Introduzione
Nell’opera di contrasto al terrorismo, le sanzioni e gli incentivi di natura economica costituiscono mezzi di pressione e di persuasione utilizzabili dallo Stato quale singolo attore, da una pluralità di Stati in concerto fra loro e da organizzazioni internazionali di portata regionale o mondiale.
Le sanzioni sono normalmente, ma non esclusivamente, di carattere direttamente o indirettamente economico. Mentre la sfera di applicazione delle sanzioni investe ormai da decenni gli Stati sostenitori del terrorismo internazionale, l’estensione delle stesse nei confronti di diverse aggregazioni terroristiche e dei relativi canali di supporto privato è uno sviluppo più recente. Infine, contrariamente all’impiego delle sanzioni, il ricorso agli incentivi economici è sostanzialmente ancora in fase di evoluzione.
Lo scopo delle pagine che seguono è quello di sintetizzare, anche sotto l’aspetto storico, l’utilizzo dello strumento economico nella lotta al terrorismo contemporaneo e di esporre alcune riflessioni sull’efficacia di tale strumento, considerato sia singolarmente sia quale parte di un insieme di misure atte al contrasto del fenomeno terroristico.
Data la complessità dei meccanismi a livello tecnico e – soprattutto – data la presenza di fattori contraddittori a livello politico, ci proponiamo di tracciare una panoramica auspicabilmente ragionata, senza però formulare conclusioni definitive, che a nostro avviso sarebbero azzardate in questo stadio dell’opera di contrasto al terrorismo.
Sanzioni e relativa efficacia
Sotto l’aspetto dell’imposizione unilaterale delle sanzioni, gli Stati Uniti d’America costituiscono un punto di riferimento fondamentale.
(1) La convinzione che l’appoggio diretto o indiretto di Stati sostenitori abbia incrementato la pericolosità di diversi gruppi terroristici ha già da tempo indotto gli USA ad imporre sanzioni economiche nei confronti di questi Stati. Infatti, una normativa sul commercio estero risalente al 1979 prevede tali sanzioni contro i Paesi periodicamente elencati dal governo americano nella cosiddetta terrorism list, ufficialmente nota come State Sponsors of Terrorism, la quale attualmente enumera Iran, Iraq, Libia, Siria, Sudan, Cuba e Corea del Nord.
(2) Fra le sanzioni applicabili agli Stati elencati nella terrorism list risaltano l’embargo parziale o totale sul commercio, l’embargo sulle operazioni finanziarie, la sospensione di assistenza economica, restrizioni sul traffico aereo o marittimo e l’abrogazione dei trattati di amicizia, commercio e navigazione. L’elencazione e la consequenziale applicazione delle sanzioni s’imperniano sul presupposto che l’attività di supporto al terrorismo sia ripetitiva, quindi sistematica.
Le sanzioni sono state normalmente comminate da Washington in via unilaterale in quanto gli interessi dei Paesi alleati o amici infrequentemente hanno permesso loro di associarsi alle iniziative americane in tal senso. Né sono valsi i tentativi di Washington – in seguito ridimensionati – di penalizzare gli Stati, ancorché alleati o amici, che da tempo intrattengono sostanziali rapporti economici con quelli elencati nella terrorism list, particolarmente l’Iran e la Libia.
Mentre è significativo che il governo americano sia l’unico che redige un tale elenco disponibile nel pubblico dominio, altri Stati, nonché organizzazioni internazionali, hanno de facto riconosciuto ed agito nei confronti di Stati sostenitori o patroni del terrorismo avvalendosi fra l’altro di sanzioni, ancorché non sempre di natura economica.
Nel 1986 l’abuso dell’immunità diplomatica da parte della Libia in sostegno di elementi terroristici indusse numerosi Stati europei ad espellere, di comune intesa, oltre cento diplomatici libici. A seguito delle indagini riguardanti il coinvolgimento di Tripoli nei sanguinosi attentati contro i voli Pan Am 103 (Scozia, 1988) e UTA 772 (Niger, 1989), il Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite adottò tre risoluzioni contro la Libia, nel 1992-93, che prevedevano l’embargo sull’importazione di armamenti e di attrezzature per l’industria petrolifera, nonché sullo scalo di voli internazionali. Gli USA tentarono invano di allargare la portata dell’embargo sull’intera industria petrolifera.
Con la ripresa dell’appoggio a gruppi terroristici da parte di Baghdad in occasione della Guerra del Golfo, numerosi diplomatici e funzionari iracheni furono espulsi, nel 1990-91, da diversi Stati europei, inclusi Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Grecia e Stati Benelux. Contemporaneamente, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU impose nei confronti dell’Iraq un embargo commerciale e finanziario.
