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Per Aspera Ad Veritatem n.28
Il lavoro dell'intelligence e la questione degli archivi

Antonio MAZZEI


“Questo materiale non deve essere in nessun caso lasciato alla mercé di chicchessia, offrendo a persone di pochi scrupoli la possibilità di basse speculazioni”.
Così scriveva nel 1967 un anonimo funzionario ministeriale nella sua relazione concernente 525 fascicoli aperti dal Minculpop, il ministero della Cultura popolare, su altrettanti giornalisti, poeti, romanzieri e personaggi di cultura che negli anni Trenta ebbero in qualche modo a che fare con il regime fascista.
Le vicende di questo fondo, versato all’Archivio centrale di Stato all’inizio del 2004, rappresentano una delle tante storie che, in Italia come all’estero, hanno avuto come protagonisti gli archivi, soprattutto di quelle polizie informative comunemente conosciute come servizi segreti.
È il caso, ad esempio, dei documenti che la CIA ha declassificato alla fine del 2003 e che hanno dimostrato come il Dipartimento di Stato americano fosse particolarmente preoccupato per le sorti della nostra democrazia nel quinquennio 1960/1964; ma è pure il caso dei fascicoli consegnati da Downing Street all’archivio nazionale britannico, fascicoli dai quali emerge che, nel mezzo della crisi petrolifera del 1973, il primo ministro Edward Heath temeva che gli Stati Uniti volessero invadere l’Arabia Saudita ed altri Paesi del Golfo Persico per assicurarsi i rifornimenti di petrolio.
Sempre i National Archives inglesi, nel 2003, hanno consegnato l’intero fondo di cinque milioni di foto, scattate da aerei da ricognizione della RAF nell’estate del 1944, alla Keele University perché l’adattasse in forma digitale. L’archivio fotografico così recuperato ha mostrato il campo di Auschwitz-Birkenau “al lavoro”.
Pure in questo caso le polemiche sul perché tale documentazione sia rimasta “sepolta” per quasi 60 anni nei National Archives non sono mancate (foto simili erano state pubblicate negli Stati Uniti già nel 1978 e Dino Brugioni, fotografo che volava sui bombardieri americani e che poi lavorò per la CIA, ha ricordato che la tecnologia odierna permette di ingrandire le foto decine di volte sino a riconoscerne i dettagli, cosa impossibile nel 1944 ed estremamente difficile alla fine degli anni Ottanta), così come non mancano quelle sui 290.000 nomi contenuti nella Zentrale, la “Centrale” del Ministerium fur Staatssicherheit (il ministero della Sicurezza di Stato della Germania dell’Est, da cui dipendeva la STASI).
Ampi spazi della Zentrale appartengono alla Birthler Behoerde, la commissione governativa incaricata di esaminare 17 milioni e mezzo di schede personali, un milione di microfilm, 90.000 tra film, video e nastri, 18.000 supporti elettronici, 80 chilometri di cartelle dattiloscritte ed una quantità di armadi ancora sigillati con il piombo.


Non pochi ritengono che gli archivi dei Servizi di sicurezza dovrebbero essere piombati a tempo indeterminato, anche dopo l’esaurirsi dei fatti coperti da segreto.
In effetti, la storia delle polizie informative – e le vicende della documentazione della STASI in qualche modo lo confermano – insegna che l’apertura degli archivi, in ordine a fatti esauriti o ritenuti esauriti, ha spesso suscitato polemiche sia per quel che concerne l’accessibilità alla documentazione, sia per quanto riguarda la distruzione della stessa. D’altronde, la gestione degli archivi, la conservazione e lo scarto dei documenti, se sono operazioni tutt’altro che burocratiche per un ente locale o un ufficio statale, lo sono ancora di meno per le forze dell’ordine e per i Servizi di informazioni e sicurezza.
Però, in un contesto come quello italiano, dove si fatica a comprendere che la documentazione prodotta ed accumulatasi nel corso del tempo, se catalogata e ben ordinata, può tornare utile in diversi momenti della vita di una pubblica amministrazione, le carte di polizia rappresentano un qualcosa di qualitativamente diverso dai fascicoli aperti da altre strutture.
Le carte di polizia, infatti, sono quelle relazioni redatte da quanti appartengono a strutture che operano nel campo della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Le carte di polizia, che si presentano come “surrogatorie” di serie documentarie mancanti e che nel nostro Paese costituiscono la parte numericamente più cospicua dei fondi conservati presso gli Archivi di Stato, differiscono a seconda che siano state prodotte dalle forze dell’ordine (soprattutto statali) oppure dai Servizi segreti, cioè da apparati differenti per organizzazione, organici, competenze e, soprattutto, status del personale. Non deve infatti dimenticarsi che il poliziotto italiano, rivestendo la qualifica di agente e di ufficiale di polizia giudiziaria – oltre che quella di pubblica sicurezza – a seconda del grado ricoperto, si muove più nel quadro della legalità (cioè della conformità a legge) che in quello della legittimità (cioè del non contrario a legge). Per gli appartenenti ai Servizi segreti, che non rivestono tale qualità, il rapporto è invertito, tanto che i documenti che loro redigono sono più propriamente delle informative di intelligence.


Per meglio comprendere la peculiarità di tali documenti rispetto alle altre carte di polizia (essendo difficile non considerare i Servizi segreti quali organi di polizia amministrativa in servizio permanente con precise attribuzioni nella difesa della sovranità interna ed internazionale dello Stato), appare opportuno soffermarsi sul concetto di intelligence e su quello di information.
Malgrado i lusinghieri giudizi degli stranieri, secondo i quali la nostra lingua è caratterizzata dalla ricchezza dei suoi vocaboli, capita spesso che ci si trovi in difficoltà di fronte a termini la cui corrispondente versione italiana o non esiste oppure è insufficiente.
Tale mancanza di ineccepibile corrispondenza la si ritrova anche quando si è chiamati a rapportare il vocabolo informazione agli equivalenti inglesi intelligence ed information. La nostra lingua costringe ad utilizzare un termine unico, anche se con la distinzione (sottile ma importante) che lo vuole ora al singolare, ora al plurale. Così, chi opera nel campo dell’intelligence svolge un’attività concettuale (latino intelligentia), volta a costruire una situazione complessiva mediante la raccolta ordinata di informazioni; invece, chi ha a che fare con l’information (latino informatio), bada soprattutto alla acquisizione ed alla divulgazione di notizie.
Le informative di intelligence sono dunque particolarissime carte di polizia che raccolgono (attraverso quattro principali tipi di fonti: Humint, cioè l’intelligence per opera esclusiva dell’uomo; Osint, che è l’intelligence delle fonti aperte, come i giornali; Sigint, operante attraverso il monitoraggio e l’acquisizione di dati con mezzi elettronici;Reconnaissance, consistente nell’interpretazione di immagini satellitari ottenute con mezzi aerei), coordinano, analizzano, valutano e disseminano (nel senso di forniscono) all’Esecutivo ed alle forze dell’ordine – che le fanno proprie con un autonomo rapporto – atti, documenti e materiali relativi a fatti, situazioni e persone non ottenibili con la normale attività di p.g. e di p.s.
