"Fattore Islamico" ed "Esercito Nazionale"
Non v’è dubbio che siamo di fronte ad un nuovo scenario, il quale mostra - tra diversi altri punti cruciali - quanto importante e fragile sia il rapporto (o alleanza?) tra Stati Uniti e Russia, le ambiguità che si celano dietro il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina, l’ineludibilità di scelte ispirate a mero pragmatismo politico sia sullo scacchiere mediorientale che in quello della ricostruzione politica in Iraq. In linea con sfide, che ormai incalzano e debbono essere affrontate, stanno emergendo nuove forze, le quali, a loro volta, impongono una revisione e nuove analisi del sistema politico globale: una spirale di minacce che sta portando al disastro e a serrati confronti, oppure possibilità di intese nuove, dialogo e riforme democratiche? Quale pace, quali negoziati, chi sono in realtà i signori della guerra, le menti dietro queste nuove spirali di conflittualità? Il contesto Eurasiatico non fa eccezione, come non è ormai più isola (più o meno) felice e lontana dalle nuove sfide poste dalla globalizzazione, dall’unipolarismo statunitense, dalla necessità sempre più incalzante di procedere a una riconversione politico-istituzionale ed economico-finanziaria. Si tratta di un contesto all’interno del quale, tuttavia, si possono individuare due realtà, che, al di là di schematismi ed elaborazioni (spesso molto virtuali) di "modelli", sono viceversa delle specificità regionali, e costituiscono ancora due incognite: "militare" e forze religiose/Islam. Si tratta di due fattori destinati ad avere crescente interesse e rilevanza: (i) il fattore Islamico e (ii) la costruzione di un "Esercito Nazionale". Entrambi si impongono all’attenzione degli studiosi e dei policy-makers. Entrambi sembrano destinati ad imporsi con sempre maggiore autorità in un futuro più o meno prossimo. Entrambi sono però profondamente radicati nel humus tradizionale della regione Eurasiatica, nel quale assumono particolare significato. Si tratta di espressioni di una cultura politica, spesso precedente l’Islam stesso, al cui contesto devono rapportarsi analisi e valutazione, soprattutto quando ci si riferisca a fattori che potrebbero influenzare la stabilità - o, al contrario, l’instabilità - della regione.
Senza dubbio la disintegrazione dell’Unione Sovietica ha segnato l’alba di una nuova era, convenzionalmente definita "l’era del post-bipolarismo", "l’era delle non-distanze", un’epoca che vede scoppiare rivoluzioni e plasmarsi nuove ideologie. In particolare, l’11 Settembre sembra segnare un punto di svolta per tutto il sistema di sicurezza e per le relazioni internazionali: pone l’ultimo sigillo sull’incontestata superiorità politico-militare ed economico-finanziaria degli Stati Uniti, sull’intensificazione di un processo di globalizzazione economica e dei mercati, e sulla costruzione di un nuovo ordine mondiale.
Sia che l’ideologico preceda l’azione - o viceversa -, non vi è dubbio che all’alba del terzo millennio, in un clima di anacronismi e contraddizioni, dominato e condizionato dalle scoperte scientifiche, nuove correnti di pensiero sembrano prendere forma e strutturarsi, mentre le barriere regionali si sgretolano per far posto ad una nuova forma di globalità. La Rivoluzione Telematica (la IT per eccellenza, o Information Technology) sta già lasciando il campo a una nuova e più preoccupante rivoluzione, quella delle Bio-Tecnologie, che si pone sullo scenario mondiale come una nuova forma di potere. Dominano incertezza, violenza, terrore, nuove e immense miserie, micro e macro-criminalità, abuso di potere e oppressione, conflitti regionali e nuove forme di conflittualità. La corruzione prevale, e si coniuga con traffici illegali e delinquenza di ogni genere. Lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali aggiunge disastri naturali a nuove forme di catastrofi umane. Sono situazioni tangibili e concrete; rappresentano delle sfide, che impongono scelte inquietanti, le quali, a loro volta, richiedono un ri-modellamento della società civile e politica non solo di fatto ma anche de jure. (1)
Come già detto, lo scenario Eurasiatico non si sottrae a questa nuova dimensione. Si impone la necessità di forgiare una nuova concezione di "statualità". (2)
Ma quale Stato? Uno Stato di diritto o criminalità istituzionalizzata? In altri termini, quale ricomposizione della società civile e politica vis-à-vis corruzione, violenza, oppressione, sistemi ben coordinati e organizzati di criminalità?
Non vi è dubbio che, in questa regione, "gruppi etnici criminali" - finalizzando le rispettive attività sulla base di una razionalità squisitamente socio-economica - erano riusciti ad emergere, acquistando una autorità e un potere senza precedenti. Avevano strumentalizzato codici di violenza e banditismo tradizionali, basati su solidarietà etniche o clanico/familiari, per conseguire obiettivi di potenza. La loro diaspora divenne fattore di influenza anche politica a Mosca stessa. La disintegrazione dell’impero sovietico impose pertanto delle scelte. Il discorso sarebbe molto lungo. Schematicamente, si può dire che, a questo punto, Russia e neo-Repubbliche Eurasiatiche - anziché legalizzare e istituzionalizzare un sistema criminale in un sistema uniforme e ben coordinato, all’interno del quale ogni sub-unità avrebbe avuto il proprio territorio o comunque il proprio dominio ben definito - hanno sviluppato un sistema diverso. Si tratta ancora di un sistema piuttosto eterogeneo, simile a un vero e proprio mosaico, dove i territori e gli "affari"sono stati spartiti in vari modi tra gruppi criminali di diverse origini storiche, etniche, culturali, ed etnico-territoriali, che facevano affidamento sulle proprie strutture di clan. Tali organizzazioni avevano molto poco in comune fra loro, eccetto ciò di cui potevano disporre: e cioè, una forza organizzata. L’indipendenza contrappose questi gruppi, e ben presto questi si trovarono coinvolti in feroci rivalità sia aperte che sotterranee. Per quanto notevoli, le opportunità si rivelarono ben presto limitate, e riuscirono a prevalere i rivali più forti; i deboli o furono cancellati o dovettero sottomettersi ai più forti. Un contesto di "eliminazioni" che si dipanò per tutto il 1992-1995. Quindi, sopravvenne l’impiego di metodi molto più pragmatici; anziché guerre fra gang rivali, dall’esito incerto, il ricorso all’assassinio del leader della fazione rivale divenne sistema, quasi sempre portato a termine con successo secondo schemi ben pianificati. Ciò consentì di superare la fase caotica nella quale forze lasciate libere dalle improvvise indipendenze si erano confrontate con estrema violenza, e di ricompattare le rivalità intorno a un ristretto numero di "capi" secondo schemi verticali. Il risultato finale fu che pochi gruppi emersero e si imposero, ben organizzati al loro interno, e saldamente integrati negli establishment, rispettosi delle nuove regole dell’economia di mercato. Lo stato sembrò aver fallito in quel processo di "institution building", tanto caro alle dottrine occidentali; certamente, aveva perso il monopolio sia della forza che della ricchezza - entrambi vitali alla propria esistenza e sopravvivenza. Aveva tuttavia trovato equilibri diversi: il consolidamento di una situazione di fatto, "legalizzata" da una serie di intese informali, e resa tale dalle opportunità che offrivano i mercati emergenti. Ma tali intese su quale forza poggiavano? Quale forza garantiva stabilità e sicurezza regionali? Fu altrettanto inevitabile che questo processo portasse anche alla "legalizzazione" di forme private di protezione (Private Security Businesses), e allo sviluppo di "agenzie" private (gruppi criminali, guardie private e unità paramilitari addestrate soprattutto come organi di polizia), addette alla sicurezza e alla salvaguardia del nuovo ordine statuale e relativi interessi - sulla base di quegli accordi informali istituzionalizzati di fatto dalla pratica e dalle solidarietà del gruppo. Questo schema salvò temporaneamente il quadrante eurasiatico da nuove forme di violenza, anarchia e caos. (3)
