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Per Aspera Ad Veritatem n.28
L’Oriente del mondo e la sfida cinese

Intervista a Maria WEBER


L’11 novembre 2001, a Doha, è stata decisa definitivamente l’ammissione della Cina al WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), divenuta effettiva un mese dopo. Ciò rappresenta un passaggio epocale, non solo per la transizione economica intrapresa dalla Cina a partire dalla fine degli anni settanta, ma anche per l’inserimento a pieno titolo del grande Paese asiatico nel consesso economico mondiale.
Questo evento, a suo tempo auspicato da gran parte degli osservatori internazionali, oltre che dalle diplomazie di mezzo mondo, sembra improvvisamente diventato motivo di timore. Lo sviluppo impressionante registrato dalla Cina è percepito come una minaccia, anche per le difficoltà economiche che il mondo Occidentale, in particolare l’Europa, stanno vivendo nell’attuale congiuntura.
D’altro canto, il capitolo cinese non riguarda né potrebbe riguardare soltanto la questione di un forte competitore che si sta imponendo all’attenzione del proscenio mondiale. La complessità della realtà cinese e di tutta l’area dell’Oriente asiatico, fino al Giappone, è tale che la crescita economica di Pechino sia solo uno degli elementi di un nuovo scenario geopolitico che ricercatori ed osservatori stanno provando a delineare.


D. I risultati del Suo ultimo lavoro - Il miracolo cinese (1) - hanno suscitato grande interesse in relazione allo scenario che la documentata analisi da Lei sviluppata porta ad immaginare per i decenni a venire. La questione cinese è centrale in questa fase del dibattito internazionale, non solo per ciò che concerne le problematiche economiche e dello sviluppo. Su alcune questioni che emergono dal Suo lavoro di ricerca ci piacerebbe tornare per un approfondimento a beneficio dei nostri Lettori, utilizzando anche la Sua esperienza e conoscenza della realtà della Cina per uno sguardo più ampio sulle vicende domestiche del Paese e le sue relazioni internazionali. È indubbio, ad esempio, che la situazione interna presenti accentuate diversificazioni tra il Nord e il Sud del Paese, tra aree e regioni pure contigue. Ciò nonostante, il Congresso del Partito Comunista cinese del 2002 ha dato mandato, ad una leadership rinnovata, di proseguire sul cammino delle riforme avviate da Jiang Zemin. Non paiono sussistere esitazioni sul modello scelto, socialismo di libero mercato, quasi un ossimoro alla luce della filosofia politica occidentale. Non sembra, parimenti, preso assolutamente in considerazione il tema dei diritti umani. L’ingresso nel WTO pone, tuttavia, la necessità di accoglimento di determinate regole, che pur se riferite all’ambito del commercio internazionale, di fatto giocano anche sul terreno dei diritti umani.
In questo senso, ritiene che sarà possibile vedere una Cina avviata verso una crescita di sensibilità per queste tematiche ovvero è ipotizzabile prima o poi una crisi politica del modello cinese?


