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Per Aspera Ad Veritatem n.25
Il neo fondamentalismo. La dottrina del jihad fra opposizione e sostegno.

Valeria FIORANI PIACENTINI





Con la disintegrazione dell’Unione Sovietica alla fine degli anni ’80 del secolo XX, si aperse una fase nuova, ancora tutta da valutare, la cui complessità è senza dubbio grande. La Rivoluzione Industriale lasciò il posto alla Rivoluzione della Bio-Tecnologia. Sullo sfondo, la Rivoluzione della Tecnologia dell’Informazione annullava frontiere e distanze, creando una nuova dimensione a-spazio/temporale.
Si tratta di una fase di transizione culturale ed epocale, cui sono state date molteplici etichette. La dimensione economica sembrò inglobare ogni altro valore, e condizionarlo. In un primo momento, il fattore economico sembrò anche incarnare l’arma tattica per eccellenza delle nuove strategie di potenza del terzo millennio: "[...] una nuova epoca storica della dinamica dell’economia mondiale - affermava Alberto Quadrio Curzio - che chiude questo secolo e che apre un periodo su cui al presente molte sono le congetture ma quasi nulle le certezze." (1) . Poi, ancor prima di varcare le soglie del millennio, cominciarono a configurarsi nuove forme di conflittualità, che - scavalcate le certezze delle frontiere del bi-polarismo e delle istituzioni internazionali - coinvolsero con insospettata violenza, e su scala globale, le strutture stesse del potere (politico-istituzionale-economico) e della forza.
In quello scenario, l’Uomo si è ritrovato nuovamente al centro di ogni dibattito politico e culturale, sia in ambito "occidentale" che in ambito "islamico". E questo dibattito - rielaborando i parametri tradizionali - ha rimesso ancora una volta in discussione Storia e Universo (2) . Si tratta di riflessioni che fanno presagire una nuova evoluzione che coinvolgerà l’Umanità tutta attraverso le nuove tecnologie, accelerando la transizione verso dimensioni dalle risultanze imprevedibili, dove il rapporto fra sviluppo tecnologico e conservazione dell’antico sapere e delle sue tradizioni sembra sul punto di lacerarsi.
È questo il dibattito che, con intensità drammatica, è tornato al centro del pensiero della dottrina strategica dell’Islam (3) .
Negli anni ’90 del secolo scorso, la chiave di analisi geo-economica aveva fornito parametri realistici, almeno per l’Occidente. Ed era sembrato realistico analizzare anche i problemi di sicurezza e insicurezza, e individuare le percezioni soggettive di questa, soprattutto nei grandi mutamenti avvenuti nella geo-economia dello sviluppo su scala mondiale - più ancora che nelle grandi e piccole chiavi ideologiche. "Il mondo dei Paesi sviluppati - ribadiva ancora Quadrio Curzio - pur avendo subìto nel corso di questi 120 anni grandi cambiamenti, è andato sempre più omogeneizzandosi fino a costituire una grande area economicamente (e per certi versi anche istituzionalmente) unificata; viceversa, il cosiddetto Sud del pianeta appare come un’area più disomogenea al suo interno, ed è certamente ben più disomogenea oggi di quanto non lo fosse nel 1870. Si tratta di una crescita che non risponde né a regole di convergenza né a regole di divergenza, ma a regole economiche - e, complementarmente, anche politico-istituzionali, piace aggiungere - non definitive e molto soggettive da area ad area" (4) .
La crescita della Cee e la nascita dell’Unione europea, l’allargamento della Ue dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la liquidazione definitiva dell’antica concezione territoriale-coloniale e, con questa, la liquidazione ideologica della tradizionale concezione di "impero", contribuirono senza dubbio a creare un nuovo disordine. Sconfitto il nemico di oltre mezzo secolo, sulle spoglie del Patto di Varsavia furono rimessi in discussione ruolo e compiti della NATO; l’inadeguatezza e l’evanescenza delle Nazioni Unite aperse la strada a nuove inquietanti dinamiche di forza. I nuovi equilibri e le nuove strategie si focalizzarono sui mercati, e il fattore energetico acquistò una centralità senza precedenti; con la centralità del fattore energetico, l’Islam rientrò da protagonista nel gioco delle parti. Le principali fonti di produzione, le principali vie di transito sono - e continuano a essere e a passare - per territori abitati da popolazioni prevalentemente islamiche, e per quei neo-stati islamici sorti dalle ceneri dell’Impero Ottomano e dalle rovine del colonialismo occidentale.
Oggetto e soggetto al tempo stesso di questo nuovo gioco geo-economico e geo-strategico, l’Islam acquistò nuova consapevolezza di se stesso e della propria forza; elaborò nuovi parametri; ma, contemporaneamente, si ritrovò profondamente lacerato al proprio interno.
Fu però un Islam nuovo rispetto all’Islam della guerra fredda. Fu un Islam profondamente sensibile al fascino della tecnologia del terzo millennio. Ma fu anche un Islam che tornava una volta di più a interrogarsi sulla propria origine e le proprie radici culturali-religiose, dando vita a una nuova corrente di pensiero che si potrebbe definire "neo-fondamentalista".
Il sapere e le visioni del mondo ossessionano questo Islam, e si traducono in una nuova filosofia della cultura, in cui razionalità, storicità del sapere scientifico, natura ed esperienza, natura e ratio umana, scienza e suo linguaggio, dialogo e grandi filosofie monoteistiche, rivoluzione e potere, la forza e il suo uso, sono fra le tematiche principali, maggiormente dibattute e ascoltate anche dalla cultura tradizionale della gente comune. La dimensione economica diviene, e si fa, dimensione politica e militare al tempo stesso; nasce anche in ambito islamico la "storia globale". All’interno di questa, l’Occidente e il suo destino - con la sua perenne dialettica fra economia e religione, razionalità formale e relatività delle culture, antitesi fra cultura e civiltà - inducono a critiche nuove; queste pongono al centro del dibattito la "crisi della civiltà occidentale", che, conclusosi il lungo periodo della guerra fredda, deve ripensare al proprio interno i propri parametri speculativi e i propri modelli di società, statualità e potere; è un Occidente che, agli occhi dell’Islam, è impegnato a ri-forgiarsi territorialmente, economicamente, finanziariamente, istituzionalmente; è un Occidente che ha perduto e annullato ogni spiritualità nella dimensione materiale ed economica della vita, un Occidente decisamente nuovo e diverso (parrebbe) rispetto al passato; è un Occidente cui ben si possono opporre nuove sfide e risposte islamiche...
E queste hanno portato a nuove visioni e concezioni sistemiche e teocratico-politologiche.