Le forze dell’ordine svolgono anch’esse intelligence, ma si tratta di un’ intelligence operativa (che potrebbe definirsi tattica), riguardante specificatamente il fatto, mentre quella dei Servizi segreti è strategica avendo ad oggetto il fenomeno. In taluni casi può interessarsi del fatto, ma solo come elemento per ricostruire un fenomeno. Anche in questo caso, la lingua straniera spiega meglio: per i tedeschi, infatti, l’intelligence della polizia opera nel e sul Feld, cioè su e nel campo, in relazione ad individui ed a fatti concreti; l’intelligence dei Servizi, al contrario, si esplica nel Vorfeld, cioè nel e sul retro campo in relazione soprattutto ai fenomeni.
L’intelligence dei Servizi, inoltre, può anche avere carattere di ausilio per le forze dell’ordine, la cui attività d’intelligence ha, come unico scopo, il migliore e motivato espletamento delle funzioni di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria. Ma la differenza fondamentale tra i due tipi di carte di polizia risiede nel diverso interesse primario a cui le forze dell’ordine ed i Servizi segreti sono destinati. Usando le categorie di legalità e di legittimità trattate nel 1932 dal politologo tedesco Carl Schmitt nel suo Legalitat und Legitimitat, si può affermare che il fine primario dei Servizi è la loro legittimità, cioè la loro connessione con gli interessi fondativi del regime politico, mentre quello dei corpi di polizia è invece la legalità, cioè la realizzazione degli interessi canonizzati dalla legge e solamente nelle forme previste dalla legge, sia sotto il profilo preventivo che repressivo.
Sulla base di tali categorie, utilizzabili in rapporto allo scarto archivistico (potendo giustificarsi l’eventuale distruzione dei documenti prodotti illegalmente, fatti salvi gli accertamenti penali, civili ed amministrativi, da quelli prodotti illegittimamente, che andrebbero comunque conservati perché rientranti nella sfera politica), si può comprendere la specificità dell’informativa di intelligence, che discende dalla stessa essenza segreta delle strutture, del personale e del modus operandi dei Servizi, ai quali dunque non può esser chiesta quella stessa trasparenza che si pretende dalle forze di polizia. Non può parlarsi, per fare un esempio, di URP dei Servizi (operanti invece, per fare un esempio, nelle questure), anche se negli elenchi telefonici americani, assieme a quello degli ospedali, c’è pure il numero della CIA. La Central Intelligence Agency è probabilmente l’unica polizia informativa che, in tutto il mondo, segnala l’ubicazione del suo quartier generale sui cartelli stradali (chi varca il fiume Potomac, entra in Virginia e prende la 123, se lo trova davanti); ma è forse l’unica concessione alla trasparenza che contraddistingue la CIA, la quale (come tutti i Servizi segreti) fornisce soprattutto un prodotto, in funzione di una gerarchia decrescente di interessi, ad uso dell’Esecutivo per perseguire finalità politiche delle quali risponde di fronte alla pubblica opinione (cosa che non devono fare le polizie informative).
L’apertura, dunque, di un fascicolo da parte dei Servizi (è da notare che, in Italia, in tutte le denominazioni – CESIS, SISMI, SISDE, RIS –è sempre presente il sostantivo plurale informazioni che precede il vocabolo singolare sicurezza, ad ulteriore dimostrazione della loro natura di polizia informativa. I due vocaboli, comunque, sono tra loro concettualmente collegati, non potendo esistere una sicurezza senza le informazioni e rimanendo sterili le informazioni se non fossero adottati i dispositivi per la sicurezza) presenta una valenza diversa proprio perché finalizzata alla creazione di una carta di polizia speciale che è l’informativa di intelligence; ed è speciale poiché i Servizi segreti “non sono assimilabili a rami della pubblica amministrazione e, in particolare, a strutture ministeriali perché la legge 801 intese tenerle fuori dall’apparato statale”, come si legge nella sentenza 1876/1986 (che si vedrà meglio in seguito) del Consiglio di Stato.


Aprire un fascicolo è una espressione entrata nell’uso corrente in diversi campi ed indica la formazione di un dossier, l’inizio di un’inchiesta, la raccolta di dati relativi ad un certo affare. Fascicolare, cioè formare un fascicolo su un argomento, un fatto, una persona, è un neologismo che non si ritrova nei dizionari della lingua italiana, dove invece si trova il sostantivo fascicolo e l’aggettivo fascicolato. Neppure il termine faldone viene riportato nei vocabolari, nonostante gli archivi contengano migliaia di queste cartelle nelle quali sono raggruppati più fascicoli.
Il fascicolo costituisce l’unità di base indivisibile di un archivio, parola con la quale si intende sia il locale dove vengono conservati i fascicoli, sia il complesso dei documenti prodotti od acquisiti da un ente durante lo svolgimento della propria attività sia, infine, il fondo documentario che, all’interno di un Archivio di Stato o di un qualsiasi istituto in cui siano concentrati archivi di diversa provenienza, presenti carattere di unitarietà.
Il documento viene definito dall’art. 2 del Codice deontologico approvato il 14 marzo 2001 dal Garante per la privacy come “qualunque testimonianza scritta, orale o conservata su qualsiasi supporto che contenga dati personali”. Esso acquisisce una posizione ufficiale all’interno dell’ente dal momento in cui viene assunto a protocollo.
Sul protocollo avviene dunque la registrazione, la classificazione e la distribuzione, per la successiva trattazione, del documento. Pertanto, così come ribadito dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il protocollo può definirsi un atto pubblico di fede privilegiata che memorizza ogni documento ricevuto o spedito dalle pubbliche amministrazioni.
Protocollo ed archivio sono concettualmente inscindibili. Già sul finire degli anni Trenta Giorgio Cencetti, nell’elaborare il concetto di archivio, affermava l’impossibilità di differenziare l’ufficio di protocollo dall’archivio e l’archivio corrente da quello di deposito essendo tutto “semplicemente archivio”. Più vicini a noi, altri due studiosi della materia, Giuseppe Plessi ed Antonio Romiti hanno eletto il protocollo a strumento essenziale per la corretta formazione ed il regolare ordinamento dell’archivio, concludendo sulla natura “simbiotica” della documentazione amministrativa e di quella storica. Del resto, già la Commissione presieduta dal conte Luigi Cibrario, istituita con decreto 15 marzo 1870 dai ministri dell’Interno e della Pubblica Istruzione per affrontare il problema del riordinamento degli archivi statali, aveva rifiutato la distinzione tra archivio amministrativo ed archivio storico proprio sulla base dell’impossibilità di considerare separatamente, sul piano concettuale, il documento amministrativo ed il documento storico.
L’inscindibilità di archivio e protocollo è stata recentemente ribadita sia dal D.P.R. 445/2000, sia dal decreto con il quale, il 14 ottobre 2003, il ministro per l’Innovazione e le Tecnologie ha approvato le linee guida per l’adozione del protocollo informatico e per il trattamento informatico dei procedimenti amministrativi. In base a tali disposizioni, la protocollazione e l’archiviazione si identificano non più come sovrastrutture burocratiche, bensì con il servizio di connettivo idoneo a gestire i flussi procedimentali e ad attuare la migliore organizzazione dei documenti. Documenti che la pubblica amministrazione, periodicamente, provvede a proporre per lo scarto od il versamento. Il primo è l’operazione con cui si destina al macero una parte del fondo archivistico, mentre il versamento consiste nel trasferimento, all’Archivio di Stato competente per territorio, dei fascicoli (ritenuti dalla Commissione di sorveglianza sugli archivi statali non più occorrenti alla trattazione degli affari) dopo che siano state eseguite le operazioni di scarto.
