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Per Aspera Ad Veritatem n.26
Il difficile percorso delle riforme nella Repubblica islamica dell’Iran, dalla monarchia alla teocrazia

Nicola PEDDE




Le relazioni tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Islamica dell’Iran sembrano avviate irrimediabilmente verso una fase di stallo entro un lasso di tempo considerevolmente breve. Da più parti l’Iran e la Siria vengono indicate come possibili prossimi obiettivi della vasta e imprecisata, dal punto di vista temporale, "guerra al terrorismo" lanciata dagli Stati Uniti successivamente ai criminali attacchi di New York e Washington dell’11 settembre 2001.
L’Iran stesso sembra affrontare un difficile processo di trasformazione politica genericamente percepita però in Occidente come mero scontro tra forze riformiste e conservatrici.
L’Europa, ancora impegnata nel lento e delicato processo di ricomposizione politica determinatosi successivamente all’intervento alleato in Iraq, sembra temere fortemente il rischio di un deterioramento delle relazioni tra Washington e Tehran. Per non ripetere gli errori del recente passato i vertici dell’UE hanno elaborato una prima forma di intervento politico sulla questione iraniana che, seguendo la strada di una posizione chiara circa il rispetto degli accordi sullo sviluppo dell’attività nucleare, mira ad acquisire in tempo utile una posizione rilevante in quella che potrebbe divenire la prossima, ben più grave, crisi nella regione del Golfo Persico.
Per comprendere la posizione iraniana e le sue opzioni politiche, però, non è sufficiente la mera analisi dei fatti di cronaca. La recente storia del paese, infatti, insegna come l’Iran sia una complessa matrice di interessi e variabili la cui combinazione in più occasioni sia sfuggita all’interpretazione dei paesi occidentali e degli Stati Uniti in modo particolare.
È quindi opportuno poter disporre di elementi di valutazione tratti non solo dall’attuale analisi politica locale ma anche, e soprattutto, dalla particolare e per certi versi unica evoluzione politica, socio-demografica, culturale ed economica dell’Iran nell’arco degli ultimi cinquant’anni.
Solo questo processo interpretativo, largamente ed inspiegabilmente trascurato, può offrire un quadro d’insieme completo e reale sullo stato di un paese che da quasi un quarto di secolo vive in un isolamento forzato - e per certi versi voluto - alimentato dal continuo conflitto retorico contro un nemico che anche all’interno stesso dell’Iran diviene di giorno in giorno sempre più difficile identificare.



Tracciare un profilo della storia recente dell’Iran non è certo impresa facile. I ventiquattro anni della Repubblica Islamica, e la precedente esperienza monarchica, sono inseriti in un quadro di evoluzione storica decisamente unico e denso di avvenimenti eccezionali. In modo particolare la rivoluzione del 1978/79 è stata uno degli episodi più importanti sul piano internazionale dell’ultimo quarto del secolo scorso, con ripercussioni sul piano internazionale che ancor oggi non mancano di produrre effetti.
Ciononostante la storia dell’Iran non ha conosciuto - soprattutto in Italia - un interesse ed una produzione letteraria adeguata, con ciò favorendo largamente la diffusa concezione del paese secondo i canoni, prettamente occidentali, dello "Stato abnorme" (così come spesso lamentato dagli iraniani stessi) e del "fondamentalismo islamico", entrambi errati e dettati spesso dalla più totale ignoranza circa l‘evoluzione sociale, politica ed economica del paese.
È quindi opportuno tracciare una sintetica cronistoria soprattutto per favorire la comprensione degli eventi odierni attraverso la lettura dei principali momenti della storia locale dal 1941 ad oggi.

Dall’ascesa al trono al golpe Mossadeq
Lo Scià Mohammad Reza Pahlavi salì al trono nel settembre del 1941, appena ventiduenne, succedendo al padre Reza Khan costretto all’esilio dagli inglesi e dai sovietici successivamente all’occupazione militare del paese per le sue manifeste simpatie filo-naziste.
Il giovane sovrano si trovò ad esercitare il potere in uno Stato di cui era solo nominalmente a capo, con una massiccia presenza di forze militari britanniche e sovietiche e, soprattutto, in un generale clima di fermento politico locale generatosi dopo l’esilio dell’austero padre, che sino ad allora aveva governato con il pugno di ferro il paese cercando di avviarlo verso una modernizzazione forzata dei costumi e dell’economia.
La partenza delle truppe anglo-sovietiche successivamente al termine del secondo conflitto mondiale non fece che peggiorare il già instabile equilibrio politico locale, con l’insorgere di massicci fenomeni di indipendentismo soprattutto nelle aree settentrionali del paese, grazie anche all’attivo ruolo dell’Unione Sovietica e del locale partito comunista, il Tudeh.
Solo nei primi anni Cinquanta - e solo grazie al crescente supporto degli Stati Uniti - l’Iran potè risolvere il problema dell’indipendentismo ed avviare una politica di coesione nazionale tra le numerose etnie presenti.
Questo risultato, peraltro, fu largamente favorito anche dalla politica nazionalista del Primo Ministro Mohammad Mossadeq, importante uomo politico dalla grande popolarità ma animato da ambizioni marcatamente antimonarchiche.
Mossadeq nel 1951 decise la nazionalizzazione dei pozzi di petrolio iraniani, innescando un grave meccanismo di crisi internazionale ed animando al contempo un clima politico nazionale fortemente ostile al giovane sovrano, costringendolo all’esilio nell’agosto del 1953.
Immediatamente dopo, grazie al massiccio ed ormai documentato supporto degli Stati Uniti, le forze lealiste guidate dal Generale Zahedi ripresero il controllo del paese permettendo allo Scià di tornare in patria ed arrestare Mossadeq.
L’esperienza del colpo di Stato coincide, ed anzi favorisce, con il primo significativo cambiamento dell’attitudine politica del sovrano. Una volta rientrato a Tehran dal breve esilio italiano, lo Scià comprende la necessità di sviluppare solidi e duraturi legami con gli Stati Uniti, esercitando il potere in patria secondo le ferree regole del padre e, soprattutto, riprendendone il percorso innovatore e modernista in funzione della creazione di una potenza regionale.
L’assoluto controllo del potere e l’instaurazione di un rigido sistema di tutela dell’"ordine sociale" garantito dalla temuta - quanto famigerata - Savak (una struttura di controllo politico e di intelligence addestrata ed equipaggiata da americani ed israeliani in particolar modo) permise allo Scià di avviare un poderoso programma di riforme nel tentativo di portare l’Iran tra i paesi industrializzati più importanti del pianeta entro il breve termine di vent’anni.
Lo Scià, inoltre, assegnò ad un consorzio di otto compagnie straniere la produzione del greggio locale, con ciò cementando il rapporto politico con l’Occidente e permettendo l’ingente afflusso di capitali nelle casse dello Stato.
Nel 1961 venne promulgata la riforma agraria, presentata dal sovrano come "Rivoluzione Bianca", per permettere la razionalizzazione delle politiche agricole ed estirpare il fenomeno del latifondo. Con questa riforma, peraltro, lo Scià intendeva colpire duramente anche i cospicui interessi terrieri del potente clero sciita, eliminando quella che già il padre aveva identificato come una delle maggiori forme di potere del sistema iraniano antagoniste alla corona.
La riforma, seppur concettualmente omogenea ed innovatrice, si risolse in breve tempo in un totale fallimento, spopolando le campagne e favorendo quell’abnorme processo di periurbanizzazione che, in meno di vent’anni, portò alcune città dell’Iran a vedere decuplicata la propria popolazione.

