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Per Aspera Ad Veritatem n.25
Business e sicurezza: la prospettiva del Global Compact

Maria Luisa MANISCALCO


The private sector and security are linked in many ways, most obviously because thriving markets and human security go hand in hand. Global corporation can do more than simple endorse the virtues of the market, however. Their active support for better governance policies can help create environments in which both markets and human security flourish.

Kofi Annan, 1999




Questo lavoro analizza il progetto Global Compact come proposta di inclusione del settore privato in un processo di Governance ampliata e di management partecipato dei rischi e dei conflitti. L’analisi del progetto viene situata all’interno del quadro della mutata concezione della sicurezza nazionale e internazionale che oggi include componenti complesse della vita collettiva e si articola in una dimensione più ampia di quella tradizionale, considerando la prevenzione e la gestione dei rischi e dei conflitti un suo elemento qualificante. L’impianto sociologico dell’analisi intende proporre un’ulteriore chiave di lettura del fenomeno che integra lo studio degli aspetti economici e politici con riflessioni sul sociale.





I rapidi, costanti e sempre più accelerati mutamenti della situazione internazionale hanno fatto significativamente evolvere le concezioni relative ai problemi della sicurezza, la cui stessa nozione si è trasformata in ogni sua dimensione. Le persone, singolarmente intese, sostituiscono pressoché del tutto lo Stato come soggetti primari di diritti di sicurezza (la cosiddetta human security), mentre una serie di istituzioni e di organizzazioni – internazionali e non – si assumono i compiti di ‘produttori’ di sicurezza. Lo spazio internazionale appare perciò oggi come un luogo in cui agiscono una pluralità di attori – istituzionali e non, pubblici e privati, statali e non statali – che contribuiscono, sia pure con peso e rilevanza differenti, a definire situazioni di rischio e di conflitto o a rafforzare la sicurezza collettiva.
Nell’insieme, per alcuni aspetti di non scarso rilievo, viene superato il monopolio della gestione della sicurezza da parte dello Stato-nazione, seguendo quel più ampio processo che vede la sovranità degli Stati flettere e contrarsi in diversi ambiti del loro tradizionale dominio (Dahrendorf 2001, Geertz 1999, Habermas 1999), mentre si osserva anche l’erosione della capacità di regolazione di alcune istituzioni internazionali, in special modo nei riguardi di singoli aspetti dell’economia globalizzata (Detomasi 2002).
Tra i fattori fondamentali che hanno contribuito al declino della dimensione esclusivamente statuale (politico-diplomatica e militare) o comunque istituzionale della sicurezza possiamo ricordare:
a) i problemi ecologici diffusi in tutto il pianeta, per fronteggiare i quali nessuno Stato singolarmente considerato possiede strumenti adeguati;
b) la globalizzazione dell’economia, con la presenza di attori transnazionali non statali, con le conseguenti ripercussioni planetarie delle crisi finanziarie e con la crescita del divario tra paesi e regioni;
c) la mondializzazione delle concezioni legate alla difesa dei diritti dell’uomo e delle minoranze, la diffusa condanna dei crimini contro l’umanità;
d) l’accelerazione senza precedenti del ritmo delle attività umane e soprattutto dei flussi della comunicazione e l’impatto delle nuove tecnologie;
e) le grandi trasformazioni sociali: le migrazioni di massa, il risorgente nazionalismo etnico, l’impatto internazionale dell’integralismo religioso militante;
f) le nuove diffuse minacce quali, per esempio, la proliferazione di armi di distruzione di massa, l’estendersi di una criminalità internazionale che rendono permeabili i confini;
g) l’affermarsi di nuovi tipi di conflitti armati, le domestic wars;
h) la lotta contro il terrorismo internazionale e il controllo dei cosiddetti rogue states.
A fronte di siffatto complesso scenario, la sicurezza non riguarda più soltanto la protezione dei cittadini da pericoli violenti, all’interno e all’esterno dei propri confini, nei confronti di nemici, ben definiti e individuabili. In altri termini, mentre tradizionalmente la sicurezza di una collettività era misurata in base alla quantità del suo potenziale offensivo e delle installazioni militari, oggi questi stessi elementi vengono da alcuni considerati fattori di rischio. Inoltre i disastri ecologici, le varie crisi politico-sociali (si pensi al significato per l’Europa della crisi del Kosovo, dopo quella bosniaca) ed economiche hanno prodotto la diffusa accettazione di una definizione della sicurezza ampliata fino a comprendere la tutela dall’oppressione, dalla violenza, dalla povertà, dalla fame, dalle malattie e dai disagi.
