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Per Aspera Ad Veritatem n.28
L'Islam Globale
Khaled Fouad Allam
Rizzoli Editore, Milano, 2002



Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste, ha curato un volume, l’Islam Globale, il cui senso profondo ci pare utile a far comprendere meglio le problematiche dell’integrazione musulmana in Occidente. L’incipit è costituito da un dialogo tra madre e figlia, svoltosi nel corso di un programma televisivo. Due generazioni a confronto, che vivono l’identità musulmana in modo diverso. Zohra, la madre analfabeta, emigrata in Francia da venticinque anni, vive la sua appartenenza al mondo islamico interiormemente, mentre Naima, la figlia, laureanda in filosofia alla Sorbona, dimostra la sua appartenenza al mondo islamico attraverso l’uso di simboli, come lo hijab (fazzoletto islamico).
Quale delle due è più integrata nella sua identità musulmana? Ecco lo spunto per porre altri quesiti, attraverso il contributo di storici, sociologi, politologi, filosofi ed ideologi islamisti, ci consentono di approfondire il rapporto tra Occidente ed Islam.
Per analizzare quest’ultimo, afferma forse sorprendentemente l’Autore, occorre partire dall’Occidente, verso il quale il mondo musulmano oscilla tra sentimenti di attrazione e rigetto. Non riesce in particolare a formulare una dialettica idonea a porlo sul suo stesso livello. La strategia di riconquista dell’identità islamica si fonda in verità su una operazione di svalutazione dell’Occidente che, secondo l’Autore, opera su un duplice piano. Da una parte si attaccano i musulmani occidentalizzati, dall’altra si sviliscono i fondamenti della sua identità.
Riflette Fuad Allam sulla circostanza che la modernità ha in molti casi prodotto la destrutturazione del sistema preesitente con il conseguente emergere, per esempio nelle prime decadi del ‘900, di movimenti politici religiosi islamisti quali i Fratelli musulmani e la Jama’a islamyya, che hanno interpretato l’Islam alla stregua di un’ideologia politica. Il pensiero radicale viene formulato per la prima volta da Sayyid Qutb (1906-1969), ideologo dei movimenti islamisti contemporanei, secondo il quale non basta applicare la legge musulmana (shari’a), come ritengono gli ulama, dottori della legge provenienti dalle grandi scuole religiose chiamate madrasa, ma è necessario realizzare un sistema politico islamico. I movimenti islamici, di conseguenza, non devono essere semplici partiti, ma rivestire caratteristiche di confraternite religiose realizzandosi quali organizzazioni sociopolitiche che mirano a conquistare il potere.
L’Islam, diffusosi già in passato in Spagna, in Sicilia e nei Balcani, è oggi presente in Europa con importanti comunità immigrate, caratterizzate da una forte eterogeneità etnica. Come tutte le religioni e le culture, è soggetto ad evoluzioni e mutamenti che risentono del contesto storico. Pertanto, il processo di reislamizzazione, nella prospettiva della globalizzazione, si diversifica in funzione del contesto geopolitico e socioculturale, realizzando scenari diversi.
In Italia, dove il mondo islamico ha individuato nella moschea l’elemento strategico unificante all’interno della quale si ritrova un criterio di uguaglianza nel trattamento giuridico e culturale, le diverse identità e dimensioni geopolitiche dell’Islam possono, se emarginate, rappresentare un terreno fertile per il terrorismo.
La profonda crisi che attraversa oggi il mondo musulmano, proiettata anche sul mondo occidentale, è la vera origine, secondo l’Autore, del neofondamentalismo. A partire dagli anni ’70 si affermano l’Islam della contestazione, che nasce nelle moschee di quartiere e nei campus universitari, e l’Islam militante. Questa evoluzione trovava le sue radici:
- nell’usura del potere dei paesi usciti dal periodo post-coloniale;
- nella sconfitta araba nella guerra dei sei giorni contro Israele;
- nella trasformazione socio-economica che sconvolse l’intera società tradizionale dei paesi islamici.
