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Per Aspera Ad Veritatem n.5
Commissione Diocesana "Giustizia e Pace" - Diocesi di Milano

Autonomie regionali e federalismo solidale





1. Mentre si fa più acuta l'esigenza di forme nuove di convivenza, in vista di una formazione e destinazione più equa ed efficace delle risorse in una società adulta e solidale (1) , la capacità di porre mano a riforme incisive delle istituzioni non sembra rispondere all'urgenza dei problemi tenendo conto dei tempi indilazionabili che essi reclamano. Così da un lato rispuntano le propensioni al rinvio, nella sterile persuasione di un accomodamento spontaneo dei ritardi e degli scompensi, oppure si affermano le tendenze al blocco incrociato delle ipotesi risolutive, quasi che interessi e meriti di parte contino più delle cose da affrontare; d'altro lato serpeggia un senso diffuso di stanchezza o persino di sfiducia nella reale possibilità di progredire verso un assetto più adeguato delle forme di governo e di partecipazione.
È invece indispensabile, proprio ora, non risparmiare sforzo alcuno in sede di riflessione sia in sede operativa, chiarendo le linee di evoluzione dei processi e offrendo uno sbocco effettivo ai disegni di più valida articolazione istituzionale.
2. Nelle pagine che seguono si considera innanzitutto la questione dei "livelli di governo" in una società che è diventata complessa e policentrica, reclamando una ridefinizione coraggiosa degli strumenti della politica.
Con particolare riguardo ai processi economico-finanziari e alle dinamiche occupazionali che legano irreversibilmente le sorti dell'Italia con l'impresa dell'Unione europea, si presentano poi i motivi di carattere strutturale, che sollecitano il passaggio dall'accentramento a un sistema di autonomie regionali orientate al federalismo e alla introduzione di funzioni "reticolari".
In modo specifico, la Lombardia può beneficiare di una tradizione storica che la rende matura per tale passaggio e, insieme, per fare da tramite al decollo di un nuovo sviluppo per il Paese intero.
La consapevolezza di tutto ciò porta, nella quinta parte della trattazione, a suggerire una riforma del dettato costituzionale, secondo lo spirito della Costituzione stessa, volta a recepire il principio della "pari dignità" di ogni Ente di governo legittimamente riconosciuto come tale, correggendo l'attuale preminenza dello Stato sulle altre istituzioni.
Nell'ultima parte, oltre a precisare i limiti della presente riflessione, si richiama l'importanza dei princìpi fondamentali - quali l'autonomia, la responsabilità, la solidarietà e la sussidiarietà - che fanno da filo conduttore dell'insieme del discorso e si incentrano sull'idea della promozione della persona umana attraverso istituzioni a essa finalizzate.
3. Se i princìpi personalistici e comunitari discendono direttamente dall'insegnamento sociale della Chiesa, così non si può certo dire della loro coniugazione in direzione di proposte come quella dell'ordinamento delle autonomie secondo una ristrutturazione delle istituzioni della convivenza in senso federale. Per il contenuto "tecnico" che le caratterizza, queste proposte hanno una inevitabile natura opzionale e sono interpretazioni non vincolanti di princìpi aperti ad altre declinazioni possibili. "La Chiesa" - ha detto Giovanni Paolo II nel suo discorso al Convegno ecclesiale di Palermo - non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l'una o per l'altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell'autentica democrazia (Cfr. Centesimus annus, n. 47)" (2) . Allo stesso tempo il Papa ha invitato a "educarsi ai princìpi e ai metodi di un discernimento non solo personale, ma anche comunitario" (3) . Con il nostro sforzo di riflessione abbiamo perciò cercato, per un verso, di proseguire un filone di pensiero che non pochi cattolici impegnati nell'azione politica hanno già sperimentato con esiti fecondi e, per altro verso, di dare una risposta concreta a bisogni storici urgenti.
L'ambizione che ci anima è, infatti, di contribuire a uscire dalle secche nelle quali rischiano di incastrarsi i tentativi di ridare respiro e consistenza alla rigenerazione del tessuto democratico e partecipativo del nostro Paese, messo a dura prova dalla crescente estraneità dei cittadini alle istituzioni. Nostra convinzione è che dalla mortificazione della politica ci si possa salvare solo riqualificandola con il rigore del pensiero e dell'azione. Tale rigore ci fa dichiarare subito che l'orizzonte di solidarietà entro il quale abbiamo trattato il tema del federalismo è per noi invalicabile e rappresenta una discriminante irrinunciabile di giudizio. "Federalismo solidale" vuol essere l'esatto contrario della contrapposizione tra le diverse parti del Paese. La prospettiva federale è valida se è capace di potenziare insieme autonomia e cooperazione, intrecciando strettamente la responsabilità per sé con la responsabilità per gli altri. Ciò significa che il fine del "federalismo solidale" è la realizzazione efficace della dignità di ogni persona nel rapporto con altre persone, senza barriere o privilegi territoriali.
Sono questi i motivi che ci hanno condotto a proporre un discorso sulle buone ragioni della riforma regionale nel senso di un nuovo "regionalismo forte" o "federalismo solidale", in un contesto nel quale la vivacità della realtà lombarda si intreccia con le dinamiche nazionali e internazionali a livello di Unione europea. Per offrire innanzitutto spunti di riflessione e, poi, indicazioni per un cammino concreto, che può coinvolgere le forze presenti in tutto il Paese, a cominciare dalle regioni del Mezzogiorno, impegnate nella promozione diretta di condizioni più mature di benessere economico e civile.
Non abbiamo voluto rinunciare al taglio scientifico dell'analisi e nemmeno al carattere puntuale dell'informazione. L'abbiamo ritenuto doveroso, dal momento che il nostro tema si presta a semplificazioni sloganistiche sia a favore sia contro.
Lo scopo essenziale di questo documento è però di mobilitare la coscienza pratica dei credenti, e più in generale dei cittadini, verso un'azione politicamente costruttiva. Destinatari di quanto segue sono perciò tutti coloro che, nelle istituzioni o nella società civile, si sentono coinvolti nell'impresa di dare senso e contenuto alla ricerca del bene comune.




