1. Dall'epoca in cui, nel 1890, apparve nella Harvard Law Review il lavoro di due noti avvocati bostoniani, Warren e Brandeis, dal titolo "The right to Privacy", il diritto alla riservatezza della vita privata è stato oggetto di raffinate elaborazioni dogmatiche, anche se nella nostra esperienza giuridica si è pervenuti con ritardo a delineare i tratti precisi di una organica Geheimnissphäre.
Soltanto qua e là voci isolate, prima di assistere, a partire dagli anni cinquanta, ad un rovesciamento di tendenza, ad un totale ribaltamento della situazione in conseguenza di palpabili aggiornamenti tecnologici, talora devastanti, che hanno determinato un vero e proprio assault on privacy. Il che ha portato la dottrina a saggiare ogni aspetto dell'informazione e degli strumenti di raccolta di dati ritenuti rilevanti, in maniera da contenere una progressiva invasività del privato che, soprattutto nell'ultimo decennio di questo secolo, non trova nel passato alcun paragone; ragione per cui oggi non deve apparire provocatorio domandarsi entro quali limiti possa configurarsi un "diritto alla notizia" che, se può trovare una barriera nella tutela dell'altrui riserbo, non la incontra di certo in astratto, ma in funzione del contenuto della informazione trasmessa e, pertanto, nella misura complessiva degli interessi dalla medesima implicati. Non a caso Elias Canetti scrive che "la parola libertà serve ad esprimere una tensione importante. L'uomo vuole sempre andare via, e se il luogo dove si vuole andare non ha nome, se è indefinito, senza confini, allora si chiama libertà".
Il diritto di essere informati, per inerire anche ad argomenti di vitale interesse, e fra essi alle vicende attinenti all'esercizio del potere pubblico, soddisfa, dunque una esigenza di rilievo costituzionale - pur se non azionabile nelle sedi giudiziarie - e postula perciò un pluralismo che appaghi le pretese dell'utente.
E proprio in vista di porre un argine a quel diritto, attorno al tema della libertà, si è costruita in dottrina una opinione ormai largamente dominante circa l'esistenza nel nostro sistema di una tutela generale della privacy che, pertanto, non può più considerarsi circoscritta a specifici aspetti (segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni, tutela dell'immagine e così via), espressamente disciplinati da singole disposizioni di legge.
Di certo la nostra Costituzione non muove da un concetto "funzionale" della libertà di pensiero, poiché non bada tanto ai contenuti, ma al procedimento del dialogo e del dibattito in contraddittorio; non è cioè una tale libertà orientata ad un fine, ma all'utile, pur se non appare possibile scorgere poi all'interno della Carta fondamentale una scala di valori e operare, quindi, un bilanciamento fra beni tutelati, anche allorché vengano attinti i valori di vertice come la dignità umana (che si ricollega alla c.d. Intimsphäre), i quali comportano un aumento del Kontrolldichte.
Il diritto alla privatezza è solitamente descritto in chiave negativa, più che in positivo: non ingerenza dei poteri normativi, amministrativi e giurisdizionali in una sfera propria ed esclusiva dell'uomo e della sua spontanea socialità, non divulgazione di notizie concernenti la propria persona ed anche di ciò che di per sé non rientra nella sfera del lecito, fuori dalla stretta necessità di servire un interesse pubblico.
Ma l'interprete non può accontentarsi di questa visione: deve anche spingere lo sguardo più a fondo per cogliere i profili della privatezza, ossia di ciò che pertiene all'individuo e non alla collettività in generale, in termini positivi. Ed allora ci si avvede della presenza del diritto all'oblio, vale a dire a non veder rievocati avvenimenti pubblici nei quali il singolo è stato in passato implicato (fuori da un interesse pubblico attuale), o addirittura a cambiar vita, ad essere un altro o ad essere lasciato "solo".