La maturità politica dello Scià e la crisi petrolifera del 1973
Lo Scià viene ricordato oggi nella gran parte dei casi come la patetica caricatura del tipico satrapo mediorientale, per gli eccessi del suo regno e per lo sfarzo che da sempre è abbinato ai regimi assoluti.
Ciononostante lo Scià, successivamente all’esperienza del golpe di Mossadeq, maturò una concezione del proprio ruolo e della propria missione che, al di là degli effettivi e tangibili aspetti esteriori di un sovrano con il culto della personalità, si manifestò e concretizzò nell’attuazione di un ambizioso ed assai ben congegnato progetto per la modernizzazione e la crescita economica del paese.
Reza Pahlavi, infatti, già dalla prima metà degli anni Sessanta aveva compreso come l’Iran dovesse sfruttare il proprio petrolio in tempi brevi per una rapida e concreta politica di industrializzazione. Lo Scià, con grande lungimiranza, e a differenza della gran parte degli altri politici dell’area, aveva compreso la necessità di dover diversificare la composizione del proprio ambito industriale per non trovarsi esposto ai rischi di un rovescio che, nei confronti di un’economia monodirezionale, potesse risultare fatale.
Comprese anche che per poter attuare un piano di tal fatta avrebbe dovuto legare la propria politica in modo sempre più stretto a quella degli Stati Uniti, assumendo di conseguenza quel ruolo di potenza regionale che negli USA, in più occasioni e spesso in modo sarcastico, venne definito come del "Gendarme del Golfo".
Il progressivo fallimento della riforma agraria convinse lo Scià della necessità di una ulteriore accelerazione nel programma di riforma industriale del paese, con investimenti in ogni ambito e con lo sviluppo di relazioni commerciali a tutto campo in ogni angolo del pianeta.
Ciononostante la struttura politica ed amministrativa nazionale non era in alcun modo adeguata per affrontare un salto epocale di tale portata nell’economia.
Navi stracolme di materiali e merci stazionavano anche mesi in rada in attesa di poter scaricare sulle affollatissime banchine dei principali porti dell’Iran, ancora assai modesti per dimensioni, gli ingenti carichi. L’assenza di una vera e propria struttura viaria all’interno del paese impediva il trasporto delle merci in direzione delle località di destinazione, lasciandole spesso deperire nei sovraffollati piazzali di smistamento dei porti. Le imprese di tutto il mondo compresero che l’Iran comprava tutto e pagava subito, riuscendo a collocare ogni tipo di prodotto in un contesto che, almeno apparentemente, non badava a spese.
L’economia del boom iraniano, inoltre, era in mano ad una ristretta e corrotta élite di potere che dallo sviluppo economico dell’Iran cercava di trarre il massimo profitto nel minor tempo possibile. Ogni affare in Iran doveva passare attraverso una lunga catena di intermediari che, generando profitto, svuotava le casse dello Stato ed esasperava progressivamente il rapporto con la sempre più numerosa compagine dei ceti medio-bassi del nuovo Iran urbano.
Gli stessi parenti del sovrano erano coinvolti in ogni possibile ambito degli affari, sia nel lecito che nell’illecito. In particolar modo il ruolo dei numerosi membri della famiglia reale risultò essere poi fatale per l’immagine dello Scià che, di contro, non fu mai cinicamente ed avidamente impegnato nel perseguimento di un reale vantaggio personale e che, invece, sino alla fine rimase convinto del proprio ruolo di guida insostituibile per lo sviluppo e la modernizzazione del paese.
L’Iran di Reza Pahlavi si trasformò quindi in un mondo di paradossi e di crescente divario sociale, con lo sviluppo di una moltitudine di centri di potere, politici e non, destinati nell’arco di un decennio a provocare la fine della monarchia. In particolar modo due furono i principali centri di gravità della crescente opposizione al sovrano: il partito comunista Tudeh ed il clero sciita.Il giovane Scià aveva da sempre intrattenuto cordiali rapporti con Mohammad Husayn Borounjerdi, vertice del clero sciita sino al 1961, anno della morte. Il successore di Borounjerdi, Ruollah Khomeini, aveva invece dimostrato da subito la sua totale avversione a Reza Pahlavi ed al sistema monarchico, manifestando apertamente in modo crescente tale sentimento tra i fedeli.
La posizione anti-monarchica di Khomeini non tardò ad irritare lo Scià che, non potendo adoperare con un religioso di tale fama gli spietati e risolutivi metodi della Savak, optò per imporne l’esilio.
Dall’Iraq, prima e duratura tappa del peregrinare di Khomeini, il religioso iniziò una furiosa campagna contro il monarca, sviluppando progressivamente una estesa sfera di opposizione politica al regime impostata sui principi dell’Islam e sulla denigrazione dei sempre più evidenti insuccessi della politica dello Scià.
Le campagne, tradizionale roccaforte del potere religioso in Iran, andarono progressivamente spopolandosi con ingenti flussi migratori in direzione delle città, dove si svilupparono sterminati agglomerati caratterizzati dal più marcato sottosviluppo, che ben presto si trasformarono nei nuovi fulcri del potere sciita.
Nel 1973, per una complessa serie di circostanze nel mercato energetico, si determinò quello che passerà poi alla storia come il primo "shock petrolifero" mondiale.
Nonostante l’apparente forza dei paesi produttori nei confronti dell’Occidente, la politica aggressiva sulla produzione impose in brevissimo tempo l’adozione da parte di quelli consumatori di contromisure atte a contenere e demolire il potere delle cosiddette "petromonarchie".
Grazie alla messa in coltura dei più onerosi, ma sicuri, giacimenti occidentali e ad una razionalizzazione del consumo energetico, i paesi consumatori occidentali riuscirono nell’arco di un breve intervallo temporale a sovvertire diametralmente la situazione. Ridimensionando fortemente il potere dei produttori e, soprattutto, riducendo massicciamente e definitivamente gli ingenti profitti derivanti dall’attività della produzione petrolifera, il mercato energetico nell’arco di poco più di un decennio arrivò addirittura a determinare le condizioni di un "contro shock" che, almeno sino ad oggi, ha permesso il ristabilimento delle posizioni di forza, limitando il potere soprattutto dell’OPEC.
Gli effetti del "post-shock" petrolifero acuirono in Iran la già accentuata crisi politica ed economica, alimentando in modo sempre maggiore lo scontro sociale all’interno del paese ed isolando sempre più il sovrano dai reali problemi nazionali.
Gli ingenti profitti derivanti dalla vendita del petrolio degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta si ridussero sensibilmente, impedendo ai grandi progetti industriali di essere portati a termine e andando ad incrementare disoccupazione e malcontento in ogni contesto geografico e sociale del paese.

La rivoluzione
Lo Scià era riuscito per diverso tempo a mantenere il riserbo circa il suo stato di salute. I periodici cicli di cure in patria ed all’estero, presentati come check up di routine, avevano però destato sospetti, soprattutto nello stretto entourage di corte.
Il cancro al sistema linfatico aveva colpito il sovrano già nella prima metà degli anni Settanta e solo grazie ad un continuo e meticoloso supporto medico e farmacologico lo Scià aveva potuto contenere l’inarrestabile effetto della malattia.
Il cancro, e soprattutto la consapevolezza dell’impossibilità delle cure, provocò la seconda importante trasformazione politica di Reza Pahlavi. Certo dell’imminente fine, e soprattutto conscio del perdurante stato di arretratezza del paese, lo Scià era intenzionato ad accelerare quanto più possibile il processo di industrializzazione nazionale per poter trasferire il potere al figlio primogenito, Ciro Reza, al compimento del diciottesimo anno d’età. Al figlio aveva imposto una formazione di tipo politico e militare - da molti ritenuta troppo celere - inviandolo già a sedici anni negli Stati Uniti presso la locale Accademia Aeronautica.
Nei primi anni Settanta, inoltre, l’Iran aveva ottenuto dagli Stati Uniti l’assenso per l’acquisto di ogni tipologia di armamento, ad eccezione di quelli atomici. Nixon, anzi, cercò di favorire in ogni modo la crescita militare del paese, aumentando il numero delle commesse e contestualmente il numero di cittadini americani presenti nel paese.
L’Iran fu, ad esempio, l’unico paese oltre agli Stati Uniti a poter disporre del moderno e sofisticato Grummann F-14A, armato di missili Phoenix e Sidewinder, che si aggiungeva ai già numerosi stormi di F-4 Phantom ed F-5 Tiger, tutti in diverse versioni, P-3C Orion, C-130H Hercules, e numerosi altri modelli.
L’Iran, quindi, si apprestava a divenire realmente il paese più potente e meglio equipaggiato della regione, con una politica economica e nazionale che, però, sempre più presentava evidenti elementi di criticità.
Nel 1978, ad Abadan, un cinematografo venne dato alle fiamme. Numerose furono le vittime in una struttura i cui dispositivi di sicurezza lasciavano molto a desiderare e dove il panico aveva contribuito ad incrementare le proporzioni della strage.
L’incendio, chiaramente di origine dolosa, venne immediatamente attribuito alle forze speciali della polizia iraniana, provocando in tutto il paese disordini e manifestazioni.
Gran parte della documentazione oggi disponibile tenderebbe ad accreditare l’ipotesi secondo cui l’incendio del cinema Rex di Abadan, vero e proprio punto di partenza della rivoluzione, sia stato provocato da elementi del locale partito comunista, il Tudeh, con il chiaro intento di provocare la scintilla della rivolta e permettere ai gruppi di opposizione di concentrare nelle strade un gran numero di oppositori.
Le manifestazioni e gli scontri con la polizia si propagarono per tutto il paese per gran parte dell’estate, in un crescendo di violenza senza precedenti per l’Iran. Lo Scià, confuso ed incerto sul da farsi, si affidò alle forze armate, strutture cui mai era stata chiesta una funzione di tipo propositivo e che, anzi, erano da sempre state il più fedele ed immoto strumento nelle mani del sovrano.
La scelta si dimostrò catastrofica. Unità senza alcuna esperienza di ordine pubblico vennero inviate a presidiare le strade in assetto da guerra con blindati e corazzati. I militari di truppa, nella quasi totalità dei casi in servizio di leva, iniziò a disertare in numero progressivamente sempre maggiore.
L’8 settembre 1978, infine, il Generale Oveissi - capo della Guarnigione di Tehran - ordinò di aprire il fuoco contro una immensa folla di manifestanti in quella che allora si chiamava Piazza Jaleh. Fu il massacro, in una giornata che da allora venne ricordata come il venerdì nero di Tehran.
La sconsiderata mossa provocò nel paese un’ondata di manifestazioni che non si arrestò più, sino alla partenza dello Scià.
Khomeini dall’esilio aumentò al tempo stesso considerevolmente la sua azione, registrando audiocassette che venivano duplicate in migliaia di copie ed immesse illegalmente in Iran.
I veri artefici della rivoluzione sul terreno, però, soprattutto in fase iniziale furono i gruppi politici di ispirazione socialista e marxista. Addestrati con ogni probabilità in Unione Sovietica o comunque da personale dell’intelligence sovietico, i gruppi riuscirono ad esercitare una crescente pressione sulle forze militari e di polizia, adottando strategie e regole di ingaggio già sperimentate in altri paesi del mondo per la più assoluta efficacia.
In modo particolare vennero adottate tutte le possibili strategie per innescare ingenti manifestazioni di piazza, provocando soprattutto spargimenti di sangue crescenti a danno dell’immagine dello Stato e del monarca. Per sfidare le ferree regole del coprifuoco vennero poi sfruttate abilmente tutte le possibili opzioni derivanti dall’applicazione del più rigido codice di comportamento islamico, in tal modo coinvolgendo sempre maggiori fasce di popolazione ed allargando così la base della protesta.
Questa mossa, tuttavia, consentì realmente al clero sciita di divenire in breve tempo l’unico riferimento della rivolta, lentamente esautorando i gruppi di ispirazione politica della più varia natura.
Il Tudeh erroneamente ritenne che il potere del clero nulla avrebbe potuto in una rivolta condotta da elementi socialisti e marxisti in un paese moderno dove, comunque, l’applicazione della sharia sembrava un’ipotesi lungi dal potersi effettivamente realizzare.
Come ultimo, estremo tentativo di salvare il paese e la monarchia dalla rivoluzione, lo Scià nominò Shapour Bakhtiar primo ministro. Bakhtiar, esponente democratico espressione di quella sfera politica riconducibile all’area di Mossadeq, accettò il difficile incarico unitamente ad uno staff di generali cui sarebbe stata demandata la gestione dell’emergenza a condizione che il sovrano lasciasse temporaneamente il paese.
Lo Scià, quindi, partì dall’aeroporto Mehrabad di Tehran la mattina del 16 gennaio 1979, diretto in Egitto e successivamente in Marocco.
La folla tuttavia, pur entusiasta per la circostanza, non cessò di manifestare ed anzi considerò la partenza dello Scià come l’ennesima prova di debolezza del regime imperiale.
Un crescendo di manifestazioni, l’immobilismo delle forze armate e le continue diserzioni e rivolte spianarono quindi il campo per il ritorno di Khomeini in Iran il 31 gennaio 1979 e la rocambolesca fuga di Shapour Bakhtiar.