4. Si avverte da tempo, e pare diffondersi ogni giorno di più fra tutti i cittadini, la sensazione che le istituzioni politiche abbiano sempre maggiori difficoltà nello stare al passo con l'intensità di ritmo e l'ampiezza di trasformazione dell'economia e della società.
Il fenomeno è ormai riscontrabile in vari Paesi europei: riguarda persino alcune democrazie già consolidate, ma tocca ancor più quelle che sono alla ricerca di una precisa identità. Per molti aspetti, anzi, il crescente distacco dalle istituzioni politiche e la sfiducia nella possibilità che il loro funzionamento possa essere più giusto ed efficace, rappresentano gli elementi più familiari, e anche più subdolamente pericolosi, di ciò che viene etichettato come "crisi della politica".
Nel nostro Paese, sfiducia nelle istituzioni e indifferenza rispetto alla possibilità di migliorarle rischiano però di essere assai più acute che in altre democrazie dell'Europa. Il protrarsi della crisi politica è diventato tutt'uno con l'indebolimento del senso di appartenenza alla società, con lo smarrimento dei suoi valori più profondi, con l'incapacità di far crescere una cultura civica adeguata a una democrazia che intenda davvero esprimere - nella sempre più fitta rete delle interdipendenze odierne - una convivenza responsabile, solidale, confidente nella capacità di costruire il proprio futuro. Se è costretta a pagare la persistente inefficienza della macchina organizzativa del nostro Stato, la mancata fiducia nelle nostre istituzioni sconta, oltre al repentino venir meno di molte sicurezze finora offerte dallo Stato sociale, anche il corrompersi di una classe politica che ha via via abbandonato il senso autentico delle istituzioni quale strumento indispensabile per perseguire quel bene comune che aveva invece orientato il Paese nel periodo postbellico. La crisi della politica ci sta in tal modo rendendo assuefatti all'idea che sia impossibile lasciare alle spalle una tale crisi in tempi rapidi e seguendo percorsi ragionevoli e non traumatici.
Eppure, uscire - finalmente e concretamente - dalla stagnazione della politica italiana è ormai una necessità non procrastinabile. E tanto più lo diventa quanto più la nostra società, per poter rispondere positivamente alla sfida delle responsabilità e dei compiti europei, deve rinsaldare le proprie peculiarità storiche e nazionali.
Mentre fenomeni come la globalizzazione o la crescente necessità di democrazia internazionale rendono sempre più stretta l'interazione tra eventi e attori nazionali e su scala planetaria, il nuovo orizzonte della politica - in Italia come negli altri Paesi d'Europa - richiede con sempre maggior urgenza istituzioni che sappiano davvero articolare l'azione di governo della convivenza civile secondo i valori, gli interessi, i bisogni reali della società.