R. Negli ultimi vent’anni la Repubblica popolare cinese ha avuto un tasso medio annuo di crescita del PIL superiore all’8 per cento, diventando la settima economia più grande al mondo e, secondo la Banca mondiale, potrebbe superare quella americana entro il 2020. L’aspetto veramente sorprendente di questa crescita sta nel fatto che il paese è riuscito a mantenere ritmi sostenuti per un arco di tempo molto lungo (oltre vent’anni) e nonostante una popolazione estremamente numerosa: 1 miliardo e 275 milioni di abitanti. Sensibili sono stati gli effetti sulla qualità della vita: nel 1978, 270 milioni di cinesi vivevano al di sotto della soglia di povertà, oggi sono scesi a 60 milioni e la loro aspettativa di vita è passata dai 64 anni del 1975 ai 69 del 1999.
Il miracolo cinese è il frutto di un modello di sviluppo export-oriented, mutuato in parte dagli altri paesi asiatici e noto ormai come ‘socialismo di libero mercato’. Il socialismo di libero mercato è un ibrido ideologico, giustificato da Pechino con la considerazione che alcuni strumenti economici, a lungo etichettati come capitalisti, sono in realtà neutrali e possono essere impiegati per favorire la crescita economica. Socialismo e libero mercato non sono in contraddizione perché il mercato non porta necessariamente al capitalismo ed anche nelle economie capitaliste vi sono forme di pianificazione economica. Il concetto di ‘socialismo di libero mercato’ è entrato ufficialmente nella carta costituzionale nel marzo 1993 quando l’Assemblea nazionale del popolo ha modificato la Costituzione inserendo il concetto di economia socialista di libero mercato al posto di quello di economia pianificata.
Grazie alle riforme economiche messe in moto dal 1978, l’incidenza della Cina sul commercio mondiale è passata dallo 0.8 per cento del 1978 al 2.5 per cento del 1999. Le esportazioni cinesi sono cresciute rapidamente nel corso degli ultimi vent’anni, con un aumento proporzionalmente maggiore dell’export di manufatti. Nel 2001, il commercio estero cinese ha superato la soglia di US$500 miliardi, e le esportazioni verso i principali partner commerciali, gli Stati Uniti, l’UE, il Giappone e la Corea del Sud, sono cresciute ad un tasso sostenuto nonostante il rallentamento dell’economia globale. Nel 2002, la Cina ha sostenuto significativamente il commercio mondiale, superando la soglia dei 620 miliardi di dollari americani e contribuendo al 4.7 per cento del totale dei flussi commerciali. Nel 2002, la Cina ha sperimentato un boom delle esportazioni, aumentate del 22,3 per cento ad un valore di US$325,6 miliardi, ma anche delle importazioni, aumentate del 21,2 per cento. I settori più dinamici sono stati i macchinari, e i prodotti elettrici ed elettronici; mentre le esportazioni più tradizionali come l’abbigliamento e le calzature sono cresciute circa del 10 per cento. Nel 2003, la tendenza all’incremento della partecipazione al commercio internazionale non si è arrestata: il volume delle transazioni commerciali è stato di circa US$ 851,2 mld. Le esportazioni dalla Cina hanno registrato una crescita del 34,6% sul 2002, mentre le importazioni hanno registrato una crescita del 39,9%. Il valore del surplus della bilancia commerciale cinese per il 2003 è stato di 25,54 miliardi di dollari.
L’aumento della partecipazione cinese al commercio internazionale è significativa anche perché la composizione delle esportazioni testimonia l’evoluzione della produzione industriale cinese: i beni che hanno contribuito alla forte crescita negli anni ottanta e novanta (abbigliamento, giocattoli ed altri prodotti dal modesto contenuto tecnologico) sono stati sostituiti da prodotti a medio o alto contenuto tecnologico (informatica, elettronica e telecomunicazioni). Dieci anni fa, solo il 7 per cento delle esportazioni cinesi era costituito da prodotti high-tech ad alta intensità di ricerca e sviluppo (R&D). Nel 2002, circa il 23 per cento delle esportazioni cinesi è costituito invece da prodotti ad alta tecnologia (Walsh, 2003). Un altro dato pare rilevante: mentre nel 1995 l’80 per cento di esportazioni cinesi ad alta tecnologia proveniva da imprese a capitale estero, oggi solo la metà di tali esportazioni provengono da queste imprese, l’altra metà è prodotta direttamente da imprese al cento per cento cinesi.
Sul versante politico, il 16° Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), tenutosi a Pechino dall’8 al 14 novembre 2002, ha confermato la volontà di proseguire sulla strada delle riforme. I duemila delegati hanno eletto i 356 membri (198 membri effettivi e 158 supplenti) del nuovo Comitato Centrale (CC) del PCC. Si è trattato di un ricambio generazionale senza precedenti: la metà dei membri del CC è di nuova nomina, il 20% ha meno di cinquant’anni e 27 sono donne. Hu Jintao è stato acclamato Segretario Generale del PCC al posto di Jiang Zemin ed il nuovo Comitato permanente del CC ha deciso anche le principali nomine politiche, che saranno ratificate in primavera dall’Assemblea nazionale, tra cui quella di Hu Jintao a Presidente della Repubblica in sostituzione di Jiang Zemin. Il Presidente Jiang Zemin è riuscito a far approvare dal Congresso una revisione nello Statuto del partito, inserendo la teoria delle ‘Tre Rappresentanze’, accanto al marxismo-leninismo, al pensiero di Mao Zedong ed a quello di Deng Xiaoping. Secondo questa teoria il partito deve rappresentare le forze produttive avanzate, la cultura avanzata, gli ampi interessi del paese. Si prospetta in tal modo una diversificazione degli interessi rappresentati ai vertici del sistema politico cinese con una maggiore influenza delle componenti della società più orientate all’economia di mercato. Complessivamente, la quarta generazione oggi al potere è composta per lo più da burocrati, con una lunga permanenza nel partito. In particolare, dal 16° Congresso è emersa anche l’ascesa della ‘cricca di Shanghai’, la corrente politica facente capo a Jiang Zemin. Sette dei nove membri del nuovo Comitato Permanente dell’Ufficio politico sono direttamente o indirettamente riconducibili all’area politica influenzata dall’ex-presidente. Numerose posizioni di rilievo sono state destinate a personalità chiave dell’amministrazione di Shanghai tra cui Huang Ju, attuale sindaco di Shanghai. La maggior rappresentanza che la città gode in seno agli organi politici di maggior influenza e di maggior prestigio del paese riflette il fatto che la città sia diventata negli ultimi anni la guida intellettuale ed economica del paese, e che ambisce a diventarlo sempre di più in una sorta di dualismo con Pechino che rimane invece la capitale politico-amministrativa. Il potere politico è e resta nelle mani di un ristretto gruppo di leader del PCC: i 25 membri del Politburo, il cui comitato permanente che si riunisce ogni settimana è il vero organismo decisionale. I membri del Politburo esercitano un potere politico pressoché assoluto: ad essi spetta la guida del paese e l’elaborazione delle politiche.
Nel rapporto al XIV Congresso del PCC dell’ottobre 1992 Jiang Zemin aveva così sintetizzato le ragioni della stabilità politica mantenuta dopo lo scossone del giugno 1989: crescita economica e controllo politico. Queste le caratteristiche dello sviluppo politico con caratteristiche cinesi, come è stato enfatizzato dalla leadership comunista anche nel 5° anniversario del massacro di Tiannanmen. La commistione strategica di modernizzazione economica e autoritarismo politico è stata possibile per la reale crescita economica del paese, che ha prodotto una reale distribuzione delle risorse e una speranza di futuro benessere economico per tutta la popolazione, e quindi ha facilitato un sostegno psicologico della maggior parte dei cinesi alla leadership politica. E tutti gli osservatori concordano nel ritenere che la Cina continuerà la politica delle riforme economiche, mantenendo le caratteristiche proprie dei sistemi politici di tipo autoritario, cioè con un fermo controllo del partito unico sulla società civile.
Tuttavia, secondo alcuni autori, l’autoritarismo cinese sta evolvendo dalla forma tipica di autoritarismo verticale ad una forma nuova di autoritarismo orizzontale o frammentato. L’autoritarismo di tipo orizzontale è un sistema ancora di tipo autoritario, ma meno personalizzato e più istituzionalizzato, in grado cioè di rispondere meglio alle numerose sfide che provengono dall’ambiente sociale in un paese sulla strada di una rapida modernizzazione economica. Vediamo meglio cosa significa questa distinzione tra i due tipi di autoritarismo. Si parla di autoritarismo verticale quando il processo decisionale è dominato da un solo leader che prende le decisioni attraverso un sistema decisionale a cascata, dando ordini vincolanti e verticali. La Cina di Mao Zedong, l’Unione Sovietica di Stalin e la Corea di Kim Il Sung sono i classici esempi di autoritarismo verticale. Di contro, l’autoritarismo orizzontale, o frammentato, è proprio di quei processi decisionali che sono essenzialmente autoritari e centralizzati, ma anche dotati di un certo grado di differenziazione strutturale, cioè hanno più di un centro di potere che coordina interessi e opinioni diverse.
Il sistema politico rimane quindi di tipo autoritario, anche se sta evolvendo dalla forma tipica di autoritarismo verticale ad una forma nuova di autoritarismo orizzontale. Allo stato attuale, l’evoluzione più probabile del sistema politico cinese è proprio il progressivo consolidamento del modello di autoritarismo orizzontale, o frammentato, che meglio si concilia con il consolidamento delle riforme economiche, con il conseguente progressivo ampliamento della base decisionale. Qualora nei prossimi anni si consolidasse il modello di autoritarismo orizzontale, si può ragionevolmente supporre che, inevitabilmente, si amplierebbe lo spazio della partecipazione politica, con una progressiva apertura anche della stanza dei bottoni alle forze sociali emergenti. In questo contesto si può immaginare un allargamento della base decisionale ai gruppi politici, che accettano la guida del PCC e sono disposti a collaborare sulla strada delle riforme economiche. La Cina diventerebbe allora una democrazia Asian Style, come lo è già Singapore, un sistema cioè dove un partito unico controlla il potere e occupa tutti gli spazi politici, ma consente la collaborazione politica a tutti coloro che ne accettano la supremazia ed intendono collaborare alla crescita della società. Un regime politico di tipo autoritario, ma in cui prevale il pragmatismo, grazie a una crescita economica che consente la distribuzione di risorse alla popolazione distraendola dalle vere istanze democratiche.