La Repubblica islamica, l’occupazione dell’Ambasciata USA e la guerra con l’Iraq
L’Ayatollah non tardò a chiarire i termini dell’assetto politico iraniano post rivoluzionario. L’Iran, come sancito anche in un referendum, divenne una Repubblica Islamica e da quel momento non ci fu più spazio per tutte quelle forze democratiche, socialiste e di ispirazione etnica che tanto avevano contribuito al successo della rivoluzione.
L’epurazione nello Stato, quindi, potè concentrarsi non solo su tutti gli elementi compromessi con il regime imperiale ma anche su tutte le forze da quel momento transitate all’opposizione.
All’interno della stessa compagine sciita le divergenze tra i gruppi erano aumentate esponenzialmente all’indomani della vittoria, e dovettero essere composte in larga parte grazie al diretto intervento di Khomeini.
Nel frattempo lo Scià, nel girovagare di un esilio particolarmente penoso, vedeva aggravarsi le condizioni di salute e chiedeva agli Stati Uniti la possibilità di ingresso per cure mediche. L’amministrazione USA, dapprima fortemente scettica data la situazione a Tehran e soprattutto per le esplicite minacce da parte delle nuove autorità, accettò infine di offrire cure mediche all’ex sovrano erroneamente pubblicizzando la notizia.
In quel momento a Tehran esplosero nuovamente le proteste e gli slogan anti-americani che avevano caratterizzato gran parte dell’iter rivoluzionario, mentre un gruppo di giovani studenti appartenenti ad una organizzazione religiosa irruppe nell’Ambasciata USA e la occupò.
La debacle americana in Iran si concluse con un rovinoso tentativo di liberazione degli ostaggi - fortemente avversato dallo stesso Segretario di Stato che, infatti, all’atto dell’approvazione del piano si dimise - nel quale persero la vita alcuni uomini della Delta Force e che segnò la conclusione delle relazioni diplomatiche dirette tra Stati Uniti ed Iran.
Il nuovo assetto costituzionale del paese, nel frattempo, instaurava una particolare ed originale forma di diarchia nella quale accanto ad una forma di potere di tipo tradizionale rappresentata dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento si accompagnava un parallelo potere di ispirazione religiosa presieduto da una Guida Suprema e coadiuvato da un Consiglio.
A tali ultime cariche era - e tuttora è - demandato l’effettivo esercizio dei principali poteri della Repubblica Islamica con un ruolo poco più che d’esercizio e di gestione per le cariche istituzionali della presidenza e del Parlamento.
L’artefice di questa innovativa architettura dello Stato fu l’Ayatollah Khomeini, che alla costituzione della Repubblica Islamica indicò chiaramente nell’Islam, e non nello Stato stesso, il vertice del potere in Iran, con ciò sottolineando quella che sarebbe stata la netta distinzione tra il potere del Presidente e quello della Guida Suprema.
Nel 1980 l’Iraq attaccò a sorpresa l’Iran, rapidamente guadagnando terreno contro un esercito avversario ancora in piena epurazione, senza supporto da parte degli Stati Uniti e, quindi, nella quasi totale impossibilità di garantire l’efficienza dei propri armamenti.
Il Presidente della Repubblica, Bani Sadr, riuscì frettolosamente ad ottenere la scarcerazione di un gran numero di esperti ufficiali e tecnici delle ex forze armate imperiali, inserendoli immediatamente nelle unità combattenti e riuscendo in breve tempo a contenere l’avanzata irachena creando un fronte con il nemico.
Questa sanguinosa guerra, largamente alimentata da numerosi paesi occidentali in funzione del doppio contenimento di entrambi i belligeranti - secondo la logica della teoria del "dual containment" elaborata dagli Stati Uniti - durò otto anni e provocò un numero di vittime verosimilmente compreso tra 800.000 e 1.200.000 uomini.
Solo nel 1988, con un ritorno allo status quo ante dei confini e con un temporaneo cessate il fuoco, si riuscì a porre termine al conflitto e a ristabilire un fragile equilibrio nella tormentata area del Golfo Persico.
I primi anni della Repubblica Islamica furono anche sul piano interno tutt’altro che stabili e sereni. Il consolidamento del potere religioso impose un lungo e sanguinoso periodo di scontro tra le forze politiche locali, dove le forze anti-monarchiche un tempo alleate e successivamente escluse dal clero sciita tentarono in ogni modo di opporsi anche attraverso l’uso della violenza. In particolar modo si resero artefici di sanguinosi attentati i Mujahedin del popolo, attraverso i loro gruppi più estremisti, ed altre formazioni minori, progressivamente però debellate dalle nuove forze di sicurezza della Sovama, succeduta alla Savak.
Alla morte dell’Ayatollah Khomeini, nel 1989, molti analisti occidentali ipotizzarono l’avvio di un processo di riforme in Iran unitamente alla normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti. L’elezione del pragmatico Rafsanjani alla Presidenza della Repubblica aveva peraltro contribuito ad alimentare tali valutazioni, lasciando intravedere la possibilità di radicali cambiamenti nel paese.Durante la Guerra del Golfo del 1991 poi, l’Iran aveva mantenuto un profilo neutro non intervenendo con la coalizione alleata ma fornendo una collaborazione discreta e defilata. Tale atteggiamento delineava un progressivo e radicale mutamento nella tradizionale concezione delle relazioni internazionali, con la conseguente maggiore apertura verso numerosi paesi dell’Unione Europea e dell’estremo Oriente.
Al Presidente Rafsanjani, carismatico ed imperscrutabile uomo politico, non sono ascrivibili mutamenti di natura eccezionale nell’assetto politico e sociale del paese. Purtuttavia durante il suo mandato presidenziale le strategie economiche iraniane sono state oggetto di una poderosa crescita, accompagnate in diverse occasioni anche da successi a livello internazionale.
La presidenza Khatami
Il più rilevante e recente episodio di trasformazione nella vita politica e sociale dell’Iran odierno, invece, è senz’altro riconducibile all’elezione del Presidente democratico e riformista Khatami, nell’Agosto del 1997.
Per comprendere le radici della rapida e clamorosa ascesa del Presidente è opportuno soffermarsi brevemente sull’analisi del quadro socio-demografico e socio-economico dell’Iran degli anni Novanta.
Il fallimento della riforma agraria dello Scià, come già accennato in precedenza, provocò una massiccia periurbanizzazione e, contestualmente, un forte incremento demografico in tutti i maggiori centri abitati del paese.
La crescente crisi economica derivante dalle difficoltà di realizzazione dei progetti di diversificazione industriale in ambiti diversi dal settore energetico - peraltro caratterizzato da una sempre maggiore automazione e con una contestuale riduzione della forza lavoro non specializzata - incrementarono negli anni Ottanta e Novanta il tasso di disoccupazione locale attestandolo su valori decisamente critici.
La composizione demografica dell’Iran odierno vede quindi un elevato numero di giovani di età inferiore ai 30/35 anni - secondo alcune stime in misura di gran lunga superiore al 50% della popolazione - con scarse possibilità occupazionali, inseriti però in un contesto sociale in cui l’accesso alla formazione di base, accademica e professionale diviene di giorno in giorno sempre più agevole e diffusa anche in funzione dello status.
In aggiunta a tutto ciò è opportuno segnalare come le nuove generazioni iraniane non solo non abbiamo alcun ricordo diretto della monarchia dello Scià e della successiva rivoluzione ma, soprattutto, non siano in grado di comprendere i valori della rivoluzione stessa quale fondamento ideologico per la costituzione della Repubblica Islamica.
Le moderne logiche della globalizzazione poi, soprattutto attraverso i media e la rete Internet, hanno permesso ai giovani dell’Iran di entrare in contatto - seppure spesso non in modo diretto - con il mondo esterno, alimentando l’idea di un universo al di fuori del paese assolutamente libero e moderno.
Anche questi fattori, quindi, hanno contribuito ad alimentare nelle fasce di popolazione più giovane del paese un generale sentimento di avversione al potere centrale dello Stato, nell’ottica di un processo di riforma che tenda ad allentare l’isolamento dell’Iran ed allo stesso tempo consenta di rivedere i rigidi principi della legislazione islamica offrendo maggiori margini di libertà.
Ciononostante non deve essere trascurato il sentimento squisitamente nazionale di appartenenza allo Stato e di rispetto ed osservanza della religione che, in tutti gli strati sociali, continua a costituire un baluardo della cultura iraniana ed islamica in generale. La percezione di un paese costantemente sull’orlo di una nuova rivoluzione ed in attesa del momento propizio per l’avvio di un meccanismo, violento o meno, di ridefinizione del potere è spesso più una valutazione di matrice occidentale che non una realtà locale.
In Iran il complesso rapporto tra Stato, religione ed identità etnica compone un mosaico sociale la cui sostanza è spesso sfuggita agli Occidentali. La stessa rivoluzione colse di sorpresa la gran parte dei paesi europei e gli Stati Uniti, laddove si interpretò il ruolo ed il potere dello Scià in un contesto totalmente avulso dalla realtà del paese e dove, soprattutto, l’elemento religioso veniva considerato come strumentale e marginale rispetto alla reale dinamica dei fatti.
Questo, dunque, il fertile terreno su cui il Khatami potè costruire la sua campagna elettorale, essenzialmente rivolta in direzione delle classi d’età più giovani e con il preciso obiettivo di riformare la rigida struttura del potere religioso della Guida Suprema Khamenei.
La massiccia affluenza alle urne e la preponderante vittoria elettorale di Khatami restituirono ai giovani iraniani la speranza della possibilità di un rapido e concreto cambiamento, rivitalizzando le iniziative politiche e culturali del paese in ogni ambito.
L’evidente impossibilità di rispettare il programma elettorale nei tempi auspicati dall’elettorato, però, rese assai arduo il compito del Presidente già nel primo mandato.
Nel 1999 numerosi gruppi di giovani universitari organizzarono una imponente manifestazione di protesta a Tehran, seguita dall’adesione di altri coetanei nelle principali città dell’Iran.
La protesta, duramente repressa dalle autorità, fu abilmente propagandata all’esterno del paese, provocando reazioni politiche in tutti i principali paesi occidentali partner economici dell’Iran. Al movimento studentesco deve essere riconosciuto peraltro il merito di aver saputo presentare gli eventi del 1999 come il simbolo dell’attività e del pensiero dei giovani iraniani, trasformando la circostanza in una vera e propria ricorrenza che, ogni anno, costituisce l’occasione per la commemorazione ed il dibattito.
Nonostante il lento - e per certi versi fallimentare - andamento della politica riformista del Presidente, Khatami venne rieletto con una larga maggioranza nelle elezioni del 2001, ottenendo un consenso sempre più vasto e deciso.