5. Oggi l'azione del governare si rivela risorsa più che mai indispensabile per la crescita delle società e per il buon funzionamento delle istituzioni.
Ormai da tempo tutti i sistemi politici stanno sperimentando quanto sia complessa l'azione del governare sia attraverso gli schemi tradizionali dell'organizzazione dello Stato, sia con il ricorso alle più usuali procedure di acquisizione o mantenimento del consenso. La complessità attuale dell'azione di governo non è infatti un fenomeno contingente. Essa è invece il punto di convergenza delle più cruciali tra le trasformazioni politiche e sociali che hanno accompagnato l'Europa dalla fine del secolo scorso e che hanno modificato profondamente i rapporti fra l'organizzazione del potere statale e la società.
L'acutizzarsi della crisi dello stato sociale rende ancora più manifeste e profonde le difficoltà del governare. Spesso assai ampie sia nei princìpi di funzionamento, sia negli effetti prodotti, le insufficienze del Welfare State sottolineano, infatti, la fragilità e precarietà dei rapporti tra società e potere statale, costringendo individui e gruppi a confrontarsi nuovamente coi vincoli, piuttosto che con le potenzialità, della politica. Mentre alcuni gruppi sociali sembrano avvertire come insostenibile il peso di qualsiasi limite imposto dalla politica, altri gruppi percepiscono con acuta intensità il rischio di essere abbandonati all'incertezza. Così, la risorsa politica e quindi la capacità di decisione si dimostrano particolarmente scarse e inefficienti proprio quando esse sarebbero determinanti per evitare che il contrasto tra le diverse parti della società, che rischiano di agire sempre più separatamente, imbocchino la strada di conflitti irreparabili.
6. Peraltro, caduta l'antica pretesa che toccasse per intero alla politica "dare un ordine alla società" attraverso un'azione generale e accentrata di governo, anche le rinate illusioni che la società possa darsi da sola un proprio ordine sufficientemente stabile e giusto sono destinate a dileguarsi rapidamente. La crisi dello Stato sociale, se ha rivelato il progressivo indebolimento della capacità organizzativa del modello di Stato accentratore, pone altresì la società di fronte alle sue primarie responsabilità nei confronti non solo di se stessa ma anche della politica.
Soprattutto laddove l'accentramento istituzionale era stato reso necessario per poter procedere a forme più accelerate di unificazione politica e sociale, esso risulta ora inadeguato di fronte ai veloci mutamenti che hanno investito le sfere dell'economia e della società. La tendenziale concentrazione di pressoché tutti i livelli di governo nelle mani dello Stato, se da un lato entra in collisione con le diffuse propensioni a una tutela e a una promozione sempre più autonoma degli interessi di tipo locale, dall'altro lato risulta scarsamente coerente con quei processi che, ampliando l'area di osmosi tra ambito interno e ambito europeo, sollecitano l'azione di governo a un'incisiva ridefinizione dei propri strumenti e di alcune delle sue fondamentali finalità.
La struttura del tradizionale sistema politico, organizzato gerarchicamente, si sta via via trasformando nell'intera Europa sul finire di questo secolo, in un nuovo sistema di attori politici autonomi ma interdipendenti, dando così vita a un policentrismo non solo economico e sociale, ma anche, nei fatti, già politico. La sovranità dello Stato-nazione viene sfidata e ridefinita tanto in senso ascendente (si pensi ai fenomeni della globalizzazione o del rafforzamento dell'Unione europea), quanto discendente (si pensi al fenomeno della frammentazione, di cui la forte tendenza verso il decentramento in favore di aree locali, regionali o metropolitane, rappresenta l'aspetto certo meno inquietante). E lo Stato, nella sua azione di governo, sempre meno infrequentemente è chiamato a contrattare o a cooperare di necessità con attori privati collettivi.
Dalle veloci trasformazioni in atto sembra così profilarsi una nuova figura di Stato, chiamato a ridefinire le proprie aree di competenza e a coordinare orizzontalmente la sempre più robusta rete di relazioni tra attori economico-sociali interni e internazionali. Per altro verso, la struttura policentrica richiede con maggior forza una redistribuzione di poteri e di funzioni tra il governo centrale e autonome organizzazioni di settore a carattere simultaneamente pubblico e privato.
Bisogna allora ritenere che questi processi siano di disegno disgregatore? Senza nasconderci che ogni passaggio al nuovo presenta difficoltà e persino rischi di regressione, noi pensiamo che quanto più le società evolvono verso configurazioni policentriche, tanto più l'azione di governo è destinata a qualificarsi, a precisarsi e ad articolarsi, così da favorire la crescita della democrazia e da impedire che si divarichino, in modo irreparabile, democrazia e mercato.