L’instabilità e le crisi dell’ultimo decennio hanno chiaramente illustrato la globalizzazione delle minacce e l’interconnessione dei rischi, dal momento che al libero movimento di capitali si è affiancato il libero movimento delle armi (comprese quelle di distruzione di massa), della droga, delle attività criminali in genere, dei virus e delle polluzioni ambientali. A ciò vanno aggiunte le nuove forme di violenza privata e, naturalmente, le diverse espressioni del terrorismo che hanno raggiunto livelli inaspettati di distruttività a causa della diffusione della tecnologia, come hanno dimostrato, già prima dei tragici eventi dell’11 settembre, i molteplici attentati, di diversa matrice, tra i quali per esempio le bombe di Oklahoma City e l’uso del gas nervino nella metropolitana di Tokyo da parte della setta religiosa Aum Shinrikyo (Maniscalco 1998).
Lo stesso declino dello Stato diventa, a sua volta, causa di crisi per la sicurezza internazionale e dei singoli Stati; se negli anni Novanta uno Stato debole poteva essere considerato solamente un problema umanitario, oggi non è più possibile. Uno Stato che ha perso il controllo del proprio territorio e le cui istituzioni sono delegittimate rappresenta una minaccia non solo per i suoi cittadini, ma per i paesi confinanti e per tutta la comunità internazionale. Per esempio le cosiddette ‘nuove guerre’ (Kaldor 1999) – combattute da gruppi subnazionali privi di uno status giuridico internazionale e che utilizzano la criminalità organizzata come fonte di finanziamento delle proprie capacità offensive – eliminando la tradizionale separazione tra violenza pubblica e violenza privata, hanno avuto un impatto non solo locale e dagli effetti inaspettati.
A fronte quindi della nuova complessa fenomenologia, la rinascita degli studi sulla sicurezza – che per alcuni è stata intesa come una vera e propria rifondazione (per esempio Gray 1992; Haftendorn 1991) – ha posto al cuore del problema alcune domande fondamentali sull’esistenza, la natura e la costruzione sociale della minaccia e sui modi in cui la sicurezza viene praticata. Autori di formazione diversa, ma di tradizione europea, hanno tentato di ridefinire la nozione di sicurezza, contestando la classica distinzione tra interna e esterna, offrendo analisi sulle radici delle prassi internazionali e sul significato dei discorsi internazionali, in base anche alla considerazione di elementi sociali (Krause e Williams 1997). Il contributo del pensiero sociologico (per esempio, Bauman 2002, Beck 2000, Giddens 1985) è risultato fondamentale nell’articolare il discorso lungo le linee del binomio rischio/sicurezza, sottolineando il fondamentale aspetto della sicurezza in quanto bene simbolico collettivamente costruito. In questa concezione appare evidente come ognuno sia, al tempo stesso, fruitore e produttore di sicurezza, mentre la scelta non si indirizza più sull’alternativa tra sicurezza e rischio, ma riguarda diverse situazioni di rischio, spesso difficilmente comparabili.
Il concetto di sicurezza ha via via assunto dimensioni più orizzontali e democratiche in un’ottica non solo di intervento, ma anche di prevenzione ed ha facilitato la fuoriuscita dal discorso prettamente moderno di un ambito statalistico e nazionalistico – declinato in termini politico-militari e di controllo sociale – verso un livello sociale e culturale, in cui la percezione di un destino comune che lega tutti gli abitanti del pianeta altera significativamente i rapporti tra centri e periferie. Povertà, malattie, conflitti interni, degrado minano la sicurezza di vita delle popolazioni e in quanto tali vengono considerati minacce da fronteggiare anche ai fini della sicurezza internazionale. La strategia più efficace al riguardo sembrerebbe quella in grado di unire ai ‘rapidi’ interventi nei momenti di crisi una policy di prevenzione che, agendo nel lungo periodo, può sperare di influire positivamente sulla stabilizzazione di aree già in crisi, ma non soltanto in esse. L’economia allora assume un ulteriore importante ruolo per gli effetti sia positivi sia negativi che può produrre non solo sull’ambiente naturale, ma anche su quello sociale; la sua regolazione unitamente a quella dell’ambiente si declina nei termini della creazione di sicurezza.