A un’analisi più approfondita, sembra di potere affermare che la risposta islamica del neo-fondamentalismo non si discosti tuttavia dai modelli tradizionali, e dalle grandi costruzioni speculative dell’Associazione dei Fratelli Musulmani oppure da quella di Mawdudi, in un programma di ricostruzione sempre più ancorato alla dimensione totalizzante dell’Islam. I Ghassan Salamé, gli Edward Said, i Gilles Kepel, i Mohammed Arkoun, gli Hammad, gli Ali Abd al-Raziq, i Gharaibah, i Muhammad al-Ghazali, gli al-Bani, gli Zafar Ishaq Ansari, i Jamal S. al-Suwaidi, e moltissime altre voci ancora da tutta l’ecumene islamica continuano ad opporre il proprio pensiero e le proprie visioni del mondo a quelle ormai logore dell’Occidente. Centri specialistici di studi strategici e analisi islamici non hanno mancato di rivalutare la dimensione globale delle relazioni, rimettendo al centro di queste la Ummah islamica nelle sue dimensioni universali. Negli anni ’90 del secolo scorso si è così riacceso il dibattito giuridico-teologico, considerato l’unica vera chiave del sapere anche scientifico, l’unico strumento di indagine della socialità nella sua universalità senza confini, senza barriere, senza distinzioni di razza, di colore della pelle, ceto/fascia sociale.
Alla dimensione geo-economica dell’Occidente post-bipolare, l’Islam oppose così la propria visione geo-culturale, perno della quale restò il Corano e la "sua" visione dell’Uomo e dell’Universo.
È stata pertanto questa rinnovata tensione fra sviluppo tecnologico e sapere tradizionale che, nell’immediato post-bipolarismo, ha dato vita a un nuovo fertile filone anche del pensiero politico-militare islamico; il fenomeno del neo-fondamentalismo (o neo-radicalismo) degli al-Islamiyyun (o les Islamisants) ne fu appunto una fra le più significative espressioni.
Ma vi fu un’altra conseguenza, forse più sottile ma non meno inquietante. La de-mitizzazione dell’Occidente produsse un ulteriore effetto: mandò in crisi la geo-politica tradizionale dell’Islam.
I grandi movimenti fondamentalisti sorti nel primo dopoguerra (soprattutto l’Associazione dei Fratelli Musulmani e la Jama ‘at-i-Islami) - cui si associarono le grandi confraternite e movimenti sufi (la Naqshbandiyyah, la Senusiyyah, il muridismo, il marabutismo ecc., ad esempio) - continuarono a rappresentare i grandi poli di aggregazione ideologica, politica e sociale. La moschea (e la madrasah) continuarono a svolgere il proprio ruolo di tramite culturale all’interno del humus popolare. Non solo; facendo leva sulla pietas e le emotività di taluni ambienti intellettuali e delle professioni - esclusi dal potere politico - e sulla disperazione di una massa di diseredati, profughi e sbandati, tornarono a essere la fucìna della diffusione di dottrine/ideologie della rivendicazione negli angoli più remoti e inaccessibili dell’ecumene islamica. Il rurale entrò nella storia - una sorta di potentissimo Islam parallelo a quello ufficiale; si affiancò al contesto urbano; fornì risorse umane per il reclutamento, e rifugio prezioso ai nuovi gruppi della militanza neo-fondamentalista. Quello che però balzò alla ribalta con il nuovo millennio, e con l’inaugurazione dell’epoca della globalizzazione, fu la nuova dimensione di questa azione: caduta la fortezza (e la certezza) delle frontiere, la personalità e la extra-territorialità dell’Islam riemersero con antico vigore.
La dottrina intervenne con autorevolezza, e istituzionalizzò sciaraiticamente fino al paradosso le connotazioni peculiari del concetto di statualità in ambito islamico: universalità della sua società (i veri credenti), eternità e assolutezza della Parola di Dio (la sharî‘ah), personalità del legame sociale (rivivificazione dei legami maestro-allievo delle confraternite), autofinanziamento nell’azione. Non cambiò il lessico di questo neo-fondamentalismo (kufrah, hijrah, jihâd); i caposaldi restarono il Corano e la Tradizione (la Sunnah del Profeta); i pilastri del pensiero militare/militante continuarono a rapportarsi ai classici di Ibn Taimiyyah, Ibn Jama‘ah e al-Ghazâlî. Sayyid al-Qutb e i suoi scritti furono il simbolo e riferimento assoluto di ogni speculazione. Quello che cambiò radicalmente fu la dimensione geo-politica, una dimensione nuova, a-territoriale, personale e universale al tempo stesso, una dimensione comunque e sempre rigorosamente confessionale.
Questa nuova dimensione geo-politica dell’Islam inevitabilmente rimise in discussione anche i pilastri fondamentali della statualità in ambito islamico, e i due cardini del pensiero militare: leadership e conflittualità. Quale "autorità" legittima? Quale "potere" legalmente esercitato? Quale "imâm" legittimo? Quale Forza? Quale "nemico"? La dottrina strategica si trovò a dovere intervenire nuovamente per legittimare e istituzionalizzare nuove realtà fra loro spesso molto diverse. Si articolarono e organizzarono con estrema rapidità nuove opposizioni, che, a loro volta, articolarono e diedero sistema a nuove dottrine militari-strategiche.
In tal modo si scompigliarono ancora una volta i rapporti fra leadership islamiche e opposizione/opposizioni islamiche, e fra opposizione islamica e militanze o gruppi di jihâd. E queste nuove relazioni - o meglio, non-relazioni - diedero vita a quella che Jilles Kepel ha definito con molta proprietà la "sindrome da successione".
E così è accaduto che l’opposizione si è dilatata, assumendo a sua volta una dimensione globale; si è strutturata su una estrema mobilità e caratterizzata da forti legami di solidarietà clanico-tribali e/o di confraternita, conoscenza della IT, padronanza delle tecnologie di morte (l’addestramento militare all’epoca della guerra fredda influì in misura non irrilevante), accesso a fonti di auto-finanziamento (traffici più o meno leciti e illeciti, micro-macro criminalità, narco-traffico, e altri).
Le soglie del terzo millennio aprono certamente un’epoca nuova. Ma la realtà che l’Islam sta affrontando non è soltanto una realtà economica (o geo-economica), non è soltanto un problema di adeguarsi ai nuovi sistemi della geo-economia e di accettarne le sfide nel terzo millennio; non è soltanto un problema di "federalismo" "integrazione economica e finanziaria" "unione monetaria"; non è soltanto un problema di ristrutturazione finanziaria e di investimenti, di settore pubblico e privato, di adeguamento dei sistemi locali alle nuove dinamiche di un mercato sempre più globale; non è soltanto un problema di business e di "re-engineering governances"; non è soltanto un problema di forgiare nuove leadership e manager capaci di affrontare le sfide e afferrare le opportunità; non è soltanto un problema di risorse umane, "education", "confidence building" (5) . È una realtà sistemico-strutturale, che supera la dimensione economica, e, ancora una volta, riassume in sé con rinnovato vigore il religioso, la sharî‘ah, e i suoi principî cardine di tutto l’agire umano.