7. Le società policentriche non sono affatto società anomiche, che respingano la presenza di regole o non ne avvertano la necessità. Per molti aspetti, anzi, più le società si vanno trasformando in senso policentrico, più si eleva la domanda di regole e di governo.
Di fronte a tale domanda, la struttura accentrata dei tradizionali schemi organizzativi dello Stato finisce non solo con l'irrigidire e burocratizzare l'azione di governo, ma anche con il parcellizzarla, segmentandola, a favore (o contro) di questo o quel gruppo di pressione e di questa o quella organizzazione privata. L'impossibile capacità di omologazione dello Stato accentrato non di rado conduce così al paradosso che le sue attività, pur orientate a creare eguaglianza, in realtà ricalchino ed amplifichino - quando non ne producano di nuove - le fratture e le diseguaglianze già presenti nella società, con l'esito formale di renderle insormontabili e forse irreversibili.
La sfida innovativa a cui sono chiamate le vecchie forme organizzative dello Stato è allora quella di realizzare il passaggio da un centralismo istituzionale, ormai impossibilitato a essere efficiente, verso un policentrismo istituzionale che, realmente aggregante, si fondi in modo autentico sui princìpi di sussidiarietà e solidarietà.
Se è vero, infatti, che il governo è la componente del sistema politico che più si avvicina al concetto di centralità, altrettanto vero è che sta crescendo in misura cospicua la rilevanza da un lato dei centri locali, dall'altro di quelli sovranazionali. In sostanza, ogni azione di governo viene ad essere la risultante dell'intreccio di livelli fondamentali: quello "statale", quello "sovranazionale", quello "local-regionale" e quello "settoriale".
Nasce da qui, in particolare nel nostro Paese, la necessità di procedere a una riarticolazione dei diversi livelli di governo. Con un duplice e fondamentale obiettivo: quello di dare finalmente soluzione alle principali e secolari distorsioni prodotte dall'accentramento burocratico delle istituzioni statali, e quello, soprattutto, di innovare le nostre istituzioni secondo i criteri necessari per la costruzione dell'Europa. Solo attraverso una tale indispensabile articolazione le attività di governo potranno risultare in grado di guidare le trasformazioni in atto, così rispondendo concretamente al crescente bisogno di avere uno Stato fornito di una identità precisa, riconosciuta e condivisa da tutti i cittadini, non confondibile con la figura di questo o quel partito o alleanza di partiti.


8. La precedente riflessione mette in evidenza che vi sono problemi non più affrontabili e risolvibili a livello nazionale. Questo è vero perché vi sono questioni che implicano sia livelli decisionali che superano lo Stato nazionale, sia livelli decisionali che possono essere più efficacemente impostati su scala subnazionale.
La nostra riflessione dovrà quindi riferirsi da un lato alla dimensione europea e dall'altro alla dimensione regionale. Rispetto a entrambe devono essere revisionate le funzioni e formulate le proposte di riforma delle istituzioni del nostro Paese per una più ricca partecipazione dei cittadini in vista di una democrazia compiuta.
I problemi da affrontare e risolvere riguardano innanzitutto gli aspetti di tipo socioeconomico che oggi, dopo cinquant'anni di esperienza nella costruzione europea, sono inscindibilmente legati a questa dimensione, si tratti delle sfide della competizione internazionale, delle richieste di occupazione, della diffusione equilibrata dei beni della convivenza, della risposta alla crisi finanziaria di alcuni stati europei.
9. D'altra parte vi sono bisogni che possono essere più efficacemente soddisfatti mediante livelli di governo subnazionale identificati nel nostro Paese soprattutto in ambiti "regionali", i quali a loro volta possono anche contribuire opportunamente alla soluzione di alcuni dei problemi socioeconomici già indicati. Infatti il dislocamento regionale è del tutto compatibile con la dimensione europea, dandole concretezza e ricevendone un quadro adeguato di orientamento.
All'incrocio delle riarticolazioni tra i livelli di governo si colloca una prospettiva di cittadinanza condivisa e di protagonismo responsabile, tesa all'affermazione dei princìpi di solidarietà e sussidiarietà in un contesto di accresciuta e irreversibile interdipendenza.
In altri termini, il filo conduttore delle riflessioni successive è quello della promozione del bene della persona anche attraverso l'individuazione e il suggerimento di progetti politici, economici e istituzionali che intendono ispirarsi ai princìpi della dottrina sociale della Chiesa. Al tempo stesso siamo pienamente consapevoli che da essa non discendono soluzioni univoche, fermi restando la "trascendente dignità della persona", il "rispetto della libertà" e il compito di proporre continuamente la verità. (4)
Perciò il nostro itinerario intende mettere in luce: a) i grandi problemi a dimensione europea che ci toccano direttamente e continuamente; b) la rilevanza di rinnovati livelli di governo regionale per il nostro Paese a fronte delle esigenze delineate e nel confronto con il sistema di altri Paesi europei, specialmente con il modello tedesco; c) le proposte che toccano direttamente la realtà lombarda e che appaiono coerenti con le sue tradizioni storiche e le sue potenzialità attuali nell'esercitare una influenza stimolante sulle altre entità regionali italiane nel cammino verso una integrazione a dimensione europea; d) da ultimo, una prospettiva di riforma istituzionale per il nostro Paese coerente con il perseguimento dei fini sostanziali precedentemente indicati e con precisa attinenza all'autonomia delle regioni.
Tutto ciò ci condurrà a trarre la conclusione che è matura una riforma in un senso che si può definire di "regionalismo forte" o di "federalismo solidale", per la soddisfazione delle esigenze di autogoverno e nel pieno rispetto delle esigenze di unità nazionale.
Il traguardo per noi più importante resta comunque quello dell'incremento della democrazia e dell'ampliamento della cittadinanza. Per tali obiettivi la riforma ipotizzata è pur sempre uno strumento, utile se ben adoperato.




