D. - Il suo "Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà" ha suscitato, come Lei stesso ricorda nella premessa, contrastanti prese di posizione e significativi dissensi. Fondamentalmente costruito, lo richiamiamo a beneficio dei Lettori, intorno a quattro lunghi articoli pubblicati alla fine del 2001 su La Repubblica, opportunamente rivisti e corredati di interessanti annotazioni finali, trae spunto dallo shock emotivo dei fatti di Genova del luglio di quell’anno. Vicende che hanno posto numerosi interrogativi a chi osservava solo dalla televisione quello spettacolo senza avere una precisa o documentata idea di cosa la globalizzazione fosse, se non attraverso abusati luoghi comuni. È passato oltre un anno dalla pubblicazione di Next, sono accadute molte altre cose tra le quali l’irrompere del terrorismo globale, o con effetti globali, eppure le domande poste dal libro non hanno certamente perso di attualità. Ci piacerebbe ripercorrere a distanza di tempo l’itinerario del suo racconto, per riproporne ai nostri Lettori i passaggi più significativi.
Per iniziare, quali riflessioni le hanno suggerito i commenti al suo lavoro? Scriverebbe oggi il libro nello stesso modo?
R. - Il problema che hanno avuto in molti, con Next, è che non capivano bene se fosse pro o contro la globalizzazione. D’altra parte tutti hanno bisogno di vedere schierata la gente, e quindi l’incertezza creava disagio. Così in molti si sono avvicinati al libro ma spesso con una certa cautela sospettosa. Devo dire che da moltissime parti mi è venuto l’invito ad approfondire la mia riflessione o a metterla in discussione con altri: forse proprio per capire meglio cosa avevo in testa. All’inizio ho accettato. Poi mi son reso conto che, almeno in quel periodo, la gente aveva solo bisogno di parole d’ordine da usare, non aveva voglia e bisogno di riflettere, di farsi tentare dai dubbi, di cercare di capire meglio. C’era una specie di scontro intellettuale in atto, e tutti avevano bisogno di armi dialettiche facili da usare ed efficaci. In quel senso io ero il meno adatto. Next è pieno di dubbi e cerca a ogni pagina di mettere in crisi le parole d’ordine che sentivo in giro, da una parte e dall’altra. Quindi ho capito che era abbastanza inutile che andassi in giro a parlare con i sordi. E ho fatto altro.
D. - L’opinione scientifica riconosce solo ai sociologi e ai ricercatori la competenza per leggere, capire e spiegare la società e i suoi mutamenti. Uno degli scandali suscitati da Next è la biasimata invasione di campo dello scrittore, come se solo determinate posizioni ideologiche o istituzionali possano consentire analisi autorevoli, approfondimenti politicamente corretti. In realtà, l’approccio del neofita che vuole chiarire i propri dubbi sembra proporre un metodo filosofico di straordinaria efficacia comunicativa.
A quale bisogno risponde l’esigenza dello scrittore di confrontarsi con i problemi della società e cosa possono aggiungere l’intuizione e la visione dello scrittore?
R. - Lo scrittore lavora sul linguaggio e ci lavora, di solito, ad altissimo livello. Questo significa, ad esempio, che può lavorare sulla chiarezza o sulla precisione con strumenti molto sofisticati e con una grandissima esperienza alle spalle. In alcuni dibattiti, come in quello sulla globalizzazione, il problema della chiarezza e della precisione diventa così urgente che spesso va a toccare il cuore stesso della riflessione collettiva. Avere un’opinione sulla globalizzazione passa attraverso il sapere cosa vuol dire, precisamente, globalizzazione. In questo senso gli scrittori possono dare il loro aiuto particolare al dibattito collettivo educando la gente alla chiarezza e alla precisione. Li possono aiutare a dare nomi esatti alle cose. E a ripristinare nessi reali, e non immaginari, tra i fenomeni. Inoltre lo scrittore ha molto spesso un tratto che vorrei definire “infantile”, forse necessario al suo mestiere. Questo lo induce spesso a guardare alla realtà con una certa ingenuità: con l’istinto a pensare semplice, e a ripartire dalle domande prime. Non che questo sia, in generale, l’unico accosto utile alle domande che abbiamo, ma certo che in particolari circostanze può risultare di una efficacia addirittura eversiva, se così posso dire. La globalizzazione mi sembra esattamente uno di quei casi.
D. - Per cercare di interpretare l’idea di globalizzazione, il Suo lavoro richiama più volte l’esigenza da alcuni avvertita di disporre di frontiere sterminate, di un nuovo West da conquistare, territorio forse virtuale che fornisca al denaro il terreno di gioco più ampio possibile. Anche in altre epoche storiche, pensiamo al XVI secolo, si parlava di conquista del nuovo mondo, si ricercavano terre nuove e oro. Il periodo a cavallo tra la fine del XIX secolo e la prima guerra mondiale è visto da numerosi storici ed economisti come una fase di forte spinta globalizzatrice.
