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Per Aspera Ad Veritatem n.27
Viaggio nelle Eolie. Stromboli
Alexandre DUMAS - Pungitopo Editore, 1996



L’epoca della techno-intelligence ci ha resa familiare la visione satellitare.
Sullo sfondo delle immagini del pianeta azzurro, osservate dai primi astronauti all’inizio dell’era spaziale, abbiamo imparato che attraverso blow up successivi si può raggiungere il più remoto angolo della terra, una città, una casa, una stanza.
Macrocosmi e microcosmi, visione generale e particolare, si fondono dunque sotto il dominio della tecnologia.
Si tratta, come sempre, di osservazione di luoghi.
In anni passati, l’unico strumento disponibile era l’occhio umano, pur talora coadiuvato dai primi strumenti scientifici, come binocoli e cannocchiali. L’unico filtro, la sensibilità e l’intelligenza dell’osservatore e, subito dopo, la sua capacità di descrivere.
Non è un caso, allora, che esploratori e viaggiatori siano stati la fonte necessitata di chiunque – governi, eserciti o uomini del commercio – andasse alla ricerca di notizie su un luogo, ancor più se remoto o poco frequentato.
Esiste in argomento, come tutti sanno, una letteratura sconfinata, di viaggio, di esplorazione, d’avventura, mossa dalla curiosità per una ancora incompleta geografia e finita spesso per approdare ad altre visioni e, soprattutto, alla scienza (un esempio per tutti, il Viaggio di un naturalista intorno al mondo, di Charles Darwin).
Nella letteratura di viaggio ha molto navigato anche un celeberrimo francese, ancorchè maggiormente noto per i suoi romans historiques, Alexandre Dumas (padre).
Con Impressions de voyage. Le capitaine Arena, Paris, 1854 (1) , rende noto il suo personale diario di bordo in un itinerario attraverso le Isole Eolie, incantevole arcipelago posto, come tutti sanno, nel Mar Tirreno, a nord della Sicilia.
Queste isole, pure citate dal Boccaccio in una novella del Decamerone, sono state oggetto dell’insediamento umano già in epoca preistorica, come testimoniano i musei liparoti e gli scavi archeologici sui diversi territori.
La loro posizione nel Mediterraneo ha sempre rivestito carattere strategico sia dal punto di vista commerciale che militare.
Notevole fu l’insediamento greco, cinque secoli prima di Cristo. Nel 251 a.C. i Romani distrussero tuttavia la città greca, per porre fine all’alleanza della città di Lipari con i Cartaginesi, che per la sua posizione strategica insidiava e preoccupava la flotta romana. Nei secoli successivi, frequenti furono le incursioni dei pirati, spesso arabi e musulmani.
In effetti, Alexandre Dumas si è trovato in buona compagnia nel raccogliere le proprie impressioni tra quelle acque indaco.
Probabilmente in ragione dell’origine dell’arcipelago e delle molte storie di vulcani emersi e sommersi, le isole, con il loro connubio di acqua e fuoco hanno attratto la sensibilità, tra gli altri, di numerosi scrittori.
Saranno infatti ben otto i volumi che Luigi Salvatore Arciduca d’Austria, figlio del Granduca di Toscana Leopoldo II, viaggiatore e scienziato, dedicherà a Die Liparischen Inseln, Prag, 1893-1898. Ma già alla fine del secolo precedente Jean Houel, nel suo Voyage pittoresque des île de Sicile, de Malte et de Lipari, Paris, 1782-1787, si era a lungo soffermato in quel tratto di mare dove emergono Stromboli, Panarea, Salina, Lipari, Vulcano, Filicudi e Alicudi, introducendo con tavole di grande interesse questo angolo di Mediterraneo alla società illuministica francese del tempo. Nello stesso periodo (1781) Déodat de Dolomieu, proprio lui, il celebre scienziato che ha dato il nome alle nostre maestose Dolomiti, si cimentava a scrivere un saggio scientifico sulla geologia ed i fenomeni vulcanici dell’arcipelago eoliano, Voyage aux îles de Lipari, che resta un riferimento ancora oggi. A distanza di soli sette anni Lazzaro Spallanzani, uno dei massimi scienziati italiani, nella sua opera Viaggi alle Due Sicilie (1788), dedica capitoli di straordinario interesse al Regno di Eolo (2) .
Tra le varie suggestioni contenute nell’opera di Alexandre Dumas abbiamo scelto le pagine dedicate all’isola di Stromboli.
Luogo di straordinario fascino, la più settentrionale delle Eolie e quarta per ampiezza, l’antica Stróngyle, così denominata per la sua forma rotonda, ha attirato in particolare l’attenzione degli scienziati in ragione della continua vivacità del suo vulcano, che ha dato il nome a una particolare tipologia di attività vulcanica, cosiddetta stromboliana, appunto caratterizzata da una persistente azione esplosiva moderata.
Si estende per due terzi sotto il livello del mare, nel quale si immerge per oltre duemila metri.
È a questo scenario, dotato al medesimo tempo di fascino e drammaticità, che l’occhio di Alexandre Dumas (3) si accosta, all’inizio della nostra lettura.



