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Per Aspera Ad Veritatem n.28
Intelligence ed opinione pubblica.

Nicola PEDDE




L’argomento intelligence in Italia ha da sempre rappresentato una sorta di tabù. Se difficile è stato il mero e semplice dibattito in materia, la considerazione dello stesso con riferimento al rapporto ed alla percezione da parte dell’opinione pubblica ha costituito per diversi decenni un argomento da evitare ad ogni costo.
Tutto ciò a vantaggio di chi? Di certo non per i nostri Servizi di Informazione e Sicurezza, che attraverso un processo di tal fatta hanno assistito al determinarsi di un generale e diffuso clima di sospetto e condanna. Ma anche non nell’interesse del privato cittadino, che in tal modo ha permesso – ed anzi agevolato – la diffusione di una stereotipata concezione dei Servizi lasciando il terreno libero per una pletora di presunti esperti di settore che in materia hanno creato un vero e proprio genere letterario fortemente orientato al sensazionalismo.
Tutto ciò nell’assenza di un impegno accademico e scientifico in funzione della determinazione di una cultura dell’intelligence, e di un contestuale inspiegabile ed ingiustificabile timore istituzionale atto a favorire la crescita del rapporto tra Stato e cittadino nel settore.
Appaiono perciò ancor più brillanti e meritevoli, seppur numericamente limitati, gli sforzi del S.I.S.De. con la rivista Per Aspera Ad Veritatem e quello di alcune strutture accademiche per la formazione di personale destinato ad operare attraverso le varie forme di intelligence in ambito privato ed istituzionale.
Ciò non è tuttavia sufficiente in una moderna democrazia. Non devono e non possono sussistere nel rapporto tra Stato e cittadino ambiguità e timori nel riconoscere il ruolo ed i compiti dei propri Servizi di Informazione e Sicurezza. Non può mancare, in sintesi, una linea di contatto diretta – e, quindi, non mediata dall’esecutivo – tra il comune cittadino ed il complesso sistema dell’intelligence. Pena il rischio, tutt’altro che remoto, di relegare l’immagine e l’operato dei cosiddetti “servizi segreti” in quel penoso limbo che segna la linea di confine tra il legale e l’illegale, tra la giustizia e l’eversione.



L’Italia è uno tra i pochi paesi Occidentali dove, nonostante l’elevato livello di trasparenza e di accessibilità ad ogni funzione della Pubblica Amministrazione, ancor oggi le strutture di Informazione e Sicurezza svolgono il proprio ruolo in costanza di un basso, se non addirittura assente, livello di contatto e di comunicazione con il cittadino.
Non c’è traccia del S.I.S.De., del S.I.S.Mi. o del C.E.S.I.S. negli elenchi del telefono. Non esiste un solo edificio dove sia esposta una targa od un’insegna che indichi la loro presenza. Non è nemmeno possibile scrivere che da qualche parte, il tal Forte od il tale palazzo sono una delle tante sedi dei Sevizi perché si rischia di violare un segreto di Stato.
Una sostanziale differenza se paragonata all’esperienza di paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la Germania, dove cartelli stradali indicano i quartieri generali a caratteri cubitali, dove siti Internet illustrano ogni minimo dettaglio per essere assunti e quali compiti spettino al futuro funzionario o dove, ancora, si inviti il singolo cittadino a prendere contatto con gli enti interessati per ragguagli ed ulteriori informazioni.
A che pro tutto questo?
Soprattutto nel corso degli anni Sessanta e Settanta scandali – o presunti tali – danneggiarono enormemente l’immagine dell’intelligence italiana andando a compromettere irrimediabilmente la percezione degli stessi da parte dell’opinione pubblica.
Ancora negli anni Ottanta e Novanta, il termine “servizi segreti” evocava genericamente l’immagine di uno Stato nello Stato dove ogni sorta di illegalità poteva essere condotta da uno o più Grandi Vecchi, alimentando così una retorica distorta e malevola che ci ha accompagnato sino ai nostri giorni.