Come noto, la riunione di Alma Ata del 21 Dicembre 1991 si concluse con la dichiarazione d’indipendenza delle Repubbliche Centro Asiatiche ex-Sovietiche. La loro adesione alla CIS segnò un passo importante nella trasformazione della regione in una specie di Club Eurasiatico. Per citare le parole del Field-Marshal I.E. Shaposhnikov pronunciate a Parigi nel settembre 1992, "...la fine della struttura geopolitica bipolare del mondo, conseguenza dello sfaldamento dell’Unione Sovietica, ha creato un clima propizio per contraddizioni politico-militari a livello regionale e locale, portando a profondi cambiamenti nel sistema delle relazioni internazionali, e, come risultato, all’emergere di nuovi ‘fattori di rischio’ e di altrettanto nuove forme di conflittualità anche sul piano militare". (4)
Senz’ombra di dubbio la disintegrazione dell’ordine sovietico ha lasciato libere forze solo apparentemente nuove, che configuravano nuovi equilibri e nuove strategie. Con ritmo sempre più incalzante, si sono venuti profilando nuovi scenari regionali e interregionali e, con questi, nuove opzioni per la sicurezza nazionale e collettiva non soltanto nella regione eurasiatica.
Come si è detto, ogni neo-Stato indipendente dovette far fronte a una serie di sfide che non potevano essere eluse o posposte.
I neo-Padri della Patria, quasi tutti per lo meno, appartenevano alla vecchia nomenklatura sovietica, che - generalmente - era reclutata fra le élite di potere tradizionali locali. Questi leader, pertanto, non erano né dittatori né democratici, non erano certamente degli eroi nazionali. Alcuni erano degli opportunisti, quasi tutti erano sinceri nel volere assicurare al proprio Paese una sopravvivenza politica ed economica. Tutti erano comunque consci della vulnerabilità del proprio Paese, e, soprattutto, della vulnerabilità che proveniva dal fatto di una nascita prematura come "Nazione". Ognuno di questi neo-Presidenti si trovava tuttavia a capo di un Paese la cui "nazionalità" era tutta da definire nei contenuti. Non solo; ma era tutta da definire all’interno di confini artificiosamente tracciati dal regime precedente, così intricati da ridurre - anziché consolidare - le prospettive di una "indipendenza nazionale".
L’indipendenza generò pertanto la necessità di adottare un ordinamento che fosse al tempo stesso "nazionale" e "democratico", tale da giustificare, non solo agli occhi dell’opinione pubblica interna, ma soprattutto a quelli del mondo esterno, la sopravvivenza territoriale di Stati che non fossero creazioni artificiose ereditate da un regime appena decaduto, ma Stati indipendenti e sovrani.
La sopravvivenza politica ed economica imponeva contemporaneamente tutta una serie di altre priorità, quali il bisogno di interrompere l’isolamento economico, la creazione di sistemi finanziari e bancari in grado di sostenere una riconversione economica, una rete di comunicazioni che potesse permettere collegamenti veloci e sicuri con il mondo esterno, la necessità di interventi nel campo dell’istruzione e formazione, dotarsi di un esercito nazionale, ecc. ecc. (5)
Nel complesso, si trattava di riforme strutturali e sistemiche al tempo stesso, che dovevano essere affrontate, e che avrebbero necessariamente imposto delle limitazioni alle libertà individuali.
Come si è detto nel paragrafo che precede, l’incertezza del presente e la fluidità della transizione lasciarono libere le forze di "gruppi" in concorrenza tra loro per il controllo dei nuovi Stati. Le nuove leadership si trovarono così a fronteggiare movimenti politici che si autodefinivano "nazionali" e "democratici", ma di fatto riflettevano il riemergere di forze tradizionali, espressione di una cultura politica popolare "parallela", e dei rispettivi meccanismi di potere. Fu esattamente a questo punto che nello scenario eurasiatico sono emersi due fattori, destinati a giocare un ruolo di primo piano in termini di stabilità e sicurezza regionale e internazionale:
1. il fattore-Islam - ossia l’intesa con i poteri religiosi (islamici) e, quindi, anche con quelle forze politiche che l’Islam può rappresentare in alcuni contesti.
2. l’organizzazione di un esercito "nazionale", ossia di una struttura orizzontale-trasversale che superasse le milizie personali e le unità paramilitari.
Si tratta di due coefficienti che vanno inquadrati all’interno delle tradizioni locali, cui sono strettamente correlati. Entrambi presentano soluzioni profondamente differenziate, non esportabili, varianti che - a loro volta - esprimono il retaggio di forze profondamente radicate nella cultura popolare.
Nella regione eurasiatica, questi due fattori sono venuti assumendo connotazioni individuali, e - soprattutto a partire dagli anni 1994-1995 - hanno una valenza specifica in termini di stabilità regionale, sicurezza e ricostruzione/ristrutturazione sistemico-strutturale. Si tratta di una analisi che implica valutazioni che prendono in considerazione possibili sviluppi futuri per quanto riguarda il coinvolgimento di attori regionali e no, di attori che confinano con quest’area o sono in qualche modo ad essa interessati da un punto di vista globale e strategico.
Con il riemergere di tradizioni e rispettive concezioni del potere e sua gestione, la distinzione fra poteri fu soltanto una sfumatura. Sostanzialmente, questa si ricongiunge a precisi interessi di classe e a gruppi e forze politiche che - a loro volta - sono espressione di forze politiche conformi alla tradizione. L’amministrazione cominciò a identificarsi sempre più con il potere politico-amministrativo, ossia con l’apparato burocratico. Le leadership tradizionali cominciarono a guardare al moderno e a riforme perlopiù etero-referenziali con apprensione, cercando di saldare alleanze e intese con le diverse forze politiche e sociali del Paese, rendendo la fase di transizione ancora più fluida e incerta, spesso - come si è detto - anche molto violenta. E non vi è dubbio che, a questo punto, il concetto stesso di statualità - o governance, entrò in crisi. È questo il contesto che, negli anni 1994-1995, vide emergere ed imporsi due incognite principali: il potere militare e il potere dell’Islam.