Man mano che ci avvicinavamo, Stromboli era sempre più distinta ed attraverso quell’aria tersa della fumata e, ad intervalli di un quarto d’ora, la fiamma. Nel corso della giornata questa lingua di fuoco sembra non esistere, smarrita com’è nella luce del sole; ma appena scende la sera, appena l’oriente inizia a scurirsi, questa fiamma diventa visibile e la si vede proiettarsi in mezzo alla fumata, colorandola, per poi ricadere in una colata di lava.
Raggiungemmo Stromboli verso le sette di sera. Sfortunatamente il porto si trova a levante e noi provenivamo da occidente, così che fummo costretti a costeggiare tutta l’isola. Per effettuare questo percorso semicircolare, passammo davanti ad una ripida scarpata da dove la lava scendeva fino al mare. La montagna, la cui vetta ha un diametro largo venti passi mentre la sua base ne misura centocinquanta, in quel punto è coperta di cenere e tutta la vegetazione è bruciata.
Le previsioni del capitano risultarono essere esatte: arrivammo mezz’ora dopo la chiusura del porto. Tutto ciò che potemmo dire per farlo riaprire furono inutili parole.
Ciononostante, tutti gli abitanti di Stromboli, erano accorsi sulla spiaggia. La nostra speronara faceva scalo assiduamente in quel porto, ed i nostri marinai erano ben conosciuti nell’isola: ogni autunno facevano quattro o cinque viaggi per caricare uva passa. Nel corso dell’anno tornavano altre due o tre volte, più che sufficienti per stabilire rapporti di ogni natura.
Appena fummo a portata di voce, tra i nostri uomini e gli abitanti di Stromboli si intrecciarono conversazioni del tutto particolari, scandite da