Di chi le colpe per un tale stato di fatto? Difficile poter individuare un singolo colpevole o più correi. Senza dubbio un’elencazione esemplificativa, e non esaustiva, dei colpevoli vedrebbe al primo posto un concorso di colpa tra Stato e cittadino, dove al primo è ascrivibile la responsabilità di aver legiferato in materia di fatto eliminando gli strumenti di contatto con il pubblico, ed al secondo – nel rispetto, purtroppo, di una ben consolidata tradizione squisitamente nazionale – potrebbe essere rimproverato di aver sempre prestato attenzione per l’operato dell’intelligence solo in occasione di gravi episodi di malcostume o per recriminarne l’inefficienza. Senza mai riconoscere che la sicurezza e la stabilità sono garantite proprio da quelle poche migliaia di misteriosi uomini senza nome che, in situazione di rischio costante, vigila continuativamente per la protezione del cittadino, dell’ordine costituzionale e dell’economia nazionale.
A ciò si aggiunga il ruolo di alcuni autori che, attraverso la stampa e l’editoria, hanno favorito il proliferare di un filone letterario sull’intelligence spesso basato più sugli elementi tratti dalla filmografia che non dalla reale capacità operativa di un servizio informazioni e sicurezza tradizionale.
La definizione di “servizi segreti”, stante ad indicare le strutture di informazione e sicurezza, è probabilmente più legata alla tradizione giornalistica ed alla copiosa produzione cinematografica che di questo settore ne ha creato una sorta di genere e, al tempo stesso, modellato un’immagine distorta ed assai negativa.
Il concetto stesso di “agente segreto” è indissolubilmente legato a personaggi di fantasia, senza alcun pratico riscontro – o solo pochi – con la reale attività di chi professionalmente opera nell’intelligence.
È da segnalare poi come in termini generali, soprattutto nel corso degli ultimi trent’anni, l’opinione pubblica abbia gradualmente sviluppato un’immagine ed un concetto di “servizio segreto” sempre più in accordo con le ben note teorie cospirazioniste o di “Stato parallelo”, dando luogo ad una diffusa – ed alquanto errata – forma di pregiudizio nei confronti dell’intelligence e dei suoi professionisti.
Larga parte dell’opinione pubblica nazionale, quando si parli di Servizi di Informazione e Sicurezza, esprime valutazioni e giudizi solitamente riconducibili ai generali temi delle deviazioni, dei depistaggi e delle attività criminose in genere inserite in uno stereotipato quadro di cospirazione. Unitamente a questo dato è altrettanto spesso ravvisabile la più completa ignoranza circa la reale natura dei compiti e della composizione delle strutture di intelligence nazionali, con elementi di incertezza chiaramente rivelanti la fonte delle informazioni su cui un gran numero di comuni cittadini costruisce e modella le proprie convinzioni.
Questo pregiudizio è in larga parte imputabile anche alla discutibile scelta politica di non aver voluto definire con chiarezza, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, il concetto di “interesse nazionale” e, conseguentemente, di “sicurezza nazionale”. Laddove il primo rischiava di esprimere una volontà o capacità aggressiva dello Stato, la seconda ne costituiva lo strumento. Il timore che una valutazione in merito al ruolo ed all’azione dello Stato potesse essere fraintesa ed interpretata come una rivisitazione della politica di potenza del regime fascista (perché è questo, senza grandi giri di parole, quello di cui si è temuto) ha letteralmente paralizzato il dibattito in materia lentamente atrofizzando ogni sforzo intellettuale e limitando la produzione scientifica ed accademica a sporadici e timorosi, quanto isolati, contributi.
La “sicurezza nazionale”, dunque, priva del necessario presupposto dell’interesse nazionale”, andava gradualmente a configurarsi secondo la logica di percezione dell’individuo, quale strumento per la gestione dell’emergenza nazionale se non, nella peggiore delle ipotesi, dello “Stato forte” ed “antidemocratico”.