La radicalizzazione dell’Islam non ha trovato tuttavia la sua realizzazione nella rivoluzione islamica dell’Iran del 1978 -’79, che ha avuto un impatto notevole in tutto il mondo musulmano ma non ha dato seguito a una vera e propria mobilitazione politica. Non c’è stata insomma una internazionale dell’Islam, ma si è sviluppato l’islamo-nazionalismo sul piano politico e il neofondamentalismo sul piano dei valori.
Mawdudi (1903-1979), primo autentico ideologo dell’islamismo moderno, ha teorizzato sia in termini teologici che politici l’idea dell’antioccidentalismo. Egli ritiene che l’Islam diviene un tutto indivisibile, che si deve accettare o rifiutare per intero;ma anche un tutto immutabile, che non ammette cambiamenti o trasformazioni. È una costituzione (dustur) divina ed eterna, che lo stato islamico deve porsi come unico fondamento. Il suo postulato è relativamente semplice: una vita voluta e guidata da Dio è superiore ad una vita scelta dall’uomo.
L’Islam rappresenta, in altre parole, non soltanto una fede ma anche un codice etico, una prassi sociale, culturale e politica.
Per molti intellettuali musulmani la rottura tra mondo islamico e occidente si è accresciuta con la guerra del Golfo, perchè in quella situazione gli arabi si sono trovati divisi tra crociati, ossia affiliati agli occidentali, e difensori della nazione, cioè coloro che approvavano il tentativo di annessione del Kuwait da parte dell’Iraq.
Gli esiti della guerra hanno fatto emergere la coscienza di una doppia sconfitta: quella interna, rappresentata dallo scardinamento della solidarietà fra musulmani, e quella esterna, il cui simbolo è stato l’incapacità di difendersi dalla supremazia militare e tecnologica dell’Occidente. Questo sentimento di duplice sconfitta ha alimentato una psicologia del riscatto e oggi radicalizza la nozione di occidentalismo formulata da Hasan Hanafi. L’occidente diventa il nemico (l’altro).
Come può realizzarsi in pratica questo riscatto? L’universo del radicalismo e del neofondamentalismo islamico si incentra sulla figura di un uomo-profeta, che è modello perfetto di rettitudine (insan Kamil) e che ha una precisa funzione nei periodi di crisi delle società musulmane. È la figura carismatica che cerca di ripetere le gesta del Profeta e diventa forza che aggrega la comunità intorno a sé.
Il pericolo di oggi è che un numero crescente possa identificare tale modello nella figura di Osama Bin Laden.
Il nuovo terrorismo, facendo leva sul discorso religioso, può trovare supporto da parte di gruppi etnici e socioculturali molto diversi fra loro, con spinte ideologiche tra le più svariate. Si tratta di una sorta di iperterrorismo, che sfugge alle logiche di appartenenza ideologica perché la sua identità sta nella non-identità. Un’altra caratteristica che contraddistingue questo nuovo fenomeno è l’uso del corpo, perché il corpo del terrorista si annulla nel momento in cui porta a compimento la propria missione.
L’iperterrorismo agisce non più su scala nazionale, ma su scala mondiale, in un nuovo tipo di guerra di lunga durata non più limitato da confini determinati e neppure da rivendicazioni in senso stretto.
È convinto che la violenza sia l’unico mezzo per instaurare uno stato ideale (quello islamico o emirato, in quanto lo stato come nazione o democrazia sono elementi allogeni al pensiero politico dell’Islam), che nasce con l’idea del sacrificio come condizione di accesso di una condizione di purezza originaria.
Per comprendere a fondo quest’ultimo passaggio è necessario analizzare la nozione di Jihad, la cui radice jhd indica il concetto di sforzo interiore che può condurre l’essere umano alla pienezza spirituale.
Esistono in effetti due accezioni del termine: quella minimalista, che si identifica nello sforzo individuale e collettivo teso alla ricerca di un ideale; quella massimalista, che approva e legittima l’azione violenta e trasforma il muslim in un combattente.