Una nuova cultura della sicurezza si sta sviluppando a più livelli, incardinata sull’idea della responsabilità di ognuno nei riguardi degli altri, dal momento che la magnitudo dei fenomeni ricordati necessita un impegno più ampio di quello dei singoli Stati.
Nasce l’esigenza di una Governance sempre più partecipata, cioè del coinvolgimento di attori – molteplici e diversificati – in una strategia di pace e sicurezza che punti alla prevenzione dei rischi e dei conflitti. Nelle società moderne il governare – nel senso della direzione-gestione – è stato tradizionalmente rappresentato dall’azione delle istituzioni politiche; oggi invece esso è più il risultato di un processo di bilanciamento dei ruoli, delle responsabilità e delle capacità tra differenti livelli istituzionali, tra diversi attori o settori della società. Multilateralismo, consultazione, coordinamento, cooperazione sono gli aspetti rilevanti per definire le relazioni più significative di questo processo a livello sia interno sia internazionale.
Gli studiosi anglosassoni di Scienze Politiche per rappresentare questa trasformazione hanno già da tempo utilizzato il termine Governance, generalmente contrapponendolo a quello tradizionale di Government, e lo hanno impiegato nello studio delle relazioni internazionali e della pubblica amministrazione. Governance indica l’interconnessione tra soggetti informali attivi (movimenti sociali, gruppi di interesse, associazioni di cittadini, organizzazioni non governative transnazionali) da una parte e autorità istituzionali dall’altra per il perseguimento di obiettivi difficilmente raggiungibili esclusivamente attraverso politiche e strategie istituzionali.
La Governance opera come sistema intersoggettivo di regole condivise e presenta il carattere di ordine negoziato che emerge appunto dalla condivisione di finalità, obiettivi e strategie operative. Il concetto di Governance è quindi non solo molto più ampio di quello di Government, ma si muove in una diversa dimensione: comprende non tanto i meccanismi operativi di una autorità formalmente riconosciuta, ma è inclusivo di regole, pratiche, processi, significati che definiscono come realmente operano – e ottengono, o cercano di ottenere, determinati risultati – una pluralità di attori tra loro interconnessi. La Governance trascende così il modello weberiano del potere come esplicazione di un’autorità legittimata su base razionale-legale, caratterizzandosi attraverso l’esercizio di poteri effettivi all’interno di un reticolo relazionale di tipo poliarchico e in un complesso gioco di equilibri tra una pluralità di soggetti.
Per alcuni aspetti la Governance si configura come risposta alla crescente complessità della realtà sociale e dei rischi, complessità che richiede approcci molteplici e utilizzo di strumenti pubblici e privati, anche a fronte dello sviluppo delle capacità cognitive e riflessive di individui e gruppi in grado di accedere, attraverso risorse tecnologiche, ad una gran massa di informazioni che è impossibile controllare o censurare. Inoltre va considerato il fatto che i confini storici dei territori, locali e nazionali, sono sempre più attraversati da una serie di flussi commerciali, finanziari – e di persone – che creano nuove reti e gruppi di interesse che travalicano i vecchi confini amministrativi e sfidano lealtà consolidate. Per esempio molte persone nell’attuale contesto globalizzato hanno rapidamente assunto valori ‘sopraterritoriali’ quali i diritti umani e l’integrità ecologica, considerandoli come dotati di una più alta priorità rispetto alla sovranità degli Stati.
La Governance delle relazioni globali resta però molto complessa e dagli esiti contraddittori: si pensi, per esempio, come nell’attuale contesto internazionale la produzione normativa – da intendersi in senso lato – che disciplina gran parte degli scambi e delle transazioni economiche avvenga a più livelli e in modo da somigliare più ad un ipertesto che ad un testo; l’ipertesto risulta composto da una molteplicità di regole, norme di comportamento, accordi, patti, codici di auto-regolamentazione. In uno spazio internazionale in cui resta difficile individuare centro e autorità, a comporre l’ipertesto concorrono gli attori più diversificati: partners commerciali, organizzazioni internazionali, attori statali, compagnie multinazionali, organizzazioni non governative, ecc.; questo processo spesso convulso e disordinato non facilita certo lo svolgersi di interazioni sicure e prive di conflittualità sia a livello locale, sia in contesti più ampi.