Ogni aspetto legato al ruolo investigativo ed operativo dello Stato per la tutela della sicurezza nella sua accezione più ampia, quindi, ha dovuto palesarsi ed affermarsi progressivamente nel rispetto di logiche di cautela e timore non certo proprie del tradizionale modello del moderno Stato democratico.
Non stupisce, dunque, come la logica associazione della “sicurezza nazionale” a quella della “sicurezza dello Stato e del cittadino” in Italia abbia incontrato resistenze intellettuali di ogni ordine e grado, basate essenzialmente sulla necessità – peraltro comprensibile dato lo stato di fatto – di voler prima definire i ruoli e gli ambiti della funzione di sicurezza nel contesto generale dello Stato e delle Istituzioni e del rapporto con il cittadino.
Anche l’immagine dei “servizi segreti” si è trovata conseguentemente ad essere in gran parte ancorata, al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori o del settore della ricerca, a modelli pre-costituiti spesso concettualizzati e diffusi da ambiti che poco, o nulla, hanno avuto a che fare – e conoscono – del mondo dei servizi di informazione e sicurezza stessi. Tutto ciò con grave pregiudizio per l’immagine di Istituzioni e di uomini chiamati ad assolvere compiti senz’altro fuori dall’ordinario ma certamente fondamentali per la sicurezza del Paese.
Nel periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta poi, invero a seguito anche di gravi e documentati episodi, nel nostro paese iniziò a fiorire e proliferare una ricca letteratura sulla storia e l’operato dei servizi di informazione e sicurezza italiani.
L’assoluta maggioranza di tali scritti, sia sotto forma di contributo giornalistico che nella veste di vere e proprie pubblicazioni, si articolò secondo un modello prettamente critico ed orientato ad enucleare le presunte miriadi di illeciti o deviazioni di cui i nostri Servizi, sembrava, fossero al tempo stesso vittime ed artefici.
Un gran numero di autori, in molti casi senza particolari competenze specifiche, si cimentò nella realizzazione di veri e propri “best seller” di difficile confutazione da parte di un inesperto lettore. Gli anni del terrorismo, della contestazione studentesca, della corruzione e del malgoverno incrementarono esponenzialmente la produzione di articoli e saggi sul complesso sistema dell’intelligence nazionale.
Grazie anche alle reali notizie di episodi criminali e di illeciti, condotti da uomini sì dei Servizi ma non rappresentativi degli stessi, la convinzione che gli apparati di informazione e sicurezza dello Stato fossero null’altro se non un coacervo di illegali interessi si propagò a macchia d’olio. Propagazione che determinò una generale immagine di inefficienza ed immoralità in seno all’opinione pubblica, tutt’oggi ancora largamente diffusa e radicata in ogni ambito della società civile.
Questo risultato non è attribuibile solo ad alcuni scellerati atti criminali condotti da uomini dei Servizi od alla penna di alcuni autori spesso faziosi.L’immagine del S.I.S.Mi. e del S.I.S.De. come focolai dell’eversione è attribuibile anche alle Istituzioni stesse.
Mai, o quasi, il potere politico ha affrontato il dibattito in materia in modo organico e costruttivo, ingenerando nei più l’immagine di uno Stato connivente o di strutture di intelligence asservite al perseguimento dei più spregiudicati fini individuali.
Mai, o quasi, il potere politico ha voluto o saputo spiegare cosa siano realmente i Servizi, chi impartisce loro gli ordini, quali finalità perseguono ed attraverso quali metodi si svolga l’attività degli stessi. La cerchia di queste informazioni resta limitata, così come la loro diffusione e comprensione.
Mai, o quasi, le Istituzioni hanno saputo garantire la tutela del nome e dell’immagine degli uomini e delle strutture che le servono, in tal modo permettendo l’ingenerarsi ed il proliferare del dubbio circa l’operato degli stessi, favorendo quindi largamente il compito di chi avesse interesse a permettere una generale criminalizzazione delle strutture.