In questa nuova prospettiva, i parametri dell’Occidente sembrarono riproporre con ancor maggiore drammaticità lo scontro di civiltà di Huntington. In realtà, al di là di una vastissima letteratura sul tema, lo scontro - più che fra civiltà - è uno scontro fra modelli di statualità e politicità fra loro profondamente diversi se non incompatibili.
In ambito islamico, lo scontro fra "civiltà" si è tradotto in un nuovo scontro all’interno dello stesso Islam, fra establishment "occidentalizzati" - ovverosia espressione della tecnologia e cultura dell’Occidente - e opposizioni non meno occidentalizzate sul piano della conoscenza tecnologica, ma escluse dal potere. Entrambe sono espressione del rinnovato vigore del religioso e delle nuove concezioni dell’Uomo e dell’Universo. Le prime, pur rigorosamente "islamiche", si orientano verso soluzioni pragmatiche e di compromesso con l’Occidente (come a suo tempo fece Nasser una volta andato al potere); le seconde - coagulatesi nelle opposizioni - aderiscono perlopiù alle linee di pensiero dell’Islam neo-fondamentalista. E poi, ancora più in là, si continuano ad agitare masse di genti poverissime, al limite della sopravvivenza, spesso in fuga da se stesse, in un contesto sempre più degradato o tecnologizzato, comunque sempre più estraneo e de-territorializzato.
La divaricazione del sapere - tecnologia e tradizione - negli anni ’50-’70 del secolo scorso aveva posto la scelta di nuovi modelli di potere; il trionfo della forza militare statunitense - il grande vincitore della guerra fredda - propose/impose il modello politico-sociale anglo-americano, e creò inevitabilmente nuove fasce di opposizione.
Per capirne il percorso e valutarne l’evoluzione è necessario riportarsi al secolo che precede, agli anni delle Rivoluzioni e dell’andata al potere dei militari.
La Rivoluzione, trionfante negli anni ’50 del secolo ventesimo, aveva assolto a un ruolo fondamentale. Era stata la sola via per arrivare alla libertà dall’Occidente, "per recuperare il ritardo imposto" nello sviluppo sociale ed economico. In altri termini, la Rivoluzione si era proposta alla storia dell’Islam come una fase necessaria e cruenta per spazzare via gli ultimi indegni epigoni di una corrotta classe dirigente, la quale - pur professandosi islamica - in realtà era legata agli "infedeli" e ai loro interessi, e da questi accettava aiuto e sostegno, divenendo fonte di tirannide, corruzione ed empietà. Solo con la Rivoluzione, necessario sacrificio purificatore, solo allora sarebbe stato possibile ricomporre unità e collaborazione armonica fra tutte le forze sociali della comunità dei credenti, agire con equità e giustizia secondo i principî del Corano e della Sunnah. Sono i postulati della Filosofia della Rivoluzione di Nasser, fatti propri da Gheddafi, rielaborati in ambito sciita dal clero iraniano e da questo ri-esportati nel mondo, ecc. ecc. Il ruolo dell’esercito era stato fondamentale, e le grandi "associazioni" avevano contribuito dando alle rivoluzioni degli anni ’50-’70 contenuti, strategie, consenso popolare, adesione di quelle fasce della popolazione appartenenti alle professioni, alla media-piccola borghesia e ai gradi inferiori dell’esercito. Quello stesso Islam aveva elaborato una propria dottrina militare, quanto in altra sede si è definito come "pensiero militare globale" (6) . In quell’ambito, il jihâd - l’unica arma reale per scardinare i sistemi pre-esistenti - era stato cooptato al potere, parte integrante e assoluta del pensiero militare globale, strumento tattico e strategia vincente "per l’affermazione della rivoluzione" e "la liberazione delle masse dalla fortezza della tirannide", come ebbe a proclamare Nasser. Emblema trionfante fu la rivista libica Risalat al-Jihad. Stato e società erano stati ri-fondati dall’Islam dei Progressisti; ma - nonostante affermazioni di principio - le leadership erano venute a più di un compromesso, e quelle artificiosità statuali delimitate dai confini territoriali convenzionali (scempio dell’Occidente) non erano state messe in discussione: stato e territorio erano stati l’alto prezzo da pagare per il conseguimento di una conclamata giustizia sociale ed economica, che aveva portato al potere i Progressisti.
Tuttavia, nel giro di una-due generazioni, l’Islam del fondamentalismo progressista aveva finito col mostrare il proprio volto reale, un volto vecchio, bruciato dal potere e dalla gestione del potere, bruciato da quei privilegi e benefits che soltanto la gestione del potere può procurare a chi detiene autorità, potere e Forza. Le riforme economiche e sociali non decollarono mai. Il modello statuale socialista denunciò i propri limiti; e con la crisi del modello democratico socialista, andò in crisi anche la dogmatizzazione, che le rivoluzioni di Jamàl ‘Abd en-Naser e di Gheddafi avevano realizzato. In altri termini, andò in crisi la "rivoluzione islamica", e, con questa, il "socialismo islamico", il corporativismo islamico e - in senso lato - tutto il riformismo islamico dell’Islam progressista (7) . Restarono le associazioni della Fratellanza Musulmana e della Jama‘at-i-Islami di Mawdudi, e le loro grandi teorizzazioni ed elaborazioni dottrinali; a queste si affiancarono un pulviscolo di movimenti estremisti i quali, ben addestrati alla lotta ma orbi di un nemico reale, facilitati dalla globalizzazione geo-economica e finanziaria, si riversarono su molteplici campi di battaglia in cerca di nuove glorie e nuovo martirio.
Negli anni ’80 si consumò così un nuovo divorzio, non meno cruento, fra Islam progressista e Islam neo-fondamentalista.