Dall’11 settembre 2001 ad oggi
Il secondo mandato presidenziale di Khatami coincide con i criminali attacchi di New York e Washington del settembre 2001.
La reazione degli Stati Uniti con la dichiarazione di "guerra al terrorismo" su scala globale spinse l’Iran - da sempre accusato di supporto a numerose organizzazioni terroristiche - ad adottare una politica di fattiva collaborazione con gli Stati Uniti. Il Presidente Khatami pubblicamente espresse il proprio cordoglio per le vittime degli attentati assicurando la partecipazione dell’Iran in ogni possibile progetto di lotta al terrorismo internazionale, concretamente partecipando all’identificazione ed alla cattura di esponenti di Al-Qaeda già durante le prime fasi dell’attacco americano all’Afghanistan dei Talibani.
Nel periodo compreso tra la fine del 2001 ed i primi giorni del 2002 fonti non ufficiali degli Stati Uniti riportarono addirittura la notizia di colloqui riservati tra USA ed Iran, lasciando intuire l’avvio di un primo processo di dialogo e riavvicinamento tra i due paesi.
Nonostante ciò, nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2002, il Presidente degli Stati Uniti Bush attaccò duramente l’Iran inserendolo, insieme all’Iraq ed alla Corea del Nord nell’oramai celebre "asse del male", responsabile di attività terroristiche ed impegnato nella realizzazione di armi di distruzione di massa.
La manifestazione di una così precisa e dura posizione degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran fu motivata da una articolata serie di considerazioni dell’Amministrazione USA circa l’effettivo ruolo dell’Iran in relazione al supporto al terrorismo ed al perseguimento del know how per la costruzione di armi di distruzione di massa.
A tal proposito risulta senz’altro opportuna una premessa. Le relazioni tra Stati Uniti ed Iran dalla rivoluzione ad oggi - appropriatamente descritte come "psicotiche" da Marvin Zonis, celebre e qualificato accademico oggi residente negli USA - sono state il frutto di una reciproca incapacità di comprensione e dialogo maturata sui palesi errori di valutazione dell’amministrazione statunitense durante l’ultima fase del potere dello Scià e nel primo periodo post-rivoluzionario. Ciò che, con ogni probabilità, aveva turbato maggiormente l’opinione pubblica americana dopo l’attacco a Pearl Harbour e prima dei fatti dell’11 settembre 2001, è sicuramente stata l’occupazione dell’ambasciata americana a Tehran nel 1980, protrattasi con il sequestro degli ostaggi per oltre un anno da parte dagli iraniani. Questo episodio aveva segnato il definitivo arresto delle relazioni diplomatiche dirette ed ufficiali tra i due paesi, andando progressivamente ad innescare un meccanismo di conflittualità latente caratte
rizzato, da ambo le parti, dall’adozione di toni e di una retorica connotata dalla più marcata ed incisiva opposizione ideologica e culturale.
La valutazione che l’amministrazione statunitense opera quindi con riferimento all’Iran, nel quadro generale di una già marcata e diffusa diffidenza e ostilità, è quella di un paese orientato in ogni modo nell’intento di acquisire armi di distruzione di massa ed impegnato nel supporto all’eversione ed al terrorismo internazionale.
Gli Stati Uniti ritengono che l’Iran, per il consolidamento del proprio ruolo politico regionale e per il conseguimento di una effettiva leva di deterrenza, sia alacremente impegnato nello sviluppo di una articolata infrastruttura industriale in breve tempo pronta per la produzione di ordigni nucleari. L’Iran, e questo ufficialmente, è da tempo peraltro impegnato nella realizzazione di una cospicua capacità missilistica per la proiezione strategica in gran parte dell’area mediorientale e centro asiatica, grazie allo sviluppo dei vettori Shahab 3 a lunga gittata ed altri sistemi multistadio in avanzato stadio di progettazione. Lo sviluppo di questi sistemi costituisce per gli Stati Uniti una grave minaccia, soprattutto se abbinata all’apparente volontà iraniana di dotarsi di ordigni nucleari, condizione che potrebbe sovvertire il generale equilibrio regionale ed imporre una profonda modificazione della strategia americana nell’area del Golfo Persico.
In aggiunta a tutto ciò l’Iran è apertamente accusato dagli Stati Uniti di continuare ad appoggiare il terrorismo internazionale in due principali direzioni. Da un lato offrirebbe diretto supporto a numerose organizzazioni in Libano, Europa e gran parte del Medio Oriente. Dall’altro avrebbe optato per una ambigua politica di cooperazione nei confronti della lotta alla rete terroristica di Al-Qaeda, arrestando e consegnando esponenti di minor rilievo ed offrendo al tempo stesso copertura ad altri di maggiore importanza.
L’amministrazione del Presidente Bush quindi, nel generale quadro della strategia politica definita successivamente all’11 settembre 2001, sembra essere decisamente orientata al perseguimento in tempi rapidi di obiettivi strategici legati alla definizione di un duraturo, quanto incerto, equilibrio regionale da realizzarsi secondo un’agenda temporale che impedisca il maturare di nuove e più minacciose condizioni sul terreno. L’esperienza della guerra all’Iraq e la successiva rimozione dal potere di Saddam Hussein costituiscono quindi un primo elemento di tale strategia che, pur non producendo risultati apprezzabili sotto il profilo della stabilità locale, hanno consentito agli Stati Uniti di conseguire l’obiettivo di eliminare un potenziale elemento di instabilità regionale prima che lo stesso potesse operare scelte potenzialmente atte ad imporre una generale revisione delle capacità di impiego statunitensi in loco.
La crescente conflittualità verbale con la Repubblica Islamica dell’Iran sembra quindi oggi ricalcare il modello e l’esperienza della recente crisi con l’Iraq, attraverso l’adozione di politiche coercitive finalizzate alla richiesta di chiare politiche ispettive a cui abbinare, dopo il quasi certo diniego, politiche sanzionatorie ed ultimatum risolutivi.