I servizi di informazione e sicurezza d’altro canto, per loro natura e per statuto impossibilitati ad affrontare il pubblico dibattito, hanno permesso passivamente a fattori esogeni di forzare entro angusti e scomodi ambiti l’immagine e l’opinione dei Servizi stessi, ed a nulla è servito lo sporadico – e disorganico – ruolo attivo di qualche ex appartenente alle strutture.
A ciò si aggiunga una disciplina giuridica che, nella sua vigente sostanza così come promulgata nel 1977, da un lato agevola la percezione dei Servizi Segreti come un sistema parallelo ed alquanto poco trasparente, dall’altro non prevede un termine temporale per la divulgazione dei segreti non più sensibili per la sicurezza dello Stato, in tal modo rendendo impossibile una concreta e sistematica indagine sull’operato – quello concreto e fattivo – degli organi interessati.
L’esperienza statunitense del FOIA (Freedom Of Information Act), ad esempio, ha permesso alla intelligence community locale di sviluppare un canale di dialogo con il pubblico altamente soddisfacente, favorendo al contempo il progressivo annullamento dei negativi effetti generati dalla stampa sensazionalista su ogni possibile spazio del terreno del cospirazionismo. L’informazione ufficiale, anzi, ha dato grande impulso nell’ambito del contesto accademico alla produzione di testi e saggi di ottimo livello sulle metodologie e sull’analisi storica, con ciò permettendo una più corretta e positiva valutazione del sistema stesso della sicurezza nazionale.
In Italia, al contrario, sono virtualmente secretati ancor oggi documenti di scarso, o nullo, interesse per la sicurezza nazionale (come ad esempio episodi risalenti al primo periodo post-unitario o delle due guerre mondiali), con l’effetto di rendere impercettibile il ruolo e l’efficacia delle strutture italiane che, di contro, vengono così a trovarsi ammantate di un alone di mistero che ben poco ha giovato, e soprattutto ben poco giova ancor oggi.
Secondo uno schema di siffatta natura quindi, si è lentamente giunti ad una condizione di generale valutazione che tende a trascurare quasi totalmente i successi e le potenzialità – ed anche il normale operato – dei servizi di informazione e sicurezza, e a rendere al contempo “fragorosi” gli insuccessi.



Si torna a parlare di servizi segreti, per una volta riconoscendone l’indispensabile ruolo, solo dopo i noti e tragici fatti dell’11 settembre 2001.
L’attacco micidiale e massiccio di un’internazionale del terrore al cuore degli Stati Uniti convince anche i più feroci inquisitori dell’intelligence in Europa ad appoggiare l’adozione di misure d’emergenza per fronteggiare l’eventualità di nuovi e più pericolosi atti criminali, evidenziando anzi la necessità di poter disporre di strumenti di prevenzione della minaccia moderni e preparati.
L’opinione pubblica, dunque, scopre dopo l’11 settembre come sia fondamentale poter contare su servizi segreti efficienti ed in grado di operare ad ogni livello della sicurezza nazionale ed internazionale, accettando anche l’idea di compiti e limiti di ingaggio non ortodossi. Contraddicendo, in buona sostanza, i criteri di valutazione generale che per oltre trent’anni hanno caratterizzato l’immagine dell’intelligence e dei suoi operatori.
Oggi, quindi, si avverte da un lato una maggiore disponibilità del cittadino verso tali strutture, con una sostanziale apertura ad un modello di valutazione non più preconcetto e stereotipato ma, anzi, caratterizzato da una timorosa forma di riconoscenza.
Dall’altro è sempre più evidente la necessità inversa di contatto e sinergia da parte dell’intelligence in direzione del pubblico, come una sorta di garanzia dell’operato ma anche per poter disporre di quelle nuove forme di professionalità richieste dalle circostanze e non sempre reperibili all’interno della Pubblica Amministrazione.
Questa la sostanza, ad esempio, del disegno di riforma presentato recentemente all’approvazione del Parlamento. Riforma dell’intelligence in funzione di una maggiore apertura e trasparenza, ma anche finalizzata ad un incremento delle potenzialità e della capacità d’azione.Senza, per un volta, destare i timori di un’azione cospiratrice ed anticostituzionale.