D. Riprendendo il tema dei diritti umani, uno degli elementi di attenzione è la questione religiosa, che assume nella realtà cinese una significativa e diversificata rilevanza. Si può citare il caso della setta Falun Gong, oggetto di repressione da parte del governo centrale di Pechino, che la ritiene un "culto malefico", capace di provocare seri danni alla salute fisica o mentale dei cittadini, e che giunge persino a paventare l’azione di "interessi occidentali". Non diversa sembra, d’altra parte, la situazione dei cattolici cinesi che non fanno parte della Chiesa patriottica, o ancora dei musulmani della regione dello Xinjiang, denunciati dal governo cinese, dopo l’undici settembre, come terroristi, nella loro componente autonomista. Un capitolo a sé riguarda il Tibet. Nonostante la rinuncia del XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso alla rivendicazione dell’indipendenza nazionale, Pechino insiste nella delegittimazione della sua autorità, anche spirituale, minacciando la sua successione in via diretta. Sono situazioni evidentemente molto diverse tra loro (i musulmani dello Xinjiang, regione ricca di risorse e materie prime, hanno più volte minacciato una scissione territoriale), ma forse riconducibili ad un fattor comune (2) , rintracciabile nella percezione, da parte dell’establishment, della minaccia culturale e ideologica delle religioni, tanto più pericolosa quanto proprio l’apertura al libero mercato costituisce oggettivamente il fattore di maggiore debolezza di quel collante ideologico rappresentato per più di cinquant’anni dal Partito comunista. Proprio per questa ragione, non pochi ritengono che il Falun Gong sia ritenuto particolarmente pericoloso proprio perché più vicino culturalmente alla società cinese.
Qual è il Suo punto di vista circa la questione religiosa in Cina?