Stromboli, Scariu di Menzuiornu



Stromboli, Scariu di Fica Ranni


domande e risposte in dialetto stretto, per noi incomprensibili. Capivamo soltanto che si doveva trattare di colloqui amichevoli: Pietro sembrava avere degli interessi ancora più affettuosi da sbrogliare con una ragazza, che non pareva assolutamente preoccupata di celare i sentimenti pieni di affetto che nutriva per lui. Infine l’idillio si animò a tal punto che Pietro iniziò a dondolarsi dapprima su una gamba, poi sull’altra, fece due o tre saltini preparatori e sul ritornello intonato da Antonio, iniziò a ballare la tarantella. La giovane strombolana per non sembrare scortese si mise a sua volta a danzare. Questa giga a distanza durò fin quando i due ballerini caddero sfiniti, uno sul ponte e l’altra sulla spiaggia.
Era il momento che aspettavo per chiedere al capitano ove contasse di farci trascorrere la notte; ci rispose che era a nostra disposizione e che non avevamo che da ordinare. Lo pregai allora di ancorare di fronte al vulcano, per non perderci nulla delle sue evoluzioni notturne. Bastò una parola del capitano e tutti interruppero le loro conversazioni per mettersi ai remi. Dieci minuti dopo eravamo ancorati a sessanta passi davanti al lato settentrionale della montagna.
Era proprio nello Stromboli che Eolo teneva incatenati “luctantes ventos tempestatesque sonoras”. Senza dubbio, ai tempi del cantore di Enea, e quando Stromboli si chiamava Strongyle, l’isola non era ancora nota per quello che è, e stava preparando nelle sue cavità quelle periodiche e infuocate eruzioni che ne fanno il vulcano più gentile della terra.
Con lo Stromboli, infatti, si sa a cosa si va incontro: non è come il Vesuvio o l’Etna che, per una misera eruzione, fanno attendere il viaggiatore tre, cinque ed a volte anche dieci anni. Mi si potrebbe rispondere che ciò dipende dalla gerarchia che essi occupano tra i vulcani, gerarchia che permette loro di essere aristocratici a loro svantaggio: è vero. Ma occorre essere grati allo Stromboli di non avere abusato neanche un solo momento della sua posizione sociale e di avere capito che sarebbe stato solo un vulcano tascabile, al quale nessuno avrebbe prestato attenzione, se si fosse dato troppe arie. Quanto gli manca di qualità, Stromboli lo guadagna in quantità.
Così non fece attendere neanche noi: dopo appena cinque minuti d’attesa sentimmo un cupo boato seguito da un’esplosione, simile ad uno scoppio di venti colpi di artiglieria, che rischiarò il cielo; un lungo getto di fuoco venne proiettato in aria, e ricadde in una pioggia di lava: parte di essa ricadde nel cratere stesso, mentre l’altra, rotolando giù nella scarpata, precipitò come un torrente di fuoco e si immerse in mare sobbollendo. Dieci minuti dopo, lo stesso fenomeno si verificò nuovamente e così, ad intervalli di dieci minuti, per tutta la nottata.
Riconosco che quella fu una delle notti più singolari della mia vita: Jadin ed io non riuscivamo a staccarci da quello spettacolo, terribile e magnifico. C’erano delle esplosioni tali che l’aria ne sembrava essere tutta scossa e l’isola pareva tremare come un bambino spaventato. Questo fuoco d’artificio procurava solo a Milord uno stato di esaltazione indescrivibile: voleva ad ogni costo tuffarsi in acqua per andare a divorare quella lava incandescente che talora ricadeva a soli dieci passi da noi, simile ad una meteora che si getta in mare.
Gli uomini dell’equipaggio, abituati com’erano a quello spettacolo, ci chiesero se avevamo bisogno di qualcosa, ma alla nostra risposta negativa scesero sotto coperta senza che i bagliori che illuminavano l’aria o le esplosioni che la facevano vibrare riuscissero a distrarli dal loro sonno.