Nessuno stato può prescindere da una propria Forza, l’unico principio sperimentalmente rilevabile dell’autorità. Senza la Forza non vi è alcuna autorità, e non si può legittimamente esercitare alcun potere.
Se quindi, in maniera molto schematica, si dovesse procedere nell’analisi e tentare una previsione dell’evoluzione politica nel periodo della post-indipendenza e, soprattutto, conclusasi quella fase di caos e anarchia degli anni 1992-1995, si potrebbe ipotizzare la dissoluzione dell’idea di partito a vantaggio del culto di una singola personalità (come d’altronde è accaduto in quasi tutte le neo-Repubbliche), una de-politicizzazione dello Stato stesso in nome dell’efficienza tecnocratica e dello sviluppo economico - l’altra grande priorità della regione (come d’altronde è accaduto in quasi tutte le neo-Repubbliche. Il Tajikistan è un caso a sé). Si sarebbe potuto quindi prevedere il pullulare di governi sempre più accentratori e centralizzati (ossia dispotici), ma spesso inefficienti; l’incapacità della classe dirigente di creare attorno a sé un consenso, pur pretendendo di mantenere il monopolio del potere; il riaccendersi di rivalità inter-etniche, inter-tribali e/o clanico-familiari, favorite e appoggiate da generosi interventi dall’esterno grazie appunto alla fluidità delle frontiere; il declino delle varie ideologie in favore di una gestione amministrativa sempre più controllata dalla classe dirigente; e, a sostegno di questa classe dirigente, la creazione di milizie "personali" e "di gruppo" sempre meglio organizzate ed equipaggiate; una sempre maggiore fruizione da parte dell’élite dirigente dei benefici e dei privilegi connessi alla gestione del potere... senza alcun beneficio per le altre fasce della popolazione, sempre più coinvolte a pagare il costo del potere altrui. Sull’onda di questo trend, quei i problemi connessi allo sviluppo economico, alla programmata "riconversione economica e finanziaria", la crescente disoccupazione urbana, la mancata valorizzazione delle aree rurali e l’utilizzo errato delle risorse idriche, la mancata valorizzazione delle risorse minerarie - di cui la regione è particolarmente ricca -, la inadeguatezza delle comunicazioni in generale...ebbene, tutti questi problemi verrebbero ad aggravarsi, anziché trovare soluzioni razionali. Questo scenario - già di per sé negativo - sarebbe complicato ancora di più da interessi esterni e da interferenze da parte di attori out-of-area, che troverebbero un terreno d’azione particolarmente fertile nelle divisioni interne.
Si tratta di uno scenario dove la coercizione e la repressione di ogni movimento d’opinione e associazione potrebbero provocare un altro tipo di reazione e protesta: quella religiosa e quella militare.
Per quanto riguarda l’Islam, nel corso dei secoli la regione eurasiatica ha visto attecchire e diffondersi più di un movimento islamico: un Islam "nazionalistico", un Islam non ufficiale, rifugio dei più poveri e degli esclusi dal potere, un Islam nella sua forma più radicale ed esasperata, dalle strutture particolarmente fluide, personali e flessibili, le quali, come si è visto in altre regioni dell’ecumene islamica, sfuggono a ogni controllo istituzionale e possono esprimersi attraverso movimenti politici, a volte molto violenti. Un Islam che, come si è visto in altre aree e in altre epoche, in molti casi rappresenta l’estremo rifugio dell’esasperazione e disperazione degli sfruttati, e di quelle fasce sociali che, pur disponendo di mezzi e istruzione, non trovano accesso al potere o alle ricchezze economiche della regione.
Ma non è il religioso l’unica forma di protesta e opposizione. In uno scenario siffatto, vi è - come si è detto - un’altra categoria di "esclusi dal potere" e dalla spartizione del bottino che arreca la gestione del potere: i Militari. Questi potrebbero giocare un ruolo centrale e politico. Forza perlopiù trasversale, possiedono "la forza", l’uso della quale consentirebbe di ripristinare e mantenere quella stabilità interna, indispensabile premessa a ogni ricostruzione politica e economica, lasciando alle spalle militanze e terrorismo, guerra civile e caos: quelle rivoluzioni che negli anni ‘50-’60 del secolo scorso hanno portato al potere i Militari in più di una regione islamica.
Ma il cosiddetto "modello eurasiatico" ha due varianti, dalle quali non è possibile prescindere senza incorrere in generalizzazioni fuorvianti. In un certo senso è ancora un modello a sé.
Nel decennio trascorso dall’indipendenza, i leader al potere hanno pressoché totalmente accettato i rispettivi confini come un fait accompli, tanto inevitabile quanto la loro indipendenza, data l’urgenza di dare una risposta attendibile alle aspettative della comunità mondiale circa il processo di "nation" e "institution building". Il percorso seguito è stato quello delineato nel secondo paragrafo, e, successivamente, le vicende si sono dipanate secondo lo schema classico appena delineato. Ma - grande "ma" - alla domanda "quale esercito nazionale" e "quali armamenti" in grado di affrontare i problemi interni di ordine e stabilità, e di garantire la sicurezza dei confini "nazionali" nel quadro di una sicurezza e di un ordine regionale, ebbene, a questa domanda, la regione Eurasiatica ha dato risposta continuando a far leva su milizie personali e corpi paramilitari da un lato, e delegando la stabilità propria e regionale alla Federazione Russa, sulla base di precisi accordi individuali. Quanto all’Islam, questo ha ripreso forza e vitalità, ha elaborato proprie dottrine, in alcuni casi è addivenuto a intese con gli establishment al potere, in altri è diventato pubblica espressione di dissenso, contribuendo alla erosione delle strutture centrali.
L’11 Settembre ha quindi definitivamente ribaltato anche questo paradigma, rendendo ogni previsione circa l’evoluzione politica post-indipendenza meramente ipotetica. Con l’operazione Afghanistan gli Stati Uniti sono entrati da attore nel quadrante Eurasiatico. È uno scacchiere nuovo, nel quale gli Stati Uniti sono senza dubbio divenuti una forza e una realtà incontestata. In ogni caso, le basi militari americane costituiscono una presenza sia in termini di potenza militare che di potere economico. Sullo sfondo di un vivace e controverso dibattito sulle alleanze e/o possibili alternative, che oggi sta dividendo studiosi, analisti, politici e la stessa opinione pubblica all’interno della Federazione Russa, sembra che Mosca abbia infine preso la decisione finale: gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza, una sovrastruttura globalizzante, da cui è al momento impossibile prescindere per ogni dottrina politica o di sicurezza. (6) Ne è conseguita l’intesa Putin-Rice.