2. In questo quadro d'insieme deve essere affrontato e risolto il problema circa la individuazione dei limiti entro i quali i Servizi d'informazione e sicurezza, regolamentati dalla legge 24 ottobre 1977 n. 801, hanno il diritto di acquisire informazioni riservate concernenti attività istituzionali o la sfera privata di singoli cittadini.
Nella Relazione del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, trasmessa ai Presidenti dei due rami del Parlamento il 5 marzo 1996, viene espressamente affermato che i limiti in questione "sono fissati in rapporto alle finalità stesse dei Servizi, così come la legge le determina, oltre che in rapporto al fondamentale dovere di fedeltà alla Costituzione". Se, dunque, vengono raccolte informazioni riservate che periodicamente affluiscono agli apparati di intelligence, non attinenti alla integrità dello Stato, alla difesa della sua indipendenza ed alla sicurezza dell'ordinamento democratico contro ogni forma di eversione, l'acquisizione di tali informazioni "è in contrasto con i compiti istituzionali ed è perciò illegittima".
Questo principio, icasticamente enunciato nella premessa, è poi più volte ribadito nel corso dell'elaborato ed in diversi punti, sotto differenti profili; viene espresso il convincimento che "la natura" delle informazioni concernenti aspetti della vita privata delle persone e la non corrispondenza ai fini istituzionali del Servizio rendono le stesse illegittimamente acquisite.
In altri brani della citata Relazione si riferisce che il Governo è stato sollecitato ad una rigorosa vigilanza sugli archivi dei Servizi, per accertare se vi fossero tracce di deviazioni dai compiti istituzionali ed un'illecita strumentalizzazione delle informazioni coperte dal riserbo, come il Comitato ha ritenuto si sia verificato nel caso della illegittima raccolta di notizie da non divulgare sulle indagini concernenti Tangentopoli e su alcuni magistrati della Procura di Milano, riconducibili alla produzione informativa della "Fonte Achille". L'acquisizione di tali informazioni, sostiene il Comitato, appare del tutto estranea ai compiti istituzionali del SISDe: non solo, ma nel prosieguo della Relazione, viene inoltre sostenuto che, in caso di acquisizione da una fonte confidenziale di notizie riservate non pertinenti agli scopi istituzionali, la soluzione giusta da adottare sarebbe quella di distruggerle e l'atteggiamento da adottare nei confronti della fonte medesima sarebbe quello di disattivarla o di orientarla in altra direzione. Nel citato documento si pone anche l'accento sulla illegittima finalizzazione delle informazioni riservate acquisite sul conto dei magistrati della Procura di Milano, destinate alla apertura di dossiers che servivano a delegittimarli e, quindi, sull'uso distorto e ricattatorio di notizie di interesse istituzionale (attività di dossieraggio sfruttata come illecito strumento di pressione).
Un tal modo di argomentare suscita l'interesse all'approfondimento e alla discussione, specie quando evita di considerare il problema del bilanciamento tra interesse all'acquisizione e interesse alla diffusione della notizia riservata alla luce pure di taluni princìpi richiamati dalla nostra Costituzione anche al di là del suo articolo 21 che enuncia la libera manifestazione del pensiero. Sicché, per un corretto inquadramento della complessa tematica inerente alla organizzazione degli Archivi dei Servizi di informazione e sicurezza, secondo canoni di legalità e trasparenza, non può prescindersi da alcune considerazioni preliminari in ordine all'ambito di legittima esplicazione delle attività informative demandate ai predetti Servizi.
3. Non sembra revocabile il dubbio che ogni Stato democratico abbia il diritto di ricercare informazioni riservate e di acquisire notizie in qualsiasi modo rilevanti per la difesa della propria integrità e della sicurezza pubblica a prescindere dalla loro "verità". La salvaguardia di questi beni è infatti reclamata da qualsiasi società civile, sia pure oggi in un mutato contesto interno ed internazionale: l'informazione diviene così parte indispensabile dell'attività di prevenzione dello Stato rispetto ad eventi o ad atti di minaccia, che costituiscano un pericolo o addirittura una lesione dell'ordine costituzionale.