La fase dello scarto rappresenta un momento fondamentale nella gestione degli archivi. Il suo svolgimento porta alla selezione dei documenti da conservare nell’archivio di deposito ed alla distruzione, secondo le procedure stabilite dall’art. 35 del D.P.R. 1409/1963, di quelli ritenuti inutili.
Lo scarto non solo consente di eliminare documenti inutili e recuperare spazio nei locali, ma anche qualifica la documentazione archivistica in modo tale da rendere possibile il suo versamento, decorsi i 40 anni previsti dall’art. 23 del citato D.P.R. 1409/1963, all’Archivio di Stato.
Accade però che tanto norme interne, quanto prassi consolidatesi nel tempo, portino ad effettuare le operazioni di scarto e versamento in tempi e con modalità non omogenee, soprattutto per quanto concerne le carte di polizia. Emblematico, a tale proposito, il caso del II reparto del Comando generale della Guardia di finanza che, come ha ricordato il senatore Massimo Brutti, presidente del Comitato per i Servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato nella XII Legislatura e, nella successiva, sottosegretario alla Difesa, non ha mai distrutto la documentazione nel corso della sua attività di intelligence con riferimento al contrabbando, al riciclaggio ed ai reati di tipo finanziario.
Grosso modo, comunque, uno scarto, in tempi più o meno lunghi, è sempre previsto dalle strutture di polizia.
Così, i fogli di servizio in base ai quali operano i militari delle Fiamme gialle in forza ai nuclei di polizia tributaria devono essere conservati per 30 anni, mentre i fascicoli riguardanti persone che hanno compiuto reati non possono essere rimossi dagli archivi correnti delle questure per dieci anni. Decorsi tali periodi, è possibile procedere allo scarto degli atti ed al versamento dei fascicoli all’Archivio di Stato.
La documentazione conservata presso l’Archivio centrale di Stato di Roma, gli Archivi di Stato provinciali e sezionali, gli archivi degli uffici statali (prefetture, questure, tribunali, etc.) è, ai sensi dell’art. 21 del D.P.R. 1409/1963 (modificato dall’art. 8 del decreto legislativo 281/1999), liberamente consultabile, ad eccezione di quella di carattere riservato riguardante la politica estera ed interna del Paese (che viene aperta al pubblico dopo 50 anni), di quella riguardante processi penali (che diviene accessibile dopo 70 anni) e di quella contenente i dati di cui agli articoli 22 e 24 della legge 675/1996, consultabile invece dopo 40 anni che divengono 70 se i dati sono idonei a rilevare lo stato di salute, la vita sessuale o i rapporti riservati di tipo familiare. Per scopi storici può essere autorizzata dal ministro dell’Interno, previo parere del direttore dell’Archivio di Stato e sentita la commissione per le questioni inerenti alla consultabilità degli atti d’archivio riservati istituita presso il Viminale, la consultazione di questi documenti anche prima di tali scadenze (art. 21, 2° comma, del D.P.R. 1409/1963 modificato dal citato art. 8 del decreto legislativo 281/1999 ed artt. 1 e 6 del D.P.R. 854/1975).
L’autorizzazione del ministro si giustifica alla luce delle dispute nate immediatamente dopo l’unità d’Italia, quando si pose il problema del dicastero al quale affidare il coordinamento delle attività archivistiche. Per taluni, infatti, essendo le finalità di consultazione dei documenti di tipo culturale, la competenza avrebbe dovuto essere del ministero della Pubblica istruzione; per altri era di tipo politico, con implicazioni di riservatezza e, di conseguenza, competente avrebbe dovuto essere il dicastero dell’Interno; per altri ancora la natura demaniale degli archivi individuava nel ministero delle Finanze il coordinatore più adatto; per altri, infine, la prevalenza degli atti giudiziari nei fondi archivistici consigliava un coordinamento da parte del ministero di Grazia e Giustizia. Alla fine, sulla base dei lavori che la citata Commissione Cibrario aveva concluso il 13 aprile 1870, con il regio decreto 1852 del 5 marzo 1874 tutti gli archivi statali vennero posti alle dipendenze del ministero dell’Interno (art. 1).
Quest’assetto è rimasto operante sino al 1975, anno in cui si procedette a demandare tutte le competenze in tale campo al neonato ministero dei Beni culturali ed ambientali (ora ministero per i Beni e le Attività culturali, recentemente riorganizzato con il decreto legislativo 3/2004), sempre mantenendo però, in capo al ministro dell’Interno, la già vista autorizzazione per i documenti riservati.


Da quanto precede, si può notare come dalla diatriba in materia di coordinamento delle attività archivistiche siano rimasti fuori i ministeri degli Esteri e della Difesa. Tale esclusione non attiene tanto e solo alle funzioni istituzionali dei due dicasteri, quanto ad una sorta di sacertà della rispettiva documentazione che, infatti, ai sensi del D.P.R. 1409/1963, come modificata dal decreto legislativo 490/1999 e dal D.P.R. 37/2001, non viene versata all’Archivio di Stato.
Gli articoli 25 e 27 del D.P.R. 1409 sono stati espressamente citati dal Consiglio di Stato, che era stato chiamato ad esprimere un parere sugli archivi e sulla documentazione dei Servizi di informazione e sicurezza.
Con il parere n. 1876 della I Sezione, il Consiglio di Stato, il 14 novembre 1986, aveva riconosciuto, nel coacervo dei poteri attribuiti dall’art. 1 della legge 801/1977 al Presidente del Consiglio, nella sua qualità di Autorità nazionale per la Sicurezza (qualità già riconosciuta da Randolfo Pacciardi, ministro della Difesa dal 1948 al 1953, con la circolare interna emanata il 30 marzo 1949, cioè 6 anni prima che il Consiglio atlantico, con le norme approvate il 2 maggio 1955, vincolasse gli Stati membri della Nato per quanto riguardava le attribuzioni in materia del Capo del Governo), pure la facoltà di emanare disposizioni ad hoc nel campo archivistico, anche in deroga alla legislazione di carattere generale.
“La Sezione – si legge nel parere – concordando con l’Amministrazione riferente, ritiene che il delicato settore di materie in cui i predetti Servizi sono chiamati ad operare presenta, in modo chiaro e sicuro, caratteri di assoluta specificità e riservatezza e che tali caratteri postulano, inequivocabilmente, una particolare disciplina relativamente ai sopra specificati profili, riguardanti l’esercizio della vigilanza sugli archivi e le procedure di scarto degli atti esistenti negli uffici degli uffici dei Servizi stessi”.