Giusto o sbagliato, questo atteggiamento riflette ancora una volta la logica del retaggio storico-culturale dell’Eurasia: una scelta pragmatica basata su una mera logica di forza e potenza. Molto è stato scritto e detto in più di un forum autorevole; pertanto, senza incorrere in inutili ripetizioni, si può senz’altro prendere atto del consenso che si è creato intorno al fatto che - oggi - la sicurezza è il prodotto della stabilità; la stabilità a sua volta non è il prodotto di un momento, né un fatto acquisito. Entrambe sono il frutto di un processo e, nel medio termine, il risultato di un sistema cooperativo. Secondo le nuove regole segnate dall’11 Settembre, appare impossibile parlare di una regione come di un caso per sé, uno scenario o un sistema di sicurezza isolato. La regione Eurasiatica non fa eccezione, tenuto soprattutto conto della sua collocazione geografica come ponte tra Europa e Asia. Sia che venga considerata "via della seta" o "via di transito per migrazioni e invasioni" dall’Est o dall’Ovest, la regione Eurasiatica è sempre stata un crocevia, che ha dato luogo a robusti sincretismi culturali, formidabili sintesi speculative, modelli istituzionali e concezioni di potere e statualità del tutto originali. Parlare di Eurasia senza aver chiari questi concetti sarebbe ancora una volta limitato e fuorviante.
Da un punto di vista metodologico, l’enfasi dovrebbe essere posta sulla microanalisi territoriale, orientata ad identificare e analizzare elementi specifici - ovvero le componenti etniche e rispettive radici storico-culturali, le forze politiche e culturali tradizionali, le fasce sociali attraverso cui queste trovano (o hanno trovato) espressione, dinamiche e inter-azioni. Si tratta di elementi che stanno ri-emergendo ancora una volta con estrema chiarezza e, in taluni casi, con estrema virulenza. La consapevolezza e la percezione di tali coefficienti può rappresentare una chiave preziosa per comprendere possibili elementi di aggregazione/disgregazione nella regione post-Sovietica. Non solo. La consapevolezza di questi coefficienti consente di identificare alcuni elementi, che potrebbero rivelarsi decisivi per la stabilità e la sicurezza sia a livello interno, che regionale e, non di rado, interregionale. In questo contesto più globale, devono pertanto essere presi in considerazione anche i protagonisti esterni, che - specialmente dall’indipendenza in poi - motivati da interessi politici e strategici di natura e contenuto diversi, interagiscono con la politica regionale e potrebbero quindi spostare gli equilibri interni e dell’intera regione. Il discorso diverrebbe tuttavia troppo lungo e si rimanda a una letteratura documentata per qualità e professionalità.
In questa sede, interessa sottolineare l’incidenza del Fattore-Islam.
Sebbene non sia ancora ufficialmente al potere, esso continua a giocare un ruolo centrale.
Per quanto riguarda il fattore islamico, benché non sia ancora ufficialmente al potere, esso continua a giocare un ruolo centrale.
Gli establishment socialisti post-Sovietici, riguardo al fattore islamico, sono in più di un caso divenuti vittime delle loro stesse strategie. Nel tentativo di isolare le opposizioni nazionaliste (pan-Turche/pan-Islamiche) hanno minato la loro stessa legittimazione. Non hanno quasi mai accolto o accettato nuovi gruppi islamici nei loro ranghi, e quando lo hanno fatto (se mai sia stato), lo hanno fatto senza l’adeguata preparazione culturale, frutto di quella formazione che sta alla base di ogni processo di "institution building". È per questo, quindi, che gli insorgenti movimenti islamici spesso si sono coalizzati fra loro, dando vita a gruppi settari e ad ondate neo-fondamentaliste de-territorializzate. (7)
Per ciò che concerne la cultura locale, l’Islam affonda le proprie radici in una cultura popolare che spesso lo precede da secoli. Di conseguenza, esso ha connotazioni che lo distinguono dall’Islam delle regioni vicine (come la Repubblica Islamica dell’Iran, per esempio, o la più settentrionale regione "Tartara", o l’Anatolia Turca in genere). Qui ci troviamo di fronte ad un Islam rigidamente Sunnita e - da un punto di vista "ufficiale" - ortodosso, contraddistinto da un sincretismo molto particolare, da un forte culto di pir e di "santi", e da rituali estremamente complessi, che includono forme sciamaniche e cerimonie sacrificali.
Seguendo il processo di riconversione socio-politica, troviamo una società strutturata su modello occidentale, la quale convive con una cultura ancora fortemente ancorata alle proprie origini. (8) E oggi troviamo un Islam particolarmente attivo, anch’esso parte della tradizione culturale di quest’area.
L’Islam costituisce una forza. Anche se non possiamo parlare di una "chiesa Islamica" o di un "clero" - come per gli Sciiti - è pur vero che siamo di fronte a un Islam che ha elaborato tutta una serie di strutture informali e flessibili, le quali, in certe circostanze, sono capaci di sviluppare un’incredibile forza. In questa ampia regione geo-culturale, tali strutture sono fondate sulle "lealtà" dei discepoli verso i loro maestri, specialmente nelle aree rurali dove la tradizione ha un impatto maggiore sull’istruzione e formazione dei giovani e dei bambini. Le scuole di Moschea (le madrasah) e gli ulema stanno acquisendo crescente importanza - nonostante talune linee governative ufficiali - e stanno rapidamente recuperando il terreno perduto durante il passato regime. È spesso un Islam molto mistico, segnato dalla presenza di confraternite religiose (tariqah) con i loro legami spirituali e le loro lealtà, e piccole comunità unite dal culto di santi locali. È un Islam molto mistico, sempre più segnato dal revival del fenomeno dei tablighi. Questo tipo di Islam si impone per la natura personale dei rapporti. Rappresenta la moderna risposta (e sfida) locale alla filosofia occidentale della "Globalizzazione". Non riconosce confini territoriali o barriere amministrative, non si identifica con gruppi etnici, ma costituisce una fitta rete di contatti, spesso sotterranei, capace di sopravvivere ad ogni forma di controllo istituzionale o di repressione, e di innestare forme di solidarietà all’interno del gruppo religioso, che possono anche avere un effetto polarizzante, unendo attorno a sé altri gruppi etnico-tribali con ideali socio-politici comuni.
Questo Islam può trasformarsi in una formidabile forza politica. Al di là di ogni concezione filosofico-teologica e giuridica, aiuto esterno e consenso interno hanno spesso creato un’altra rete di contatti, dalle maglie particolarmente serrate, finalizzata ad interessi materiali, di natura spesso prettamente economica, come il controllo di alcuni mercati (traffico della droga, per esempio). La collaborazione e la solidarietà dei "fedeli", la concessione di "protezioni", e, dove possibile, di posti di lavoro, la generosa distribuzione di aiuti ai poveri e ai bisognosi, l’educazione e l’istruzione, la distribuzione di nastri, libri, copie del Corano, testi Sacri ecc. sono gli strumenti di un’opera sottile e capillare. Si tratta di una fitta rete di interessi "mondani", che conferiscono a queste forze "spirituali" un inequivocabile potere anche terreno.
Queste sono strutture reali che, precisamente per la loro natura informale e personale, sono particolarmente flessibili; sfuggono al normale controllo istituzionale, attraversano le frontiere formalmente riconosciute da singoli Stati, e, nelle mani di un individuo capace e dotato di forte ascendente personale, possono mobilitare emotività e frustrazioni divenendo strumento di militanza, destabilizzazione ed eversione.