L’economia globalizzata è sicuramente uno dei settori in cui la necessità di una Governance quanto più partecipata risulta fondamentale. Solo una Governance che preveda una collaborazione tra gli attori (statali e non) presenti nel panorama mondiale può contribuire allo sviluppo sul pianeta di un assetto sociale più equo, ambientalmente meno rischioso e forse politicamente meno conflittuale. Infatti il mercato globale come quello nazionale deve essere supportato dal consenso su temi sociali e ambientali e le transazioni economiche devono avvenire nel quadro di mutui accordi e di valori condivisi.
Il problema del rapporto tra conflittualità e mercato, tra economia e sicurezza può essere correttamente impostato solo analizzando sotto quali condizioni e con quali restrizioni il mercato può produrre effetti benefici e di diminuzione della violenza; in altri termini occorre uscire dalle visioni manichee – ottimistiche o pessimistiche – per domandarsi come è possibile far sì che il mercato supporti le possibilità di prevenire la conflittualità e collabori al consolidamento di un ordine sociale pacifico all’interno e tra gli Stati. Prima di analizzare come il progetto Global Compact tenda proprio ad operare in questo senso può essere utile soffermarsi su alcune riflessioni di carattere più generale.
L’agire economico e la morale sono due dimensioni fondamentali della realtà sociale dal momento che la ricerca dell’utilità rappresenta una dimensione, tra le altre, dell’agire sociale. Il perseguimento dell’utile esprime, è vero, in prima istanza il fine singolare, l’intenzionalità isolata di autointeresse, ma poiché si realizza in un network sociale, attraverso relazioni con gli altri, esso incontra il limite e sperimenta la norma che rappresenta la tutela dell’esigenza del rapporto, la garanzia della vita collettiva. La dimensione etica fonda gli indispensabili accordi taciti (quelli che Durkheim chiama gli elementi precontrattuali del contratto) sui quali è possibile incardinare un ordinato e comprensibile sistema di interazione.
Il mercato simboleggia, è vero, il trionfo della ragione calcolante; ma esso è comunque un modo di costruire il legame sociale, sia pure appiattendolo in un’unica dimensione. Inoltre in ogni contesto sufficientemente organizzato la ricerca dell’utilità non può essere effettuata concretamente e con sicurezza senza una legittimazione politica e al di fuori di norme di integrazione sociale e di decisioni che si riferiscono ai valori. Così, per esempio, è un errore considerare il mercato un mero meccanismo autogenerativo; esso in realtà è solo un meccanismo strumentale di regolazione che richiede un intervento politico, necessita di basi solidaristiche di fiducia e rimanda ad una cultura. Ha perciò ragione Beck (1999) quando sostiene che la ‘metafisica del mercato mondiale’, cioè la concezione che riduce tutta la visione del mondo nelle angustie dell’economicismo rende ciechi. Infatti fa perdere totalmente di vista che l’agire economico diviene socialmente possibile e legittimo solo a partire dalla fissazione di un quadro di regole condivise.
Utile e morale vivono in una tensione strutturale irrisolvibile, in una ambivalenza sociologica che è necessario assumere senza presumere di risolverla attraverso la cancellazione di una delle polarità. D’altronde, non è nemmeno vero che l’economia del denaro finisca inevitabilmente per escludere i caratteri e le esigenze della vita individuale (Maniscalco 2002) e che il mercato necessariamente inaridisca il legame sociale per renderlo funzionale ai soli bisogni materiali. Considerare il rapporto tra società ed economia in forme di aut-aut è esprimere una modalità di pensiero binario che cancella la pluralità e l’ambivalenza del reale, utilizzando una struttura logica che tende ad annullare le differenze del reale all’interno di un modello astratto. In un’ottica sociologica, il mercato esiste e non esiste, nel senso che esso viene costruito dagli individui e dai gruppi attraverso il loro agire e le loro attribuzioni di significato; esso quindi potrebbe essere organizzato anche in maniera differente.





Alcune indicazioni in tal senso sembrano emergere all’interno delle turbolenze che agitano il contesto internazionale.