R. Credo che più che parlare di questione religiosa si debba distinguere tra sette religiose di recente formazione, come il Falun Gong, e gruppi religiosi tradizionalmente presenti in Cina, come i cinesi di religione islamica. La ferma repressione del movimento di carattere religioso Falun Gong, attuata nell’estate 1999, dimostra come le autorità siano intenzionate a non lasciare spazio a fenomeni d’aggregazione che possano mostrare un qualsiasi segno di coesione ed organizzazione, e che si collochino al di fuori della struttura del partito. La setta Falun Gong (letteralmente ‘ruota della legge’) è un gruppo che si ispira ad una antica arte marziale. La setta vanta le proprie origini culturali nella civiltà della Cina tradizionale ma ha un’origine organizzativa molto recente: è stata fondata nel 1992 da Li Hongzhi, un cinese espatriato in America. In pochi anni intorno al suo fondatore si sono raggruppati molti cinesi emigrati ma la setta ha raccolto adepti anche in Cina: settanta milioni, secondo il suo fondatore, poche migliaia di fanatici secondo il governo cinese. Per qualche anno il governo cinese ha tollerato la setta Falun Gong, fino a quando nell’aprile 1999 migliaia di adepti si sono raccolti in piazza Tiananmen e hanno chiesto il riconoscimento formale della setta come una religione cinese. La reazione delle autorità è stata dura: la setta è stata accusata di voler sfruttare la superstizione popolare e riportare la Cina all’ignoranza feudale. Il sito Internet di Falun Gong in lingua cinese è stato chiuso, gli adepti più attivi perseguitati. Nel giugno 1999, quando la setta ha nuovamente proclamato una manifestazione popolare a Pechino, è scattata la ferma repressione: arrestati circa mille adepti (oltre 35 mila secondo Falun Gong), le sedi della setta sono state chiuse e Falun Gong è stato messo fuori legge. Il caso della setta Falun Gong mostra quanto siano scarse ancora le probabilità che la Cina possa ammettere l’esistenza di opposizioni di qualunque tipo.
Il caso della minoranza di religione islamica è molto diverso per storia e tradizione. I musulmani, che vivono sul territorio cinese (circa 20 milioni di persone, poco più del 2% dell’intera popolazione cinese), sono raggruppabili in dieci nazionalità: gli uighur, i kazaki, i dongxiang, i bonan, i kirghisi, i tagiki, gli uzbeki, i tartari, i salar e gli hui. Mediamente meno istruite del resto della popolazione cinese, le minoranze etniche di origine centro asiatica hanno un tasso di analfabetismo elevato: in particolare, circa un terzo degli uiguri, dei kirghisi e dei tagiki sono analfabeti. Molti di questi musulmani parlano lingue turche, mentre la nazionalità hui, che è anche la più numerosa (circa 8 milioni), è cinese sia per lingua che per cultura. Gli hui si considerano discendenti dei mercanti e dei soldati arabi e persiani, stabilitisi in Cina nei secoli X e XII a seguito delle truppe mongole di Gengis Khan. Contro il centralismo del governo imperiale si sono però registrate, a partire dal secolo scorso, numerose rivolte di questa minoranza musulmana. In particolare, nel 1856, gli hui dello Yunan insorsero e proclamarono un autonomo regno di Dali, al confine con la Birmania, che rimase indipendente dalla Cina fino alla morte del loro capo Du Wenxiu, avvenuta nel 1873. Nel 1862 era scoppiata nello Shanxi e nel Gansu un’altra sommossa degli hui, guidati da Ma Huoilang, capo della confraternita sufita. Ma l’episodio forse più rilevante di ribellione musulmana alla Cina imperiale si è avuto alla fine del secolo scorso nella regione dello Xinjiang, dove nel 1864 una rivolta degli uiguri, guidati da Yakub Beg, portò alla creazione di uno stato indipendente, sostenuto inizialmente anche dai russi e dagli inglesi. La feroce repressione con cui l’esercito imperiale annullò nel 1877 le speranze di indipendenza, costrinse un gran numero di musulmani ad emigrare nelle regioni confinanti dell’Asia centrale.
Dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (1° ottobre 1949), la minoranza hui si è fatta di nuovo sentire con crescenti richieste di libertà religiosa e maggior autonomia locale. Nel 1960, in coincidenza con l’inizio delle tensioni cino-sovietiche, la regione dello Xinjiang diventava teatro di una nuova rivolta musulmana. Ma è stato a metà degli anni sessanta, che si sono verificati gli scontri più duri tra le minoranze musulmane e i cinesi, cui ha fatto seguito una vera e propria repressione. Ad esempio, nella provincia dello Yunan, migliaia di musulmani furono costretti a mangiare carne di maiale e le moschee vennero chiuse o distrutte. Gli scontri tra esercito cinese e minoranza hui sono poi proseguiti per oltre un decennio ed hanno conosciuto anche momenti particolarmente drammatici, come quando il 29 luglio 1975 l’esercito cinese assalì la città di Jijie, distruggendo oltre 4000 abitazioni e provocando la morte di 1600 hui. Solamente nel 1979, in seguito alla politica di riforma avviata da Deng Xiaioping, gli insorti musulmani sono stati riabilitati e le moschee ricostruite. Episodi di ribellione della minoranza musulmana si sono però susseguiti per tutti gli anni ottanta, fino a sfociare nel 1993 nella nascita di un movimento secessionista, particolarmente radicato nello Xinjiang. Fin dall’antichità lo Xinjiang ha avuto il ruolo di ponte per gli scambi economici e culturali tra la Cina, l’Asia centrale e l’occidente. È stato anche il canale attraverso il quale importanti religioni sono confluite in Cina. Di conseguenza, è divenuto una regione multinazionale, multireligiosa e multilinguistica. Fonti ufficiali cinesi sostengono che oggi sono presenti nello Xinjiang 13 gruppi etnici diversi: uiguri, kazaki, hui (dungan), mongoli, kirghisi, tagiki, shibe, dahun, tartari, uzbeki, manciù, han e russi. In realtà, i gruppi etnici che vivono nello Xinjiang sembrano essere più di 30. Emblematico, in tal senso, è il fatto che il 90% degli abitanti dello Xinjiang siano turchi, musulmani e non-cinesi sia per origine che per retaggio culturale.
La regione dello Xinjiang confina con le tre repubbliche ex-sovietiche: il Khazakistan, il Tagikistan e il Kirghisistan, e questa vicinanza, che non è solo geografica ma anche culturale, preoccupa seriamente il governo di Pechino. Si teme che la febbre di conflittualità etnica delle repubbliche centroasiatiche, tornata ad aumentare dopo il collasso dell’Unione sovietica, possa influenzare gli abitanti dello Xinjiang. E in effetti, la popolazione musulmana della regione appare sempre più insofferente nei confronti del governo centrale: sono soprattutto gli uiguri, il più grande gruppo etnico della regione, al confine con il Kazakistan, che dal 1993 minacciano la secessione in nome della formazione di uno stato indipendente. Ma la Cina non può permettersi una secessione: la regione autonoma dello Xinjiang è di vitale importanza, non tanto per la sua estensione, quanto perchè è la più ricca di riserve naturali; nel suo territorio si concentra il 75,3 per cento del patrimonio nazionale di minerali. In particolare, lo Xinjiang possiede giacimenti di carbone pari ad un terzo dell’intero paese ed ha riserve di petrolio per un quarto del valore nazionale. Nel tentativo di arginare il secessionismo, nel 1992 il governo di Pechino ha concesso alla regione maggiore autonomia economica: la flessibilità operativa dello Xinjiang è, ora, pari a quella goduta dalle provincie di Fujian e del Guangdong.

D. L’emergere della Cina in modo così prepotente sullo scenario asiatico ha fatto sì che il Presidente Bush la definisse, all’inizio del suo mandato, non più come partner strategico, secondo la linea tracciata dai suoi predecessori, ma come principale competitor strategico. È forse parte di tale cambiamento il rafforzamento del programma di cooperazione militare con il Giappone e la copertura, con il proprio "ombrello", di Taiwan, anche se con qualche distinguo (3) . D’altra parte, la Cina rimane per gli Stati Uniti il secondo partner commerciale dopo il Canada e, secondo l’opinione di molti osservatori, gli interessi economico-commerciali tendono ancora a prevalere, almeno in questa fase, su quelli politici e geopolitici, con l’effetto di una sorta di "sordina" sui molteplici temi ancora aperti (oltre alla già citata questione dei diritti umani, l’ancoramento fisso dello yuan al dollaro, lo sviluppo nucleare, le diverse valutazioni sulle tematiche di politica estera - non ultima la guerra all’Iraq, etc.).
Quali sono le Sue valutazioni sul peso sempre maggiore che la Cina sta assumendo, sia come attore regionale che come attore strategico, in un contesto nel quale appaiono preponderanti le geometrie variabili ed aperte di un sistema multipolare (più che semplicemente unipolare, a guida USA)?