Se adottiamo il punto di vista dell’individuo, cittadino del mondo, dobbiamo immaginare che c’è una globalizzazione diversa, nel nostro futuro, o si tratta di un ciclo storico che meramente si ripete?
R. - Indubbiamente il denaro, e il potere, hanno ciclicamente cercato uno sfondamento dei limiti del terreno di gioco, cercando di ampliare i margini di azione e di assicurarsi le condizioni di una certa crescita. Spesso i limiti erano confini naturali da valicare: l’Oceano Atlantico o le Montagne Rocciose. Oggi, se non pensi di colonizzare lo Spazio, quel che puoi fare è sfruttare a fondo il pianeta terra. Il progresso tecnologico ha in effetti messo a disposizione, nell’ultimo ventennio, strumenti per contrarre spazio e tempo: si viaggia facilmente e velocememte, e Internet ha drasticamente ravvicinato paesi e genti che erano obbiettivamente lontane. L’idea di produrre e vendere le merci in un unico grande paese chiamato pianeta terra è l’intuizione che ha generato il termine globalizzazione: il cuore della faccenda è tutto lì. Il resto è una serie di conseguenze che ancora stiamo scoprendo. Quel che io cercavo di spiegare in Next è che di simili passaggi ne abbiamo già vissuti, nella storia dell’umanità, e quel che abbiamo imparato è: sono transizioni di fase che è impossibile fermare e che non sono, in sè, nè negative nè positive: dipende che umanità le abita.
D. - Lo scenario della globalizzazione e dell’antiglobalizzazione è stato percepito in Occidente, a partire dagli avvenimenti di Seattle, come luogo di conflitto, anche per la presenza di un vasto movimento di contestazione, in bilico tra ribellismo e riformismo, nei confronti di alcuni specifici aspetti dello sviluppo economico e finanziario internazionale e degli interessi ad esso correlati. Nel libro, Lei si pone come un osservatore delle molte contraddizioni che non consentono agevoli risposte, se non fondate su stereotipi spesso non dimostrati, Chi si aspettava delle precise argomentazioni politiche è certamente rimasto deluso. Ha trovato soprattutto dubbi e domande.
Esiste, viceversa, una chiave di lettura che la cultura può offrire di questa conflittualità, tenuto conto di come i processi appena descritti modificano linguaggio e comunicazione?
R. - Io credo che in questo passaggio storico potrebbe essere di grande aiuto la vigile partecipazione di una cultura autenticamente umanista. Voglio dire: un’intelligenza collettiva che tramandasse la centralità dell’uomo, dei valori umani, della storia umana. Ogni tanto mi sembra che il vero pericolo sia oggi la tendenza ad adottare soluzioni che assicurano una grande efficacia ma che riducono il senso e la bellezza dell’esperienza umana. Ci vedo, tra le righe, il delirio razionalista di un’umanità che per essere più efficiente diventerà meno umana: il traguardo utopico della clonazione mi sembra un simbolo esatto di questa follìa. Contro una simile prospettiva forse solo la forza di una cultura autenticamente umanista può fare qualcosa.
D. - Nella parte finale di Next, trasmette ai Lettori l’impressione che la globalizzazione di oggi sia un sogno piccolo piuttosto che sbagliato, forse ostaggio di due concezioni contrapposte che non contribuiscono certo ad un incontro virtuoso delle idee e dei progetti. Per superare tale impasse, suggerisce in modo suggestivo che occorrerebbe iniziare a sognare e a realizzare tale sogno. Qual è l’idea di Alessandro Baricco?
R. - Io dico che la globalizzazione è nata come strumento per fare soldi e incrementare il controllo sulla gente: di per sè mi sembrano obbiettivi abbastanza discutibili. Per altro l’opposizione alla globalizzazione sembra per lo più una forma di rifiuto puro e semplice, che tende a difendere l’esistente: e anche qui non riesco a trovare niente di davvero elettrizzante. Mi chiedo allora come mai l’umanità non sia capace di sogni veri, grandi, proprio in un momento storico in cui sono a portata di mano mutazioni enormi. In un certo senso mi sembra un’umanità narcotizzata. I ricchi mi sembrano ipnotizzati dalla propria idolatria per i soldi. E gli altri dal proprio odio per i ricchi. Non sembrano esserci molti che, buttando lo sguardo oltre lo scontro attuale, siano capaci di scorgere un nuovo orizzonte per cui valga la pena di combattere. Ma forse è una incapacità mia, un sovrappiù di pessimismo di cui non vado affatto fiero.
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