All’origine della nozione di jihad c’è insomma l’opposizione tra puro e impuro, lecito e illecito. L’altro, il nemico, rappresenta l’impurità e la jihad diventa garante dell’ordine trasformando la violenza cieca in violenza ritualizzata.
Il suicidio, anche se estraneo all’etica e alla dottrina islamica, diventa strumento di lotta della Jihad e trova legittimazione nella cultura martiriologica e purificatrice sciita.
L’uso della parola kamikaze, invece, richiede una rivisitazione dei concetti di morte e suicidio. Nella cultura orientale la morte rappresenta la liberazione, la realizzazione di sé nell’incontro diretto con la divinità.
Storicamente nell’Islam è il gruppo e non l’individuo che definisce la società. Prevalgono pertanto nello Stato le relazioni interpersonali, le alleanze familiari, tribali, regionali, sulle forme istituzionali. Nell’era globale questa tendenza si coniuga con la trasformazione dello Stato in “Stato leggero”. La stessa nozione della umma (comunità) viene a definirsi in uno spazio transnazionale. Gli strumenti tecnologici contribuiscono d’altra parte a costituire una nuova identità, in cui si possono aggregare i vari gruppi del mondo musulmano.
L’analisi della comunità islamica, alla luce delle considerazioni sopra riportate, costituisce l’oggetto dell’ultimo capitolo del libro, dedicato dall’Autore alla comunità dei credenti immigrata in Europa.
La maggior parte delle popolazioni immigrate tradizionaliste rimangono sensibili al senso universalistico che ha la umma ma non si interessano delle sue realizzazioni e trasformazioni politiche. Gli ambienti militanti dell’Islam, peraltro una minoranza, prospettano una umma allargata di valenza eversiva che è il prodotto dei meccanismi di deculturazione derivanti dai processi di occidentalizzazione e, nel contempo, dello smantellamento della solidarietà tradizionale.
L’acculturazione abbinata a una politica di integrazione debole provoca la nascita di una nuova identità musulmana che però è lontana da qualunque riferimento culturale, linguistico e nazionale. Questa nuova identità è l’espressione di una sottocultura nata dall’esclusione sociale che si nutre di miti terzomondisti più che religiosi. Per questo le politiche di integrazione sono di vitale importanza per evitare le crisi di rigetto che possono sfociare nell’iperterrorismo sopra richiamato.
Per quanto attiene alla maggioranza della popolazione immigrata musulmana, si possono distinguere, secondo l’Autore, quattro tipi di strategia identitaria nella relazione con la società e lo Stato, almeno per quanto riguarda Europa.
La prima è il comunitarismo di tipo neofondamentalista. Il musulmano definisce la propria identità su un sistema di norme e su un codice etico-comportamentale basato sul conflitto tra lecito e illecito, ossia sull’ortoprassi. Il modello comunitarista si è sviluppato attraverso il movimento di origine pakistana Tabligh, che ha cercato di convertire i cattivi musulmani.
La seconda tipologia si basa su un comunitarismo neoetnico, dove è la filiazione musulmana che definisce il musulmano. Nella sua relazione con lo Stato il gruppo etnico coniuga eticità e appartenenza religiosa. È una tipologia frequente tra i musulmani marocchini e turchi, che hanno una forte identità etnico-nazionale.
La terza tipologia corrisponde al gruppo c.d. dei musulmani sociologici, che hanno integrato la separazione tra pubblico e privato e che si riferiscono all’Islam come eredità culturale e dimensione simbolica e non in quanto identità collettiva. Costituisce il gruppo più numeroso dei musulmani in Europa.
L’ultima tipologia è caratterizzata da una identità contrassegnata da una percezione privata e individuale della religiosità. Una giovane algerina intervistata affermava: “quel che mi importa è il rapporto con Dio. È un rapporto personale tra lui e me.
Nei prossimi anni, secondo l’Autore, questa tendenza alla privatizzazione della religiosità crescerà in modo esponenziale perché una religione senza chiesa, come l’Islam sunnita, dovrà trovare altri elementi di mantenimento e di strutturazione nell’identità religiosa, direttamente, com’è probabile, attraverso gli individui.



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