Si parla così di una nuova concezione dell’impresa come responsabile componente dello sviluppo e della sicurezza, concezione destinata secondo alcuni (per esempio, Maresca 2000) a trasformare il suo ruolo nella comunità e il modo in cui l’attività economica organizzata è considerata e come essa stessa si considera. Un’impresa è socialmente responsabile quando decide spontaneamente di contribuire al miglioramento della società e dell’ambiente in cui opera. Come ‘produttore di ricchezza’ il mondo del business, secondo questo filone di pensiero, è il dispositivo principale per il benessere collettivo, un benessere collettivo che può cooperare ad una maggiore sicurezza.
Ovviamente non è corretto ipotizzare un continuum lineare tra benessere economico, pace e sicurezza, come d’altronde non lo è nemmeno quello inverso economia-conflitto. I rapporti reali sono molto complessi e risentono della peculiarità di ogni situazione: in alcuni casi la crescita economica ha contribuito ad aumentare conflitti già presenti o potenziali, ma ciò non è accaduto sempre. Se i benefici della crescita economica non seguono l’andamento delle aspettative sociali o se, peggio ancora, la distribuzione della ricchezza risulta effettuata in maniera ineguale, i sentimenti di ‘privazione relativa’ (Merton 1992) possono far crescere le tensioni sociali e i conflitti. In questa ipotesi gli investimenti del settore privato, al di là delle buone intenzioni degli investitori, hanno un impatto negativo in termini di sicurezza collettiva. Ugualmente si potrebbe osservare che in molte situazioni post-conflict c’è un’elevata probabilità che il conflitto riemerga se lo sviluppo economico non è accompagnato dal rafforzamento del capitale sociale e dalla crescita delle istituzioni civili.
È noto che la possibilità per il settore privato di far sorgere o esacerbare i conflitti si incrementa notevolmente quando interviene sulla gestione o sullo sviluppo di risorse nazionali strategiche – per esempio acque, minerali, gas, petrolio – o di infrastrutture di base – bacini idrici, acquedotti, elettricità, gasdotti, oleodotti, viabilità, telecomunicazioni. Né va dimenticato che l’impatto di un cospicuo intervento esterno – ciò vale per ogni progetto su larga scala – altera comunque la struttura della zona in special modo se questo avviene in contesti poveri, poco popolati. Si parla, per esempio, di honey-pot effect per indicare il potere di attrazione di questi investimenti esterni per masse di popolazione povera che si addensano nei luoghi dove sorgono le nuove infrastrutture alla ricerca di migliori chances di vita. Ne conseguono cambiamenti demografici, sociali, culturali, ambientali non programmati e inattesi che creano una serie di problemi sociali che possono portare anche a violenti conflitti. Si pensi al collasso dei servizi – di solito già molto carenti – sotto la pressione del numero dei nuovi insediati, alle tensioni sociali prodotte dalle disuguaglianze in termini di reddito tra coloro che lavorano per gli operatori stranieri e il resto della popolazione, alle rabbie scaturite dalle aspettative (spesso irrealistiche) deluse riguardo alle ricadute positive dell’investimento e, infine, ai conflitti per la competizione per le nuove risorse tra le popolazioni già insediate e i nuovi arrivati che possono essere anche dotati di background culturali ed etnici differenti.Molti di questi effetti honey-pot fuoriescono dal controllo degli operatori privati, sono conseguenze non volute del loro agire, e risultano acutizzati nelle situazioni in cui il potere politico locale è debole, delegittimato o corrotto; l’esperienza passata ci ha ammonito circa il fatto che molti dei conflitti in comunità tradizionali sono scaturiti da interventi esterni che hanno prodotto un degrado ambientale e umano e da maldestre violazioni di luoghi sacri. Di questo ammonimento non si può non tenere conto.
A fronte di tutti questi rischi va pure detto che esistono esempi positivi circa il fatto che felici combinazioni tra adeguate pressioni di investitori stranieri, agenzie internazionali e ONG locali e internazionali possono portare revisioni legislative a favore di una redistribuzione più equa dei benefici degli investimenti.