R. Dalla fine della guerra fredda all’attacco terroristico all’America dell’11 settembre 2001, l’ascesa diplomatica della Cina è stata sicuramente l’evento di maggior rilievo nell’arena internazionale. Questa crescita d’importanza della Cina nella politica internazionale è stata accolta con crescente preoccupazione da parte del Dipartimento di Stato americano, che fin dal 1980 ha teorizzato la necessità di attuare una politica di contenimento nei confronti della Cina. I sostenitori del contenimento ritengono che la crescita economica cinese e la ripresa del nazionalismo produrranno un tentativo cinese di egemonia asiatica, da cui la necessità di uno sforzo internazionale volto a contenere la Cina. Tuttavia, la crescente importanza del commercio cinese e l’immensa potenzialità del suo mercato hanno attirato sempre di più l’interesse americano. Il viaggio del Presidente Clinton in Cina nel luglio 1998 è stata la più tangibile testimonianza dell’importanza che gli Stati Uniti e la business community americana attribuiscono al paese che sta al centro del mondo. Con il viaggio di Clinton, la Cina ha ottenuto una nuova normalizzazione dei rapporti con Washington e anche il riconoscimento, da parte americana, della necessità di ‘coinvolgere’ costruttivamente Pechino nella gestione dei problemi asiatici.
Il presidente Bush, non appena eletto, ha capovolto la politica estera americana, definendo la Cina principale competitore strategico degli USA. Nell’aprile 2001, la tensione tra i due paesi era salita alle stelle a seguito della collisione tra un caccia cinese e un aereo spia americano, costretto ad atterrare nell’isola di Hainan. Dopo una lunga negoziazione, l’incidente si è risolto con la liberazione dell’equipaggio. Malgrado la soluzione della crisi dell’aereo spia, la tensione tra Stati Uniti e Cina rimaneva alta a causa della vendita di armi americane a Taiwan. Il 25 aprile il presidente Bush, in occasione dei cento giorni del suo governo, dichiarava: "Aiuteremo Taiwan, anche militarmente, in caso di attacco. Mi auguro che Taipei e Pechino possano risolvere pacificamente i propri contrasti, ma noi siamo fermamente al fianco di Taiwan". La reazione di Pechino è stata immediata: "Taiwan appartiene alla Cina e non è il protettorato di una potenza straniera".
La tensione sembrava salire ulteriormente nell’estate 2001, ma immediatamente dopo l’attacco all’America dell’11 settembre, Pechino ha assunto un atteggiamento responsabile e cooperativo nella lotta al terrorismo internazionale. Il governo cinese ha espresso ferma condanna del terrorismo e appoggio morale al popolo americano. La disponibilità cinese a collaborare con l’alleanza internazionale anti-terrorismo non deve stupire, perché a più riprese negli ultimi anni Pechino ha dimostrato un atteggiamento responsabile volto al mantenimento della pace in Asia. A fine settembre 2001, in occasione degli incontri con il Presidente Bush e il Segretario di Stato Colin Powell, il Ministro degli Esteri cinese Tang Jiaxuan ha posto l’enfasi sulla questione di Taiwan, auspicando che gli Usa considerino in maniera strategica la loro posizione su Taiwan.
Nel corso del 2002 e del 2003, in vari incontri tra Bush e Jiang Zemin si è insistito sull’importanza della cooperazione tra i due paesi nella lotta al terrorismo, sottolineando la volontà di espandere la collaborazione logistica e di intelligence. L’enfasi posta dal Presidente Bush sul ruolo regionale della Cina come potenza emergente sempre più integrata all’interno della comunità internazionale non ha tuttavia cancellato i motivi di tensione tra i due paesi, in particolare sulla questione di Taiwan. Ma l’ingresso nel WTO sia della Cina che di Taiwan e la crescente convergenza economica tra le due Cine è ormai così alta da far ipotizzare ad alcuni la possibile creazione di un’area di libero scambio che preluda anche a una soluzione pacifica della ‘questione Taiwan’.
Superato per il momento il rischio di un confronto armato tra Cina e Taiwan, la crescita economica cinese fa paura agli Stati Uniti. Grazie alla vastità della sua popolazione, la Cina ha i numeri per diventare assai più potente perfino degli Stati Uniti. E una Cina ricca viene vista dagli americani come un competitore estremamente pericoloso sia sul piano strategico militare che su quello puramente economico. Non è la prima volta che la Cina fa paura, ma oggi il dibattito tra intellettuali ha rafforzato nell’opinione pubblica americana la percezione di un Cina sempre più pericolosa anche per l’economia degli Stati Uniti. In effetti, da anni, gli Stati Uniti sperimentano un crescente deficit delle partite correnti verso la Cina, attestato sui 103 miliardi di dollari alla fine del 2002 (nei primi otto mesi del 2003 ha raggiunto i 77 miliardi di dollari)
Forte di vent’anni d’ininterrotta crescita economica, il governo cinese vuole accrescere la propria influenza politica nel mantenere stabilità politica nella regione. In questo senso vanno letti sia la collaborazione cinese alla guerra contro il terrorismo in Afghanistan, sia i toni pacati con cui il rappresentante cinese al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso il proprio dissenso dall’intervento anglo-americano in Iraq senza tuttavia minacciare mai il ricorso al diritto di veto. In questo senso vanno anche interpretati gli sforzi di Pechino di portare la Corea del Nord a un tavolo negoziale multilaterale con Cina, Giappone, Russia e Stati Uniti, alla presenza della Corea del Sud. Se è chiaro che l’interesse della Cina è diventare l’egemone del Nordest asiatico, è altrettanto chiaro che non è nell’interesse dell’America che ciò accada.

D. È di questi giorni la notizia che, secondo analisti economici americani (alcuni del gruppo di Morgan Stanley), una libera fluttuazione e un conseguente apprezzamento dello yuan, tanto desiderato e invocato dagli USA e dalle sue aziende manifatturiere, potrebbe rivelarsi controproducente proprio per l’economia statunitense. Tali economisti sottolineano come una diversa politica valutaria cinese e di altri paesi asiatici potrebbe spingere l’Asia a inviare molti meno capitali negli USA. Risultato potrebbe essere un rialzo dei tassi d’interesse americani modificando le abitudini di spesa. Continua il loro ragionamento che, attualmente, la Cina mantiene il cambio con il dollaro basso attraverso una produzione continua di moneta necessaria per acquistare titoli di stato denominati in dollari ma, se lo yuan fluttuasse liberamente, il Paese avrebbe certamente meno bisogno di acquistare. E se alcuni suoi vicini come Giappone, Corea del Sud e Taiwan replicassero le mosse cinesi e lasciassero apprezzare le loro valute contro il dollaro, si potrebbe istituire un vero e proprio stop allo straordinario accesso che gli Stati Uniti hanno al denaro estero. Fra tutti un dato: il gigante asiatico ha speso piu’ di 60 miliardi di dollari per acquistare titoli di Stato USA e altri bond governativi. Altri paesi asiatici hanno replicato questo iter. Concludono gli esperti che non è difficile intuire perché un apprezzamento delle monete asiatiche potrebbe rivelarsi davvero pericoloso per l’economia degli Stati Uniti. Crede possibile questo scenario e, soprattutto, è possibile a breve che comunque lo yuan cominci una libera fluttuazione, anche se, come dicono alcuni, probabilmente ancorato ad un paniere di monete tra cui l’Euro e lo yen?