La rivoluzione del 1978/79 non provocò solo il collasso del sistema politico e la caduta del sovrano. La componente ideologica alla base del processo rivoluzionario, seppur inizialmente eterogenea, concordava sulla necessità di una globale revisione del concetto stesso di potere e della sua pratica espressione.
Non è riscontrabile un vero e proprio disegno politico unitario durante la fase rivoluzionaria tra i vari gruppi che alla stessa presero parte in modo attivo. Di certo alcune delle realtà politiche partecipanti erano fortemente condizionate dal peso delle relazioni che storicamente avevano intrattenuto con l’estero, come nel caso del Partito Comunista Tudeh, rendendo facilmente individuabili - seppur in via generale - i confini del disegno politico.
Ciononostante, la necessità di eliminare radicalmente il sistema di potere dello Scià, decretò, seppur non ufficialmente, l’adozione di una sorta di periodo di stasi in attesa della possibilità di definire formalmente la linea politica comune del paese.
Alla tradizionale concezione del potere dello Scià, le cui fondamenta poggiavano sul duplice terreno della politica terrena e materiale del sovrano in quanto espressione del volere del suo popolo e, dall’altra parte, sulla concezione religiosa di trasmissione verticale del potere al monarca, si contrapponevano l’ideologia marxista, il pensiero liberale e moderato e quello prettamente religioso del clero sciita, a sua volta espressione di un eterogeneo ambito ideologico.
In realtà ogni gruppo del costituendo potere rivoluzionario in Iran disponeva di un proprio più o meno articolato progetto politico, e già nelle ultime fasi della rivoluzione i vertici di ogni formazione erano attivamente impegnati nel definire il processo di integrazione politica per l’instaurazione di un governo rappresentativo di tutte le forze e per l’applicazione delle direttrici politiche e religiose espresse durante la rivoluzione.
Il clero e la compagine religiosa, trionfatori della rivoluzione ed arbitri del nuovo Iran, non tardarono ad orientare il processo di riorganizzazione dell’architettura istituzionale in direzione dell’applicazione di un modello che esaltasse e ponesse quale criterio imprescindibile il ruolo della sovranità islamica rispetto al mero concetto dello Stato-nazione.
Segmentando il potere e trasferendo il comando in direzione del vertice religioso, il clero sciita intendeva conferire alla politica un carattere strumentale per la gestione di una funzione di ben più elevato livello destinata all’instaurazione di un sistema che fondasse non sullo Stato il suo potere, ma sull’Islam e sull’applicazione rigorosa nella politica e nella sfera sociale dei principi islamici.
Tutto ciò chiaramente conferiva al clero sciita, almeno in linea di principio, una funzione di potere e di indirizzo destinata ad estendersi ben oltre i confini nazionali nel dichiarato scopo di permettere l’estensione spaziale della rivoluzione islamica.
Anche la retorica rivoluzionaria, imperniata sul concetto di liberazione dei popoli islamici dall’oppressione politica, ideologica ed economica dall’Occidente, si manifestava apertamente attraverso slogan non limitatamente diretti al solo popolo iraniano ma, anzi, incitanti l’Islam nella sua accezione più globale in funzione di un risveglio e di una presa di coscienza in direzione del preciso e storico ruolo cui era stato chiamato all’indomani della rivoluzione.
In Iran, tuttavia, il principio universale dell’Islam si veniva a misurare e confrontare con l’elemento autoctono, anch’esso assai ben radicato, del sentimento per l’indipendenza e la sovranità nazionale del popolo iraniano. Tale concetto, tra i cardini peraltro della politica dello Scià, costituiva - e tutt’oggi costituisce - un elemento particolarmente importante nell’equilibrio tra il potere politico ed il popolo iraniano. Più volte nel corso del XIX e del XX secolo, infatti, l’Iran aveva dovuto permettere sostanziali mutilazioni territoriali e l’accesso degli stranieri nel sistema del potere locale, frustrando enormemente le aspirazioni della giovane classe dirigente e, soprattutto, l’adozione di un modello politico squisitamente locale.
Di questo, quindi, i vertici della Repubblica Islamica dell’Iran dovettero necessariamente tenere conto, animando fortemente il sentimento nazionale seppur nell’ambito del più ampio spettro rappresentato dall’Islam e dalla sua vocazione globale.
L’aggressione da parte dell’Iraq nel 1980, e gli otto anni di guerra seguenti, hanno poi enormemente favorito la concezione unitaria dello Stato e la coesione nazionale contro la minaccia esterna. La predominante capacità offensiva iraniana negli ultimi anni del conflitto, con la contestuale accresciuta capacità di penetrazione nel territorio iracheno da parte delle unità della Repubblica Islamica esaltarono enormemente il sentimento nazionale, seppur in costanza di effetti bellici devastanti.
Anche la retorica di conflitto con gli Stati Uniti, almeno parzialmente, è stata sin dapprincipio costruita sul modello di uno scontro destinato alla difesa ed alla salvaguardia dei confini nazionali e della libertà politica ed ideologica nei confronti di un nemico percepito - o comunque raffigurato - come assolutamente irrispettoso della cultura e delle tradizioni locali ed animato unicamente dalla volontà di appropriarsi delle risorse nazionali iraniane.
L’America, nell’esperienza degli slogan e della letteratura della Repubblica Islamica, viene raffigurata in modo ricorrente come una potenza egemone e senza scrupolo alcuno nei confronti dell’Islam e del popolo iraniano. L’immagine stessa dello Zio Sam, sempre presente nelle raffigurazioni pittoriche e nelle manifestazioni di piazza, rappresenta il volto più torvo e bieco dell’imperialismo e del materialismo occidentale, pronto a carpire irrispettosamente ogni beneficio dagli oppressi a proprio personale vantaggio.
Solo verso la fine degli anni Ottanta, reciprocamente, Stati Uniti ed Iran modificarono parzialmente il proprio modello di comunicazione - peraltro sempre rivolto all’interno della propria compagine e solo raramente all’esterno - chiarendo e sottolineando come i limiti dell’antagonismo interessassero solo ed esclusivamente le èlite politiche e non già il popolo, da ambo le parti descritto come oppresso e vittima del proprio stesso sistema.
L’odierna concezione dello Stato in Iran, quindi, è il risultato di una molteplicità di elementi e di una prolungata elaborazione di concetti solo parzialmente ispirati alla religione islamica. Gli apporti culturali provenienti dall’eterogenea composizione etnica, il forte retaggio delle correnti politiche democratiche, socialiste e nazionaliste, unitamente alle dottrine mutuate dalla prolungata esperienza di contatto con un gran numero di paesi stranieri hanno determinato la crescita e lo sviluppo di un modello che erroneamente viene spesso ricondotto alla sola matrice religiosa della confessione sciita. Al contrario, invece, è opportuno segnalare incisivamente gli aspetti prettamente autoctoni del pensiero e della filosofia politica, che hanno conferito all’Iran una unicità ed una particolarità assolutamente originale ed eccezionale.