Non si può infine tacere lo stretto legame tra imprese che operano in paesi destabilizzati e problemi di sicurezza in un’accezione più ristretta. Operatori privati si possono trovare ad agire nei termini di difesa delle proprie infrastrutture e installazioni dai sabotaggi, di protezione degli addetti (da violenze, rapimenti, estorsioni), di controllo sulle attività dei propri impiegati (talvolta coinvolti in attività criminali) e degli eventuali partner locali (sospetti di legami con fazioni di guerriglieri o con organizzazioni illegali e criminose). I problemi suddetti e molti altri ancora necessitano il ricorso ad accordi con le forze di sicurezza locali e, in aggiunta, anche alla ‘privatizzazione’ della sicurezza, cioè allo sviluppo delle cosiddette private security companies che offrono servizi di difesa ‘personalizzati’ (International Alert, 1999). Queste soluzioni sono però a loro volta rischiose per le ricadute che producono nei termini di rappresentare un aggiuntivo elemento di instabilità in aree già fortemente compromesse. Milizie private possono pesare notevolmente sul livello di conflittualità (per non dire quanto possono nuocere all’immagine dell’azienda stessa) e mettere, a loro volta, in atto abusi dei diritti umani; è quindi necessaria da parte delle imprese la volontà di gestire gli aspetti della loro sicurezza all’interno di precise regole di condotta e di codici etici e con assoluta trasparenza.
Il mondo del business ha delle grandi responsabilità nei riguardi delle comunità all’interno delle quali opera e del loro ambiente naturale e sociale; consapevoli di questo molte imprese stanno rivedendo i loro programmi includendo issues quali pari opportunità per i generi, per tutti i diversi gruppi religiosi ed etnici, difesa dell’ambiente, tutela dei diritti umani. Altre sono inoltre pronte ad assumersi crescenti responsabilità per attività umanitarie e sono interessate a costruire un dialogo attivo e ad incrementare la cooperazione con le organizzazioni umanitarie, in special modo con quelle che operano nelle stesse località.
Anche per cercare di offrire un indirizzo coerente a questo trend iniziale, ma già sufficientemente diffuso, e per inserirlo in un più vasto progetto, le Nazioni Unite hanno varato il Global Compact.





Il Global Compact è, almeno nelle intenzioni del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan che lo ha annunciato nel gennaio 1999 al World Economic Forum di Davos in Svizzera e presentato formalmente nel luglio 2000 al Quartiere Generale dell’Onu, un patto proposto al fine di conferire al mercato globale un volto umano e di promuovere una modalità di conduzione degli affari tale non solo da non fomentare i conflitti, ma anche da contribuire allo sviluppo di ogni possibilità di pace e di stabilità.
La parola compact che deriva dal latino compactum significa alleanza, patto sottoscritto volontariamente; il Global Compact è quindi un ’contratto’ proposto e sostenuto dalle Nazioni Unite con l’intento di avvicinare e far cooperare il mondo delle aziende e del business, le organizzazioni internazionali e le agenzie specializzate delle Nazioni Unite, le ONG e le realtà non profit della società civile, le organizzazioni sindacali, il mondo accademico ed altri soggetti ancora per perseguire uno sviluppo economico sostenibile anche in termini sociali, culturali e ambientali.
Ultima espressione di una politica di avvicinamento al settore privato della produzione impressa dalla leadership di Kofi Annan, che ha inteso ampliare la sfera di influenza delle Nazioni Unite, il Global Compact sostiene le aziende nel ridefinire strategie e routines operative in modo che la produzione della ricchezza non risulti disgiunta da ulteriori benefiche ricadute in termini di sicurezza, di de-escalation della conflittualità e di crescita non solo economica della collettività. L’“alleanza” si basa sulla decisione di condividere, sostenere e applicare un insieme di principi cardine relativi ai diritti umani, agli standard lavorativi e alla tutela dell’ambiente con l’obiettivo di produrre nella propria sfera di influenza concreti cambiamenti positivi. Alle aziende è quindi chiesto di mettere in atto un coinvolgimento effettivo e di dimostrare il raggiungimento di risultati concreti. I principi del Global Compact sono nove così raggruppabili:
Diritti umani
1. rispettare e sostenere la protezione dei diritti umani così come definiti a livello internazionale;
2. assicurarsi di non essere implicati in alcun abuso dei diritti umani;
Standard lavorativi
3. garantire la libertà di associazione dei lavoratori e l’effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva;
4. eliminare ogni forma di lavoro forzato e obbligatorio;
5. abolire effettivamente il lavoro minorile;
6. eliminare ogni discriminazione nelle politiche di assunzione e gestione del personale.
Ambiente
7. avere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali;
8. promuovere iniziative per una maggiore responsabilità ambientale;
9. incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che non danneggino l’ambiente.