La Sezione citava sia l’art. 72 del R.D. 1163/1911 (“gli atti che hanno carattere di riservati possono rimanere presso l’ufficio dal quale emanarono fino a quando sia creduto prudente, nell’interesse così del pubblico come dei privati, dal ministero da cui l’ufficio dipende”), sia gli articoli 25 e 27 del D.P.R. 1409/1963 concernenti, rispettivamente, le Commissioni di sorveglianza e lo scarto di documenti degli uffici statali. Questi articoli “escludono, in modo espresso, dalla generale disciplina negli stessi contenuta, i ministeri degli Affari esteri e della Difesa, in relazione, chiaramente, alla natura riservata” (25 anni dopo, l’art. 1, n° 2, del D.P.R. 37/2001 ha ribadito l’istituzione delle Commissioni di sorveglianza sugli archivi e per lo scarto dei documenti degli uffici statali “presso gli uffici giudiziari non inferiori ai tribunali e presso gli uffici centrali, interregionali, regionali, interprovinciali e provinciali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, ad esclusione dei ministeri degli Affari esteri e della Difesa”).
In conclusione, la I Sezione del Consiglio di Stato faceva rientrare nel nucleo dei poteri attribuiti al Capo dell’Esecutivo dall’art. 1 della legge 801/1977 anche “l’emanazione di disposizioni che introducono – relativamente agli specifici profili suindicati e per gli organismi di cui trattasi – una particolare disciplina archivistica che, in armonia con l’evidenziato principio di riservatezza contribuisce ad un più funzionale esercizio delle attività attinenti ai fini di cui al primo comma dello stesso art. 1 (interesse e difesa dello Stato democratico e delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento)”.


Sulla base di questo parere, il Presidente del Consiglio Giovanni Goria, con una direttiva del 16 febbraio 1988 (giova ricordare che il 7 gennaio dello stesso anno era stata approvata la relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sui Servizi che la commissione affari costituzionali della Camera aveva iniziato il 1° ottobre 1987. Nella relazione si chiedeva, fra l’altro, che venisse stabilito un termine oltre il quale il segreto sul materiale documentario decadesse automaticamente), fissava i principi di base per l’organizzazione degli archivi dei Servizi di sicurezza, prevedendo pure l’istituzione di apposite strutture con compiti di sorveglianza, predisposizione delle operazioni di scarto, indagine, studio e formulazione di proposte in materia di gestione e tenuta dei fascicoli. I principi di tale direttiva furono resi esecutivi il 28 aprile dal SISMI e dal SISDE con appositi provvedimenti.
L’8 novembre di cinque anni dopo, con una circolare di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca Capo del Governo, si disponeva la conservazione degli atti relativi alle spese riservate, a chiusura di ogni esercizio, in busta sigillata per dieci anni, decorsi i quali si prevedeva la possibilità di distruggerli. La stessa circolare prevedeva inoltre la nomina, da parte dei direttori del SISDE del SISMI, delle commissioni di cui alla direttiva del 16 febbraio 1988, con il preciso compito di indicare i documenti dei quali viene progressivamente meno l’uso per fini istituzionali.
Il 3 luglio 1995 il prefetto Umberto Pierantoni, segretario generale del CESIS dal luglio 1994 all’ottobre 1996, inviava una circolare la quale, su disposizione dell’allora Presidente del Consiglio Lamberto Dini, bloccava qualsiasi distruzione di ogni atto prodotto o detenuto dai Servizi. Il divieto presupponeva che venisse varata una regolamentazione organica e definitiva sia in materia di archivi dei Servizi sia, soprattutto, con riferimento al segreto di Stato.
Nel frattempo, si provvedevano ad emanare i decreti ministeriali, previsti dall’art. 24 della legge 241/1990 e dall’art. 8 del D.P.R. 352/1992, al fine di individuare le categorie di documenti sottratti all’accesso. Nel 1995, con il decreto 519 del 14 giugno, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 6 dicembre, il ministero della Difesa approvava, con un articolo unico, le tabelle (poi modificate dal decreto 86 del 27 febbraio 1998 e dal decreto 486 del 3 novembre 1999) di tali documenti, individuando 42 tipologie interessanti la salvaguardia della sicurezza della difesa nazionale, delle relazioni internazionali, dell’ordine pubblico, della prevenzione e repressione della criminalità, della riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese.
Da parte sua, il dicastero dell’Interno aveva già provveduto il 10 maggio 1994 con il decreto 415, poi integrato e modificato con il decreto 508 del 17 novembre 1997; sempre nel 1994, i regolamenti del ministero degli Esteri (decreto 604 del 7 settembre) e del dicastero dei Beni culturali ed ambientali (decreto 682 del 26 ottobre) indicavano, tra le categorie di atti sottratti all’accesso, i documenti coperti dal segreto di Stato, ai sensi dell’art. 12 della legge 801/1977. È da notare che in tutti i regolamenti, compreso quello successivo del ministero delle Finanze (decreto 603 del 29 ottobre 1996), l’individuazione degli atti per i quali vige il divieto d’accesso ai sensi dell’art. 24 della legge 241/1990 è stata effettuata con criteri di omogeneità, prescindendo cioè dalla denominazione specifica che ciascuno dei documenti assume nella quotidiana prassi amministrativa.
L’8 maggio 1997, il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi, presieduto dal deputato Franco Frattini, nella relazione avente ad oggetto la raccolta e la conservazione delle informazioni riservate, dopo aver espresso taluni dubbi di carattere tecnico sulla gestione dei fascicoli (era stato rilevato, ad esempio, che il sistema di archiviazione e classificazione delle note predisposte dalle fonti informative “non prevedeva una protocollazione numerata di tutti i fogli in ordine progressivo, in modo da impedire il ricorso alle cosiddette schede galleggianti” cioè inseribili o estraibili al di fuori di qualunque norma archivistica) si auspicava “l’opportunità della distruzione dei fascicoli privi di interesse per le finalità istituzionali” (distruzione fra l’altro imposta da una direttiva emanata sin dal 9 novembre 1996, immediatamente dopo il suo insediamento al vertice del SISDE, dal prefetto Vittorio Stelo), anche al fine di procedere ad “una organica revisione degli archivi diretta alla progressiva eliminazione” di tali documenti, “acquisiti e indebitamente conservati”.
L’Esecutivo teneva conto di tali indicazioni e dopo due anni veniva emanata una direttiva “di vietata divulgazione” con la quale il vicepresidente del Consiglio Sergio Mattarella disponeva la distruzione, entro il 30 giugno 2000, di tutti i fascicoli illegalmente raccolti e conservati negli archivi di CESIS, SISMI e SISDE. La direttiva prevedeva l’istituzione, da parte del Governo, di tre commissioni interne ai Servizi e tre esterne (composte, queste ultime, da giuristi, magistrati, studiosi di archivistica e storici) al fine di vigilare sulla correttezza delle operazioni di scarto.
La direttiva Mattarella, emanata il 30 giugno, diveniva di dominio pubblico tra l’11 ed il 12 agosto 1999; sulla Gazzetta Ufficiale del successivo 24 agosto veniva pubblicato il D.P.R. 294 del 10 marzo dello stesso anno che, in 4 articoli, regolamentava la disciplina delle categorie dei documenti dei Servizi di sicurezza sottratti al diritto d’accesso.