È questo il potere della società islamica, un potere spesso più di fatto che di diritto.
Durante l’epoca sovietica, l’Islam trovò espressione nell’istituzione del Muftì (Islam ufficiale), pur vivendo accanto all’"altro" Islam, un Islam parallelo e popolare. In certi periodi e all’interno di dati contesti politico-culturali, quell’Islam popolare non aveva tuttavia mancato di dar vita a movimenti, autentiche forze politiche e militanti con contenuti fortemente nazionalistici, capaci di presentarsi come alternativa alle forze al potere. Più di una volta misero in crisi lo stesso impero zarista prima, e quello sovietico successivamente (la politica Lenin e quella di Stalin delle "deportazioni" e delle "frontiere" furono ispirate da questi movimenti).
Col venir meno dell’ordine sovietico, questa forza senza dubbio sta tornando a riproporsi, si sta muovendo, sta agendo, pianifica strategie politiche. Si incrocia con quei gruppi che, ben organizzati al loro interno e saldamente integrati negli establishment rispettosi delle nuove regole dell’economia di mercato, salvaguardano la propria sopravvivenza circondandosi di guardie personali, unità paramilitari ecc. Gli equilibri di potere che ne derivano sono estremamente delicati e fragili, particolarmente problematici quando ci si trova di fronte a istituzioni e strutture amministrative disegnate su modelli occidentali di statualità e democrazia (tendenzialmente secolari), da un lato, e dall’altro a forze tradizionali locali, che si affacciano di nuovo alla ribalta, presentando un proprio modello di vita e di società come elemento fondante dell’identità nazionale.
La naqshbandiyyah, il movimento wahhabita e quello salafita, oltre al fenomeno tablighi, sono l’espressione tangibile di questa religiosità nella sua concezione e forma più radicale ed esasperata: è l’Islam dei santi, l’Islam delle confraternite, un Islam che ha organizzato al proprio interno delle strutture informali e flessibili, che riescono a sfuggire al controllo istituzionale e ad esprimersi attraverso un’azione politica, talvolta di natura rigidamente militante. Non vi è dubbio che queste forze si stanno riorganizzando come forze teologico-giuridiche "trasversali", possono avere obiettivi fra loro molto diversi (non da escludersi quelli "terreni"), ma sostanzialmente condividono lo stesso principio, ovvero quello di rimodellare la politica ufficiale in direzione islamica, quando non si presentano come l’unica alternativa all’attuale sistema politico. (9)
Non v’è dubbio che gli establishment al potere sono consapevoli della situazione, e, proprio per questa consapevolezza, hanno dato risposte diverse di fronte all’incalzare del fenomeno in tutta la regione. La scelta di Putin di concentrarsi sui problemi interni, non ha eluso il problema della sicurezza in generale e dei confini in particolare, sorti dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Tutto ciò ha portato ad una opzione molto pragmatica: una stretta associazione, sotto quest’aspetto, con gli Stati Uniti e una guerra senza limiti contro il terrorismo. Il contributo di Michele Brunelli, che conclude queste brevi riflessioni, fornisce cifre dettagliate al riguardo.
Il discorso torna quindi alle riflessioni iniziali.
Il fattore Islam rappresenta oggi una forza trans-etnica, che va oltre ogni frontiera o barriera territoriale. Diametralmente opposto a questo, abbiamo la creazione di un "Esercito Nazionale", che possa porsi come forza autonoma rispetto al governo.
Nel vasto bacino Eurasiatico, le forze locali hanno sempre rappresentato il sostegno tradizionale delle leadership tradizionali: milizie reclutate sulla base di un sistema clientelare clanico-tribale (client-patronage system), espressione di precisi equilibri all’interno dei rapporti tra famiglie e/o clan-tribù. Questo è sempre stato il modello di Statualità (o Governance) ed Esercito nazionale della regione.
Il processo di "nation building" è viceversa un fattore ereditato, imposto. Tale realtà è ben ribadita dalla letteratura pakistana degli anni ’90, "il risultato più significativo del dominio coloniale sovietico in Asia Centrale potrebbe essere il successo ottenuto nella colonizzazione delle menti e delle coscienze della gente ... L’incorporazione delle popolazioni musulmane centrasiatiche nello Stato coloniale sovietico... uno Stato coloniale che aveva un ordine sociale, politico, militare ed economico" (10).
Quindi, con il collasso dell’ordine sovietico, sono riemerse le divisioni etniche, tribali e di clan, così come i problemi relativi a gruppi sociali, movimenti politici, varie forme di associazionismo, sviluppo economico, ecc., espressioni pervasive delle tradizioni e del "loro" concetto di sovranità, potere e autorità. Queste ultime sono numerose e variano con il contesto culturale ed etnico-culturale. Comunque, è certamente possibile identificare alcune realtà comuni, consolidate dalla prassi politica. Le più importanti sono:
· la concezione personalistica del potere, che porta ad una forte concentrazione di questo nelle mani di una singola "personalità";
· la concezione del potere inteso come "contrattualità", ossia un "contratto alla pari" tra la società e coloro che sono liberamente scelti per condurre il paese in guerra e in pace;
· il clan/famiglia e/o tribù con il proprio sistema di clientelismo clanico-familiare e/o tribale, il che significa che nomine o favori diventano ricompense per i servizi resi e la lealtà dimostrata dai clientes ai propri capi;
· la natura virtuale di ogni concetto di "territorio" o confine territoriale, per cui anche in passato i movimenti di opposizione furono per lo più espressione di conflittualità trasversali etniche, oppure claniche, tribali, religiose...più che l’espressione di consapevoli orientamenti politici o ideologici. Le rivendicazioni del controllo di determinati territori da parte di determinati gruppi sono perlopiù - come si è accennato sopra - il risultato di opportunità o convergenze di carattere economico.
Dopo l’indipendenza, i movimenti e le forze d’opposizione che sono emersi ovunque sembrano ripetere lo stesso modello e gli stessi meccanismi: rivalità tribali, rivalità inter-etniche e/o inter-familiari, incoraggiate da generosi contributi esterni grazie alla porosità delle frontiere. Il potere - dopo un periodo di forte instabilità - si è legato a specifici interessi di gruppi sociali e forze politiche, i quali - a loro volta - sono anche l’espressione di forze politiche tradizionali e locali. L’apparato amministrativo tende a identificarsi sempre più con il potere politico-amministrativo, ossia con l’apparato burocratico. Ed è quindi naturale, come si è anche detto, che le leadership tradizionali guardino al moderno con apprensione, e vedano il processo di riconversione democratica ed economica con una certa ansia non scevra da timori, trovando difficile rinunciare a quei privilegi consolidati da generazioni e sempre legati a un potere locale. In questo senso, hanno continuato a cercare intese ed accordi con le diverse forze politiche e sociali del Paese, tentando di guadare la fase di transizione senza troppe perdite e danni cospicui. Il tutto - già di per sé aleatorio - è reso ancora più aleatorio: (i) dalla fluidità stessa di quelle forze; (ii) e dall’11 Settembre, che ha segnato una brusca svolta con lo sconvolgimento del contesto globale.