Le accuse rivolte dalla nuova dottrina militante all’Islam al potere erano quelle di avere abiurato ai propri impegni, di essere venuto meno a quel patto sociale che ne aveva sostenuto la presa di potere, di avere operato con cinico pragmatismo, di avere tradito le aspettative della comunità dei credenti, di avere anteposto la convenienza politica (e i propri interessi personali) al benessere reale della società islamica. Fiorì tutto un nuovo filone letterario, dai toni spesso appassionati e violenti, il quale incitava alla rivolta e al tirannicidio sulla base di precise contestazioni: deviazionismo nell’uso spregiudicato degli strumenti giuridici, asservimento al colonialismo (o neo-colonialismo), negoziati e accordi col Sionismo (si vedano, ad esempio, i gruppi salafiti, e le scissioni in seno alla Jama’at-i-Islami). Come noto, Sadat pagò con la propria vita nel 1981 gli accordi di Camp David; Husein di Giordania venne a compromessi con l’Associazione dei Fratelli Musulmani (e spazzò dal proprio territorio i gruppi di jihâd nella celebre giornata detta Settembre Nero).
In realtà, fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, furono le sottili regole della guerra fredda a mantenere nella vastissima regione islamica stabilità più o meno incerte e traballanti.
Il fallimento delle rivoluzioni socialistiche, l’arretratezza delle masse, la fame e la miseria dei contesti extra-urbani divennero un terreno particolarmente fertile per riproporre nuovi modelli vincenti di modernizzazione, progresso e sviluppo, tecnologia, giustizia economica e sociale. Ancora una volta, la guerra fredda impose le proprie sottili regole, e formò una nuova generazione istruita che - esclusa dal potere - mirò al potere destabilizzando e rovesciando gli establishment in carica. Ancora una volta, sono i principî a essere messi in discussione, i leader sono definiti "schiavi del ventre e del loro forziere", accusati di "eresia", "apostasia", "corrotti" e "corruttori". Negli anni ’80 si costituirono gruppi di guerriglia, bande di mujahedin, che nell’Afghanistan trovarono la loro principale palestra di addestramento, e in Medio Oriente, Algeria, Sahara, Corno d’Africa, Zanzibar, Indonesia... trovarono i loro molteplici e fertili campi di battaglia. I periodici al-Murabitun, al-Ard, ad esempio, o la più recente al-Ajil - diffusi via fax e/o e-mail per tutto l’etere - furono fra i nuovi emblemi trionfanti della battaglia e della modernità.
Il jihâd non fu più strumento di potere, legato a una leadership ben definita, in un quadro ideologico che aveva istituzionalizzato il "pensiero militare globale". L’unica eccezione formidabile fu forse l’Afghanistan. Ma in quasi tutta l’ecumene islamica - cristallizzata negli equilibrismi della guerra fredda - esso tornò all’opposizione. Fino alla disintegrazione dell’Unione Sovietica, la geo-politica dell’Islam presentava tuttavia ancora confini netti, e territori precisi.





E quindi, con la fine del bi-polarismo, le frontiere si sono aperte.
Il "diritto all’emigrazione", l’annullamento delle distanze dovuto all’enorme balzo in avanti dei sistemi dell’informazione e delle comunicazioni, l’accesso alle tecnologie (anche finanziarie) dell’Occidente hanno contribuito a de-territorializzare il confronto, a scompigliare i ranghi dell’opposizione senza peraltro indebolire la violenza e la virulenza della militanza. Si sono annullate anche le distanze fra leadership e opposizioni, creando quella che - con molta proprietà di linguaggio - Gilles Kepel ha definito "la sindrome da successione".
Come si è detto, il pensiero politico (e militare) islamico di quegli anni tornò a interrogarsi sull’Uomo e la Storia, dando vita a un nuovo filone di pensiero che - anche in ambito islamico - si può a ragione definire come "storia globale". Lo ha fatto istituendo nuovi rapporti con la geografia, e interrogandosi su come le vicende storiche possano essere state influenzate e condizionate da configurazioni fisico-geografiche. Al centro della riflessione fu posta - come si è anche detto - l’Umanità, la società e le sue vicende, una umanità il cui sviluppo continua a essere rigorosamente regolato da Dio e dalle Sue Leggi, in un divenire risultato di traiettorie molteplici, che si intersecano e, incontrandosi, si influenzano, si condizionano, si modificano - senza però scostarsi dalle prescrizioni e dai limiti posti da Dio agli Uomini. In questo quadro, anche le dimensioni materiali assumono una loro eticità teocratica, e lo sviluppo tecnologico e la biologia tornano a rapportarsi con il divino e la Rivelazione. È un quadro pennellato di valori universali. È un "teatro" che prende nettamente le distanze dalle nuove costruzioni dell’Occidente, non si interroga sulle altre civiltà, o, se si interroga, lo fa con relativa superficialità e secondo gli schemi e i topoi propri del pensiero islamico più classico; è un "teatro" in cui la divaricazione fra sapere tecnologico e sapere tradizionale crea nuove fasce sociali che neppure la divulgazione riesce a colmare; è un "teatro" fatto di grandi splendori e abissali miserie, di leadership corrotte e popolazioni affamate, di establishment arroccati nei loro castelli e nelle loro fortezze, protetti da uno pseudo-apparato burocratico, da un lato, e di masse sempre più ignoranti e arroccate nella forza della tradizione religiosa dall’altro. Il proliferare ovunque di "campi profughi" e le moltitudini in fuga esasperarono ulteriormente una situazione di per sé già critica. E questa umanità sgomenta, irrequieta, attonita si trova a dovere fronteggiare un quadrante che - in larga misura - è il prodotto di una gestione sbagliata delle risorse produttive, finanziarie e umane.
Venendo a queste ultime, la non gestione delle risorse umane da parte degli establishment al potere era stata in larga misura conseguenza di scelte politiche di reclutamento in base alle "parentele". Il rentier state, e il clientelismo (o patronage) - prassi diffusa in queste società - avevano certamente garantito stabilità e sicurezza interne ai regimi, ma creò i cosiddetti "esclusi dal potere". Si tratta perlopiù di fasce sociali delle professioni: insegnanti, medici, fisici, matematici, ingegneri, architetti, commercianti e businessmen, manager... e tutti i numerosi laureati disoccupati e i diplomati impiegati nell’amministrazione. Alle soglie del terzo millennio, questi rappresentavano perlopiù una generazione ancora giovane - se non giovanissima - ma senza futuro, o, quanto meno, dalla netta percezione personale di non avere un futuro all’interno delle strutture create dalla guerra fredda, e, dopo la fine della guerra fredda, congelate nello status quo dalle necessità internazionali di sicurezza e stabilità regionale. Si trattava di una generazione vigorosa, dalle vigorose ambizioni, che voleva battersi in nome di quegli ideali di giustizia sociale ed economica che avevano portato al potere quella classe dirigente e la sua clientela. Per di più, in talune regioni dell’ecumene islamica, una dissennata politica di spese militari aveva portato alla crescita di una fascia sociale legata all’esercito, agli armamenti e alle infrastrutture e istituzioni militari; questa, del tutto gonfiata e legittimata in nome di diritti ereditari, oppure in nome di diritti conquistati con la "rivoluzione", aveva contribuito a sottolineare la sperequazione con il settore civile e la società civile.