L’art. 4 del D.P.R. 294 disponeva un periodo di segretazione di 15 anni per gli atti inerenti alle infrastrutture, alle dotazioni, alle sedi ed ai mezzi di CESIS, SISDE e SISMI, oltre che ai progetti ed ai sistemi attinenti alla tutela della sovranità interna ed esterna dello Stato, di 20 anni per la documentazione concernente “strutture pubbliche o private che assumano, anche occasionalmente, rilievo ai fini della sicurezza, della difesa nazionale e delle relazioni internazionali” e di 50 per i restanti documenti in grado di pregiudicare la sicurezza interna, le relazioni estere e la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese.


Esattamente quattro anni dopo la direttiva del vicepresidente Mattarella (è da notare come le norme “interne” emanate dal 1978 al 2002 in materia di archivi di CESIS, SISMI e SISDE siano state 154, a dimostrazione di quanto il problema sia sempre stato tenuto presente. Lo stesso Copaco, secondo quanto riportato dalla stampa il 18 maggio 2002, avrebbe deciso la costituzione, al suo interno, di un gruppo di lavoro per studiare proprio il problema costituito dalla rilevante estensione degli archivi dei tre organismi), il decreto legislativo 196 del 30 giugno 2003 metteva ordine nel campo della protezione dei dati personali con un testo unico, chiamato codice dall’art. 2, che ha riformato interamente la materia attraverso l’abrogazione e la sostituzione di 11 tra leggi
e decreti.
Il “codice della privacy”, approvato sulla base della delega conferita all’Esecutivo con l’art. 1, comma 4 della legge 127/2001 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2004 (lo stesso giorno in cui è divenuto obbligatorio l’utilizzo del protocollo informatico da parte delle pubbliche amministrazioni), si presenta ora come un organico corpus in cui sono riunite le disposizioni normative e regolamentari, anche alla luce della pluriennale attività d’interpretazione svolta dal Garante.
Gli articoli che vanno dal 53 al 58 del codice disciplinano il trattamento dei dati da parte delle forze di polizia e degli organismi di informazione. Per questi ultimi, l’art. 58, posto all’interno del Titolo III (Difesa e sicurezza dello Stato), prevede un’applicazione limitata, rinviando a successivi decreti del Presidente del Consiglio sia le misure di sicurezza relative ai dati trattati dal CESIS, dal SISMI e dal SISDE, sia le modalità di applicazione delle disposizioni del codice “in riferimento alle tipologie di dati, di interessati, di operazioni di trattamento eseguibili e di incaricati, anche in relazione all’aggiornamento e alla conservazione”.
E di conservazione si parla pure nel disegno di legge con il quale
il Governo ha previsto alcune modifiche ed integrazioni alla legge 801/1977. Il disegno, approvato dal Senato il 7 maggio 2003 ed assegnato alla commissione affari costituzionali della Camera il successivo 14 maggio (nel momento in cui scriviamo, l’atto 3951 non è stato ancora esaminato), inserisce, con l’art. 4 (garanzie funzionali), l’art. 10 quater dove, al n. 5, è stabilito che la documentazione relativa alle modalità comportamentali di cui al precedente art. 10 bis (“fermo restando quanto disposto dall’art. 51 del codice penale, non è punibile il personale dei Servizi per le informazioni e la sicurezza che tiene una condotta costituente reato durante la predisposizione o l’esecuzione di operazioni deliberate ed autorizzate, per il raggiungimento delle finalità istituzionali”) viene “conservata in apposito schedario segreto unitamente alla documentazione relativa alle spese correlate secondo le norme organizzative dei Servizi”.
Il successivo art. 6, sostituendo l’art. 12 della legge 801/1977 ed aggiungendo nuovi articoli, disciplina l’acquisizione di atti in possesso dei Servizi da parte della magistratura (art. 12 quater) e modifica la disciplina del segreto di Stato, che arriva a coprire i documenti, le notizie e le attività la cui conoscenza, al di fuori degli ambiti autorizzati, mette in pericolo o danneggia l’integrità e l’indipendenza della Repubblica, la difesa delle istituzioni democratiche, il libero esercizio delle funzioni statali, la difesa militare e gli interessi economici del Paese.
Il vincolo derivante dal segreto di Stato (annotato, ove possibile e secondo le disposizioni del Presidente del Consiglio, su tutti gli atti che ne sono oggetto) cessa decorsi 15 anni dalla sua apposizione, tranne che per i documenti particolarmente sensibili (come, ad esempio, i sistemi di sicurezza militare oppure le fonti, l’identità del personale, la dislocazione delle strutture operative e la struttura organizzativa di SISMI e SISDE).
Tutta la documentazione classificata, inclusa quella dei Servizi, viene declassificata e versata all’Archivio di Stato. Il Capo del Governo, nella sua veste di Autorità nazionale per la sicurezza, può ritardare sino a 10 anni tali operazioni, ma “con provvedimento motivato” e limitatamente agli atti particolarmente sensibili individuati dal n. 4 dell’art. 12 bis.
In ogni caso, i 10 anni di ritardo delle operazioni di declassificazione, così come i 15 anni fissati come termine generale della durata del segreto di Stato, appaiono la soglia minima affinché la rilevazione di fatti e vicende classificate possa presumersi non più idonea a recar danno alla sovranità interna ed esterna della Repubblica italiana. Il disegno di legge governativo ha quindi ritenuto valido l’assunto in base al quale un sistema basato sul segreto temporaneo risulta più coerente con i principi di un Paese democratico, essendo uno dei parametri che permettono di giudicare l’efficienza e l’efficacia delle polizie informative non tanto la “quantità” degli atti classificati che producono, ma pure la durata della dicitura “riservato” o “segreto” stampigliata sul fascicolo.
È interessante notare come tale disciplina in materia di documentazione classificata abbia fatto tesoro, anche se solo in parte, del lavoro svolto dalla Commissione Jucci (dal nome del suo presidente, il generale Roberto Jucci, già comandante dell’Arma dei carabinieri), costituita con D.P.C.M. 26 marzo 1997 allo scopo di delineare una riforma dei Servizi di sicurezza ed informazione. La Commissione, costituita da otto esperti di alto livello, aveva concluso i suoi lavori il 19 novembre dello stesso anno con una proposta, composta di 66 articoli preceduti da un’introduzione di 52 pagine, che fissava un termine di due anni per i documenti riservati, di cinque per quelli riservatissimi, di dieci per quelli segreti e di 15 per quelli segretissimi. Eccezionalmente, questi termini potevano essere raddoppiati per i singoli atti, mentre solo per quelli oggetto di segreto di Stato, in casi eccezionali e con comprovata motivazione, poteva essere apposto un segreto cinquantennale.


Tanto la proposta della Commissione Jucci, quanto l’atto Camera 3951, presentano degli elementi di indubbia originalità soprattutto se si pensa che sul tema della gestione degli archivi e dei documenti dei Servizi segreti non esistono particolari esperienze straniere che, sul piano comparativistico, risultino utili a definire agevolmente l’impostazione generale di riferimento.
È il caso, ad esempio, degli Stati Uniti e della Germania, due Paesi citati all’inizio di questo articolo. Nel primo, il Freedom of Information Act (FoIA), approvato il 4 luglio 1967 ed entrato in vigore il 19 febbraio 1975, permette ad ogni cittadino di chiedere la declassificazione di documenti non ancora consultabili.