Comunque, è interessante continuare l’analisi iniziata nel terzo paragrafo, a proposito delle possibili forme di protesta e opposizione alla frenetica azione di Governi sempre più centralizzati e determinati a non lasciare il potere di fronte alle opportunità presentate da un mercato emergente e da uno Stato sulla via del fallimento. Si è accennato all’incapacità della classe dirigente di creare un consenso nonostante continuasse a mantenere il monopolio del potere, portando così alla recrudescenza di rivalità inter-etniche, inter-familiari, inter-tribali o di clan, rese sempre più faziose grazie anche a generosi interventi esterni a causa della porosità delle frontiere. Quindi, è seguito il declino delle varie ideologie, a favore di un’amministrazione sempre più sotto il controllo del gruppo dirigente; e, a sostegno della sicurezza personale di tale gruppo, abbiamo assistito alla creazione di milizie personali (o di partito), ben inquadrate, ben addestrate ed armate. La divaricazione del sapere ha creato maggiori divaricazioni di potere, in un crescente sfruttamento da parte dell’élite dei benefici e dei privilegi connessi alla gestione del potere...senza farne partecipi altri gruppi (o fasce sociali) della popolazione. Le (mancate) riforme istituzionali, la (faticosa) riconversione coniugata a sviluppo economico e finanziario, la scolarizzazione associata con la disoccupazione urbana, lo sfruttamento indiscriminato delle aree rurali, l’abuso e l’uso sbagliato delle risorse idriche e minerarie, i disastri ecologici ... hanno contribuito a deteriorare una situazione già deteriorata. Questo scenario, fino all’11 Settembre, è stato ancor più complicato da interessi ed interferenze esterne, che, come accennato sopra, hanno trovato nelle divisioni interne un terreno particolarmente fertile nel quale agire. Uno scenario drammatico, reso ancora più drammatico dalla secca repressione di ogni idea o associazione, che ha provocato un altro genere di protesta: quella religiosa. O meglio, l’Islam nella sua forma più radicale ed esasperata, di cui si è parlato nel paragrafo che precede, con le sue tariqah, i suoi ulema e i suoi tablighi, con i suoi movimenti trasversali mistico-religiosi, un Islam che, a parte l’essere un rifugio o il bisogno di una nuova cultura politica da opporre all’ateismo scientifico sovietico, in molti casi è diventato la chiara denuncia di abusi e miseria, e dell’eliminazione di ogni contesto pluralistico.
Come si è anche detto, l’Islam, comunque, non è l’unica forma di protesta e opposizione. Generalmente parlando, potrebbe esserci un’altra categoria "esclusa" dalle divisioni della ricchezza che reca il potere: i Militari.
L’esperienza post-coloniale ha visto ripetersi lo stesso cliché in più di una regione dell’Africa o dell’Asia: ad un certo punto, l’esercito - escluso dal potere e dai suoi privilegi - ha cominciato a mettere in dubbio la legittimità del Governo e a vedere nel colpo di Stato l’unico mezzo per portare al cambiamento e - perché no? - per godere di quei benefici così strettamente connessi al potere politico. In una situazione in cui il Partito è identificato con lo Stato, i Militari - spesso perfettamente consapevoli del proprio compito, della propria posizione e della propria forza - hanno giocato un ruolo, coscienti di essere l’unico strumento capace di proteggere la società civile, lacerata all’interno e spesso senza una solida cultura politica, e quindi incapace di opporsi al regime con un qualche esito o di provocare il capovolgimento delle istituzioni. A ciò si era poi aggiunto il fatto che molti capi di Stato - avendo avvertito il pericolo di un esercito che tende a porsi come Forza autonoma rispetto alla dirigenza - avevano cominciato a circondarsi sempre di più di milizie personali o di partito, reclutate all’interno di clan o tribù di appartenenza, oppure assunte all’esterno del Paese come vere e proprie forze mercenarie, le quali comunque condividevano i privilegi del potere. Una siffatta politica aveva ulteriormente inciso sul morale dell’Esercito, in quanto andava a sminuirne il prestigio e il potere: il colpo di Stato diveniva a tal punto l’unica via per riconquistare alle Forze Armate lo status minacciato, i propri privilegi ... e per cambiare le istituzioni. Questa fase - attraverso cui passarono molti Stati del medio-asiatico e dell’Africa dopo l’acquisita indipendenza dall’Occidente nel corso della seconda metà del Ventesimo secolo - vide anche il dissolversi dell’idea di partito e una generale de-politicizzazione dello Stato in nome di una rifondazione globale delle istituzioni sulla base di un efficientismo tecnocratico e in nome dello sviluppo sociale ed economico del Paese. (11)
Ritornando alla realtà della regione Eurasiatica, è interessante valutare fino a che punto si è realizzato o ripetuto questo modello teorico. Certamente tale regione ha seguito la strada della centralizzazione del potere, della de-politicizzazione del partito (o dei partiti); del reclutamento clientelare; dell’indolenza di fronte a catastrofi ecologiche e ai reali problemi connessi con l’introduzione di riforme sistemiche e strutturali mirate allo sviluppo economico e sociale di tutte le fasce della società; della repressione dei gruppi e movimenti d’opposizione, dell’esplosione delle rivalità e delle divisioni etniche, tribali e/o clanico-familiari; dell’organizzazione di milizie personali. Seguendo lo schema delineato sopra, il passo da questa fase a quella successiva - ossia il colpo di Stato militare - sarebbe imminente. Tale passo non si è però verificato: i neo-Stati indipendenti non hanno un esercito nazionale!
In altre parole, nelle varie Repubbliche ancora manca una struttura militare istituzionale che possa porsi come alternativa al governo in carica.
Manca una struttura organizzata, chiaramente identificabile, detentrice della forza, esempio d’ordine, disciplina e unità. O, più precisamente, non la hanno finora voluta i rispettivi leader.
Non è comunque esatto dire che tale struttura sia inesistente. Semplicemente "non è nazionale". Fino all’11 Settembre, l’esercito vero e proprio, almeno in quattro su cinque Stati, era costituito dall’ex Armata Rossa, e da reparti passati dall’ex Armata Rossa alla Russia e di stanza - sotto l’una o l’altra forma - in una o altra repubblica (la 201ª Divisione Fucilieri Motorizzati in Tajikstan; le Guardie di Frontiera, basi e attrezzature in Turmenstan, o, ancora, armamenti e reparti in Kirghizstan, ecc.).
Questa fu la grande variante Eurasiatica.
Poi, gli Stati Uniti dopo l’11 Settembre - in nome della guerra globale contro il terrorismo - vennero a un accordo con Mosca, e stabilirono basi, armamenti e unità in questa regione cruciale. L’esercito nazionale continuò a essere perlopiù costituito da guardie e milizie personali, e da unità paramilitari.
Le note di Michele Brunelli integrano sia l’analisi che lo scenario, documentandolo con dati, informazioni e materiali che evidenziano questa realtà.