Con la fine delle architetture del bi-polarismo, questi "esclusi" si sono rivolti con determinazione e organizzazione alle masse del sottoproletariato urbano e dei diseredati, confluendo nelle file del neo-fondamentalismo militante - di cui hanno costituito la nuova élite.
Mistici e predicatori erranti - liberi nel loro vagabondare senza frontiere - hanno contribuito a circondare questa nuova élite di un’aureola di gloria e valore nel loro cammino sul sentiero di Dio. In una dimensione mobile, senza territori sbarrati da confini artificiali posti dagli uomini contro ogni legge divina, la militanza tornò all’opposizione, si è strutturata, e ormai, superate le soglie del millennio, è divenuta sistema. È - non vi è dubbio - jihâd bi’l-sayf fî sabîl Allâh.
E qui, inevitabilmente, il discorso torna alla nuova dimensione "geo-politica" dell’Islam e della sua dottrina militare, sostegno istituzionale e teoretico al tempo stesso.
In più di una sede, e da parte di più di un autorevole studioso, si è cercata una definizione di "stato islamico". Questa ha individuato un pensiero militare, parte integrante del pensiero politico, e ne ha circoscritto l’ambito a due componenti essenziali: la leadership e la conflittualità armata. In ambito islamico, le due categorie occidentali di teoria strategica e dottrina strategica sono decisamente capovolte; la dottrina strategica è infatti elaborazione e sistematizzazione giuridica della teoria strategica, che trova enunciazione unica e assoluta nel Corano e nella Tradizione, ossia nelle fonti dirette della Rivelazione, e nelle due altre fonti indirette di cognizione, ossia il qiyas e l’ijma‘ (8) .
Il neo-fondamentalismo - come si è appena detto sopra - è in primo luogo una corrente di pensiero filosofico-teologica e letteraria (si vedano, ad esempio, i Salafiti e il ricco fiorire di studi giuridici). Lo studio del fiqh è uno degli ambiti dell’indagine di questo filone, lo strumento metodologico. Si tratta di un filone che, necessariamente, ha condotto a un ripensamento anche della scienza politica e relative categorie (9) .
In questo ambito, esso ha recuperato le categorie tradizionali, nella più rigida afferenza alle fonti primarie della Rivelazione. Ma, sopra a tutto, ha recuperato la dimensione universale del sociale, ossia la Ummah, base e fondamento giuridico di ogni statualità. Il crollo delle frontiere del bi-polarismo, e il proclamato avvento dell’era del globalismo e della globalizzazione, hanno portato i neo-fondamentalisti a rimettere in discussione anche ogni concetto di "statualità" legato ai parametri in fieri dell’Occidente, e a contrapporre a questi il proprio modello: lo stato è un’entità istituzionale non legata a un determinato "territorio". Restano immutati e intoccabili i 4 termini di riferimento: Sovranità - divina, Autorità - umana e contrattuale, Potere - inteso come servizio, Forza - strumento unico per l’esercizio del potere e il benessere della comunità dei credenti.Dalla speculazione all’azione, il passo fu breve. Superata la fase della tarbiyyah (ossia dell’istruzione e formazione), il neo-fondamentalismo entrò decisamente nella fase della jihâdiyyah.
Le soglie del terzo millennio - con il venir meno di molte certezze, l’esacerbarsi delle incertezze precedenti unite alla crescente evanescenza delle Nazioni Unite - hanno lasciato libero spazio alla violenza delle forze scatenate da un indubbio vuoto di potere. L’avanzamento delle tecnologie (incluse quelle della guerra) hanno ulteriormente contribuito alla de-regulation della lotta e a nuove forme di conflittualità nelle strategie, nelle tattiche e negli scenari. In contesti di simile natura, il religioso è sempre stato il grande rifugio di un’Umanità sconcertata, confusa, abbrutita e umiliata nei propri valori di Uomo. Per gli Islamiyyun, è l’Umanità tutta, quella dei veri credenti, che deve scendere in campo e battersi per il recupero dei propri diritti alla dignità e alla vita, anche se il prezzo e il percorso debbono passare per il sacrificio e la morte.
Non vi sono privilegiati, non esiste un territorio circoscritto da frontiere naturali e/o umane che consentano di definire tale territorio "stato" sovrano e indipendente. È l’intero corpo sociale islamico che rappresenta il proprio territorio. La dottrina ricompone ancora una volta il Dar al-Islam in contrapposizione al Dar al-Harb, il Territorio dell’Islam e il Territorio della Guerra. Le militanze e i gruppi di militanza sono combattenti di Dio, che devono tornare a sfoderare la spada per far trionfare la verità e la parola di Dio, per riportare giustizia e verità laddove queste sono state calpestate sotto i piedi dell’eresia e dell’apostasia. I militanti vengono reclutati ovunque, da ogni angolo del mondo, da ogni fascia del sociale, senza distinzione di ceto o colore della pelle, purché islamici. La storia viene riletta in questa chiave: il periodo dei califfi, l’avvento di genti straniere, il fenomeno crociato, la riconquista, il predominio turco con gli Ottomani, il risveglio degli Arabi, ecc.. I
l sapere cerca un equilibrio fra modernità tecnologica e tradizione; al leader viene restituito un "ruolo attivo" all’interno di una rilettura coranica rigorosa; l’equità, la giustizia, la conoscenza [della Legge di Dio] sono le qualità indispensabili alla leadership islamica, le basi di ogni potere politico e di ogni sistema islamico, "in quanto Dio è presente in ogni momento fra il governante e i governati, e li sorveglia entrambi", come si espresse al-Qutb, "e l’Islam è un sistema universale ed eterno per l’avvenire dell’Umanità".
"Sistema", non "stato": questa è una delle peculiarità principali che, alle soglie del terzo millennio, distingue il mondo dell’Islam e lo contrappone rigidamente al sistema e all’ordine mondiale statunitense "fondato esclusivamente sulla legge, senza fare appello alla coscienza morale e intellettuale" - si esprimono ancora i neo-fondamentalisti rapportandosi a Sayyid al-Qutb - in quanto "l’Islam ha salvaguardato con ordini chiari e universali spiriti, corpi, spose e beni in modo che non si lasci posto a equivoco alcuno, nel desiderio di garantire la sicurezza, la pace, la dignità di tutti" (10) .