Il +FoIA[ riconosce a tutti, americani e stranieri, il diritto d’accesso a qualunque documento, eccezion fatta per 9 tipologie tassativamente elencate e che sostanzialmente riguardano la politica estera, la difesa e la sicurezza nazionale.
Alla richiesta del cittadino, l’amministrazione è obbligata a rispondere. La risposta, generalmente, arriva nell’arco di un anno e, qualora questa fosse negativa, è possibile presentare ricorso. Se questo viene respinto, è possibile citare in giudizio la stessa amministrazione, sostenendone però le spese ed allungando i tempi dell’intera procedura (che può così arrivare anche a tre anni). Tale sistema è stato adottato, ad esempio, dal National Security Archive, un istituto privato di ricerca che ha ottenuto il rilascio, da parte del Dipartimento di Stato, di una documentazione relativa alla crisi cubana del 1962 che l’ufficio legale del Dipartimento si era rifiutato di far declassificare.
Il FoIA, in pratica, capovolge il principio di presunzione di legittimità dell’azione amministrativa: compete infatti all’amministrazione provare la legittimità del diniego e non al richiedente provare la fondatezza della sua richiesta. Rispetto alla precedente normativa, il Federal Amministrative Procedure Act dell’11 giugno 1946, la differenza è notevole, giacché il diritto d’accesso era riconosciuto solo ai diretti interessati i quali potevano vedersi opposto un segreto desunto da general rules quali, ad esempio, la confidenzialità della notizia, l’interesse pubblico, la difesa della Nazione. Avverso la decisione di segretazione, poi, non era prevista alcuna possibilità di ricorso davanti al giudice.
Con riferimento al primo emendamento della Costituzione statunitense, il FoIA rende invece applicabile il right to know ribadendo il principio secondo il quale tutta la documentazione amministrativa appartiene al popolo. Con l’emendamento approvato il 19 febbraio 1975, la principale eccezione al diritto d’accesso, che nel FoIA veniva individuata nelle nove tipologie prima accennate, risultò radicalmente trasformata con la concessione al giudice del potere di sindacare se la segretazione corrispondesse effettivamente ai criteri generali previamente stabiliti dall’Esecutivo nell’interesse della sicurezza nazionale e della politica estera.
Nel 1982, con l’Executive Order 12356, l’amministrazione Reagan introdusse dei criteri più restrittivi che, in taluni casi, portarono alla riclassificazione di materiale già consultabile. Le pressioni degli studiosi spinsero il Congresso ad approvare, il 28 ottobre 1991, la Public Law 102-138 che, successivamente emendata dall’Executive Order 12958 del 17 aprile 1995, ha ulteriormente incentivato la declassificazione dei documenti da parte degli enti federali.
Attualmente, dunque, a meno che un fascicolo non tratti una delle 9 categorie volte a tutelare la politica estera e la difesa nazionale, ciascuna agenzia federale è tenuta a declassificare ogni cinque anni tutta la sua documentazione più vecchia di 25 anni; inoltre, è previsto l’obbligo annuale di declassificare una serie, previamente individuata, del proprio fondo archivistico.
Il FoIA, così come modificato, si applica pure ai Servizi di sicurezza ed informazione, comprese la DIA e la CIA. Quest’ultima, però, ha proceduto soprattutto a declassificare – e quindi a rendere consultabile – la documentazione dell’OSS (Office of Strategic Services) sulle cui ceneri è sorta, nel 1947, la Central Intelligence Agency.
In ogni caso il FoIA (che convive con il Presidential Records Act e con il Privacy Act, due norme disciplinanti il primo la formazione, la conservazione e la gestione degli archivi del Presidente degli Stati Uniti ed il secondo la tutela della riservatezza dei singoli cittadini) offre una chiave d’accesso alle carte di polizia della quale gli studiosi, e non solo quelli americani, fanno un notevole uso. Chiaramente, questa normativa (che deve esser analizzata anche alla luce del Government Performance and Results Act, varato dal Congresso nel 1993 con il dichiarato scopo di tagliare il red tape, il nastro rosso con il quale si annodavano i fascicoli; la locuzione red tape è stata spesso usata come sinonimo dell’accumulo fuori misura della documentazione amministrativa dovuta alle carenze gestionali in tema di scarto e di versamento degli atti) non deve essere enfatizzata, come dimostrato dal caso degli archivi del FBI, già trattato da questa rivista (si veda il numero 26 del quadrimestre maggio/agosto 2003) e che si reputa opportuno riassumere brevemente.
Nel giugno del 1979 alcuni giornalisti, studiosi ed appartenenti ad associazioni per la tutela dei diritti civili si rivolsero alla Corte distrettuale della Colombia per porre fine alla distruzione dei documenti del +Federal Bureau of Investigation (FBI[, una delle 20 polizie federali operanti negli Stati Uniti) e per contestare una decisione sui criteri valutativi per lo scarto. Nel corso del processo (American Friends Service Committee et al. Versus William H. Webster et al.) , l’FBI lamentò che gli informatori, per timore che i loro nomi potessero diventare di pubblico dominio, erano divenuti restii a parlare, affermando pure che la ricerca degli studiosi rischiava di incidere sul reclutamento di personale appartenente alle minoranze. Inoltre, sia l’FBI che il NARS (National Archives and Records Service) riferirono che la quantità di richieste d’accesso era talmente alta da impedire una sollecita risposta e che lo scarto era un modo di gestire il materiale documentario della Polizia federale, in particolare nelle sedi periferiche, costituito da circa 400.000 pagine prodotte quotidianamente.
Il giudice Harold H. Greene, il 10 gennaio 1980, reputò il personale del NARS e del FBI responsabile di aver interpretato il FoIA in modo da favorire la distruzione, anziché la conservazione, della documentazione prodotta dalla Polizia federale ed ordinò di sospendere la distruzione dei fascicoli; inoltre, intimò al NARS la redazione di un piano per la gestione dell’intero fondo archivistico.
Al di là, comunque, di questa vicenda (che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la difficoltà, in questo specifico settore, di bilanciare quattro diritti talvolta configgenti tra loro: il diritto dei cittadini ad accedere agli atti della pubblica amministrazione; il diritto degli studiosi alla libertà di ricerca; il diritto del singolo alla propria privacy; il diritto dello Stato a difendere i propri segreti per difendere se stesso e, di conseguenza, l’intera società, in quanto lo Stato, secondo il noto brocardo ubi societas, ubi ius, non è che la società necessariamente organizzata dal diritto), il FoIA rimane uno degli strumenti migliori posti a disposizione della consultazione storica, soprattutto se paragonato con legislazioni di altri Paesi.
È il caso della Germania, dove la legislazione archivistica, a causa di tre distinte tipologie normative, risulta particolarmente complicata e disomogenea. Nella Repubblica federale tedesca, infatti, esistono le leggi emanate da ogni Land e quelle federali che si distinguono a seconda che il fascicolo sia stato istruito da uno Stato tuttora esistente oppure da uno estinto come la DDR. La documentazione della STASI rientra in questo secondo caso e la regolamentazione dell’accesso ai fascicoli della Staatssicherheitsdienst è effettuata da un apposito ufficio, il Gauck Behorde, che permette solo ai cittadini direttamente coinvolti (quelli calunniati o spiati, per esempio) di visionare la documentazione di diretto interesse. Gli interessati devono però recarsi di persona all’archivio e le informazioni che appaiono nei loro fascicoli, ma che riguardano altri individui, vengono cancellate dalle copie dei documenti posti in visione.
