera o il Senato delle Regioni, esclusivamente i princìpi fondamentali delle funzioni che attengono alle esigenze di carattere unitario. Potrebbe essere utile specificare che siffatta legislazione organica può avere quale obiettivo non tanto generiche preoccupazioni di uniformità, ma piuttosto la formulazione di parametri, di programmi e di modelli di coordinamento. La legislazione vera e propria, vincolante nei confronti di cittadini e persone giuridiche, spetterà invece alle Regioni. Tale area include tutti gli ambiti non esplicitamente riservati alle Regioni o allo Stato attraverso gli artt. 70 e 117. Le competenze amministrative relative a tali materie spetteranno di regola alle Regioni e agli Enti locali. Da più parti si sostiene che un'effettiva garanzia delle autonomie regionali, negli ambiti di loro competenza, si otterrebbe solo attraverso l'abolizione dei ministeri preposti alle materie trasferite. Va tuttavia chiarito che anche in un assetto di stampo federale, e nelle stesse materie di competenza regionale, non verranno certo meno esigenze di coordinamento e cooperazione su scala nazionale. Se la cooperazione tra Regioni e gli organismi inter-regionali che potranno nascerne giocherà a tal fine un ruolo utile, sarebbe imprudente impedire allo Stato di offrire una risposta adeguata a tali esigenze. Andrà dunque ipotizzata la possibilità per lo Stato, anche in ambiti per i quali non sarà più necessaria un'organizzazione ministeriale tradizionale, di dar vita a istituzioni di rango nazionale (autorità, agenzie, fondazioni) con compiti di coordinamento, definizione di standard, monitoraggio dei livelli di efficienza, diffusione della informazione a supporto delle autonomie regionali. È evidente come, accanto al riconoscimento di tale necessario ruolo dello Stato, ne andranno altresì definiti chiaramente i limiti e le modalità.
Si può concludere notando come i progetti nati nel corso della recente stagione di proposte, compresi quelli presentati dalle istituzioni, incorporino in larga massima un'adeguata presa in considerazione delle esigenze esposte e un notevole grado di convergenza su alcune materie fondamentali. Tale convergenza sarebbe tra l'altro confermata dall'esame di altre proposte di studiosi e forze politiche.
Una differenza non marginale tra il testo congedato dalla Bicamerale e altri progetti di revisione costituzionale è invece data dalla inclusione nel primo di una previsione di competenza dello Stato sul terreno della disciplina generale dell'organizzazione e del procedimento amministrativi. In termini generali, si può notare come sia difficile garantire un'effettiva sostanza all'autogoverno regionale e una efficace attività di implementazione delle politiche pubbliche, in assenza di una autonoma definizione dei modelli di amministrazione.
Se comunque l'articolazione tra competenze esclusive e concorrenti ereditata dalla recente stagione di dibattiti pare in gran parte di perdurante validità, va notato come esistano tuttavia aree di contrasto o incertezza, sulle quali le divergenti formulazioni talvolta nascondono diverse letture politiche di cosa sia un assetto federale, talvolta sembrano invece denunciare un'insufficiente attenzione agli aspetti costituitivi delle aree di politica pubblica che stanno dietro le varie competenze. Tre casi importanti di divergenza riguardano le competenze relative all'industria (e più in generale alla promozione dello sviluppo), ai beni culturali e infine all'istruzione. È utile esaminarli con attenzione, in quanto si tratta di competenze che in quasi tutti gli stati non centralistici stanno al cuore dell'azione regionale.
Politiche per l'industria, l'innovazione, la ricerca. Fare oggi politica industriale significa innanzitutto creare condizioni ambientali favorevoli, fornendo ai sistemi economico-territoriali adeguate dotazioni di fattori strutturali di sviluppo, rendendoli così competitivi in termini di convenienza alla localizzazione. Una politica per l'industria, soprattutto per le piccole e medie imprese, è quindi un'attività integrata di supporto allo sviluppo, da gestire in un territorio concreto, stimolando interessi altrettanto concreti.
Questi orientamenti richiedono dunque un deciso coinvolgimento dei governi regionali, sul modello delle principali esperienze europee. I loro strumenti operativi dovranno essere adeguati alle maggiori responsabilità da affrontare. Tale constatazione di base permette di articolare alcune ipotesi sulle competenze dei vari livelli istituzionali.
Le imprese sono innanzitutto sensibili ad alcune esternalità generali radicate in contesti locali: il funzionamento della pubblica amministrazione nelle sue attività tradizionali; il territorio, a sua volta definito da quadri urbanistici e reti infrastrutturali; il capitale umano e il sistema educativo-formativo; la qualità urbana nelle sue varie accezioni.