Sinteticamente, senza scendere nei dettagli, dall'esame della intelaiatura del nostro sistema si ricava che questi obiettivi di fondo vengono raggiunti attraverso apposite strutture, deputate allo svolgimento dei cennati compiti informativi, da individuarsi nelle Forze di polizia (con le varie articolazioni, alle volte troppo complesse e tra le quali stenta a penetrare la cultura del coordinamento) e nei Servizi di informazione e sicurezza.
Le prime spendono la loro attività nei settori della sicurezza pubblica e privata, traducentesi in talune limitazioni della sfera giuridica di libertà dei destinatari (in forme solitamente negative) e finalizzata al bene comune negli aspetti tradizionalmente riportati all'ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, ai "boni mores", al corretto svolgimento della vita sociale ed alla prevenzione e repressione delle attività illecite, secondo le indicazioni contenute nell'art. 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121.
I servizi sono da collocarsi, invece, su un piano completamente diverso da quello tipico delle tradizionali Forze di polizia, la cui funzione preminentemente, pur se orientata, come detto, alla tutela delle istituzioni democratiche, persegue soprattutto obiettivi di prevenzione e repressione dei reati.
4. Le peculiarità dell'attività di intelligence dei Servizi sono scandite dagli artt. 4 e 6 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, che additano l'ambito finalistico in cui devono operare nella tutela della sicurezza interna ed esterna dello Stato, concepita come interesse della comunità nazionale unitariamente intesa alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza ed alla sua stessa sopravvivenza.
Più in particolare, l'azione di intelligence, quale processo articolato di raccolta, analisi e valutazione di notizie utili alla formulazione e definizione dell'iter decisionale dell'Esecutivo - notizie non disponibili se non attraverso una capillare ricerca e penetrazione in aree sensibili o in ambienti resi interessanti dalla particolare e peculiare evoluzione della congiuntura storica - è preordinata al raggiungimento di uno specifico obiettivo strategico, vale a dire di porre l'Esecutivo medesimo nelle migliori condizioni di svolgere (in virtù di un flusso costante di informazioni acquisite e poi analizzate su temi di rilevante valore contingente) la propria politica decisionale in merito alla sicurezza globale dello Stato, intesa così nella sua più ampia accezione di difesa del corpo sociale, dell'integrità territoriale, dell'economia e delle Istituzioni del paese.
Certamente viene anche qui in primo piano una attività di prevenzione; ma il contenuto di una tale azione di intelligence è strumentale rispetto agli eventi od agli atti di minacce, pericolo o lesione della sicurezza dello Stato.
Si tratta, a ben vedere, di una prevenzione strategica, in quanto l'anzidetta attività, pur svolgendosi ad ampio raggio, è mirata e deve, quindi, rivolgersi non necessariamente o non esclusivamente verso contesti ad alta e comprovata densità criminale, ma in direzione di ogni settore, ambiente e persona dai quali, in atto od in potenza, possano scaturire problemi per la sicurezza dello Stato, non sempre inquadrati o rapportabili a concrete ipotesi di reato: nell'attuale momento storico ogni aerea del sociale, dell'economia e della politica è, infatti, potenzialmente portatrice di rischi e minacce per la sicurezza della compagine statuale.
Nel progetto finalistico disegnato dal legislatore del 1977 trova ampia giustificazione, anzi si radica, il diritto-dovere dei Servizi di indagare e sorvegliare persone sospette dovunque esse abbiano ad agire e ad operare: nell'ambito della delinquenza comune, della criminalità organizzata e di quella minorile (in continua e drammatica espansione e per troppo tempo trascurata), dello spionaggio militare ed economico o nei confronti di quanti si può temere che preparino attentati all'ordine democratico o azioni violente contro la struttura costituzionale dello Stato.