R. Non è la prima volta che la Cina fa paura al mondo (4) , ma oggi la forte crescita dell’export ha enfatizzato nuovamente la percezione del pericolo cinese. In particolare, gli USA sperimentano da anni un crescente deficit delle partite correnti verso la Cina. La preoccupazione degli Stati Uniti è che le esportazioni cinesi siano aumentate tanto perché la valuta cinese (yuan o renminbi) è sottovalutata. La sottovalutazione dello yuan si configura allora come una sorta di concorrenza sleale, che tiene artificiosamente bassi i prezzi dei prodotti cinesi. In effetti dal 1994, lo yuan è mantenuto da Pechino a un tasso fisso contro dollaro (8,28 yuan per 1 dollaro). Un indizio della sottovalutazione dello yuan sono le riserve di valuta straniera della People’s Bank of China (PBOC), giunte alla eccezionale cifra di 364,7 miliardi di dollari (senza considerare le riserve di Hong Kong e di Macao). (5)
Le pressioni internazionali su Pechino perché rivaluti lo yuan si sono moltiplicate negli ultimi mesi. In realtà, non è affatto scontato che, per gli USA, sia preferibile uno yuan molto forte sul mercato dei cambi. Gli USA devono finanziare un grande deficit di bilancio imputabile alla politica fiscale, ai costi dell’occupazione e della ricostruzione dell’Iraq, etc. Il finanziamento avviene tramite l’emissione di titoli del tesoro (bond). La PBOC è una forte acquirente dei bond: detiene 126 miliardi di dollari di bond americani. La Cina è quindi il secondo detentore di carta finanziaria USA, dopo il Giappone. Sostenendone la domanda, evita che il tasso di interesse da essi pagato per attrarre gli investitori salga. In questo modo, l’indebitamento costa agli USA sensibilmente meno di quanto costerebbe se la Cina adottasse una differente politica valutaria. In realtà, lo yuan debole serve molto perché investire in Cina costa meno. Produrre in Cina è ancora vantaggioso (a causa soprattutto dei bassi costi della manodopera) e le multinazionali che producono in Cina e poi esportano in tutto il mondo guadagnano proprio grazie alla sottovalutazione dello yuan.

D. L’Italia è il dodicesimo partner commerciale della Cina. D’altro canto, negli ultimi mesi i giornali, non solo economici, hanno dato ampio spazio alla circostanza che i prodotti italiani siano i più colpiti dalle "imitazioni" cinesi. I nostri imprenditori hanno lamentato la necessità di risolvere i problemi degli standard di qualità e della difesa del "marchio", argine contro ogni forma di concorrenza sleale. Il tema è stato anche oggetto di acceso dibattito a Cancun, risolvendosi tuttavia in un nulla di fatto. Una consistente linea di pensiero, pubblicamente sostenuta anche dal Presidente della Confindustria D’Amato, invita tuttavia i nostri imprenditori a guardare piuttosto alle opportunità che possono scaturire dal mercato cinese.
Qual è la Sua opinione in proposito?


R. Per quanto riguarda l’interscambio commerciale Italia-Cina, negli ultimi due anni, il nostro paese ha registrato incrementi significativi sia nell’export che nell’import. Le esportazioni italiane sono cresciute di più delle importazioni totali della Cina, anche perchè la presenza italiana in termini di investimenti diretti è nettamente inferiore a quella commerciale. Di solito, le aziende italiane sottovalutano la valenza strategica della loro presenza in Cina perché il paese è percepito come troppo lontano: la distanza geografica è amplificata dalla percezione della distanza culturale. Difficoltà linguistica e distanza culturale incrementano la percezione di solitudine, lamentata da molti imprenditori. A sua volta, il timore di trovarsi soli sul mercato cinese, cioè privi del tessuto connettivo presente nel paese di origine, incrementa la percezione che la delocalizzazione determini una perdita del valore del made in Italy, sia nel senso dell’immagine associata a questo concetto, sia nel senso di perdita di vantaggi derivanti dall’operare all’interno di distretti industriali specializzati. Alla percezione dell’eccessiva crescita delle esportazioni cinesi, si aggiunge la percezione degli elevati rischi di imitazione presenti sul mercato cinese. Il problema della contraffazione è molto serio. Malgrado l’esistenza dal 1988 di una legge che tutela i brevetti, la copia del marchio o del brevetto in passato si è molto sviluppata, anche perché molte aziende europee vendevano in Cina macchinari o tecnologia senza depositare il proprio brevetto a Pechino. Questo ha contribuito a partire dalla fine degli anni novanta a far produrre in Cina molti oggetti tipici del made in Italy, contraffacendoli ed esportandoli nel resto del mondo. I mercati latino-americani sono stati invasi da falsi prodotti del made in Italy realizzati in Cina. Secondo l’OECD, "la contraffazione rappresenta tra il 5 e il 7 per cento del commercio mondiale ed è stata responsabile della perdita di 200 mila posti di lavoro in Europa". L’Unione Europea ha espresso la sua preoccupazione emanando il 22 luglio 2003 (in vigore dal 1° luglio 2004) un nuovo regolamento contro la contraffazione, un primo passo avanti ma che richiederà anni per essere utilizzato. A tutela dei prodotti europei contraffatti in Cina si dovrebbe prescrivere l’adozione obbligatoria del paese di provenienza per tutte le merci importate in Europa, ciò faciliterebbe il lavoro nella dogana europea nell’intercettazione dei falsi.
Oltre alla contraffazione vera e propria, esiste secondo alcuni una ‘concorrenza legale ma asimmetrica’, ovvero una concorrenza di prodotti cinesi che pur essendo esportati in modo legale minacciano quelli europei perché prodotti a costi bassi. Per far fronte a questa concorrenza legale ma asimmetrica, l’Unione Europea prevede uno strumento di salvaguardia a tutela di determinati settori industriali con forti turbative di prezzi. Ogni stato membro può far richiesta di adozione di tali misure per uno o più prodotti colpiti dalla concorrenza cinese e si prevede anche l’adozione di dazi su una trentina di prodotti importati dalla Cina.
Spinte protezionistiche provengono da più parti, gli Stati Uniti hanno già introdotto i dazi sulle importazioni cinesi nel settore tessile. Sicuramente nei prossimi mesi verranno introdotte delle misure di salvaguardia anche per alcuni prodotti europei. Pur comprendendo le difficoltà che stanno attraversando alcune aziende italiane, ritengo che continuare ad enfatizzare la competizione cinese senza affrontare il tema della debolezza del sistema Italia e della scarsa competitività del nostro sistema industriale sia inutile e controproducente. Più sensata mi sembrerebbe la progettazione nel breve periodo di agevolazioni fiscali a sostegno delle aziende italiane che maggiormente risentono della concorrenza cinese e, nel medio periodo, la formulazione di politiche ad hoc per incentivare le aziende che si impegnano ad investire realmente in ricerca e sviluppo. La Cina è la locomotiva dell’economia mondiale, ha un mercato in forte espansione, può sembrare una minaccia ma in realtà offre immense opportunità. Fare alleanze strategiche con la Cina può forse aiutare l’industria italiana più di qualunque manovra protettiva.