Stromboli di notte


Rimanemmo sul ponte fino alle due del mattino: alla fine stremati dalla fatica e dal sonno, ci decidemmo ad andare in cabina. Quanto a Milord, nulla riuscì ad indurlo a fare altrettanto e rimase tutta la notte sul ponte a ringhiare e ad abbaiare contro il vulcano.
L’indomani, ci svegliammo non appena la speronara iniziò a muoversi: alla luce del giorno la montagna aveva perso tutta la sua fantasmagoria.
Si udivano sempre le esplosioni, ma la fiamma non era più visibile e quella lava, ruscello incandescente di notte, di giorno si confondeva con la cenere rossastra sulla quale scorreva.
Dieci minuti dopo eravamo nuovamente davanti al porto. Questa volta non ci fecero alcuna difficoltà per entrare. Pietro e Giovanni scesero con noi, volevano accompagnarci nella nostra ascensione.
Entrammo non in un albergo – a Stromboli non ne esistono –, ma in una casa i cui proprietari erano parenti lontani del nostro capitano. Non essendo prudente metterci in cammino a stomaco vuoto, Giovanni chiese ai nostri ospiti il permesso di fare colazione da loro, mentre Pietro andava a cercare delle guide. Non solo accettarono la proposta, molto cortesemente, ma ancora meglio, il padrone di casa uscì e tornò un attimo dopo con la più bella uva ed i più squisiti fichi d’India che aveva potuto trovare.
Appena finimmo la nostra colazione, Pietro arrivò con due strombolani che per mezza piastra ciascuno, si erano offerti di farci da guide. Erano poco più delle otto del mattino; ci mettemmo subito in marcia per evitare di compiere l’ascensione durante le ore più calde.
La vetta dello Stromboli si trovava a mille-millecinquecento piedi sul livello del mare, ma la sua pendenza è talmente erta che non vi si può salire senza deviazioni: pertanto dovevamo sempre zigzagare. Dapprincipio, all’uscita del borgo marinaro, il sentiero si presentava agevole; saliva in mezzo a delle vigne cariche di uva, che costituisce il principale commercio dell’isola, e dalle quali i grappoli pendevano in abbondanza tale che ognuno ne prendeva a piacimento senza doverne chiedere il permesso al proprietario. Ma una volta superati i vigneti, non trovammo più nessun sentiero e dovemmo avventurarci cercando il terreno migliore e le chine meno scoscese; malgrado tutte queste precauzioni, ci fu un momento in cui dovemmo salire a carponi. Ma salire non era niente... giacché superato quel punto, riconosco che non appena mi rigirai e lo vidi inclinato quasi a picco sul mare, chiesi terrorizzato come avremmo fatto per scendere; le nostre guide ci dissero però, che saremmo scesi da un altro sentiero: ciò mi tranquillizzò un po’. Coloro che, come me, sfortunatamente soffrono di vertigini non appena vedono il vuoto sotto i loro piedi, mi potranno capire, ma sopratutto comprenderanno l’importanza che io attribuivo al problema.
Superato quel dirupo, per circa un quarto d’ora la salita divenne più agevole; ben presto, però, arrivammo in un punto che dapprima mi sembrò insormontabile: era una cresta perfettamente aguzza, che formava l’orifizio del primo vulcano e che da un lato si stagliava a picco sul cratere e dall’altro scendeva al mare con una china talmente erta che, da una parte mi sembrava di dover precipitare, e dall’altra di rotolare giù dall’alto in basso.
Lo stesso Jadin, che si arrampicava abitualmente come un camoscio, senza mai preoccuparsi delle asperità del terreno, arrivando in quel punto si fermò di botto e chiese se fosse possibile evitarlo, come avevamo ben immaginato era impossibile.
Dovemmo rassegnarci. Per fortuna il pendio di cui dicevo era composto da cenere nella quale ci si sprofondava fino alle ginocchia e che, nonostante fosse friabile, opponeva una certa resistenza. Iniziammo ad arrischiarci su per quel percorso, ove un equilibrista avrebbe senz’altro chiesto il suo bilanciere, ma con l’aiuto dei nostri marinai e delle guide riuscimmo a superarlo senza incidenti.
Voltandoci indietro vedemmo Milord che se ne stava dall’altra parte, non per le vertigini né per timore di cadere in mare o nel vulcano, ma perché aveva messo una zampa nella cenere, per lui troppo calda, e ci pensò due volte prima di procedere. Ma quando ci vide andare avanti, si fece coraggio come noi, attraversò quel punto a galoppo e ci raggiunse, visibilmente agitato per ciò che gli sarebbe successo in seguito.


Stromboli, San Vicienzu


Almeno per il momento, le cose andarono meglio di come pensassimo; non dovevamo far altro che scendere per un pendio assai dolce e così nel giro di dieci minuti arrivammo ad una piana che domina il vero vulcano. Giunti in quel punto, assistemmo a tutte le sue evoluzioni ed anche se lo avesse voluto, non poteva più avere alcun segreto per noi.
Il cratere dello Stromboli ha la forma di un grosso imbuto, in fondo ed in mezzo al quale c’è un orifizio attraverso cui un uomo entrerebbe a mala pena e che comunica con il camino interno del vulcano; è questa fenditura che, simile alla bocca di un cannone, lancia una pioggia di proiettili che ricadendo nel cratere trasportano con sé, pietre, cenere e lava, che ostruiscono questa specie di imbuto. Il vulcano sembra allora raccogliere le forze per alcuni minuti, compresso com’è dalla chiusura della sua valvola; ma nel giro di un attimo, la sua fumata trepida come se fosse ansimante e si ode scorrere nei fianchi incavati della montagna un sordo boato. Infine, la cannonata esplode di nuovo, scagliando a duecento piedi sopra la vetta più elevata i nuovi sassi e la nuova lava che, ricadendo e ricostituendo la bocca del condotto eruttivo, prepareranno una nuova eruzione.
Visto dall’alto della nostra postazione, questo spettacolo sembrava splendido e raccapricciante; ad ogni convulsione interna che prova la montagna, la si sente fremere su se stessa, come se si stia per squarciare da un momento all’altro, poi l’esplosione, simile ad un gigantesco albero di fiamme e di fumo, che scrolla le sue foglie di lava.
Mentre eravamo lì ad osservare quello spettacolo, il vento mutò di colpo. Ce ne accorgemmo dalla fumata del cratere che, invece di continuare ad allontanarsi da noi, come era successo fino ad allora, si piegò su se stessa come una colonna di fuoco scemata, si diresse verso di noi e ci avviluppò con i suoi vortici prima che noi avessimo il tempo di scappare. Nello stesso tempo, la pioggia di lava e pietre, cedendo alla stessa influenza, cadde intorno a noi. Rischiammo di essere contemporaneamente soffocati dal fumo e uccisi o bruciati dai proiettili. Battemmo in ritirata precipitosamente verso un altro pianoro, che si trovava ad un centinaio di piedi più in basso e più vicino al vulcano, ad eccezione di Pietro che rimase per qualche attimo indietro per accendere la sua pipa con un tizzone di lava per poi, dopo questa spacconata tutta francese, raggiungerci tranquillamente.