Invece, gli atti prodotti dagli enti federali della BRD sono soggetti alla Bundesarchivgesetz come modificata ed integrata dalla Datenschutz, la legge sulla protezione della privacy. È proprio su tale ultimo aspetto che si notano le maggiori differenze. Il Bundesarchivgesetz prevede infatti la protezione dei dati personali per un periodo di 100 anni dalla nascita o di 30 dalla morte della persona intestataria del fascicolo che si vuole visionare. La legge archivistica del Land Berlin del 29 novembre 1993 (così come quella del Land Brandenburg del 7 aprile 1994 e del Land Sachsen-Anhalt del 28 giugno 1995) prevede, al contrario, che la tutela decada dieci anni dopo il decesso della persona o dopo 90 anni dalla nascita quando la data di morte è sconosciuta.
In generale, comunque, la Bundesarchivgesetz consente la consultazione dei documenti non classificati dopo 30 anni, eccezion fatta per le situazioni puramente private prima accennate. Per quelli classificati (da VS – nur fur den corrispondente a riservato a Streng Geheim, cioè segretissimo), il limite varia a seconda dell’ente produttore. Così, ad esempio, il ministero degli Esteri fa esplicito divieto di consultazione dei documenti con classifica non inferiore a segreto (che neppure vengono versati al Bundesarchiv), il BKA (la Polizia federale) versa regolarmente i propri atti esauriti nell’arco di 30-40 anni e, se classificati, divengono consultabili dopo 80 anni, mentre i Servizi di sicurezza ed informazione (ad esempio il Bundesnachrichtendienst), grazie anche alla Verbrechensbekampfungsgesetz (la legge federale varata il 29 ottobre 1994 in materia di attività di contrasto alla criminalità) sono sostanzialmente esentati dalle norme previste dalla Bundesarchivgesetz.
Un’ultima osservazione riguarda le procedure di scarto, che vengono effettuate dagli archivisti dello Zwischenarchiv (una sorta di archivio transitorio del Bundesarchiv con sede separata a Bonn – St. Augustin) in collaborazione con i funzionari degli enti federali interessati e la declassificazione degli atti, che può avvenire anche dopo dieci anni dalla richiesta al ministero produttore.


Prima di concludere queste righe, è opportuno fare alcune premesse. La prima: in Europa, l’unico Stato che ha riconosciuto un diritto d’accesso generalizzato alla documentazione amministrativa è, sin dal 1766, la Svezia. La seconda: nessuna Carta costituzionale dei Paesi che fanno parte dell’Unione europea garantisce esplicitamente il diritto di accesso agli atti ad eccezione della Spagna. L’art. 105 della Costituzione iberica, infatti, definisce l’ambito soggettivo del diritto d’accesso, stabilendo che esso è possibile nei confronti degli archivi della pubblica amministrazione con dei limiti posti dalle indagini penali, dalla sicurezza nazionale e da tutto ciò che interessa l’ambito della riservatezza delle persone fisiche o giuridiche. La terza: la raccomandazione del Consiglio d’Europa predisposta a Strasburgo il 9 ed il 10 gennaio 1997 prevede, per quel che concerne l’accesso agli archivi, dei “different levels of data protection in such specific areas as health, taxation, public security or national defence”.
Fatte tali premesse, deve affermarsi come la corretta scansione del bilanciamento tra le esigenze dell’accesso alle carte di polizia e le ragioni della riservatezza delle forze dell’ordine e dei Servizi segreti sia particolarmente complicata. È evidente, infatti, che l’uso, lecito e legittimo, di molteplici fonti informative da parte di tali strutture porta all’apertura di fascicoli dove la pertinenza e la non eccedenza nel trattamento dei dati (soprattutto personali) per investigazioni di polizia giudiziaria o motivi di pubblica sicurezza sono concetti discrezionali ed opinabili, mentre non è opinabile il fatto che l’attività dell’apparato poliziesco può risultare pregiudicata da un accesso indiscriminato agli archivi che esso gestisce.
Il problema, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, potrebbe essere affrontato ipotizzando una disciplina di settore, una sorta di testo unico che, avendo riguardo alla stratificazione di norme (stratificazione sulla quale incide indirettamente anche la profonda trasformazione subita dal quadro delle minacce e dei rischi, con la conseguente ridefinizione del concetto stesso di sicurezza e dell’apparato che la deve assicurare) ed alla peculiarità degli archivi delle forze dell’ordine e dei Servizi segreti rispetto ad ogni altra pubblica amministrazione (perché, lo ripetiamo, le notizie potenzialmente pericolose per la sovranità statale devono essere ricercate dall’Esecutivo con proprie strutture particolari), definisca innanzitutto la nozione giuridica di carta di polizia in relazione all’ente produttore. Una cosa, infatti, è la carta di polizia dell’Arma dei carabinieri, un’altra quella del SISMI, un’altra ancora, infine, quella di un Corpo di Polizia municipale.
La definizione è importante non essendo possibile ricondurre gli archivi delle forze dell’ordine e dei Servizi di sicurezza nell’ambito del diritto comune, se questo significa diritto uniforme. Operazioni di scarto, versamenti negli archivi di Stato, salvaguardia dei fascicoli esistenti, gestione della documentazione attraverso i protocolli informatici, condizioni di fruibilità da parte degli studiosi, dovrebbero essere trattati attuando una distinzione tra apparati statali (le cinque forze individuate dall’art. 16 della legge 121/1981, gli uffici interforze come la DIA e le altre strutture come il Corpo delle Capitanerie di porto) e locali (come le Polizie provinciali e municipali) e tra queste, che svolgono funzioni di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, e le polizie informative (compreso il RIS così come è stato configurato il 1° settembre 2000 a seguito della legge 25/1997 sulla ristrutturazione dei vertici militari), con una scansione temporale ben precisa per quel che attiene, nell’ordine, alle attività di scarto, a quelle di declassificazione ed a quelle di versamento, in modo tale da rendere consultabile un fascicolo non oltre i 55 anni.
Contemporaneamente, il testo unico dovrebbe anche intervenire sui diversi livelli di classificazione, posto che accanto ai canonici 4 (riservato, riservatissimo, segreto, segretissimo), ve ne sono altri quali “riservata amministrativa”, “per uso esclusivo d’ufficio”, “di vietata divulgazione” (è il caso, quest’ultimo, della citata direttiva Mattarella a proposito della quale è opportuno ricordare che quando sia necessario che le informazioni non classificate divengano inaccessibili, viene usata questa locuzione ai sensi del R.D.L. 1161/1941), che portano ad applicare il meccanismo della segretazione a ventaglio in modo tale da classificare anche documenti innocui, rendendo così necessario, per chi lavora in o con un particolare ramo della pubblica amministrazione, la concessione del nos da parte del III Reparto-UCSi della Segreteria generale del CESIS (fra l’altro, come si legge nella 52ª relazione sulla politica informativa e di sicurezza relativa al secondo semestre del 2003, il coinvolgimento, in un’operazione antiterrorismo, di un dipendente di un’azienda attiva nel settore delle tecnologie avanzate dotato del nos, ha portato ad una revisione della disciplina vigente in materia di rilascio di questo nulla osta). In pratica, il testo unico dovrebbe ribadire che il potere generale di segretazione attribuito alla pubblica amministrazione poteva avere un senso prima della rivoluzione tecnologica, quando il documento amministrativo era un costoso e prezioso esemplare da proteggere gelosamente con una disciplina che transitava dall’oggetto alle notizie in esso contenute, mentre adesso, quando lo scarto può essere effettuato in un momento, semplicemente digitando un tasto, non si dovrebbe più procedere a classificazioni generalizzate di fascicoli.