In questo scenario, la lotta per l’accesso al potere sfuma in una dimensione nuova, quella dimensione a-spazio/temporale di cui si è detto all’inizio. La lotta per il potere non ha dimensione soltanto economica quantificabile in termini di petrolio/gas, royalties, narcotraffico o altro; non è espressione soltanto di forze economiche escluse dal potere. Non è espressione di rivendicazioni in termini di con-partecipazione ai vantaggi economici che solo l’esercizio del potere può consentire. È una realtà sempre più politica - o, meglio, geo-politica, in cui "il guerriero di Dio è al servizio di Dio in tutto il mondo".





Questo interrogativo si viene oggi riproponendo a tutto il mondo islamico, e coinvolge governanti e governati.
Alcune leadership islamiche si sono certamente trovate impreparate di fronte alla realtà dei tempi sia sul piano politico che su quello tecnologico; altre hanno cercato di adeguarvisi - con l’appoggio dell’Occidente (molto vario nelle misure e nelle forme).
Nel paragrafo che precede si è tentato di riprendere un discorso già sviluppato altrove, e di riassumere molto schematicamente le cause del fallimento delle Rivoluzioni, e del modello statuale da queste proposto con l’andata al potere negli anni ’50 del secolo ventesimo, fino all’emergere di una nuova corrente di pensiero politico (e militare), il cosiddetto neo-fondamentalismo. Si è anche detto come - sotto taluni aspetti - questo fenomeno si possa considerare figlio delle grandi teorizzazioni ed elaborazioni dottrinali della Fratellanza Musulmana fondata da al-Banna’ e della Jama‘at-i-Islami di Mawdudi, affiancate e contornate da un pulviscolo di movimenti estremisti i quali, ben addestrati alla lotta ma orbi di un nemico reale con la fine del sistema bipolare, facilitati dalla globalizzazione geo-economica e finanziaria, si trovarono proiettati in un teatro globale dalle non-distanze, e si riversarono su molteplici campi di battaglia in cerca di nuove glorie e nuovo martirio. In altra sede si è analizzato il caso Egitto (11) , emblematico dell’arco di crisi degli anni ’70-’80 del secolo ventesimo, nel corso dei quali la stabilità e sicurezza nel Mediterraneo furono in larga misura il risultato di precise scelte politiche dell’Occidente, più che il risultato di azioni individuali in ambito islamico. Le vicende egiziane - non diversamente da quelle algerine orchestrate dal Fis, e altre ancora - sono significativa espressione dell’insoddisfazione che permeava tutto il popolo dell’Islam nelle sue diverse componenti sociali. Si trattava di una insoddisfazione che derivava, come si è detto poc’anzi, dal fallimento delle classi dirigenti andate al potere nel secondo dopoguerra, e dalla loro impossibilità/incapacità di ottemperare a quelle conclamate promesse di giustizia sociale ed economica, che pur le avevano portate al potere. E se questa insoddisfazione non era sfociata prima in nuove rivoluzioni, come si è anche detto ciò va ascritto alla volontà superiore delle Superpotenze e ai loro aiuti ai vari establishment al potere, nonché a precise intese ed equilibri internazionali.
Allora, e subito dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la stabilità regionale non poteva che essere il risultato di un sistema cooperativo di sicurezza, nel quale la dimensione militare inter-agiva con i fattori economici, sociali e culturali, completandosi e integrandosi in un sistema nuovo, globale e globalizzante di pace e sicurezza. Allora sembrò anche che in ambito islamico la dimensione economico-finanziaria prevalesse e dominasse (si veda il capitolo 4, §1). Tuttavia, nel vuoto di potere che era conseguito al bipolarismo, le forze tradizionali locali ripresero vigore, e si organizzarono in sistema. Fu in quella fase di transizione epocale che l’Islam prese ancora una volta coscienza dei propri valori, e si strutturò in sistema parallelo (si veda capitolo 4, §2), quel sistema che esplose agli occhi dell’Occidente con violenza inaudita l’11 settembre 2001.
Nei dieci anni che seguirono al 1990, le due fasce tradizionali dell’Islam tornarono a ricomporsi e a confrontarsi: un Islam ufficiale, al potere, e un Islam parallelo all’opposizione. E la militanza? Il jihad bi’l-sayf? (12)
Gli anni ’90 si apersero quindi con un Islam profondamente diviso al proprio interno. Una prima lacerazione era quella fra gruppi al potere - e a questo fortemente attaccati e del tutto renitenti a condividerlo con altri - e gruppi all’opposizione, altrettanto determinati nella loro azione eversiva. Questi ultimi, come si è visto, non si preoccuparono di elaborare un pensiero veramente nuovo né ideologie sostanzialmente innovative rispetto al passato; i temi di jihad, hijrah, kufrah continuarono a dominare il lessico politico e i dibattiti di movimenti etichettabili come "neo-kharijiti" o "neo-mutaziliti"; dominavano ancora gli slogans anti-Occidentali e anti-Sionisti; dominava ancora l’intransigenza assoluta a compromessi, trattative o dialogo sia con le proprie leadership, accusate di takfir, sia con l’Occidente - ormai incarnato nella superpotenza vittoriosa degli Stati Uniti e in Israele, sua longa manus in Medio Oriente. Si addebitava agli Stati Uniti la determinazione di restare sostegno e forza reale di queste leadership. E quindi, ben presto, nella lotta rientrò anche la Russia moscovita, appendice dell’Occidente, persecutrice dell’Islam parallelo centroasiatico e dei fieri Ceceni (13) . Gli obiettivi da colpire restarono praticamente gli stessi, ossia tutto quanto è simbolo dell’Occidente e della sua corruzione morale, tutto quanto è simbolo dell’Occidente e della sua superiorità "materialistica" e tecnologica (turismo - fonte di introiti per le leadership takfir e immagine della decadenza occidentale -, cinema-teatri, autostrade, ferrovie, antenne satellitari et similia). L’azione tuttavia era ancora frammentata, opera di organizzazioni che rifluivano da campi di battaglia diversi e fra loro molto lontani; mancava ancora una leadership effettiva, carismatica, gli aiuti finanziari erano venuti meno con gli aiuti della guerra fredda; si trattava di un mercenariato ben addestrato e motivato essenzialmente dalla propria arte e dalla propria "merce", in vendita all’utente migliore. E ciò è ben percepibile dagli scritti dell’epoca e dalle dichiarazioni, fogli e volantini che circolavano grazie ai sistemi della IT. L’ideologico, la sistematizzazione di un vero e proprio pensiero neo-fondamentalista fu compito della dottrina, e subentrò ancora una volta a posteriori (14) .
In questo panorama colpisce sempre il medesimo fattore: la mancanza di riferimenti puntuali a temi sociali ed economici, che vadano al di là del lessico propagandistico tradizionale, e la mancanza di una visione territoriale - ad eccezione del caso Palestina. Il nemico è ovunque questo si annidi, e, ovunque, va colpito e sterminato senza pietà, poiché solo Dio è pietoso e misericorde.