L’analisi della politica estera iraniana successivamente al 1979 deve necessariamente considerare quanto già espresso in merito alle radici ideologiche della odierna concezione dello Stato. In particolar modo è senz’altro evidente la dicotomia tra la concezione islamica del rapporto con l’esterno ed il sentimento nazionale di indipendenza ed autonomia territoriale, particolarmente avvertito soprattutto in relazione all’area geografica di riferimento.
L’Iran infatti, inserito in un contesto socio-politico regionale di cui è al tempo stesso parte ed elemento estraneo, ha maturato storicamente un sistema di relazioni con i paesi dell’area mediamente critico e connotato dalle ambizioni di potenza regionale che, in più occasioni, si sono manifestate in vere e proprie azioni di forza.
Il lungo e tormentato iter del contenzioso per lo Shatt el-Arab con l’Iraq, l’occupazione militare delle piccole isole di Abu Musa e Tonbs nell’area dello stretto di Hormuz, la politica di sostegno al movimento religioso in Oman, sono solo alcune delle più recenti e palesi manifestazioni di potenza che l’Iran ha attuato, sia in epoca monarchica che in quella post rivoluzionaria, in osservanza ad un modello di concezione e gestione delle relazioni internazionali impostato secondo una netta distinzione della politica regionale rispetto a quella globale.
In particolar modo la Repubblica Islamica ha sempre percepito la diffidenza e la malcelata ostilità delle monarchie della penisola arabica nei confronti del modello istituzionale che l’Iran post rivoluzionario ha cercato, almeno nei primi anni dalla sua instaurazione, di esportare in direzione di tutte quelle aree dove la presenza di forti comunità islamiche di confessione sciita sembrava poter permettere lo sviluppo di un processo di radicale sostituzione politica delle élite al potere.
Gli anni del conflitto con l’Iraq, poi, hanno esacerbato tale condizione grazie al sostanziale, seppur non dichiarato, supporto dei paesi confinanti alla cosiddetta strategia del "dual containment". Strategia che, in termini pratici, permetteva di contenere i due più evidenti poli di potere della regione entro i critici ambiti di un conflitto senza fine grazie al quale, peraltro, il peso economico delle rispettive produzioni petrolifere veniva eroso a totale vantaggio degli altri produttori.
L’ambiguo ruolo della politica regionale nei confronti del conflitto tra Iran e Iraq, unitamente alla totale assenza di azioni concrete in funzione di una soluzione stabile e duratura, permisero il determinarsi di una generale condizione di reciproca diffidenza tra l’Iran e la gran parte soprattutto dei paesi rivieraschi della regione del Golfo Persico, con sporadici episodi di normalizzazione nelle relazioni politiche ed economiche.
L’Iran, in modo particolare, ha sempre lamentato la debole - se non assente - denuncia dell’aggressione irachena da parte dei paesi islamici e l’assenza di supporto per la gestione del conflitto nel momento in cui, soprattutto, il sostegno occidentale veniva meno all’indomani della rivoluzione. Questa condizione di isolamento generale, sia sul piano regionale che su quello globale, ha accentuato il sentimento di frustrazione di un paese che, per sua stessa ammissione, ritiene di essere percepito nell’ambito di una diffusa "anormalità" rispetto ai principi ed agli schemi tradizionali dei moderni sistemi istituzionali.
Ciononostante l’isolamento forzato dell’Iran ha permesso alla classe dirigente locale di rafforzare il proprio potere favorendo, spesso forzatamente, la coesione tra le numerose anime del potere politico nazionale.
La supremazia del principio religioso rispetto all’elemento meramente nazionale, infatti, è il cardine in base al quale l’architettura istituzionale della Repubblica Islamica dell’Iran ha potuto, successivamente alla rivoluzione, essere modellata secondo uno schema multiplo, dove ad un potere politico ufficiale espressione della volontà popolare si unisce un potere - decisamente più ampio in termini effettivi - di matrice religiosa presieduto dalla Guida Suprema e da un Consiglio cui è demandato l’effettivo controllo ed esercizio del potere reale.Verso la metà degli anni Novanta, in concomitanza con l’elezione del Presidente Khatami, venne avviato un complesso processo di trasformazione della politica estera iraniana, con un rinnovato interesse per la definizione dell’interesse nazionale grazie anche ad una progressiva stabilizzazione delle relazioni diplomatiche con i paesi europei e con diversi paesi arabi.
Anche la questione delle relazioni con gli Stati Uniti, seppur nell’ambito di un apparentemente irrisolvibile problema di fondo costituito dalla costante impossibilità di conciliare l’aspetto ideologico con quello prettamente politico, ha conosciuto un’evoluzione soprattutto durante la presidenza Clinton.
Su iniziativa degli Stati Uniti, infatti, una serie di colloqui non ufficiali tra rappresentanti dei due paesi si erano susseguiti per circa due anni e, seppur in assenza di risultati tangibili, tale iniziativa aveva avuto l’indiscusso merito di aver interrotto l’immobilismo che dagli anni Ottanta caratterizzava il rapporto tra Iran e USA.
Anche in Iran il dibattito interno circa l’evoluzione e le priorità delle scelte di politica internazionale iniziò a produrre una concreta ed innovativa concezione delle relazioni sostanzialmente basata sulla riconosciuta necessità di poter garantire l’unità e l’integrità nazionale iraniana attraverso lo sviluppo di alleanze e forme di cooperazione regionale ed internazionale. Tale matrice riconosceva apertamente quindi come priorità la possibilità di svincolare il paese dal rigido sistema di isolamento e di relazioni mediate determinatosi nell’arco degli ultimi due decenni, aprendo favorevolmente il dibattito in direzione di strategie di ampio respiro e su vasta scala.
In sintesi, quindi, veniva apertamente riconosciuto come l’Iran disponesse di due generali opzioni nella determinazione delle scelte strategiche di politica internazionale. Da un lato poteva basare la propria concezione di difesa dell’interesse e dell’integrità nazionale sullo sviluppo di un modello isolazionista caratterizzato da elevati costi e da altrettanto elevati rischi sul piano regionale ed internazionale; dall’altro poteva optare per la definizione di un articolato programma di sviluppo delle relazioni regionali ed internazionali aprendo considerevolmente ai paesi occidentali e agli Stati rivieraschi del Golfo Persico.
Successivamente ai fatti dell’11 settembre 2001 invece, nonostante la presenza di apparenti segnali distensivi, si è manifestata una nuova fase critica delle relazioni con gli Stati Uniti. Tale condizione, tuttora in corso di maturazione, rischia di generare un nuovo stallo politico tra i due paesi con ripercussioni difficilmente prevedibili ma sicuramente estese all’Europa ed all’intera regione del Golfo.
La posizione ufficiale degli Stati Uniti è quella di una aperta condanna dell’Iran in funzione del perseguimento di programmi destinati alla realizzazione delle armi di distruzione di massa e di sostegno al terrorismo. La posizione iraniana, di contro, replica alle accuse statunitensi smentendo categoricamente ogni progetto sul nucleare e ribadendo il proprio contributo nella lotta al terrorismo internazionale. L’Iran, inoltre, denuncia con sempre maggiore frequenza l’ingerenza degli Stati Uniti nelle questioni della propria politica interna, lamentando un continuo tentativo di provocare disordini soprattutto nelle fasce giovanili della società iraniana, con ciò di fatto impedendo la possibilità di avviare qualsiasi forma di dialogo costruttivo con gli Stati Uniti.
Certamente una politica di pressione da parte degli USA quale quella successiva al termine della guerra in Iraq - apparentemente giustificata anche per contrastare l’insorgenza dei movimenti sciiti filo iraniani nell’Iraq meridionale - comporta e sempre di più comporterà l’assunzione da parte dell’Iran di una posizione isolazionista e prettamente difensiva. Maggiore sarà la pressione degli Stati Uniti infatti - come nel caso del recente aperto sostegno alle manifestazioni studentesche - maggiore sarà la difficoltà per il governo riformista del Presidente Khatami di poter assumere posizioni divergenti da quelle dell’ala conservatrice, con l’evidente impossibilità di poter rappresentare per gli iraniani una credibile alternativa politica.
Parimenti la stagnazione del dibattito politico nazionale iraniano comporta la possibilità per determinati ambiti del potere locale di adottare strategie sul piano nazionale ed internazionale di tipo parallelo, operando scelte assai pericolose ed in netta opposizione ai generali principi di cooperazione pubblicamente manifestati in più occasioni dal Presidente.