Nel 1996 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU impose al Sudan, sotto forma di sanzioni, la riduzione delle proprie missioni diplomatiche nel tentativo di ottenere l’estradizione di tre cittadini egiziani – ivi rifugiati – accusati di aver partecipato l’anno precedente al fallito attentato contro il Presidente egiziano Hosni Mubarak mentre era in visita ufficiale in Etiopia.
Nell’ottobre 1999 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU nuovamente comminò sanzioni antiterroristiche, ma questa volta contro un regime, quello dei Taleban, che allora controllava la quasi totalità del territorio afghano e si qualificava come l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Le sanzioni – motivate dall’appoggio dei Taleban al terrorismo internazionale e dal rifiuto degli stessi di estradare Osama bin Laden, giudiziariamente incriminato negli USA per gli attentati del 1998 contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam – prevedevano l’embargo sullo scalo degli aerei di proprietà dei Taleban e il congelamento dei loro fondi e altre fonti finanziare all’estero.
Stando alle proteste sollevate dagli Stati il cui nome appare sulla terrorism list o che sono sottoposti a restrizioni di matrice internazionale, è chiaro che le relative sanzioni debbono in qualche misura pesare economicamente e/o politicamente sui regimi che li governano. Vanno tuttavia formulate alcune considerazioni specifiche sull’effettiva efficacia delle sanzioni, sia unilaterali sia collettive, nei riguardi degli Stati sostenitori.
· Le sanzioni comminate da un solo Stato non costituiscono un deterrente assoluto, visto il perdurare della presenza degli stessi Stati sulla terrorism list.
· Uno strumento quale la terrorism list, con le corrispondenti sanzioni, comporta inevitabilmente non solo valutazioni a livello d’intelligence, ma anche calcoli politici. Ad esempio:
l’applicabilità del criterio di appoggio “ripetitivo” o “sistematico” al terrorismo automaticamente esclude dalle sanzioni gli Stati il cui sostegno riveste carattere occasionale. Infatti, in via sussidiaria alla terrorism list, è stata proposta, ma non adottata, la compilazione di un elenco informale di monitoraggio, informal watch list, in cui andrebbero inclusi provvisoriamente alcuni Stati sospetti.
È sintomatico di calcoli politici il depennamento dell’Iraq dalla terrorism list dal 1982 al 1989, praticamente per l’intera durata della guerra Iran-Iraq, periodo in cui il regime teocratico iraniano veniva percepito come una grave minaccia per la sicurezza degli USA e del proprio sistema di alleanze.
Altro caso di notevole interesse, stando a quanto riportato da numerose fonti aperte, è quello dell’Arabia Saudita. Si sospettano appoggi ad aggregazioni terroristiche internazionali da parte di elementi facenti parte del governo o della pubblica amministrazione saudita. Contemporaneamente, quel Paese è considerato fonte di notevoli sostegni finanziari di provenienza privata, che significativamente include cittadini aventi notevoli contatti con il potere centrale. Ma considerazioni geopolitiche e geostrategiche sconsigliano l’inclusione dell’Arabia Saudita nella terrorism list.
· È fonte di perplessità e confusione la penalizzazione, in nome della lotta al terrorismo, di Stati che si tenta di isolare o neutralizzare – anche con strumenti economici – non specificamente a causa del loro apporto al terrorismo internazionale, ma in quanto protesi all’acquisto o produzione di armi di distruzione di massa. Da notare che praticamente gli stessi Stati che fanno parte della terrorism list sono anche considerati rogue states , cioè Stati “canaglia” o “fuorilegge”. Risaltano fra questi Iran, Iraq (sotto il regime di Saddam Hussein), Libia, Siria e Corea del Nord con riferimento alla loro politica in settori quali la corsa alle armi di distruzione di massa, la violazione dei diritti umani e l’inosservanza degli impegni internazionali.
· Le sanzioni, tanto economiche quanto di altra natura, possono dimostrarsi un’arma a doppio taglio. Da un lato, ne pagano le conseguenze anche gli interessi economici del Paese o dei Paesi che le impongono. Dall’altro lato, esse possono isolare ancora di più il Paese o i Paesi colpiti e ritardarne lo sviluppo, così inasprendo il ricorso al terrorismo, inteso sia alla stregua di terrorismo di Stato che di appoggio a gruppi terroristici sub-nazionali.