I principi a cui le aziende devono aderire sono quindi molto semplici, ma, se realmente applicati, in grado di apportare notevoli benefici. Il senso che li lega è quello della responsabilità sociale; facendoli propri le imprese – multinazionali e non – offrono un riconoscimento esplicito del limite etico che trova il libero dispiegamento delle loro strategie. Impegnandosi a tutelare i diritti umani, a non violare i diritti dei lavoratori e a proteggere l’ambiente, le aziende affermano il loro inscindibile legame con la società verso cui hanno degli obblighi e delle responsabilità. Una società che nell’epoca delle interdipendenze globali si configura un bene comune ‘senza frontiere’, un bene che tutti devono rispettare.





Seppure, come si dirà, non sono mancate critiche anche dure, il Global Compact ha avuto una buona accoglienza, basata sul diffuso riconoscimento da parte dei governi e delle istituzioni multilaterali del bisogno di identificare un’agenda comune e di cooperare più strettamente, non solo tra loro, ma anche con attori non statali. Il Global Compact possiede un’importante cornice di lavoro per iniziare a costruire rapporti di partenariato a sostegno della nuova politica del settore del business privato: infatti partecipano attivamente al progetto sia il Segretario Generale che lo ha proposto, sia alcune agenzie specializzate delle Nazioni Unite – UNDP, UNEP e l’ufficio dell’UNHCHR – sia l’ILO. Si tratta di partner importanti preposti alla tutela di settori fondamentali quali la promozione dello sviluppo, la protezione dell’ambiente e del lavoro, e la promozione e la tutela dei diritti umani.
Da quando nel luglio 2000 è iniziata ufficialmente, la ‘campagna’ del Global Compact si è man mano sviluppata, dotandosi di diversi strumenti che sono ancora in fase di definizione delle loro potenzialità, ma che comunque hanno già fatto registrare molte interessanti iniziative. E’ stata prodotta una notevole documentazione e diversi case studies che permettono di comprendere la complessità del processo che si cerca di sviluppare; soprattutto con un approccio pragmatico e flessibile si tende ad individuare le ‘buone pratiche’ per un business che voglia collaborare ad un ordine sociale più equo, meno conflittuale e quindi più sicuro.
Il cammino non è certo facile e non sono mancate le voci di protesta; soprattutto i tradizionali partners delle Nazioni Unite, le ONG, guardano con sospetto il rapporto con il mondo del business. Molte Organizzazioni non Governative svolgono attività di denuncia e di controllo per le attività di compagnie multinazionali e ritengono che le Nazioni Unite possano giocare un ruolo irrinunciabile come cornice di lavoro per le attività di monitoraggio. All’interno del movimento No-Global si è organizzato un network di ONG (Alliance for a Corporate-Free UN) che cerca di opporsi, sostenendo che le Nazioni Unite rischiano di svalutare il loro profilo a solo vantaggio di aziende (principalmente quelle manifatturiere che sfruttano manodopera infantile e le multinazionali dell’energia al centro dei casi più gravi di inquinamento) che potrebbero strumentalmente beneficiare delle opportunità offerte per recuperare in termini di immagine presso l’opinione pubblica senza peraltro impegnarsi in un processo reale di cambia
mento. La polemica è in atto: da una parte si denuncia che i nove principi del Global Compact sono troppo generici e in quanto tali non permettono di rilevare inosservanze o violazioni, tra l’altro non sanzionabili in assenza di meccanismi ad hoc, dall’altra voci autorevoli, oltre all’impegno in prima persona del Segretario Generale, si levano a favore di questa cooperazione che, va ricordato, non si rivolge solo al mondo del business, ma alle accademie, alle organizzazioni sindacali, alle realtà non profit della società civile.