Il terzo aspetto che il testo unico dovrebbe affrontare è quello della qualificazione degli addetti alla gestione dei documenti, qualificazione legata alla sensibilità archivistica del personale degli organi di polizia.
Si è prima accennato a quanto ebbe ad affermare il Consiglio di Stato con la sentenza 1875: le strutture dei Servizi segreti “non sono assimilabili a rami della pubblica amministrazione e, in particolare, a strutture ministeriali perché la legge 801 intese tenerle fuori dall’apparato statale”. Nel Libro Bianco della Difesa 2002 si legge però: “il SISMI trova collocazione nelle strutture dello Stato, che attraverso i suoi organi ne dirige e controlla le attività nel rispetto di “tre irrinunciabili finalità dei Servizi di sicurezza”: il loro corretto funzionamento nell’ambito dei principi e delle norme della Costituzione; la loro segretezza; la loro efficienza”.
Se dunque il SISMI (ed il SISDE) trovano collocazione “nelle strutture dello Stato”, i loro archivi ed i loro documenti sono “beni culturali” così come prevede l’art. 10, n. 2, lettera b), del codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), in vigore dal 10 marzo 2004 (“Sono inoltre beni culturali:… gli archivi ed i singoli documenti dello Stato…”); e se sono “beni culturali” risultano necessarie una maggiore qualificazione ed una maggiore sensibilità del personale, in grado di migliorare le operazioni di protocollazione, classificazione, scarto e versamento degli atti, evitando che siano ancora attuali le parole di Franco Venturi, il docente universitario morto il 14 dicembre 1994, secondo cui come la monarchia merovingica era una tirannia temperata dal regicidio, così gli archivi italiani sono il regno dell’arbitrio temperato dal privilegio. Parole forse troppo dure e che non possono non riguardare anche situazioni di privilegi particolari quali, ad esempio, quelle che hanno portato alla costruzione di archivi privati con documenti pubblici (come accaduto pure in altri Paesi. Si pensi solo all’attività svolta da Vasili Mitrokhin, l’ex archivista del KGB morto il 23 gennaio 2004 in Gran Bretagna all’età di 81 anni).
Un’ultimissima annotazione non può non riguardare gli studiosi i quali, nell’archivio mediatico della nostra contemporaneità trovano un materiale così vasto che il problema diventa non solo l’accesso, ma pure la selezione delle fonti. Quando, infatti, i protagonisti della vita politica nazionale ed estera erano pochi e le comunicazioni viaggiavano lentamente, l’acquisizione di un documento ottenuta con i mezzi più diversi dava un’immagine dei Servizi più operativa e, per certi versi, misteriosamente avventurosa. Adesso che i soggetti si sono moltiplicati a livello esponenziale e gli interessi estesi a tutti i settori, è solo la raccolta sistematica delle informazioni, oltre che il loro incrocio attraverso l’analisi e la verifica, a creare delle fonti. Queste, nel caso della carte di polizia, presupporrebbero una conoscenza non superficiale degli apparati che le hanno prodotte, visto che la tutela della riservatezza, così come la tutela che nasce da alcune leggi sul segreto di Stato, ha costituito e costituisce ancora oggi una delle garanzie fondamentali per la conservazione delle fonti stesse. È questo un punto sui quali gli studiosi dovrebbero attentamente riflettere poiché, ove non esistessero dei limiti all’immediata consultazione delle fonti, si arriverebbe a distruzioni dei documenti assai più dannose per la ricerca che non il differimento di qualche anno all’accesso (e quanto invece tale vincolo sia sentito come un impedimento lo si può comprendere leggendo Polizia e protesta, un voluminoso lavoro edito alla fine del 2003 per i tipi bolognesi de Il Mulino, dove, ad un certo punto, i due autori scrivono di una ricerca “ostacolata da una lunga tradizione di segretezza nel campo delle attività di polizia, percepibile ancora oggi nella lunga trafila di autorizzazioni necessarie, per esempio, per l’accesso a certi fondi archivistici”).
Un altro punto concerne le serie archivistiche del ministero dell’Interno, costituenti una fonte privilegiata per la storia politica – e non solo – del nostro Paese. Ora, le carte di polizia degli uffici centrali e periferici del Viminale costituiscono proprio i fondi archivistici dove più alto è il rischio di informazioni che possono porre questioni di oggettiva delicatezza. Si pensi solo al problema delle indagini non ancora arrivate a conclusione (cioè di fascicoli contenti notizie su persone indagate, ad esempio, di far parte di associazioni sovversive), con l’impossibilità di arrivare a valutare la situazione personale di ognuno fino al proscioglimento completo od al termine dei processi; o, ancora, di informative dove i dati riportati concernono persone estranee alla vicenda per la quale è stato aperto il fascicolo, ma potenzialmente collegabili perché, sempre per fare un esempio, presenti in una sala civica dove si teneva un dibattito organizzato da un determinato movimento politico.
Insomma, quali che siano le buone intenzioni degli studiosi, un uso non scientifico di tali documenti può sempre produrre veleno, soprattutto in un momento come l’attuale, dove tende a perdersi la capacità di distinguere tra storia e memoria. Ed essendo la memoria di una pubblica amministrazione costituita dai suoi archivi (“archives form an essential and irreplaceable part of the cultural heritage. They preserve the memory of Nations and the survival of human memory in large part depends on them”, si legge nella citata raccomandazione del Consiglio d’Europa), lo studioso non può non sottrarsi a quell’onere della prova che è la verifica, appunto, degli archivi.
Salvaguardate, insomma, le esigenze di riservatezza legate a periodi più o meno lunghi stabiliti dal Legislatore, minori remore dovrebbero accompagnare l’utilizzo degli archivi per la ricerca storica, considerato che questi rappresentano la memoria delle istituzioni. Lo studio di tale memoria, in un’ottica storiografica, non può che associarsi all’idea di libertà della ricerca, per scongiurare il rischio cui ci rimanda un passo di una famosa commedia dello scrittore irlandese George Bernard Shaw. In Caesar and Cleopatra un soldato annuncia che la biblioteca di Alessandria, la prima delle 7 meraviglie del mondo, è in fiamme e, per scuotere l’imperatore che non sembra particolarmente impressionato, aggiunge: “Sta lì bruciando l’intera memoria del genere umano!”. Al che Cesare risponde: “Vergognosa memoria. Lasciatela bruciare".



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