L’economia iraniana, al pari di quella della gran parte dei paesi produttori, è altamente dipendente dal settore dell’energia, dal petrolio in particolare.
In epoca monarchica lo Scià, avendo in modo lungimirante compreso i rischi di una eccessiva dipendenza dal petrolio anche per i paesi produttori, aveva cercato di dare avvio ad un generale processo di diversificazione industriale atto a favorire lo sviluppo di altri comparti produttivi locali allo scopo di alleggerire la dipendenza dall’estero e di sviluppare una propria capacità nel settore dell’export entro la prima decade del XXI secolo.
La caotica gestione di tali attività, prima ancora della rivoluzione, non permise di raggiungere risultati apprezzabili, con il conseguente sperpero di energie e finanze in progetti ambiziosi ma precariamente amministrati.
La rivoluzione, la guerra con l’Iraq ed il successivo critico andamento delle relazioni internazionali dell’Iran, non hanno permesso - soprattutto a causa dell’embargo - lo sviluppo neanche dei progetti già avviati, relegando il paese in una condizione di generale sottosviluppo con forti ripercussioni sull’economia e sull’occupazione.
L’Iran ha saputo gestire la precaria condizione derivante dall’isolamento politico e dall’embargo sviluppando lentamente, ma progressivamente, un gran numero di accordi bilaterali con diversi paesi europei, dell’estremo Oriente, con la Russia e con il Giappone. In tale contesto il paese ha potuto sviluppare una propria politica per lo sfruttamento delle ingenti risorse petrolifere, legando numerose compagnie occidentali al continuo processo di sviluppo delle nuove aree di concessione.
I principali partner commerciali del paese sono oggi la Russia, il Giappone, l’Italia, la Germania, la Cina, la Francia e, in misura crescente, gli emirati del Golfo Persico. L’Iran è peraltro impegnato nell’allargamento delle relazioni economiche anche in direzione di aree per molto tempo considerate di difficile accesso, come il subcontinente indiano e gli stati rivieraschi del Mar Caspio, con i quali è alla ricerca di accordi bilaterali per lo sviluppo soprattutto delle ingenti riserve locali di gas naturale.
L’Iran conta una popolazione di quasi 67 milioni di abitanti, di cui la metà etnicamente non riconducibile al ceppo persiano, e dispone di un prodotto interno lordo di circa 100 miliardi di dollari (ai valori di mercato del cambio). Afflitto storicamente nel corso degli ultimi vent’anni da un tasso di inflazione elevato (intorno al 15%) e da un ingente debito estero, l’Iran odierno ha ereditato dal precedente sistema monarchico una pubblica amministrazione inefficiente, burocratica e numericamente rilevante la cui trasformazione si è da subito presentata difficile e socialmente pericolosa. Tale settore, infatti, garantisce una delle poche possibilità di sbocco occupazionale oltre ai tradizionali settori dell’industria petrolifera e dell’agricoltura (peraltro fortemente ridimensionatasi).
Il maggiore problema sociale dell’Iran odierno è senza dubbio costituito dall’elevata percentuale di disoccupati (circa il 20% della potenziale forza lavoro) in un contesto demografico caratterizzato da una forte prevalenza di giovani e da un incremento costante del tasso di natalità.
La criticità del sistema occupazionale viene considerata oggi dalle autorità iraniane come uno dei maggiori e più insidiosi problemi sociali del paese, con prospettive di miglioramento assai scarse ed atte a provocare fenomeni di instabilità maggiori rispetto alla generale insofferenza derivante dal rigore dell’applicazione della legge islamica.
In tale quadro, quindi, lo sforzo di rilancio dell’economia e, soprattutto, la diversificazione dal settore energetico vengono viste come una assoluta priorità, i cui tempi di realizzazione non possono essere oggetto di rallentamento alcuno. A sostegno di questa iniziativa è stata promulgata nel maggio del 2002, dopo quasi quarant’anni, la nuova legge per gli investimenti esteri in Iran, con la quale le autorità locali sperano di poter attrarre capitali esteri da investirsi in una molteplicità di settori garantendo al contempo la pratica ed agevole capacità di ri-trasferimento dei profitti in direzione dei paesi di origine.

Il settore dell’energia
L’Iran dispone di riserve accertate di petrolio pari a quasi 90 miliardi di barili, largamente localizzati in aree onshore e di eccellente qualità (a basso contenuto di zolfo con un range API compreso tra i 30° e i 39°).
La produzione iraniana è da tempo attestata su un valore medio di circa 3,5/3,6 mbg (milioni di barili al giorno), a fronte di una quota OPEC attualmente pari a 3,75 mbg. Il mercato interno in termini di consumo assorbe in media 1 mbg, favorendo un ingente export sulla quota residuale della produzione in direzione soprattutto dell’Europa e dell’Oriente.
L’Iran, tuttavia, dispone anche di ingenti riserve di gas naturale, nella misura di oltre 800 Tcf (Trillion Cubic Feet) di riserve accertate, e con favorevoli prospettive di incremento data l’intensa attività di esplorazione in un settore del mercato energetico relativamente recente nell’esperienza iraniana. L’immenso giacimento di South Pars costituisce oggi uno dei principali settori di investimento del programma energetico iraniano, con la partecipazione di numerose società estere tra cui l’italiana Eni (nelle Fasi 4 e 5 di sfruttamento).
L’Iran è anche impegnato in un controverso piano per la realizzazione di una centrale nucleare a Bushihr, ufficialmente presentata come applicazione per uso civile finalizzata all’alleggerimento del consumo interno di idrocarburi da destinare all’export.
La lunga e travagliata storia del progetto nucleare iraniano risale ancora all’epoca monarchica, nel tentativo di diversificazione industriale del paese progettato dallo Scià e poi arrestatosi successivamente alla rivoluzione.
I lavori sulla centrale di Bushihr, concepiti su progetto tedesco ed interrotti nel 1979, sono stati ripresi nel recente passato grazie al sostegno della Russia siglato con un protocollo d’intesa pluriennale del valore di oltre 800 milioni di dollari.
Gli Stati Uniti sostengono che l’Iran abbia concepito il progetto di ristrutturazione e completamento della centrale nucleare in funzione della precisa volontà di sviluppare ordigni. A sostegno di tale teoria viene indicato come l’Iran abbia intensivamente avviato l’estrazione di uranio sul territorio nazionale e, soprattutto, non abbia fornito sufficienti garanzie sul riprocessamento delle scorie di lavorazione della centrale, in origine destinate ad essere ritrasferite in Russia.
Sulla questione del nucleare si è intensificata nel corso del primo semestre del 2003 una tenace opposizione dell’Amministrazione USA, unitamente ad una precisa ed imperativa richiesta di ispezione da parte dell’Agenzia Internazionale sull’Energia Atomica per verificare il rispetto dei termini sanciti dal Nuclear Non Proliferation Treaty di cui l’Iran e firmataria.
L’Iran, inoltre, dispone di un buon numero di reattori sperimentali in diversi centri universitari e di ricerca disseminati su tutto il territorio, oggetto anch’essi dell’interesse da parte degli Stati Uniti in quanto indicati come possibili centri per la ricerca su tecnologie ed ordigni ad uso bellico.



L’organizzazione del sistema della difesa, delle forze armate e della sicurezza in genere ha subito una profonda trasformazione in Iran dalla rivoluzione ad oggi.
Il modello organizzativo ed amministrativo dell’epoca monarchica, largamente ispirato ed influenzato ai criteri ed alla dottrina degli Stati Uniti, ha subito una radicale revisione unitamente ad un processo di epurazione lungo un arco temporale di quasi dieci anni.
Le Forze Armate, della cui affidabilità e fedeltà i vertici rivoluzionari diffidavano ampiamente dato il tradizionale e stretto legame che storicamente le legava al sovrano, furono sin dai primi giorni del periodo post rivoluzionario oggetto di un articolato e complesso processo di riorganizzazione ed indottrinamento.
In particolar modo il nuovo establishment politico della Repubblica Islamica volle costituire celermente un proprio apparato militare di provata fedeltà modellato su principi organizzativi e su una catena di comando di forte ispirazione religiosa.
In tal modo venne creato il Corpo delle Guardie Islamiche della Rivoluzione, più semplicemente conosciute come Pasdaran, cui si affiancarono i Basij ed altre formazioni minori non direttamente, o esclusivamente, espressione del contesto della difesa.
L’elevato tributo di vite umane durante la guerra con l’Iran e l’accresciuta esperienza determinarono la possibilità per queste unità di assumere un ruolo paritario rispetto a quello delle forze armate tradizionali, andando ad occupare una posizione strategica nella complessa matrice del potere iraniano.
La preponderanza degli armamenti e delle tecnologie occidentali nell’apparato della difesa iraniano conseguente al lungo periodo di stretta collaborazione dello Scià con gli Stati Uniti, imposero all’Iran la necessità di poter reperire sul mercato, in via non ufficiale, pezzi di ricambio e munizioni subito dopo la rivoluzione. In particolar modo lo scoppio delle ostilità con l’Iraq e la politica del "dual containment" permisero all’Iran di essere rifornito illegalmente riuscendo a limitare largamente gli effetti derivanti dall’embargo imposto dagli Stati Uniti.
Progressivamente le Forze Armate iraniane hanno avviato un processo di diversificazione nell’approvvigionamento di armamenti sviluppando un solido rapporto con la Russia, la Cina e la Corea del Nord ed avviando al contempo un programma di sviluppo nazionale per la realizzazione di artiglierie, corazzati ed aerei da trasporto e da combattimento.
Il materiale oggi in servizio risulta essere quindi un assortimento globale di tecnologie, con un decisivo incremento del materiale di produzione o concezione ex sovietica reperito sui mercati dell’Est Asia o sequestrato alle Forze Armate irachene successivamente al primo conflitto del Golfo.
Il Consiglio Supremo della Difesa
Il Consiglio Supremo della Difesa è il massimo organo nazionale responsabile per la gestione della sicurezza e della difesa del Paese. Il Consiglio è composto dal Presidente della Repubblica, dal Primo Ministro, dal Ministro della Difesa, dal Capo di Stato Maggiore della Difesa, dal Comandante dei Pasdaran e da due consiglieri. Le ultime quattro cariche sono espressione della nomina diretta della Guida Suprema, confermando questo dato l’elevato potere dello stesso in seno al Consiglio Supremo della Difesa.Sono ammessi a partecipare alle riunioni del Consiglio anche i capi di stato maggiore delle forze armate ed altri esponenti istituzionali per illustrare questioni inerenti la sicurezza nazionale e la difesa.