Quindi, gradualmente, il lessico si articolò, elaborò nuove tematiche di militanza; e anche l’azione mutò nelle strategie e tattiche.
Gli anni 1995-1996 corrispondono senz’altro alla riorganizzazione delle opposizioni e delle militanze attorno ai filoni ideologici tradizionali (l’Associazione dei Fratelli Musulmani di al-Banna’ e al-Qutb soprattutto, la Jama‘at-i-Islami di Mawdudi, la Salafiyyah e la Naqshbandiyyah - con le proiezioni occidentali degli Ishkhan capelluti, e orientali quali la scuola di Deoband e la Jami‘at-i- Ulema’-i-Islam, ecc.), secondo modelli strategici e tattici nuovi, plasmatisi alle nuove leggi delle rivoluzioni dei media e dell’informatica, e della rivoluzione della bio-tecnologia. Le connotazioni rispetto agli anni precedenti sono una sempre maggiore padronanza dei media e degli strumenti della tecnologia, trans-frontalierità, trans-nazionalità, auto-finanziamento, lotta per il potere politico vero e proprio.
In questo contesto, le confraternite acquistarono centralità, i tablighi assolsero a un ruolo del tutto nuovo e speciale, quasi ovunque si comincia a strutturare un vero e proprio Islam "parallelo" a quello ufficiale.
L’Islam "parallelo" non è più il risultato di azioni individuali ed erratiche, esso elabora un proprio sistema e un pensiero politico e militare che ne è sostegno ideologico-teologico al tempo stesso: il neo-fondamentalismo appunto, di cui si è detto a più riprese.
Come si è anche già spiegato, in questo filone di pensiero i temi di jihad, takfir, hijrah dominano ancora, e si rapportano alle grandi compilazioni ufficiali dei secoli XIII-XIV (ad ibn Taymiyyah, al-Ghazali, ibn Jama‘ah, e allo stesso ibn Khaldun); dominano ancora i dibattiti attorno al neo-kharigismo e al neo-mutazilismo; hanno sempre maggior peso le interpretazioni più rigorose in ambito giuridico (hanbalismo e salafiyyah); dominano gli slogans anti-Occidentali e anti-Sionisti; si accentua l’intransigenza nei confronti della politica statunitense - di cui si riconosce il dato di fatto che è il grande vincitore della guerra fredda e il supremo padrone delle tecnologie del mondo moderno, ma le si addebita (gravissimo torto) la non-comprensione dei valori fondamentali dell’Islam, e del sistema islamico di Vita, Uomo e Universo (si veda sopra, capitolo precedente); l’Orientalistica è considerata come l’arma più sottile e subdola di questo nuovo colonialismo occidentale; si accentua l’intransigenza a compromessi, trattative e dialogo sia con le leadership islamiche (accusate di kufrah) sia con l’Occidente, che di queste continua a essere Forza e sostegno politico-internazionale.
A partire dagli anni 1995-1996, con il riorganizzzarsi dell’operazione Taliban in Afghanistan, cambia pertanto sostanzialmente il carattere di questa nuova opposizione: si tratta, come si è detto più avanti, di una generazione nuova, di una élite, che combatte una guerra di élite, con possibili collusioni con l’opposizione "ufficiale", drenando risorse umane dai misfatti della gestione degli establishment al potere. Negli immensi spazi dei deserti islamici si elaborano e vengono erette a sistema nuove forme di conflittualità. Le connotazioni principali sono:
- piena padronanza dei media e della IT;
- piena padronanza degli strumenti e dei sistemi tecnologici della modernità (inclusi quelli finanziari);
- piena padronanza delle tecnologie di guerra - anche quelle più sofisticate (incluso il nucleare e le armi bio-chimiche e di distruzione di massa);
- trans-nazionalità dei canali di reclutamento e addestramento al combattimento (militanza "globale" pan-islamica) - cui corrispondono:
i) l’allentamento delle solidarietà inter-etniche e inter-tribali in un contesto sempre più pan-islamico, trans-etnico e trans-tribale;
ii) il rinvigorimento del ruolo delle confraternite e delle solidarietà trans-frontaliere, trans-etniche e trans- tribali create dalla predicazione e dal legame "maestro-discepolo" (il citato fenomeno dei tablighi, ad esempio);
- autofinanziamento delle operazioni (narco-traffico et alia);
- mobilità e trans-frontalierità anche in campo finanziario ed economico.
Si tratta di opposizioni e militanze "nazionali" e internazionali al tempo stesso, che si diramano in tutto il mondo in una visione decisamente a-territoriale, universale e globale dell’Islam (15) .
Un punto merita una riflessione più attenta, ossia l’elaborazione di takfir fatta da ‘Abbud Zumur e da Shukri Ahmad Mustafà, due fra i nuovi leaders storici delle organizzazioni egiziane di al-Jihad, e infaticabili esponenti del neo-fondamentalismo (16) .
Per la prima volta il tafikr - ossia l’accusa di miscredenza - investe non soltanto i singoli individui, ossia i capi e coloro che detengono l’Autorità ed esercitano i poteri a questa connessi, ma tutta la società; questa acquista una dimensione concreta e istituzionale; è sistema di vita e di leggi che la regolano in ogni momento della quotidianità e delle relazioni anche pubbliche; è fatta, oltre che di individui e di famiglie, anche di partiti, enti, associazioni, organismi politici ecc. Così intesa, la società - in virtù di quel patto sociale che l’ha legata a quella Autorità che essa si è liberamente scelta ed eletta a guidarla - è solidale con l’Autorità stessa fino a rescissione del patto sociale, rescissione che - secondo la dottrina ortodossa - può essere anche unilaterale. Secondo le interpretazioni neo-fondamentaliste, la rescissione diviene obbligo giuridico da parte di tutta la comunità allorché l’imam sia empio, ingiusto, non applichi le norme sciaraitiche e non le faccia rispettare;
corrotto (fasiq), diviene pertanto fonte di corruzione, e incorre nella kufrah (17) .
Si configurano due postulati dogmatici, che merita puntualizzare per le loro implicazioni:
1. la denuncia di takfir non è più diretta solo ai capi politici, ma coinvolge la società che li sostiene e non si ribella; ribellarsi è un dovere, è "jihad fi sabil Allàh" (ossia militanza armata per la causa di Dio), e questo "jihad" non rientra nella categoria del "dovere collettivo" (fard kifayah) bensì in quello di "dovere individuale" (fard ‘ayn) (18) . Di conseguenza, tutte le fasce della società che non partecipano al jihad sono responsabili quanto i capi che le guidano, e, pertanto, devono pagare anche loro per la loro miscredenza.