Al di là delle indubbie difficoltà in termini di "sicurezza nazionale" e di armamenti, sorte da una indipendenza imprevista quanto improvvisa, il modello eurasiatico si basa su precise scelte operate dai nuovi Presidenti di intraprendere una strada diversa da quella rappresentata dai cliché standard d’indipendenza. L’aspetto più curioso è che, al di là di ogni valutazione ideologica, tale strada è, tutto sommato, quella ancora più praticata, fattore di equilibrio e stabilità interna e regionale. Data la struttura ancora fortemente tradizionale della società locale, è un fatto che, in questi paesi, ogni reclutamento non può prescindere dalle forze etniche e tribali locali, dai loro tradizionali equilibri e, parimenti, dalle loro tradizionali rivalità. Soprattutto, si deve prendere in considerazione un aspetto tipico della struttura sistemica regionale e sociale: le "fedeltà", che non sono mai legate all’istituzione, bensì alla persona.
Sono le stesse forze dalle quali la precedente nomenklatura - e gli attuali gruppi dirigenti - hanno sempre tratto autorità, legittimazione e consenso. Sono le stesse forze che, oggi, forniscono ai vari leader le varie guardie private, o "Guardie Nazionali", segnando una spartizione del vuoto di potere e istituzionale lasciato dalla disintegrazione dell’Impero sovietico. Ma se di esercito nazionale vero e proprio si dovesse parlare, l’esercito che ne risulterebbe organizzato - anziché essere una struttura orizzontale, imparziale garante dell’ordine interno e della stabilità e sicurezza nazionale - sarebbe una struttura priva di coesione interna, dove le divisioni tra etnie, clan o famiglie si infiltrerebbero ben presto nei ranghi, portando a caos e disordine, con tutte le conseguenze già viste altrove (12). L’attuale fase di transizione richiede invece stabilità.
In conclusione, si può dire che esiste una logica ben precisa nella scelta politica delle attuali leadership di circondarsi di milizie ben organizzate, ben armate, e ben addestrate, di comprovata fedeltà grazie al sistema di reclutamento, addette alla sicurezza personale e alle mille esigenze più immediate legate alle persone, delegando a Forze Armate di comprovata capacità, addestramento, disciplina e dotate di armamenti sofisticati il compito non meno delicato di presidiare il territorio, mantenervi l’ordine e provvedere alla stabilità dei confini.
Un Esercito Nazionale in grado di assolvere a questi compiti...deve pertanto attendere tempi migliori e più maturi.
Ne consegue che qualsiasi dimensione di sicurezza in questa regione, oggi può essere solo il risultato di un’azione collettiva, cooperativa e multi-dimensionale, con gli Stati Uniti partner privilegiato di riferimento.
APPENDICE
Nell’arco di pochi anni la dissoluzione del sistema sovietico prima e la "guerra globale" al terrorismo poi, hanno prodotto negli stati dell’Asia Centrale, le repubbliche sovietiche meridionali dell’impero, un cambiamento epocale: da attori di second’ordine nell’architettura della stabilità globale sono divenuti l’architrave di un nuovo sistema di sicurezza internazionale. Se ancora agli inizi del 2000 essi rappresentavano una zona d’influenza esclusiva della Russia, oggi sono divenuti de facto il nuovo limes degli Stati Uniti.
Durante il periodo sovietico, il teatro meridionale (TVD Teatr Voennykh Deistvii), che raggruppava le cinque repubbliche dell’Asia Centrale, una parte della Russia (regione di Rostov sul Don) e gli stati del Caucaso (Azerbaijan, Georgia e Armenia), rappresentava uno dei più importanti fronti per l’Armata Rossa, a causa della sua prossimità con l’Afghanistan, l’Iran e soprattutto con la Cina, ovvero gli assi strategici lungo i quali si sviluppava l’interesse nazionale sovietico1. Secondo la dottrina militare sovietica esso fungeva inoltre da supporto e rincalzo ad una eventuale linea del fronte nell’Europa centro-meridionale.
Il TVD Meridionale si componeva di tre Distretti Militari (DM): il Distretto del Caucaso del Nord, il cui Quartier Generale (QG) era situato a Rostov, quello Trans-caucasico (QG a Tblisi, in Georgia) ed il Distretto del Turkestan, cui facevano capo le forze dislocate nelle cinque repubbliche dell’Asia Centrale, con sede a Tashkent. Il TVD meridionale era competente anche per la flotta del Mar Nero, la cui base principale era a Baku, in Azerbaijan, sede anche del Quartier Generale dell’intiero teatro.
Secondo le pubblicazioni specialistiche del tempo, quali The Soviet Military Power del Dipartimento della Difesa statunitense o il Military Balance dell’International Institute of Strategic Studies (IISS) di Londra sembra che l’Armata Rossa in Asia Centrale potesse disporre di 39 divisioni (due corazzate, 36 di fucilieri motorizzati ed una aviotrasportata), per un totale di circa 8.600 carri armati, 10.000 pezzi d’artiglieria
e mortai di vario calibro, 66 missili Scud nelle varie versioni e 560 aerei da combattimento2. Ma il vero potenziale del teatro era rappresen-
tato dalle forze nucleari strategiche delle basi kazake di Derzhavinsk e Zhangiztobe, nelle quali erano schierati 104 missili balistici intercontinentali SS-18 Satan (RS-20) e 40 bombardieri strategici Tu-95 H Bear (base di Semipalatinsk).
In seguito al collasso dell’Unione Sovietica (1991), Mosca iniziò a smantellare progressivamente il proprio apparato difensivo e la maggior parte delle infrastrutture e degli arsenali militari furono trasferite sotto la giurisdizione dei nuovi stati dell’Asia Centrale. A partire dal 1993, dopo un periodo di controllo congiunto - in realtà russo - delle forze armate, quasi tutte le repubbliche dell’Asia Centrale, diedero vita a propri eserciti, sulla base delle unità e degli equipaggiamenti delle forze sovietiche dispiegate sui loro territori. Solo il Turkmenstan fu costretto a mantenere, ancora per alcuni anni, il doppio controllo russo-turkmeno delle forze armate, a causa della sua conclamata incapacità nell’organizzare e finanziare la costituzione di un esercito nazionale.
Dopo il 1991 Mosca desiderava mantenere ed imporre un sostanziale equilibrio tra le nuove repubbliche, cercando di evitare che una potesse prevalere sui vicini, ma soprattutto cercava di non lasciare sul campo sistemi avanzati che fossero in grado di venire impiegati contro il proprio territorio santuario o armi che potessero fomentare gli scontri etnici, divenuti una drammatica realtà nella regione.