Ovviamente l’umanitario ha finalità diverse dall’operatore economico ma, come sostiene Sadako Ogata (2000), non è possibile considerare necessariamente il primo come un ‘naïve do-gooders‘ e il secondo come privo di coscienza sociale. Per una siffatta collaborazione ci sono d’altronde importanti ragioni: occorre sottolineare nuovamente che il settore economico privato ha da sempre giocato sullo scacchiere internazionale in maniera formale o informale un ruolo importante – sia positivo sia negativo – e che questo ruolo nell’ultimo decennio è divenuto sempre più preminente. Ciò è da attribuire al processo di privatizzazione che è ormai una caratteristica predominante della trasformazione economica nei paesi di tutto il mondo, e, insieme, allo sviluppo di situazioni politiche, socioeconomiche e tecnologiche che hanno cambiato sia il contesto del business sia la natura del conflitto. La crescita degli investimenti nelle regioni con situazioni preconflittuali o già in conflitto e la policy ormai consolidata degli aiuti internazionali nelle fasi di peacebuilding stanno vedendo la nascita di nuove opportunità, ma anche di nuovi rischi, per far fronte ai quali occorre attivare tutte le risorse possibili.
I segnali in tal senso sono molteplici; da tempo, per esempio, si parla di ‘diplomazia multitrack’, o diplomazia di cittadinanza, che presenta una pluralità di attori chiave: governi, chiese, fondazioni, comunità religiose, gruppi di cittadini, organizzazioni professionali, accademie e comunità del business. Nell’era globale delle ‘incertezze prodotte’, tra i mutamenti importanti, che segnano una cesura con la prima modernità, portandoci in un altro contesto – ‘postmodernità’, ‘modernità radicale’, ‘modernità liquida’, ‘seconda modernità riflessiva’, le scienze sociali abbondano di definizioni – c’è l’erosione della separazione autoreferenziale tra le diverse sfere di attività. Questa separazione, che Weber aveva indicato come un importante snodo tra la tradizione e la modernità, appare oggi molto sfumata. Individui, gruppi, comunità si possono trovare a svolgere attività e compiti ‘eccentrici’ rispetto alle skills tradizionali della propria professione e competenze. Le prime ad aver dovuto rispondere a questa sfida sono state le forze armate impiegate nelle missioni di peacekeeping, all’interno delle quali hanno dovuto sviluppare capacità di mediazione, di creazione di fiducia nelle popolazioni, di comunicazione pur restando collocate in un’istituzione i cui compiti costitutivi e i mezzi per svolgerli sono tradizionalmente ispirati ad altre logiche (Zaretti 2001). Nel tempo il processo si è ampliato, giungendo progressivamente ad includere sfere sempre più ampie; il settore del business è l’ultimo arrivato, ma non per questo il meno importante.
Da un punto di vista più generale lo spazio che si viene a creare con il Global Compact risponde tipicamente ad uno spazio comunicativo in cui si trovano a confrontarsi gruppi che, portatori di visioni del mondo diverse, non vorrebbero comunicare ma che, loro malgrado, sono costretti a farlo. Sono infatti immersi in una stessa situazione problematica in cui persino la definizione dei rischi e del livello della loro accettabilità, costituisce oggetto di controversia prima ancora delle attribuzioni di responsabilità e della individuazione di linee di intervento. Questo perché la sicurezza è anche un bene simbolico elaborato cognitivamente ed affettivamente da gruppi portatori di diversi interessi e con concezioni della realtà differenti.
Eppure non si può arretrare di fronte alla difficoltà di individuare modalità comuni di determinazione dei rischi e della loro gestione che siano in grado di superare i fossati che dividono le diverse componenti della società. Il secolo appena passato è stato il più letale nella storia dell’umanità, con oltre 250 guerre e più vittime di tutte le altre guerre dei trascorsi 2000 anni (Thakur 2002) e quello appena iniziato è stato inaugurato da un nuovo tipo di guerra, il terrore di massa all’interno dei confini dello Stato. Appare legittimo cercare di esplorare tutte le vie possibili per la pace e la sicurezza e accettare con flessibilità e pragmatismo – ma non con ingenuità – la cooperazione di nuovi partner. D’altronde la creazione e lo sviluppo dei processi di pace e di coesistenza ci hanno insegnato che – ove sono avvenuti – questi sono stati possibili solo quando le comunità sono state capaci di liberarsi di odi storici, di pregiudizi e di stereotipi radicati. Questo stesso tipo di logica scevra da facili ottimismi – e ovviamente non disgiunta da prudenza e avvedutezza – dovrebbe agire anche tra tutte quelle componenti che si possono adoperare, a diversi livelli, per la Governance di un mondo che sta diventando sempre più piccolo e sempre meno sicuro.
Di fronte alle sfide che ci attendono e ai rischi che ci minacciano non dobbiamo lasciare intentata nessuna via, non possiamo.






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