D. Un aspetto interessante, sul quale non si dispone, al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, di significativi dati di conoscenza, riguarda il livello di tecnologizzazione della realtà cinese, tenuto conto dell’impatto molto forte dell’information society sull’intera area che circonda la Cina, dall’India, al Sud-est asiatico al Giappone. Notevole enfasi è stata data sui media occidentali, ad esempio, ad una politica di forte chiusura nei confronti di Internet. Si ripropone, insomma, il quesito circa la compatibilità tra sviluppo economico e limitazione delle libertà, con tutti gli scenari che ne possono conseguire.
Quali sono le Sue valutazioni in merito?


R. Negli ultimi anni, il governo cinese ha modificato profondamente il proprio atteggiamento nei confronti della comunicazione via Internet. Oggi, in Cina vi sono almeno 78 milioni di utenti Internet ed il paese è il terzo al mondo per la produzione di information technology (IT), tra cui computer, hardware, software e apparecchiature per le telecomunicazioni. Le imprese cinesi che hanno avuto fin qui successo nei settori ad alta tecnologia si sono giovate di alleanze strategiche con imprese occidentali, di un capitale umano di buon valore a costi relativamente bassi, della capacità di offrire prodotti di qualità soddisfacente a prezzi contenuti e di un forte sostegno governativo. Per sostenere il settore dell’IT, il governo si è impegnato ad investire decine di miliardi di dollari entro il 2005, con l’intenzione di portarne il peso sul PIL al 7 per cento. Il mercato interno cinese per IT è già il secondo dell’Asia. Dagli investitori è considerato molto promettente in quanto collegato con la telefonia mobile e Internet, al punto che recentemente alcune aziende cinesi che operano in questi settori (Sina.com e Sohu.com) sono state protagoniste di un clamoroso rally al Nasdaq di New York.

D. Alla fine del mese di febbraio si sono svolti i negoziati a sei (Corea del Nord, Stati Uniti, Russia, Cina, Corea del Sud e Giappone) in ordine alla tematica del nucleare di Pyongyang. Secondo alcuni osservatori si è risolto in un nulla di fatto, secondo altri in lenti ma significativi passi in avanti.
In particolare, se la Corea del Nord non ha avallato la posizione americana volta allo smantellamento del proprio programma nucleare, d’altra parte avrebbe accettato l’offerta di aiuti in cambio di un "congelamento" del programma. Questa proposta, portata avanti oltre che da Cina e Russia anche dall’alleata statunitense Corea del Sud, è comunque sul tavolo e l’intesa a rivedersi presto (forse in primavera) per fissare ulteriori e più proficui obiettivi, sembrano poter essere letti come lenti ma potenziali passi in avanti nell’ottica del raggiungimento di un accordo.
D’altra parte, alcuni analisti hanno osservato che la posizione cinese, in ordine al nucleare di Pyongyang, non sia proprio favorevole ai nordcoreani, in quanto una loro partecipazione al "club" delle potenze nucleari potrebbe spingere anche Taiwan e Giappone verso questa linea, ed inoltre questo altererebbe troppo gli equilibri regionali nei quali, come Lei diceva precedentemente, vede la Cina voler assurgere ad egemone del Nord-Est asiatico.
Su questa intricata matassa regionale, e specificatamente poi alla posizione di Pechino, qual è la sua opinione al riguardo?