10. Il 1° novembre del 1993 entrava in vigore il Trattato di Maastricht e con lo stesso prendeva avvio l'Unione Europea (UE), tappa fondamentale di una costruzione che prosegue da quasi mezzo secolo. Da quando nell'aprile del 1951 fu firmato il primo Trattato, quello della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), che fu poi seguito da altri Trattati che hanno portato alla Comunità Economica Europea dapprima e alla Unione Europea adesso. Sono stati anni di grandi progetti e realizzazioni. Eppure ancora oggi si manifestano sia scarsa conoscenza sulla natura, gli scopi, i ruoli dell'Europa unita sia incertezze di parlamenti, di governi, di partiti, di popoli sulla "convenienza" a procedere in questo cammino. Perciò sono necessari dei richiami fondamentali tesi a dimostrare che oggi i grandi problemi di ogni singolo Paese della Unione Europea devono essere visti e possono essere risolti solo in un contesto europeo.
È questa l'ottica corretta per entrare anche nel merito dei problemi italiani, ai quali questa riflessione si indirizza in modo specifico.


11. La costruzione europea ha marciato lungo il duplice binario degli ideali e della concretezza. Al suo patrimonio ideale ha contribuito in misura rilevante, e non da oggi, l'apporto dei cattolici e, in particolare, dei cattolici italiani. Basti ricordare che già la XXII Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, nel 1948, affrontò il tema "La Comunità internazionale". In essa si sottolineò la necessità che l'Europa si organizzasse "ad unità tanto sul terreno politico quanto su quello economico in modo da contribuire al progresso umano e alla pace mondiale". (5)
Una eguale coscienza della "responsabilità morale" verso popoli rappresentati guidò l'iniziativa dei padri fondatori dell'edificio europeo (il francese Schuman, il tedesco Adenauer, l'italiano De Gasperi, l'altro francese Monnet), con l'atto di nascita della Comunità del carbone e dell'acciaio. Il trattato che le diede avvio, firmato nel 1951, non trascurò però di menzionare anche gli "interessi essenziali" alla base dell'accordo, nella convinzione che "l'Europa potrà essere edificata solo con realizzazioni concrete, che creino prima di tutto una solidarietà di fatto" (6) .
Al medesimo doppio registro degli ideali etici e della concretezza operativa si ispira pure il Trattato di Maastricht del 1993. Esso delinea una Unione Europea che promuove varie identità complementari: economica e monetaria, sociale, di politica estera con riguardo anche ai problemi della difesa delle istituzioni comunitarie. Non a caso a insistere sul profilo non semplicemente mercantile e finanziario dell'Unione Europea, aspetto importante ma non disgiungibile dalla dimensione sociale, è stata una personalità di profonda formazione cattolica quale Jacques Delors.
A ciò si deve aggiungere che la XLI Settimana Sociale dei cattolici Italiani (1991) è stata dedicata al tema "I cattolici e la nuova giovinezza d'Europa", mettendo a fuoco il legame tra i princìpi di solidarietà, interdipendenza e sussidiarietà, indicati dalla dottrina sociale della Chiesa quali pilastri dell'attuale costruzione storica.
Tutto ciò viene ricordato non certo per vantare meriti esclusivi all'iniziativa culturale dei cattolici. Piuttosto, si tratta di evidenziare l'importanza per tutti dei princìpi richiamati e di stimolare una loro coerente traduzione pratica. Del resto, il cammino fin qui percorso incoraggia a proseguire verso la mèta.


12. Nel 1951 furono sei i Paesi (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) firmatari del Trattato CECA. Nel 1993 furono dodici i Paesi (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna) firmatari del trattato di Maastricht. Oggi, inizio 1996, quindici sono i Paesi dell'Unione Europea essendosi aggiunti Austria, Finlandia, Svezia.
Ed è questo il segno principale del successo della "idea europea" che è riuscita a superare molte fasi oscillatorie ormai note come "euroentusiasmo", europessimismo", "euroeuforia", "eurodisfattismo", che hanno attraversato il passaggio dalla CECA (1951-53) alla Comunità Economica Europea e al Mercato Comune (1957), al Sistema Monetario Europeo (1979), al Mercato Interno (1992) fino al Trattato sulla Unione Europea (1993).
Non è nostro scopo ripercorrere queste fasi complesse e difficili, bensì evidenziare cos'è oggi l'Unione Europea dal punto di vista economico e sociale, e come i problemi del nostro Paese, e la loro soluzione, ne siano strettamente connessi, nella convinzione che il cammino verso l'Unione sia e debba essere irreversibile e che le linee di questo cammino siano tracciate.
Non ci assoceremo perciò all'eurodisfattismo che dopo tanti anni di euroeuforia sembra oggi convincere molti, anche nel nostro Paese. Sappiamo quanto complesse siano le attuali situazioni europee in cui tutto sembra cambiare come conseguenza della fine dell'impero sovietico e della riunificazione tedesca. Sappiamo che i problemi ci sono e sono gravi. Ma siamo anche convinti che l'eurodisfattismo deve lasciare il posto all'euroresponsabilità, altrimenti i problemi non saranno risolti e i rischi di una involuzione economica e magari anche politica con un regresso al periodo prebellico si faranno ben più concreti. Nostro intendimento è contribuire a formare questo senso di euroresponsabilità con documentazioni e valutazioni su cui si possa pacatamente meditare per progettare e agire anche nel nostro Paese.
I problemi economico-sociali europei sono certamente molto seri e basta a dimostrarlo un dato riassuntivo: la disoccupazione ha raggiunto i 16-17 milioni di persone, che corrispondono al 10,5-11% della popolazione attiva. Eppure l'Unione Europea è uno dei tre grandi poli sviluppati del pianeta; anzi globalmente in termini di reddito di commercio estero e di popolazione è il più grande di tutti.
Gli altri due grandi poli, Stati Uniti d'America e Giappone, sembrano però situarsi in condizioni assai migliori con una disoccupazione rispettivamente pari al 6,5% e al 2%.
A fronte di questa situazione i quesiti incalzano: ma allora, che ha fatto in mezzo secolo l'Europa se oggi è ancora superata da Stati Uniti e Giappone? Perché non cercare di difendersi con il protezionismo? Perché non adottare un modello economico-sociale americano o giapponese? E per il nostro Paese, quali vantaggi dello stare con un'Europa così carica di problemi? Perché non fare per conto nostro? Perché non si può fare più spesa pubblica per riassorbire la disoccupazione? E, scendendo ancora più a scala dimensionale, ci si potrebbe chiedere: che cosa importa di tutto ciò alla Lombardia, regione dove la crescita è forte, il benessere alto e la disoccupazione bassa?