Islamic Revolutionary Iranian Air Force
La Imperial Iranian Air Force era all’epoca dello Scià una delle più moderne ed efficienti forze aree del mondo, con materiale moderno ed un organico di circa 100.000 uomini. Successivamente alla rivoluzione ed alla guerra con l’Iraq il materiale di provenienza statunitense è stato gradualmente integrato da mezzi di fabbricazione sovietica e cinese acquisiti a più riprese in diversi continenti o sequestrati agli iracheni dopo la fine della guerra quando, prima dell’intervento alleato del 1991, Saddam Hussein cercò di salvare la parte più moderna della linea di volo facendola riparare in Iran.
Le principali basi aeree o comandi dell’Iran sono quelle di:
· Doshan Tappeh (Tehran), Comando
· Mehrabad (Tehran), Aeroporto civile e militare della città. A Tehran è in avanzato stato di realizzazione anche un altro aeroporto, nelle vicinanze del mausoleo dell’Ayatollah Khomeini
· Bandar Abbas
· Dezful
· Tabriz
· Hamadan
· Bandar Behesti
· Shiraz
· Bushir
· Ahvaz
· Isfahan

Islamic Iranian Ground Forces
L’esercito iraniano è strutturato su un modello di suddivisione territoriale su base regionale. I principali settori di ripartizione sono:
Settore Settentrionale - Comando di Reyaiyeh
Responsabile per l’area di confine con la Turchia, l’Iraq settentrionale e l’Azerbaijan:
2° Corpo
11° Divisione di Artiglieria
25° Brigata Commando
28° Divisione Meccanizzata di Fanteria
40° Brigata di Fanteria
64° Divisione di Fanteria
Settore Occidentale - Comando di Bakhtaran
Responsabile dell’area centro-occidentale del paese e del confine centrale con l’Iraq:
1° Corpo
16° Divisione Corazzata
81° Divisione Corazzata
82° Divisione di Fanteria Meccanizzata
84° Divisione di Fanteria Meccanizzata
35° Brigata Commando
58° Brigata Commando
22° Brigata di Artiglieria
23° Brigata di Artiglieria
55° Brigata di Artiglieria
Settore Meridionale - Comando di Dezful
Responsabile dell’area meridionale costiera, dal confine con l’Iraq meridionale sino allo Stretto di Hormuz:
3° Corpo
92° Divisione Corazzata
23° Divisione delle Forze Speciali (composta da quattro brigate di cui una con specializzazione alpina stanziata in prossimità del confine afghano)
45° Brigata Commando
44° Brigata di Artiglieria
411° Brigata del Genio
Settore Orientale - Comando di Birjand
Responsabile per il controllo dell’area di confine con l’Afghanistan, il Pakistan e il Turkmenistan:
4° Corpo
88° Divisione Corazzata
30° Divisione di Fanteria
77° Divisione di Fanteria
Riserva Strategica Aerotrasportata - Comando di Isfahan
29° Divisione Commando Aerostrasportata
55° Divisione Paracadutisti

Islamic Revolutionary Navy
La marina iraniana, nonostante l’estesa esposizione del paese sul Golfo Persico, non ha mai conosciuto uno sviluppo di proporzioni così ambiziose come l’aeronautica militare e l’esercito. Con un organico decisamente ridotto anche in epoca monarchica, la marina iraniana può oggi contare su 3 obsoleti incrociatori, 3 fregate, 2 corvette, meno di 20 imbarcazioni leggere armate di missili, 3 o 4 navi anfibie, 4 cacciamine, alcuni hovercraft, 3 sommergibili classe Kilo acquistati dalla Russia ed una gran varietà di battelli di piccolo e medio cabotaggio armati.
La marina dispone inoltre di tre battaglioni di fanteria anfibia ed una componente aerea ad ala fissa e ad ala rotante.
Le principali basi della marina sono quelle di:
· Bandar Abbas
· Bushihr
· Khorramshahr
· Karg Island
· Bandar Khomeini
· Bandar Shahpour
· Bandar Behesti - non pienamente operativa
· Bandar Anzelli - sul Mar Caspio

Law Enforcement Forces
Le "Forze per il Rispetto della Legge" (Niruha-yi Entezami-yi Jomhuri-yi Islami) dipendono direttamente dal Ministero dell’Interno, sebbene il vertice della struttura sia nominato dalla Guida Suprema. Corrispondono ad una forza di polizia per la tutela dell’ordine pubblico ed a garanzia della sicurezza sul territorio nazionale.

Ministry of Intelligence and Security
Il "Ministero per l’Intelligence e la Sicurezza" (Vezarat-i Ettelaat va Amniyat-i Kashvar) è responsabile per le attività di intelligence interna ed esterna alla Repubblica Islamica dell’Iran.

Islamic Revolutionary Guard Corps
Il "Corpo delle Guardie Islamiche della Rivoluzione" (Pasdaran-i Inqilab-i Islami) sono una vera e propria forza militare parallela a quella delle Forze Armate nazionali. Distintosi in modo particolare durante il lungo conflitto con l’Iran, il corpo dei Pasdaran è oggi efficientemente addestrato ed equipaggiato, con compiti multipli in ogni ambito della difesa e della sicurezza, con una propria componente terrestre, navale ed aerea.
I Pasdaran, già dal 1980, ricevettero l’ordine di costituire anche una forza paramilitare composta essenzialmente da una milizia popolare per far fronte all’emergenza della guerra contro l’Iraq. Tale struttura, dal nome di Niruyeh Moghavemat Basij o più semplicemente Basij, dispone di un elevato numero di uomini e di competenze multiple nell’ambito del sistema di difesa e tutela dei principi ispiratori della Repubblica Islamica.
Un’altra struttura parallela inquadrata nei ranghi dei Pasdaran è la Brigata Ashura, unità mista di uomini e donne provenienti dalle fila dei Pasdaran e dei Basij.
La Qods Force (letteralmente Unità Gerusalemme) è anch’essa inserita nella struttura dei Pasdaran ed è principalmente demandata alla tutela dei principi ispiratori della Repubblica Islamica.
La suddivisione territoriale dell’IRGC è, al pari di quella dell’esercito, organizzata su base regionale.
Settore Settentrionale
Responsabile per le aree di confine con l’Iraq settentrionale e con la Turchia:
6° Divisione di Fanteria
8° Divisione di Fanteria
9° Divisione di Fanteria
10° Divisione di Fanteria
11° Divisione di Fanteria
33° Divisione di Fanteria
Settore Occidentale
Responsabile per le aree di confine con l’Iraq centrale:
30° Divisione Corazzata
15° Divisione di Fanteria Motorizzata
17° Divisione di Fanteria Meccanizzata
25° Divisione di Fanteria
28° Divisione di Fanteria
32° Divisione di Fanteria Meccanizzata
41° Divisione di Fanteria
57° Divisione di Fanteria
Settore Meridionale e Orientale
Responsabile delle aree di confine con l’Iraq meridionale, dell’area costiera del Golfo Persico e dei confini orientali:
40° Divisione Corazzata
5° Divisione di Fanteria Meccanizzata
1° Divisione di Fanteria
2° Divisione di Fanteria
3° Divisione di Fanteria
7° Divisione di Fanteria Meccanizzata
14° Divisione di Fanteria
19° Divisione di Fanteria
27° Divisione di Fanteria
31° Divisione di Fanteria
43° Divisione di Fanteria
105° Divisione di Fanteria
155° Divisione di Fanteria.



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