Vista della bocca dello Stromboli


Quanto a Milord, dovemmo trattenerlo per il collo, visto che si voleva gettare in quella lava ardente, abituato com’era a farlo con i razzi, i petardi e gli altri giochi d’artificio.
Ultimata la nostra ritirata, in questa seconda postazione ci trovammo ancora meglio che nella prima: eravamo più vicini all’orifizio del cratere, dal quale eravamo distanti una ventina di passi e che noi dominavamo da cinquanta piedi appena. Dal punto in cui ci trovavamo, potevamo ancor meglio osservare l’incessante lavoro di questa grande macchina e potevamo anche vedere il fuoco uscire quasi senza posa. Di notte, quello spettacolo doveva essere qualcosa di splendido.
Erano già passate le due del pomeriggio quando pensammo di tornare indietro, ma i nostri uomini ci dissero che non occorrevano più di tre quarti d’ora per ritornare al villaggio. Ammetto di essermi un po’ preoccupato circa le modalità di un percorso così rapido; so che quasi sempre si discende più velocemente di come si sale, ma so anche per esperienza, che la discesa è più pericolosa della salita: ora, a meno che non avremmo incontrato lungo il nostro percorso dei punti veramente impervi, non riuscivo ad immaginarmi nulla di peggiore di quanto c’era capitato all’andata.
Ben presto ci togliemmo da quell’impiccio: dopo un quarto d’ora di marcia, sotto un sole ardente, arrivammo a quella grande coltre di cenere che già avevamo attraversato nella sua sommità e che degradava fino al mare con una pendenza tale che ci sosteneva solo la friabilità del terreno stesso. Non si poteva tornare indietro, bisognava proseguire per quella strada o per il cammino fatto all’andata. Ci avventurammo in quel mare di cenere: oltre alla sua pendenza quasi verticale che mi aveva colpito fin dall’inizio, quella coltre era letteralmente ardente, esposta com’era quotidianamente al sole dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio.Pigliammo la corsa; Milord ci precedeva a salti e balzi, cosa che conferiva alla sua andatura una parvenza briosa, piacevole a vedersi. Feci rilevare a Jadin che tra tutti noi Milord sembrava essere il più contento, quando improvvisamente scorgemmo la reale causa di questa apparente allegria: la sfortunata bestia, immersa fino al collo in quella cenere bollente, si stava arrostendo come una castagna. Lo chiamammo e si fermò sempre continuando a saltellare: in un istante fummo da lui e Jadin lo prese tra le sue braccia.
Il povero animale era in uno stato pietoso: aveva gli occhi insanguinati, la bocca aperta e la lingua a penzoloni; il corpo, interamente ustionato aveva assunto un colore rosa tenero, ed ansimava come se avesse la rabbia.
Noi stessi eravamo stremati dalla fatica e dal caldo. Avvistammo una roccia a strapiombo che faceva un po’ d’ombra su quel tappeto di fuoco, cercammo ristoro sotto di essa mentre una delle guide andava a prenderci ad una fontana, che pare si trovasse lì intorno, dell’acqua in una tazza di pelle conciata.
Lo vedemmo tornare nel giro di un quarto d’ora: aveva trovato la fontana quasi prosciugata, aveva tuttavia riempito la nostra tazza con metà sabbia e metà acqua. Durante il percorso la sabbia si era depositata sul fondo della tazza, rendendo in tal modo potabile il liquido: Jadin ed io bevemmo l’acqua e Milord mangiò il fango.
Dopo una sosta di mezz’ora ci rimettemmo in cammino, sempre correndo, poiché anche le nostre guide come noi avevano premura di arrivare dall’altra parte di quel deserto di cenere e specialmente i nostri marinai che camminavano a piedi nudi ed avevano le gambe escoriate fino alle ginocchia.