13. Questi e altri quesiti sono legittimi, ma le risposte non devono essere sbagliate e affrettate. Ciò comporta che nel delineare i grandi problemi europei e italiani e nel cercare le risposte si stia aderenti a quattro riferimenti essenziali: il Trattato di Maastricht (1993), che rappresenta il progetto politico-istituzionale-economico della Unione Europea; il libro bianco "Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie per entrare nel XXI secolo" (1993), elaborato dalla Commissione europea presieduta da Delors; la storia di mezzo secolo e la situazione economico-sociale europea attuale; la perdurante gravità della situazione italiana.
Per entrare nel XXI secolo bisogna rinnovare il modello economico-sociale europeo, che rimanendo distinto da quello americano e da quello giapponese non deve arretrare, pena una rapida decadenza, né nella capacità competitiva rispetto a questi due Paesi per ora dominanti in termini di occupazione e di presenza sui mercati mondiali né rispetto alla nuova capacità competitiva dei Paesi emergenti che positivamente escono dal sottosviluppo guadagnando spazi che l'Europa, ma non gli Stati Uniti e il Giappone, sembra perdere.
14. Il metodo europeo (ma anche italiano) per dare risposta ai grandi problemi deve basarsi su tre grandi direttrici, come in buona misura ci ricorda Delors:
- ideali: aderenza a quelli che hanno forgiato l'identità e l'unità europea e in particolare consapevolezza che il risveglio può avvenire soltanto attraverso una società attivata da cittadini coscienti delle proprie responsabilità e animati da spirito di solidarietà verso coloro con i quali formano comunità locali e nazionali ricche di storia e dotate del senso di appartenenza;
- lavoro e competitività: consapevolezza che la stabilità nel lavoro e la creazione di posti di lavoro che possano essere ereditati dalle generazioni future sono vincolate strettamente alla capacità dinamica di mantenere una posizione competitiva nel contesto mondiale e alla capacità di conseguire anche obiettivi sociali, in particolare il lavoro come fattore di integrazione sociale;
- partecipazione e sistemi: assunzione di responsabilità a tutti i livelli di partecipazione nella consapevolezza che nelle economie e nelle società contemporanee più avanzate e fondate sui sistemi e sulle reti interconnesse e non gerarchizzate, come erano quelle della prima e seconda industrializzazione, la partecipazione non è solo espressione di cittadinanza ma anche fattore di sviluppo economico.
L'Unione Europea (e l'Italia) ha molte risorse per rinnovare il suo modello e la sua crescita: quelle professionali (cultura, istruzione, innovatività, esperienza), quelle finanziarie (risparmio), quelle sociali (concertazione, solidarietà). Ma ha anche molti vincoli; tra questi una crescente "solidarietà nell'individualismo consumistico", per cui esasperati sistemi di protezione sociale ci hanno avvicinato al punto di rottura finanziaria ed economica a causa di una crescita insufficiente e allo squilibrio tra popolazione attiva e inattiva, anche per il crollo nella dinamica demografica.
Il sistema attuale comporta il trasferimento dei costi ai giovani e alle generazioni future. Bisogna passare allora a una "solidarietà produttiva e intergenerazionale", che richiede anche una economia che funziona e cresce.