Se oggi, dunque, una tale storica possibilità di sereno dibattito è possibile – qualunque possa risultare essere il testo definitivo di una legge di riforma – è di fondamentale importanza poter sfruttare tale positiva congiuntura in modo costruttivo ed appropriato. Non è possibile, in sostanza, perdere una preziosa occasione atta a permettere una sensibile crescita nel rapporto tra Stato e cittadino, in funzione di un percorso di sviluppo potenzialmente colmo di elementi di positiva sinergia.
Si potrebbe, anzi, andare oltre la semplice crescita puntando decisamente su un processo di trasformazione almeno nel rapporto tra servizi segreti e opinione pubblica. Non sussistono preclusioni di particolare natura per impedire che la nostra intelligence si apra al pubblico, senza con ciò svelare alcunché di segreto e riservato, offrendo un’immagine concreta e trasparente circa i compiti che è chiamata ad assolvere.
Un passo di tale natura anzi, favorirebbe enormemente quel necessario, e doveroso, processo di trasformazione dell’immagine dei servizi segreti che tanto inopportunamente si è lasciato sviluppare e maturare nel corso di gran parte della storia repubblicana e democratica del nostro paese.
Non è, infine, nemmeno necessario dover concepire strategie particolarmente elaborate per avviare questo processo di trasformazione. La semplice possibilità di poter individuare i nostri Servizi, conoscerne il logo distintivo e poterne leggere una descrizione su un sito Internet sarebbe già una piccola rivoluzione.
Se a questo si aggiungesse una produzione letteraria adeguata ed una formula di contatto con il pubblico, allora si potrebbe davvero affermare di aver dato impulso al cambiamento.



Ciò di cui il nostro paese ha realmente necessità non sono dei nuovi servizi segreti capaci ed efficienti. Quelli, fortunatamente, li abbiamo sempre avuti.
Oggi è necessario operare su più livelli per sviluppare una vera e propria cultura dell’intelligence; una cultura che sia capace di dimostrare non solo la validità del principio che tali Servizi ha istituito ma che, soprattutto, ne illustri le modalità operative e renda tangibilmente evidente come gli stessi siano un insostituibile strumento dell’interesse e della sicurezza nazionale.
Per il perseguimento di questo fine sono essenziali due condizioni. Da una parte un attivo e convinto coinvolgimento delle strutture di Informazione e Sicurezza – e quindi delle Istituzioni – in direzione del dialogo e del rapporto con l’esterno, superando l’anacronistico ed alquanto dannoso concetto del “tutto quanto concerne l’intelligence resti all’interno delle strutture stesse”.
Dall’altra è necessario che il settore della ricerca e dell’accademia sviluppino programmi e progetti di studio e ricerca che, anche in questo caso, demoliscano l’individualismo ed il presenzialismo degli “esperti di settore” in direzione al contrario di una professionalità diffusa, specifica e settoriale capace di dialogare e cooperare per il perseguimento di risultati concreti. La realtà dei fatti, tuttavia, ci offre un quadro ancor oggi diametralmente opposto.
Per la determinazione e l’affermazione di una cultura dell’intelligence è quindi opportuno innescare un processo di sinergie tra Istituzioni e privati che, con gradualità, favorisca l’emergere dei centri di eccellenza – anche individuali o sporadici – lungo un percorso di comune interesse e dalle solide basi. Un percorso che non trascuri in ogni sua fase come la materia non possa – e non debba – essere più relegata alla sola cerchia degli “esperti” ma come anzi, al contrario, debba essere destinata ad interessare sempre più ampie fasce dell’opinione pubblica.
È quindi opportuno, e probabilmente improcrastinabile, estendere il dibattito in materia in ogni ambito della società civile, favorendo la comprensione del ruolo e delle metodologie senza timore di rivelare improbabili segreti da parte delle Istituzioni, e senza il timore di perdere improbabili posizioni di notorietà e prestigio da parte della cerchia esterna degli addetti ai lavori



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