Una penetrante ed incisiva attività di prevenzione è in questo senso sicuramente necessaria ed indispensabile: la stessa opinione pubblica non esiterebbe ad esprimere un severo giudizio di biasimo verso un governo che si lasciasse sorprendere, ad esempio, da un tentativo insurrezionale e che dovesse confessare di non avere avuto alcun sospetto e/o allertamento circa la sua preparazione.
5. Resta però da approfondire un profilo assai delicato: occorre individuare con nitidezza di contorni la linea di demarcazione tra l'attività lecita di raccolta di dati ed informazioni e l'attività illecita, in quanto contraria alle finalità descritte dal sistema normativo in vigore. Ebbene una tale linea va ravvisata nell'esistenza o non di una base sufficientemente ragionevole per sorvegliare un determinato ambito plurisoggettivo o soggettivo e per seguirne le varie attività, ivi comprese quelle relazionali intra moenia.
In altri termini, la liceità di una siffatta attività informativa risiede nel ragionevole sospetto che l'avvenimento di cui ci si occupa ed i personaggi che vi sono implicati siano in effetti portatori di una minaccia per la sicurezza dello Stato. È ovvio che non possono essere indicati rigidi schemi astratti, in quanto la ragionevolezza del sospetto, che costituisce il punto nodale del discorso, muta da ambiente ad ambiente ed è relativizzato alle contingenze storiche del periodo in cui si opera ed anche perché nel connesso apprezzamento non può negarsi la sussistenza di un margine di discrezionalità. Una valutazione tale risente invero della soggettività dei giudizi di ciascun protagonista della vicenda, i quali sono espressione dei processi discrezionali interni attribuibili ai soggetti cui spetta determinare l'ambito delle attività in genere.
Ma la discrezionalità alla quale si è fatto ora cenno non tracimerà mai nell'arbitrio se le concrete determinazioni operative si attengono alle linee direttrici che trovano la loro fonte normativa nella responsabilità delle autorità tassativamente individuate nella citata legge n. 801/1977 (Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministri competenti, Direttori dei Servizi).
Perché l'estrinsecazione dell'attività dei Servizi in comportamenti formalmente rivestiti di illegalità (in tal senso l'indagine condotta nei confronti di taluno ben potrebbe configurare violazione di diritti protetti a livello costituzionale come la dignità della persona umana o la inviolabilità del domicilio) non risulti contrastante con l'assetto normativo vigente e con la filosofia della Carta fondamentale, non pare dubbio che essa debba vincolarsi all'esclusiva preservazione della comunità nazionale e della Costituzione.
Il comportamento permeante l'azione informativa deve cioè essere strettamente indispensabile per la tutela del supremo interesse della sicurezza dello Stato, secondo un ragionevole rapporto di mezzo a fine. Il che trova conforto e conferma nell'esame della giurisprudenza costituzionale, la quale ha ripetutamente ribadito, in una priorità di scala gerarchica dei valori, l'assoluta preminenza dei beni relativi alla sicurezza interna ed esterna dello Stato, tale da giustificare non solamente l'affievolimento di altri valori pure essi tutelati dalla Carta, ma anche da garantire, sulla base enunciata, una proporzione tra difesa ed indebolimento di interessi secondo un approccio definitorio-bilanciatorio.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono, alcune esemplificazioni valgono a chiarire meglio i tratti di quella linea di demarcazione di cui si è sopra detto: possono scorgersi aspetti di illiceità nell'attività indagativa svolta su taluno, la quale invada la sua vita privata, nel caso in cui non sussista alcun fondato indizio per ritenere che quella determinata persona si proponga di infrangere le leggi o di mettere a repentaglio la sicurezza dello Stato. In una siffatta ipotesi non sarebbe, invero, ravvisabile alcuna finalità pubblica di prevenzione che renda compatibile con il sistema determinate forme di attività dei Servizi di sicurezza, formalmente classificabili quindi, come "illecite" alla stregua dell'ordinamento vigente.