15. Tanti sono i problemi della Unione Europea e dei singoli Paesi che la compongono, ma due appaiono tali da sovrastare, o comunque riassumere, gli altri: quello della disoccupazione e quello delle finanze pubbliche.
Sappiamo che questi problemi si collocano entro altri di ancora maggiore portata ai quali abbiamo solo accennato: quelli geopolitici, che seguono al disfacimento dell'impero sovietico e che aprono nuove competitività in Occidente e in Oriente; quelli geoeconomici, che caratterizzano una nuova rivoluzione scientifico-tecnologica centrata principalmente sulla teleinformatica e la multimedialità; quelli geodemografici, che pongono a confronto Paesi europei con dinamica demografica in vari casi (come per l'Italia) nulla e Paesi sottosviluppati confinanti con una forte spinta demografica e quindi migratoria.

Occupazione e disoccupazione
16. Abbiamo già detto quanto grande e preoccupante sia la dimensione della disoccupazione in Europa: 17 milioni di persone circa pari all'11% della popolazione attiva. Questo non significa che la costruzione europea non abbia in passato creato occupazione. Basti ricordare che il Mercato unico senza frontiere tra i Paesi europei, nei suoi progressi dal 1985 al 1992, ha generato almeno 9 milioni di nuovi posti di lavoro che diversamente non ci sarebbero stati. Dunque, senza i passi verso l'Unione Europea la situazione sarebbe stata di gran lunga peggiore. Ma questo non può bastarci.
Per superare la situazione di disoccupazione attuale dobbiamo capire innanzitutto di quale tipo sia la nostra disoccupazione, per evitare risposte semplicistiche e gravemente peggiorative, come quella di dare corso a una spesa pubblica occupazionale indiscriminata o quella di impiantare fabbriche fantasma o quella di promuovere imprese obsolete tenute in vita dal pubblico denaro o infine quella del pubblico impiego come mezzo per nascondere la disoccupazione.
Il punto di partenza è la constatazione che nella Unione Europea alla fine degli anni ‘80, dopo cinque anni di crescita molto forte, vi erano ancora 12 milioni di disoccupati pari all'8% della popolazione attiva, che pure è solo il 60% della popolazione in età lavorativa (rapporto certamente basso rispetto a quello di altri Paesi sviluppati). Dunque la crescita non ha riassorbito la disoccupazione di 12 milioni di persone, che appartengono quindi alla categoria della disoccupazione strutturale e tecnologica di lungo periodo e non congiunturale.
Quali sono le cause di questa situazione?
La disoccupazione strutturale è stata determinata principalmente da una infelice collocazione della economia dei Paesi europei nella divisione internazionale del lavoro. L'Unione Europea ha trovato agguerriti concorrenti in prodotti e mercati dove i Paesi di nuova industrializzazione sono adesso arrivati con costi del lavoro molto più bassi. L'Europa ha per converso subito il peso sia del costo del lavoro nelle qualifiche poco alte, che ha frenato la creazione di posti specie nel settore dei servizi, sia della scarsa flessibilità nel mercato e nella legislazione del lavoro.
La disoccupazione tecnologica nasce dalla eliminazione di posti di lavoro generata dal progresso tecnico. Questo nel contempo crea altri e diversi posti di lavoro per l'attivazione di nuovi processi, per la produzione di nuovi beni e servizi. Il problema è di evitare la sfasatura tra le due dinamiche tecnologiche: quella che distrugge e quella che crea nuovi posti di lavoro; e ciò è possibile solo con una forte capacità di entrare sui mercati dei nuovi prodotti e servizi e di avere le qualifiche professionali che siano in grado di operare nella produzione e nella vendita di tali nuovi prodotti. In Europa tale sfasatura tra nuovi processi e nuovi prodotti è stata troppo ampia e perciò s'è creata della disoccupazione tecnologica.
L'Unione Europea è rimasta così compressa tra due tipi di concorrenti forti su due diversi versanti della produzione e dei mercati: i nuovi Paesi industrializzati (fino a pochi anni fa denominati sottosviluppati) forti nei prodotti maturi, dove il basso costo del lavoro è cruciale; i Paesi avanzati, e in particolare USA e Giappone, forti nei nuovi processi e prodotti ad alta tecnologia, dove contano la capacità innovativa e le qualifiche professionali.
Alcuni Paesi europei hanno reagito, ma nel complesso questo non è bastato.
17. Se l'Unione Europea vuole scendere a un tasso di disoccupazione accettabile, deve creare da qui a fine secolo tra i 10 e i 15 milioni di posti di lavoro e per fare questo deve seguire almeno due grandi direttrici: una nuova politica delle risorse umane e del mercato del lavoro con una formazione estesa a tutto l'arco vitale, con flessibilità interna e esterna del lavoro, con riduzione del costo del lavoro poco qualificato e con differenziali salariali legati alle qualifiche e alla produttività; una nuova politica della innovazione e delle reti infrastrutturali basata sulla certezza che il prossimo secolo sarà quello della teleinformatica e della multimedialità, le quali modificheranno completamente i sistemi economici e i modi di produrre.
L'Italia non sfugge a questa situazione, anzi la soffre in pieno e basta a dimostrarlo il fatto che, dopo una svalutazione che è stata molto forte rispetto alle monete di tutti i più importanti Paesi industrializzati, la sua disoccupazione è ancora vicina al 13%: nettamente superiore alla media europea.