L’Asia Centrale ha rappresentato una piattaforma formidabile per lo sviluppo delle armi di distruzione di massa durante il periodo sovietico. L’uranio per il primo ordigno atomico dell’URSS proveniva dal Tajikstan (Vostokkredmet), mentre l’Uzbekstan, il Kyrghizistan ed il Kazakistan possedevano le principali miniere di uranio dell’Unione. In Kazakistan, presso il poligono di Semipalatinsk, vennero fatte esplodere 456 testate nucleari mentre a Stepnogorsk si trovava il più grande centro per la fabbricazione di armi biologiche, nonché il principale centro di produzione di antrace. L’Uzbekstan ospitava invece i siti per la realizzazione di armi chimiche (Nukus), mentre l’isola di Vozrozhdeniye,serviva da luogo di sperimentazione per agenti patogeni, quali l’antrace, la peste, la tularemia ed il vaiolo. Centri di ricerca, reattori per la produzione di uranio arricchito e depositi di scorie nucleari erano presenti in tutte le repubbliche centro-asiatiche (Figura 1). Da qui si possono dunque comprendere le enormi preoccupazioni degli Stati Uniti in materia di proliferazione di armi non convenzionali o ancor più di utilizzo di tecnologia o di materiali sensibili da parte di gruppi estremisti o terroristici.
Durante gli anni Novanta, le linee di politica estera russe si concentrano, ancora una volta sull’Occidente, non più in una dimensione militare, bensì meramente economica. Il passaggio da un’economia pianificata ad un’economia di mercato implica investimenti di risorse enormi, tagli all’apparato burocratico ed una drastica riduzione delle spese per la difesa, al fine di massimizzare il burden sharing derivante dalla fine della contrapposizione est-ovest. Al fine di acquisire moneta pesante, Mosca
Figura 1 - Impianti per la produzione di WMD nelle Repubbliche dell'Asia Centrale.
inizia una progressiva politica di disarmo, coadiuvata da massicci aiuti economici statunitensi.
In realtà vi fu in quegli anni una convergenza di interesse nel mantenere l’Asia Centrale sotto l’esclusiva sfera di influenza moscovita, l’unico possibile gendarme della stabilità regionale.
L’11 settembre ricompatta l’interesse per gli stati dell’Asia Centrale e, nel contempo, pone il termine al monopolio di garante della sicurezza che la Russia tradizionalmente rappresentava. Gli Stati Uniti, attaccati nel loro territorio santuario, scatenano una guerra senza quartiere al terrorismo internazionale.
La chiave di volta della nuova strategia statunitense, sortita dalle ceneri del World Trade Center (11 settembre), è rappresentata dall’Afghanistan. Per gli Stati Uniti, potenza marittima, combattere un paese senza sbocchi sul mare rappresenta un ostacolo enorme, cui si aggiungono le difficoltà di non disporre di basi terrestri sulle quali appoggiare la propria forza aerea. I paesi dell’Asia Centrale incarnano la soluzione ottimale per il perseguimento delle nuove priorità di Washington: le loro infrastrutture militari avrebbero potuto giocare un ruolo fondamentale non solo per la condotta delle operazioni belliche conto l’Afghanistan dei Talebani, ma avrebbero potuto anche rappresentare il punto di partenza per estendere l’influenza americana in un’area geopoliticamente e geoeconomicamente di crescente centralità.
La Russia, sempre più insabbiata con il problema ceceno, accettò l’offerta di Condoleeza Rice e si pose come prezioso ed insostituibile alleato degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo. Le repubbliche centro-asiatiche da parte loro guardavano con crescente preoccupazione l’aumento del rischio terrorismo, e dall’altra vedevano positivamente la concessione delle proprie basi agli Stati Uniti come una fonte di sviluppo economico e di promozione politica. La classe dirigente di quei paesi percepì subito l’enorme importanza del loro appoggio alle richieste di Washington.
In certi casi, gli Stati Uniti hanno dovuto accettare la mediazione russa per la richiesta di concessione di basi da parte delle repubbliche centro-asiatiche. I russi, inoltre, possono ancora contare su una folta rete di basi e di infrastrutture militari nell’area. Secondo il Monterey Institute of International Studies le basi militari russe in Asia Centrale sono tuttora dislocate in quattro repubbliche: Tajikstan, Turkmenstan, Kyrgyzstan ed Uzbekstan e tutte e quattro rivestono una centralità sul piano dell’ultimo "near abroad security planning" moscovita.
Figura 2 - Struttura della 201° Divisione Fucilieri motorizzati.
La Divisione è composta da 7800 soldati, dotati di alcuni 128 T-72 MBT e 314 veicoli di fanteria corazzata da combattimento (come BMP-2 e BTR-80), artiglieria pesante autoalimentata (122mm e 155mm), supportata da un buon apparato di contraerea (SA-8). Questa Divisione rappresenta ancora il fulcro della presenza militare russa in Asia Centrale. Inoltre è l'unica unità militare autorizzata ad addestrare adeguatamente corpi paramilitari locali.
Fonte: CNS, Monterey Istitute of International Studies, 2001.
Figura 3 - Asia Centrale: infrastrutture militari russe e principali basi terroristiche.
Tavola 1. - Tavola comparativa delle Forze Armate delle Repubbliche dell'Asia Centrale, 2002.
(*) Minister of Interior. (#) Minister of Defense. Fonte: IISS, The Military Balance 2002-2003.
Tavola 2. - Principali indicatori economici delle Repubbliche dell'Asia Centrale, 2001.
Fonte: IISS, The Military Balance 2002-2003.
Tavola 3. - L'equilibrio delle forze: alcuni dei principali sistemi di armamento delle Repubbliche dell'Asia Centrale, 2003.
Fonte: IISS, The Military Balance 2002-2003.
Tavola 4. - Quadro comparativo delle spese per la difesa delle 5 Repubbliche dell'Asia Centrale, 1992-1999.
US constant (1999) million dollars. Fonte: US Department of State, World Military Expenditures and Arms Transfers 1999-2000, Washington DC, February 6, 2003.
Tavola 5. - Tavola comparativa delle importazioni di armi delle 5 Repubbliche dell'Asia Centrale, 1992-1999.
US constant (1999) million dollars. Fonte: US Department of State, World Military Expenditures and Arms Transfers 1999-2000, Washington DC, February 6, 2003.
Figura 4. - Stanziamenti e assistenza militare statunitense alle 5 Repubbliche dell'Asia Centrale, FYs 1990-2003.
Data: US dollars US Military Aids and Appropriations include International Military Education and Training (IMET), Foreign Military Financing (FMF), and Military Assistance Program (MAP). Fonte: Personal elaboration from the Federation of Atomic Scientists, Arms Sales Monitoring Project's database, 1990-2003.
Tavola 6. - L'esercito in transizione: 1992-93/1994.
Il cambiamento nelle strutture delle Forze Armate delle 5 Repubbliche dell'Asia Centrale è dovuto al collasso dell'Unione Sovietica e alla nascita delle nuove Repubbliche. Il periodo 1992-93 si riferisce alle Forze di ciascun Paese sotto controllo congiunto (Russia - controllo del nuovo Stato indipendente), mentre il 1994 si riferisce al primo periodo del nuovo "Esercito nazionale", retaggio delle Forze sovietiche in ciascun Paese.
(*) probably Russian-controlled (#) Forces Under Joint control: Turkmenstan-Russia Fonte: IISS, The Military Balance 1992-1993 and 1993-1994.
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