Pur in presenza di fattori limitativi, l’impiego di sanzioni unilaterali o collettive nei confronti di Stati sostenitori non deve essere scartato con leggerezza. Al riguardo fa testo il caso del Pakistan, il quale, ammonito da Washington nel 1993 di un eventuale inserimento nella terrorism list, ha da allora prestato la sua collaborazione in diverse occasioni assistendo sia gli USA sia l’Egitto nell’opera di contrasto al terrorismo internazionale. Va pure citato il caso della Libia che, verosimilmente anche a causa delle sanzioni imposte unilateralmente dagli USA e collettivamente dall’ONU, ha nella sostanza finalmente riconosciuto le proprie responsabilità e provveduto a determinati risarcimenti. Pure il Sudan starebbe gradualmente mutando politica in materia di terrorismo.
Permangono tuttavia nei Paesi in via di sviluppo situazioni politiche per cui, senza che le autorità governative (ovvero il regime) siano coinvolte nella loro totalità in forme di supporto al terrorismo, alcuni settori delle stesse facilitano disegni terroristici di natura interna e/o internazionale. Invero, con riferimento ai fatti dell’11 settembre 2001 ed a quanto susseguitosi, è tuttora in corso un dibattito sulla affidabilità dell’impegno antiterroristico di Stati quali i su ricordati Pakistan e Arabia Saudita.
Il crescente influsso, a partire dagli anni Novanta, di finanziamenti ed appoggi provenienti da fonti private, in concomitanza con la diminuzione dell’apporto di Stati sostenitori del terrorismo, ha indotto gli USA ad istituire nel 1997 un ulteriore elenco denominato Foreign Terrorist Organizations, ossia Organizzazioni Terroristiche Straniere, che attualmente annovera 36 gruppi la cui condotta asseritamente costituisce terrorismo internazionale e minaccia gli interessi americani.
(3) La loro composizione può essere riassunta in termini geografici e di orientamento politico-ideologico. Si tratta di gruppi palestinesi laici, islamico-radicali di varie nazionalità, ebraici oltranzisti, mediorientali non palestinesi, latino-americani filo-marxisti, asiatici prevalentemente irredentisti o legati a convincimenti genericamente teocratici ed europei irredentisti o marxisti-leninisti. Eccezione fatta per i medicinali e gli oggetti di culto religioso, è proibito qualunque genere di assistenza o finanziamento da parte di privati od organi statali americani alle organizzazioni ivi elencate; non possono essere rilasciati visti d’ingresso negli Usa a loro membri; ed i fondi di loro appartenenza individuati sul territorio americano sono sequestrabili.
La lista delle Foreign Terrorist Organizations è affiancata da un elenco aggiuntivo denominato Terrorist Exclusion List, in cui vengono inserite persone fisiche e giuridiche soggette al divieto d’ingresso e soggiorno negli USA ed a sanzioni economiche e di altra natura in quanto sostenitori del terrorismo.
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Nonostante il minore raggio di applicabilità, poiché colpisce aggregazioni subnazionali interne, va ricordata l’analoga iniziativa britannica contenuta nel Terrorism Act, o Legge sul Terrorismo, del 2000 il cui Appendice 2 annovera “organizzazioni dichiarate proscritte”.
Come nel caso delle sanzioni contro gli Stati che sponsorizzano il terrorismo, l’efficacia di quelle contro gruppi terroristici specifici, nonché persone fisiche o giuridiche che li appoggiano, dipende nel lungo termine e in buona misura dall’adesione o meno di altri Stati e di organizzazioni internazionali.
Già nel 1999, la Convenzione per la soppressione del finanziamento del terrorismo, patrocinata dall’ONU, prevedeva sanzioni penali, civili e amministrative nei confronti di individui o gruppi il cui ausilio finanziario contribuisce alla commissione di atti terroristici. Inoltre, sempre prima dell’11 settembre 2001, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per via delle Risoluzioni 1267, 1333 e 1363, decretava sanzioni contro i Taleban, al-Qaida, Osama bin Laden e soggetti a loro associati, basandosi sulle informazioni fornite dagli Stati membri e dalle organizzazioni regionali.
I noti attentati di New York e Washington hanno ulteriormente stimolato il ricorso a misure di contrasto economico su vasta scala globale. Il 28 settembre 2001 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con Risoluzione 1373, ha ingiunto a tutti gli Stati membri l’individuazione e il blocco delle possibili fonti di finanziamento dei gruppi terroristici. È stato contemporaneamente istituito il Counter-Terrorism Committee con l’incarico di monitorare l’applicazione da parte di tutti gli Stati delle misure obbligatorie previste dal documento. Le successive risoluzioni 1377, 1390, 1452 e 1456 hanno ampliato e ribadito quanto previsto dalle precedenti.