Ma occorre scendere ancor più nel particolare ed appuntare l'attenzione su di un aspetto di basilare importanza: bisogna, cioè, esaminare i due distinti momenti in cui si articola la ricerca informativa da parte dei Servizi. Si tratta della raccolta delle notizie e del successivo uso delle stesse.
Anche qui non può procedersi per rigide schematizzazioni: è sempre necessario avere presente la singola vicenda per potersi correttamente orientare. Sicché, nel caso di indagine giustificata, gli organi operativi ad essa preposti non possono limitarsi a scandagliare un solo aspetto che riguarda la vita relazionale dell'interessato. Da una indagine allargata potrebbero, infatti, emergere risultanze che non rilevano neanche indirettamente per i fini istituzionali dell'Ente, in quanto non toccano la persona pubblica e la minaccia di sue non inverosimili o prossime attività illegali, non concernono cioè la pericolosità dell'uomo, così come al contrario potrebbero affiorare elementi o dati di interesse per gli anzidetti scopi anche in vista dell'attivazione di ulteriori indagini, fermo restando in ogni caso il divieto di una loro divulgazione.
Attesa la stretta connessione fra la sottoposizione di taluno a particolare sorveglianza e ad attività informativa e le finalità di tutela del supremo interesse della sicurezza dello Stato, ne deriva che l'utilizzazione delle notizie raccolte nel contesto dell'esempio sopra riportato, è, nella prima ipotesi, rigorosamente preclusa all'Amministrazione: quelle notizie non possono dar luogo a provvedimenti, iniziative, vincoli o condizionamenti per l'Amministrazione medesima, né tantomeno possono ricevere pubblicità. Diversamente si configurerebbe un abuso, e quindi un illecito. È questa, in buona sostanza, la conclusione cui pervenne lo Jemolo tanti anni orsono quando sottolineava che colui il quale guardi alla realtà delle cose ritiene impossibile negare allo Stato una attività di prevenzione, che implica anche la necessità di compiere indagini riservate: la libertà non la si difende non volendo misure eccezionali in presenza di situazioni eccezionali, ma segnando per tempo le vie secondo cui dovrà svolgersi l'azione dello Stato in queste ipotesi, anziché lasciare il tutto all'improvvisazione del momento entro cui, nel nome della salus publica, suprema lex possono compiersi i peggiori arbitri, a meno di non volersi rassegnare con Popper a ritenere che la migliore forma di limitazione in materia risulta soltanto dalla responsabilità dell'uomo che agisce.
La Relazione del Comitato parlamentare prospetta in chiave propositiva l'esigenza di dar corso alle riforme da esso in precedenza formulate in data 6 aprile 1995, evidenziando che, per individuati oggetti di indagine, il Comitato sia dotato di poteri che l'art. 82 della Costituzione riconosce alle Commissioni parlamentari d'inchiesta, vale a dire che venga equiparato a tali fini all'autorità giudiziaria.
Non è peraltro chi non veda come l'attribuzione di siffatti poteri, sia pure opportunamente mirata per settori, costituisca un grave attentato alla autonomia di cui necessariamente debbono essere muniti i Servizi per poter svolgere la loro attività a vantaggio e nell'interesse della collettività nazionale, specie quando fosse riconosciuto un potere di controllo (oltre che sulla responsabilità politica dell'esecutivo) anche sulla gestione tecnica. Non da ora si è detto che il profilo della tutela della riservatezza richiama necessariamente il più generale tema della persona umana: non è un atto di fede, ma un convincimento che non necessita di particolari dimostrazioni, tanto palese è la sua evidenza. Con l'esprit de finesse, tipica dei giansenisti di Port Royal, può ben ripetersi che: "toute la dignitè de l'homme est en la pensée"; guai, però, a non accorgersi per tempo che l'uomo è la più fragile delle canne, ma è una canna pensante e, come ha scritto Pascal, quand'anche l'universo lo volesse schiacciare, egli sarebbe più nobile di colui che tenta di farlo, perché mentre l'universo nulla conosce, l'uomo ha consapevolezza di stare per morire.
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