Stromboli, veduta di Strombolicchio


Una casa di Stromboli


Alla fine arrivammo al limite di questo nuovo 1ago di Sodoma e ci ritrovammo in un’oasi di vigne, melograni ed ulivi. Non osammo proseguire. Ci sdraiammo sull’erba e le nostre guide ci portarono una bracciata d’uva ed un cappello pieno di fichi d’India.
Per noi andava a meraviglia, ma in tutto ciò non c’era nemmeno un goccio d’acqua da bere per il nostro povero Milord, quando ci accorgemmo che stava divorando le bucce di fichi d’India e ciò che rimaneva dei grappoli d’uva. Condividemmo con lui il nostro pasto e, forse per la prima ed ultima volta in vita sua, desinò con fichi ed uva.
Mi è venuta spesso la voglia di mettermi nei panni di Milord e di scrivere le sue memorie come Hoffmann ha scritto quelle del gatto Murr. Sono certo che ci sarebbero stati, da un punto di vista canino – e mi scuso con l’Académie di questa parola –, delle considerazioni estremamente originali sui popoli da lui visitati e sui paesi da lui attraversati.
Un quarto d’ora dopo questa sosta eravamo al villaggio, prendendo nota della sensata riflessione che i vulcani si susseguono ma non si assomigliano:


Stromboli, Ginostra


eravamo sul punto di congelare salendo sull’Etna e pensavamo di arrostire scendendo dallo Stromboli.
Così Jadin ed io allungammo la mano in direzione della montagna e giurammo a noi stessi, noncuranti del Vesuvio, che lo Stromboli era l’ultimo vulcano col quale avremmo fatto conoscenza.
Gli abitanti di Stromboli, oltre ad essere vignaiuoli e commercianti di uva passa, che rappresentano le due principali produzioni dell’isola sono anche degli eccellenti marinai. Fu certamente grazie a questa qualità che la loro isola divenne la succursale di Lipari ed il deposito in cui re Eolo rinchiudeva i suoi venti e le sue tempeste. D’altronde, questa vocazione per l’arte marinaresca non era sfuggita agli Inglesi che, durante l’occupazione della Sicilia, annualmente reclutavano nell’arcipelago eoliano dai trecento ai quattrocento marinai.



(1) La lettura di seguito pubblicata è tratta dal volume Viaggio nelle Eolie, edito in Italia nel 1996, per i tipi della Pungitopo Editrice. Il libro è a sua volta tratto dal lavoro originale di Alexandre Dumas. Le illustrazioni riportate sono tratte da Jean Houel, Voyage pittoresque des île de Sicile, de Malte et de Lipari, Paris, 1782-87, 4 voll. e da Lugi Salvatore d’Austria, Die Liparischen Inseln, Prag, 1893-98, 8 voll..
(2) La gran parte delle opere citate, e molte altre ancora, sono pubblicate in italiano a cura del Centro Studi e Ricerche di Storia e Problemi Eoliani. L’elenco delle pubblicazioni del Centro Studi è disponibile al sito www.centrostudieolie.it.
(3) Nato nel 1802 a pochi chilometri da Parigi, ebbe riconosciuto un grande successo fin da giovanissimo, soprattutto per le sue pièces teatrali, anche se la sua celebrità è dovuta principalmente al genere del roman historique. Genere mai accreditato di una reale fedeltà agli eventi, rielaborati nel modo funzionale al racconto in un fortunato e geniale intreccio, diremmo oggi, tra realtà e fiction. Tra i più noti e prolifici scrittori d’Oltralpe (ha prodotto circa 250 opere), si è dedicato con notevole impegno anche alla letteratura di viaggio, lasciandoci memorie di luoghi che vanno da Firenze a San Pietroburgo, dalla California alla Svizzera, dall’Africa settentrionale al Caucaso.

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