R. La crisi nucleare nord coreana ha allontanato la prospettiva di una riunificazione tra le due Coree, con un certo sollievo da parte del Pentagono. Infatti, una Corea unificata, in cui non si rischiasse più un conflitto potrebbe limitare le possibilità concesse agli Stati Uniti d’utilizzo del territorio per esigenze militari. La perdita dell’alleanza con la Corea del Sud potrebbe provocare forti pressioni per ridurre la presenza americana anche in Giappone, da parte dell’opinione pubblica giapponese che vorrebbe riconsiderare la necessità di ospitare forze militari straniere sul territorio nazionale (6) . Corea del Sud, Cina e Russia hanno assunto posizioni simili di fronte all’attuale crisi. Da un lato, hanno fermamente condannato le decisioni prese da Pyongyang, ripetendo di voler mantenere la penisola priva di armi nucleari. Dall’altro lato, hanno però insistito sul dialogo come unica soluzione e sulla necessità di ascoltare le esigenze nord coreane e le richieste di un trattato di non aggressione che permetta a Pyongyang di agire con maggior lucidità. Corea del Sud, Cina e Russia hanno ripetutamente chiesto a Washington di smorzare i toni e cercare un possibile dialogo con Pyongyang. In realtà, più volte, gli Stati Uniti hanno mostrato disponibilità al dialogo, rifiutando tuttavia un incontro bilaterale e auspicando un incontro multilaterale alla presenza cioè di Russia, Cina, Giappone e Corea del Sud. La gestione della crisi con la Corea del Nord ha obbligato il Pentagono a un coordinamento stretto con gli alleati asiatici, dimostrando di tenere nella massima considerazione le loro opinioni. La scelta di procedere con il dialogo multilaterale anziché con l’azione di forza che alcuni si attendevano dall’amministrazione Bush, ma che nessuno dei due alleati desiderava può essere in questo senso un passo importante nella giusta direzione.
Dal suo canto, la Russia vede nella crisi nordcoreana un elemento per riguadagnare nella regione l’influenza di cui godeva ai tempi dell’Unione Sovietica. Ma Putin non può mettersi in contrapposizione con gli USA, motivo per cui Pechino rimane più credibile di Mosca come interlocutore per la Corea del Nord. Infatti, la Cina, che rimane militarmente legata alla Corea del Nord, con cui ha un’alleanza militare dal 1961, può porsi come il più autorevole mediatore tra Washington e Pyongyang con conseguenti benefici nel suo ruolo di potenza regionale.
La crisi nord coreana ha inoltre offerto alla Cina la possibilità di dimostrare di essere divenuta un’attrice responsabile sulla scena della politica internazionale. In effetti, il comportamento che la Repubblica popolare ha adottato in relazione alla questione nordcoreana è parso piuttosto abile e le ha guadagnato un’immagine di affidabilità. La Cina, pur rimanendo la potenza più vicina a Pyongyang, ha reso chiaramente noto di non condividere le scelte di Kim Jong-il. Pechino ha inviato numerosi emissari d’alto livello a Pyongyang per convincere i nord coreani a seguire la strada della trattativa. Come strumento di pressione, Pechino ha anche chiuso per breve tempo, ufficialmente per "ragioni tecniche", un oleodotto che convoglia in Corea del Nord il petrolio di cui il paese ha bisogno. In seguito, ha trattenuto una nave mercantile nordcoreana nel corso dell’estate ed ha operato movimenti di truppe lungo il confine. Nel gennaio 2003, l’allora presidente Jiang Zemin ha condannato la decisione nordcoreana di ritirarsi dal trattato di non proliferazione nucleare. Anche il presidente Hu Jintao, non appena nominato nel marzo 2003, ha chiesto a Pyongyang di smantellare il proprio programma nucleare, ventilando l’ipotesi che in caso contrario la Cina possa non continuare a concedere aiuti economici alla Corea del Nord (7) .
Naturalmente, una Corea unificata nell’orbita americana sarebbe un elemento di grave debolezza strategica per Pechino. La Corea è relativamente vicina ai principali centri politici ed economici cinesi: secondo Xia Liping, dello Shanghai Institute for International Studies, la penisola coreana può essere per la Cina da un lato "uno schermo" ai confini nordorientali e sul Mar Cinese Orientale, dall’altro "può diventare una passerella, che una terza potenza può usare per invadere la Cina" (8) . Infatti, se anche il territorio dell’attuale Corea del Nord fosse a disposizione delle truppe americane in caso di crisi, gli Stati Uniti vedrebbero attenuarsi drasticamente il problema del potere frenante dell’acqua e potrebbero usufruire di una testa di ponte sulla terraferma ai confini con la Cina. In definitiva, oggi come ai tempi della dinastia Ming, la Cina persegue due obiettivi strategici, per quanto concerne la penisola coreana (9) : evitare che la Corea diventi una minaccia diretta nei suoi confronti e evitare che la penisola coreana diventi una "passerella" per una potenza terza capace di invadere la Cina. Per tutti questi motivi, Pechino ha svolto un’importante funzione mediatrice ospitando a Pechino incontri multilaterali a sei, con rappresentanti delle due Coree, degli USA, della Russia e del Giappone. In questo senso l’incontro multilaterale, tenutosi a Pechino a fine agosto 2003, ha segnato un punto a favore dell’ascesa diplomatica cinese e spianato la strada alla distensione che ha portato nel gennaio 2004 alla visita "privata" di una delegazione americana di esperti nucleari alla centrale atomica di Yongbyon. Forse non è la fine della crisi ma i numerosi segnali di distensione vanno in gran parte a favore dell’ascesa diplomatica di Pechino.


(*) Intervista rilasciata in data 10 marzo 2004.
(1) Maria WEBER,Il miracolo cinese - Perché bisogna prendere la Cina sul serio, Il Mulino, Bologna, 2003. In proposito, recensione a cura della Redazione pubblicata nella parte VI di questo volume.
(2) Emblematico, al riguardo, può apparire quanto apparso sui media cinesi all’indomani dello scoppio della Guerra in Iraq. In particolare, la televisione cinese ha presentato l’evento come guerra di religione in Medio Oriente, tra due monoteismi".
(3) Se da una parte gli Stati Uniti forniscono tecnologia militare avanzata, dall’altra hanno recentemente contrastato l’idea di un referendum sul tema della sovranità, proposto dall’attuale leadership di Taipei.
(4) La nascita della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 fu interpretata in America come la ‘perdita della Cina’. Da allora, la minaccia comunista cinese è stata percepita fortemente dal Pentagono e dai suoi alleati.
(5) Le riserve cinesi sono le seconde al mondo dopo quelle del Giappone, che sono superiori a 500 miliardi di dollari.
(6) Z. Khalilzad et. al., The United States and Asia. Toward a new U.S. strategy and force posture, Santa Monica, Rand, 2001, p. 15. Yang, Y. "US-Japan Security Alliance and Asia-Pacific Security", in "NTU Political Science Review", 9 (June) 1998, pp. 275-304.
(7) W. Wo-Lap Lam, Time to act, China tells N. Korea, 25 agosto 2003. SIIS (Shanghai Institute of International Studies), The Post Cold War World, SIIS, Shanghai 2000.
(http://edition.cnn.com/2003/WORLD/asiapcf/east/08/24/willy.column/).
(8) Xia Liping, South Korea’s Northern Policy and Development of Sino-South Korean Relations, in "SIIS Journal", 9, 2002, n. 2, p. 46. A seguito delle considerazioni esposte, Xia afferma che "L’importanza strategica dell’Asia Nordorientale è per la Cina superiore a quella dell’Asia Meridionale e Sudorientale" [Trad. dell’A.].
(9) Ibidem.

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