A livello regionale rivestono a loro volta importanza le misure adottate dall’Unione Europea, fra le quali risaltano l’elaborazione di elenchi di individui e organizzazioni dediti al terrorismo e la normativa in materia di blocco dei beni a seguito della predetta Risoluzione 1373 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
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In sintonia con le su ricordate iniziative, sia unilaterali sia collettive, numerosi Stati hanno promosso indagini e contromisure finanziarie nei confronti di strutture terroristiche, in particolar modo al-Qaida, e le relative fonti di sostegno. Si calcola che fino al mese di maggio del 2003 siano stati bloccati, a livello globale, circa 143 milioni di dollari in fondi destinati a gruppi terroristici.
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Anche per ciò che riguarda l’apporto finanziario di fonti private alle aggregazioni terroristiche, è opportuno formulare alcune considerazioni sull’effettiva efficacia delle sanzioni economiche.
· Nella stragrande maggioranza dei casi, la progettazione e l’esecuzione di attentati terroristici, nonché la costituzione di gruppi dediti al terrorismo, richiedono mezzi finanziari piuttosto limitati. Va a proposito ricordato che il terrorismo è spesso qualificato, con relativa approssimazione, come “l’arma dei deboli” o “lo strumento dei poveri”.
· Nel caso del narcoterrorismo, quale forma di finanziamento per il terrorismo vero e proprio, va poi ricordato che il fenomeno si inserisce in uno scenario molto più ampio che riguarda non solo il terrorismo ma altre forme di criminalità, il cui contrasto richiede strategie diversificate.
· Il monitoraggio del flusso di denaro verso aggregazioni terroristiche è particolarmente arduo sotto l’aspetto tecnico, geografico e temporale a causa di numerosi fattori fra i quali vanno annoverati: la clandestinità dei canali (strutture binarie e nomi multipli o falsi), la frequente mancanza di dati identificativi minimi per collegare persone fisiche ad organizzazioni, il ricorso anche ad affari di per se legittimi, il ricorrente apporto di donatori inconsapevoli ad opere apparentemente caritatevoli, le difficoltà insite nell’effettuare sequestri all’estero e l’elusività di strumenti, quali l’hawala, che esulano dalle normali operazioni bancarie.
Complementarietà degli incentivi?
Le sanzioni costituiscono uno strumento punitivo e – entro certi limiti – di dissuasione nei confronti di Stati patroni, gruppi terroristici e sostenitori privati. A loro volta gli incentivi economici, se oculatamente sviluppati ed applicati, potrebbero fungere da strumento di persuasione e disgregazione all’interno degli ambienti terroristici e fiancheggiatori.
L’unico incentivo economico di consolidato impiego riguarda lo stanziamento e il pagamento di ricompense per informazioni utili ai fini della prevenzione di atti terroristici, dell’esito positivo delle indagini e della cattura degli autori di attentati. In alcuni Stati, il settore privato contribuisce allo stanziamento di fondi per le ricompense. Questo incentivo si è dimostrato utile in numerosi casi.
Controverso, invece, il ricorso ad incentivi economici miranti ad eliminare o ridurre condizioni economiche, quali il sottosviluppo, o sociali, quali la carenza d’istruzione, in determinate aree del mondo onde contrastare l’humus estremista o radicale dal quale sorge e nel quale si alimenta il terrorismo interno e internazionale.
Organicità e reciprocità degli strumenti di contrasto
I mezzi disponibili per combattere il terrorismo sono numerosi. Essi abbracciano, inter alia, la sensibilizzazione della popolazione, le operazioni preventive e repressive di polizia, la diplomazia, gli accordi e i protocolli internazionali, la collaborazione bilaterale e multilaterale, le sanzioni di varia natura, l’intelligence, le operazioni speciali complementari all’intelligence e il dispiegamento di reparti delle forze armate.
Lo strumento economico, la cui applicabilità ed efficacia sono variabili a seconda delle situazioni specifiche, non è che uno di quei mezzi sinteticamente elencati. Come gli altri strumenti, solo raramente quello economico può rivelarsi determinante o prestarsi ad un impiego esclusivo. Oltre all’esigenza di programmazione con debito anticipo, i mezzi di contrasto debbono essere concreti, di reciproco rinforzo e coordinati fra loro.