Altri fattori richiamano una scala più vasta di definizione, spesso di rango europeo prima che nazionale; ma anche una più o meno forte mediazione di carattere regionale. È il caso dei quadri della fiscalità; nel
capitolo 4 si chiarirà come siano necessari ampi spazi di autonomia fiscale regionale e locale, non solo per il reperimento di risorse, ma anche per lo stimolo dello sviluppo locale. Più articolato è l'ambito delle competenze su ricerca e innovazione, a loro volta da articolare in tre livelli di attività: ricerca di frontiera; ricerca di sviluppo o applicazione; trasferimento tecnologico e diffusione dell'innovazione.
La dimensione regionale è determinante per l'ultimo livello, importante ma non esclusiva per il secondo livello, trascurabile per il primo livello, che va gestito all'interno di logiche di rango europeo, quando non globale.
Si aggiunga che non tutte le politiche industriali tradizionali (ad es., manovre della domanda settoriale, di tipo strutturale o anticiclico), per non parlare degli interventi di riequilibrio, vanno considerate obsolete. È del tutto logico che si possa ricorrere a strumenti del genere su scala nazionale, all'interno dei "programmi economici generali" e "azioni di riequilibrio" che quasi tutte le proposte di revisione costituzionale correttamente citano tra le competenze dello Stato.
Esiste infine una serie di ambiti, relativi alla disciplina della concorrenza e dei mercati, alla tutela dei lavoratori e dei consumatori, agli standard ambientali, di sicurezza e di prodotto, che hanno una dimensione decisamente europea, prima ancora che nazionale.
Sono evidenti le implicazioni di tale quadro ai fini della revisione costituzionale. Un primo requisito minimo sta nell'evitare soluzioni contraddittorie, quali quelle che si incontravano nel dettato emerso dalla Bicamerale, che affidava (art. 117) alla Regione la competenza esclusiva sulla "industria", mentre tra le competenze legislative riservate allo Stato (art. 70) citava le "politiche industriali", oltre alla "ricerca scientifica e tecnologica" e allo "ordinamento universitario". Non si possono attribuire competenze esclusive alla Regione in materia di "industria", e allo Stato in materia di "politica industriale", senza dar vita a una forte confusione. Né si vede come la Regione possa esercitare il proprio ruolo nella complessa materia dello sviluppo se gran parte dei fattori attraverso i quali dovrebbe poter operare (ricerca tecnologica, infrastrutture, raccordi con l'università) restano nelle mani della competenza esclusiva dello Stato.
È invece opportuno riconoscere come non esista un unico livello di governo legittimato ad avocare a sé tutta la materia delle politiche per lo sviluppo. Sembra allora necessario garantire costituzionalmente:
- un'ampia area di competenza regionale nelle politiche per l'impresa, superando una definizione stretta di industria, viste le sempre più profonde integrazioni tra questa e ampie aree del terziario;
- competenze di carattere nazionale là dove sono coinvolte questioni di carattere macro-economico, e interessi sovra-regionali;
- un agevole raccordo tra livello regionale-nazionale e livello europeo, con un'efficace tutela in tale sede degli interessi italiani.
Va aggiunto che non si impone come necessaria la conservazione di un Ministero per l'Industria tradizionalmente inteso. Potrebbe essere utile accorpare in una nuova struttura le competenze in materia di industria, ricerca e commercio con l'estero, dando ad essa soprattutto compiti di coordinamento tra Regioni, indirizzo generale, rappresentanza internazionale ed europea, studi e documentazione, accanto ala direzione della poche residue aree di intervento diretto.
Politiche per i Beni Culturali. È ampiamente riconosciuto come la gestione attuale del patrimonio artistico e culturale italiano sia imbrigliata, più che incoraggiata, dal sistema vigente. Coesistono paradossalmente eccessi di centralizzazione e mancanza di coordinamento tra Stato e Regioni. Ciò impedisce di montare operazioni complesse, che richiedono un'efficace integrazione sul territorio tra attori pubblici e privati di vari livelli. Tuttavia la decisione di attribuire allo Stato la competenza "sui beni immateriali di eminente apprezzamento culturale e sociale", come recitava il progetto della Bicamerale, compresi i beni culturali e naturali "di interesse nazionale", sembra ispirata al pregiudizio per cui le competenze "alte" non potrebbero che far capo al soggetto "alto" per eccellenza, lo Stato. La soluzione è discutibile sul terreno dell'ispirazione ideologica, ma soprattutto su quelli dell'efficienza-efficacia e dell'univocità delle conseguenze. Va poi notato come, pur senza pensare di emulare il dettato costituzionale tedesco che strettamente collega Land e materie culturali-paesaggistiche-storiche (nel senso di fare del Land il detentore della "sovranità culturale"), sembri comunque difficile impedire alle regioni di occuparsi di ciò che in parte le fa tali: ossia di quei quadri ambientali, antropici, storico-artistici che concorrono con la dimensione economico-territoriale a differenziare lo spazio nazionale, e a creare le diversità che l'articolazione regionale intende appunto tutelare e rappresentare. Per evitare sovrapposizioni tra più livelli di intervento sono stati proposti quattro principali criteri, che dovrebbero presiedere alla assegnazione delle competenze in materia di beni culturali allo Stato o alla Regione:
1) valenza nazionale/locale del bene. È il criterio fatto proprio dalla Bicamerale; ma sembra impossibile da applicare effettivamente. Non è davvero facile separare i singoli beni dai tessuti e dai contesti in cui sono inseriti, né discriminare tra valenze alte e basse su serie basi storiche e artistiche, né infine raccordare eventuali giudizi di valore a scelte circa la pertinenza a diversi livelli territoriali. Non pare desiderabile creare fin dal dettato costituzionale le condizioni per ampi rinvii o conflitti di responsabilità; ed è lecito attendersi che alcune Regioni siano ben decise a rivendicare ampi spazi di "valenza locale", mentre altre saranno fin troppo speranzose che una definizione di "valenza nazionale" tolga loro responsabilità e oneri. Né sembra, infine, che si possa concludere agevolmente che, ove sia accertata la valenza nazionale di un bene, la sua salvaguardia sia più efficacemente garantita da una burocrazia nazionale anziché da una burocrazia regionale, che avrà almeno un più stretto raccordo con il territorio in cui il bene è sito;
2) la proprietà del bene. Non è un caso che i diversi livelli (Stato, Regioni, Comuni) tendano a intervenire soprattutto sui beni di loro proprietà. Ma la proprietà, oltre a vedere un peso dello Stato così esteso da rendere di per sé difficile un'efficace salvaguardia dei beni, è più risultante di casi storici che non criterio utile per impostare politiche efficaci;
3) la natura del bene, che permette di distinguere ad esempio i beni culturali dai beni ambientali o librari. Lo Stato ha così trasferito alle Regioni competenze sui beni librari e parte dei beni ambientali. Ma l'intreccio tra beni culturali, architettonici e ambientali rende di fatto difficilissima ogni gestione efficace che non si basi sull'integrazione delle competenze;
4) la distinzione tra tutela e valorizzazione del bene. Lo Stato si riserverebbe la tutela ultima del bene, mentre la gestione e la valorizzazione potrebbero essere attuate dagli altri livelli di governo, nonché dai privati e dai soggetti della società civile.
Se vogliamo ottenere l'esito di una garanzia ultima di salvaguardia dei beni culturali e ambientali e al tempo stesso permetterne una gestione e valorizzazione efficace, che sembra debba essere necessariamente decentrata, quest'ultimo criterio appare più rilevante. Nelle Costituzioni europee troviamo alcune soluzioni utili ad una sua traduzione in norme. Il modello spagnolo individua una competenza delle Comunidades Autonomas sul patrimonio culturale e sulle politiche culturali, ivi compresa la gestione dei beni museali di proprietà statale posti sul loro territorio, ma attribuisce allo Stato la competenza esclusiva per la difesa del patrimonio culturale "contro l'esportazione e la spoliazione", distinguendo dunque tra gestione e valorizzazione (di competenza regionale), e tutela della sopravvivenza del bene di fronte a rischi gravi (affidata in ultima istanza allo Stato).
Analoga la soluzione tedesca, dove le competenze sulla cultura sono al centro delle materie (legislative e amministrative) attribuite ai Länder, mentre alla competenza federale è riservata "la protezione del patrimonio culturale da ogni trasferimento all'estero". Simile la filosofia che ispira la proposta di revisione costituzionale della Regione Lombardia, dove viene riservata alla legislazione statale "la statuizione dei livelli minimi inderogabili a tutela (…) dell'ambiente e del patrimonio storico e artistico".
Da ciò nasce la soluzione incorporata nella proposta di linee per un articolato. Per concorrere a definire una riforma di stampo federale si dovrebbe inoltre pensare ad un Ministero (o a una Autorità) che a livello centrale si occupi di definire indirizzi di utilizzo dei beni: garantire attività di controllo e ispezione, anche sul versante dell'esportazione; definire standard tecnici sul piano della catalogazione e del restauro, e della valutazione dell'operato regionale; assistere i governi regionali tecnicamente meno attrezzati, soprattutto nelle fasi transitorie. Tale Ministero o Agenzia dovrebbe dunque poter contare su Ispettorati periferici; mentre le Sovrintendenze attualmente esistenti potrebbero essere trasferite alle Regioni, definendo peraltro una robusta normativa a tutela della loro autonomia tecnica e intellettuale. Un quadro di tutela e valorizzazione delle autonomie garantito anche in sede costituzionale (se del caso, attraverso una più incisiva ed estesa formulazione dell'art. 33) andrebbe infine applicato alle grandi istituzioni culturali, tra cui gli enti museali e dello spettacolo. (fine al prossimo numero)