Finanze pubbliche e indebitamento
18. Un altro versante della Unione Europea che preoccupa è quello delle finanze pubbliche e dell'indebitamento presente e potenziale delle stesse, specie in alcuni Paesi. Accade talvolta che chi si preoccupa del problema disoccupazione non consideri che dallo stesso non si può uscire durevolmente senza una oculata e rigorosa gestione finanziaria generale e del pubblico denaro in particolare.
Troppo spesso in passato, specie in Italia ma non solo, il pubblico denaro è servito a nascondere la disoccupazione creando occupati fittizi.
I vincoli finanziari impongono adesso una forte selettività nella spesa pubblica, la consapevolezza che la tassazione deve pur sempre essere commisurata alla capacità contributiva e alla necessità di non sottrarre risorse agli investimenti privati, la convinzione che l'intervento pubblico deve avere corso solo laddove non possono operare le capacità e le responsabilità dei privati, la coscienza che il risparmio va tutelato perché solo così si incentiva quella parsimonia che è l'opposto del consumismo e che consente di finanziare gli investimenti di lungo periodo, dai quali dipendono l'occupazione e la crescita.
In breve, l'indebitamento alto delle finanze pubbliche utilizzato per fare spese improduttive, e a fronte del quale non si trovino dei valori patrimoniali durevoli, crea l'errata convinzione che si possa spendere senza produrre e alla fine troverà come suo esito o l'inflazione e la svalutazione, che distruggono il risparmio, o il rinvio di carichi debitori alle generazioni future o drastiche misure finanziarie-tributarie (imposte patrimoniali, consolidamenti e via di seguito) che danneggerebbero la posizione italiana anche sui mercati internazionali.
19. Per questi e per altri motivi importante - anche se non certo esaustiva - è nel Trattato di Maastricht la fissazione dei criteri di convergenza monetaria e finanziaria tra i vari paesi dell'Unione, al fine di contenere il debito pubblico totale e il deficit annuale, per garantire la stabilità dei prezzi (e quindi evitare l'inflazione) e dei tassi di cambio tra le valute, per contenere i tassi d'interesse (e quindi per favorire la crescita e ridurre l'indebitamento). Alla fine, se tutti i parametri saranno soddisfatti, si giungerà alla moneta unica europea, simbolo e strumento economico fondamentale di una unione irreversibile.
Ma si arrivi o meno alla moneta unica, senza il soddisfacimento graduale in un processo di convergenza - che non necessariamente dovrà verificarsi entro l'anno previsto 1999 e con i livelli quantitativi fissati dal Trattato - di queste condizioni non sarà possibile dare corso ai grandi mutamenti strutturali e tecnologici necessari per rilanciare l'occupazione; e questo perché il risparmio non andrà a finanziare gli investimenti produttivi e l'occupazione di lungo periodo ma verrà distrutto in spese improduttive, mentre gli Stati accumuleranno un debito che i creditori (o i loro figli) non vedranno mai ripagato.
Negli ultimi tre anni il sistema finanziario e monetario europeo ha avuto degli sbandamenti enormi e con lui ha sbandato anche il processo di unificazione europea. Alcune valute, a causa del dissesto delle finanze pubbliche di alcuni Stati, come l'Italia, hanno subito delle svalutazioni imponenti. Altre valute, come quella tedesca, hanno avuto grandi rivalutazioni trainate dai tassi d'interesse e dalla fiducia dei mercati nella certezza del rispetto di rigorose condizioni finanziarie e produttive da parte della Germania.
Eppure l'Unione Europea non si è dissolta e appare oggi nelle condizioni di una ripresa del cammino di convergenza monetaria e finanziaria e di rilancio della occupazione.


(*) Contributo tratto dal volume "Autonomie Regionali e Federalismo Solidale" della Commissione Diocesana "Giustizia e Pace" - Diocesi di Milano (Centro Ambrosiano 1996).
(1) Cfr. COMMISSIONE DIOCESANA "GIUSTIZIA E PACE". DIOCESI DI MILANO, Costruiamo insieme il bene comune. La destinazione delle risorse in una società adulta e solidale, Centro Ambrosiano di Documentazione e Studi religiosi, Milano, 1993.
(2) GIOVANNI PAOLO II, Discorso al III Convegno ecclesiale della Chiesa italiana a Palermo, n. 10: «L'Osservatore Romano», 24 novembre 1995, pp. 4-5.
(3) Ivi.
(4) Cf. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus, n. 46.
(5) Il cammino delle settimane sociali, Dehoniane, Roma, 1988, p. 170.
(6) Preambolo al Trattato.

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