2. La nuova dimensione "istituzionale" della società implica la complicità delle istituzioni tutte con l’Autorità proclamata "takfir"; pertanto, ai veri fedeli, ai veri musulmani è fatto rigido e intransigente divieto di avere rapporti di alcun genere con enti, partiti, associazioni studentesche, associazioni culturali o benefiche, associazioni sindacali, municipalità, perfino moschee e madraseh, che abbiano contatti con il Governo e i suoi Organi più diretti.
Sul piano pratico, ciò implica un fatto estremamente grave: la dottrina sta oggi legittimando tutte quelle azioni interne di massacri di civili, di inermi, di donne, bambini, anziani, oppure di persone coinvolte in attività lavorative presso enti, istituzioni scolastiche, ospedali, sindacati ecc., che abbiano rapporti diretti o indiretti con un Governo proclamato takfir. E viceversa.
"Il sistema islamico - affermava al-Qutb - poggia su due pilastri fondamentali, che si ispirano alla sua concezione universale dell’esistenza, della vita e dell’Uomo: 1) l’idea dell’unità dell’Uomo nella specie, nella natura e nell’origine; 2) l’idea che l’Islam sia un sistema universale ed eterno per l’avvenire dell’Umanità" (19) .
È un’affermazione inquietante, e fornisce più di una chiave di lettura delle realtà come si presentano alle soglie del terzo millennio. Ed allora, preso atto dei mutati parametri dell’Islam post-bipolare, all’Occidente viene istintivo porsi una domanda ben precisa: parlando di Islam, a quale Islam ci si deve riferire? La libera, veloce circolazione di idee e dottrine estende la concreta applicazione di questa interpretazione giuridico-teologica e distinzione fra "credenti", "falsi credenti", e "dissidenti" a tutta l’ecumene islamica, dal Maghreb (Algeria, Marocco e Tunisia) all’Afghanistan, dall’Asia centrale e Russia all’Indonesia, e oltre ancora al territorio tutto dell’Occidente stesso (20) .
Ma allora, chi è il nemico reale dell’Islam? Da dove provengono rischi e minacce?





Se si esamina il mondo islamico nel nuovo contesto neo-fondamentalista, se ne può evincere che negli anni immediatamente successivi alla fine del bipolarismo la vera minaccia (non più "rischio") alla sicurezza dell’Islam nasceva non tanto dall’esterno - ossia da una possibile aggressione dell’Occidente - quanto dall’interno, ossia dall’Islam stesso.
Nessun paese europeo (od occidentale in senso lato) aveva ambizioni coloniali di tipo territoriale. Il fenomeno del colonialismo tradizionale si era concluso nel 1991 con la disintegrazione dell’impero sovietico e la nascita delle nuove entità statuali caucasiche e centroasiatiche.
Come si è detto sopra, quello scenario capovolgeva anche i termini Huntingtoniani e lo scontro si profilava a livello islamico e a livello di concezioni di statualità fra loro incompatibili all’interno dello stesso pensiero politico-strategico dell’Islam.
Da un lato si schierarono gli establishment sostenuti da una o altra potenza occidentale e dalla Forza dell’Occidente; dall’altro, si ponevano le opposizioni, ossia una fascia d’opposizione non compartecipe al potere ma compartecipe del sapere tecnologico e delle tecnologie più avanzate di questo potere; nel mezzo, stavano le ondeggianti masse dei diseredati, degli illusi, dei miseri più miseri aggrappati alle certezze del sapere tradizionale.
Si tratta di una realtà di cui gli establishment al governo hanno ormai lucida percezione, come hanno percezione estremamente realistica della situazione interna e del crescente peso di economie fallimentari e di una società insoddisfatta e/o stremata. L’ingresso nel nuovo millennio ha per di più posto queste stesse leadership di fronte alla necessità - non più procrastinabile - di adeguare i propri sistemi di potere e autorità all’incalzare dei modelli occidentali. Si tratta di percezioni che pongono questi establishment fra l’incudine e il martello, fra il martello di un processo di "modernizzazione secolarizzante" imposta dall’esterno secondo il "modello turco", e l’incudine di un Islam risorgente e insorgente, il quale ha accesso alle tecnologie del nuovo millennio e gode del sostegno delle masse.
Se si deve pertanto esprimersi in termini di sicurezza e di minacce a un ordine esistente, occorre rivolgere l’analisi non tanto agli establishment e alle loro concezioni di Islam, quanto alle minacce di destabilizzazione che potrebbe subire l’ordine attuale.
La prima e maggiore minaccia è costituita dalla "successione". Nonostante modelli istituzionali di stampo "occidentale", il consenso va ancora alla persona, e non tanto all’istituzione. Un capo equo, giusto, che sappia far rispettare e applicare la Legge islamica, che sappia usare in maniera equilibrata dei propri poteri e della forza di cui dispone per il benessere della società e per difendere la comunità dei credenti - ossia il corpo sociale di ogni statualità islamica - ebbene, questi è garanzia di ordine e stabilità interni e regionali. Una siffatta Autorità poggia su tutta una serie di equilibri di forze reali interne, tradizionali, a base per lo più clanico-familiare. Scardinare un ordine siffatto, nella storia ha sempre comportato disordine, caos, anarchia, guerra civile, fino a che non riemergesse un nuovo capo "carismatico" in grado di coagulare un nuovo consenso. Il primo pilastro dell’ordine è, pertanto, rappresentato dalla successione.
Volendo quindi tentare una classificazione molto schematica delle possibili altre minacce, si può seguire lo schema consueto e operare una prima distinzione fra:
1. Minacce di natura militare
• Aggressioni di tipo convenzionale
• Conflitti regionali
• Proliferazione nucleare, chimica, biologica
• Terrorismo.
2. Minacce di altra natura.

1. Minacce di natura militare:
• Aggressioni di tipo convenzionale. Se in un primo momento sembrò estremamente inverosimile che si verificassero aggressioni di tipo tradizionale-coloniale da parte di una o altra vecchia/nuova Potenza, i fatti afgani dopo l’11 settembre 2001 e la drammatica recrudescenza delle vicende medio-orientali ne hanno riproposto lo spettro. Le ideologie dell’Occidente sono profondamente cambiate, ma non vi è dubbio che, di conseguenza, stanno cambiando i sistemi che ne sono espressione, le strategie e le strutture politico-istituzionali cui siffatte strategie stanno dando vita.
• Conflitti regionali. Scenari più verosimili sono quelli che prendono in considerazione aggressioni fra Paesi islamici, come il conflitto Iran-Iraq; oppure l’aggressione irachena al Kuweit, che mise in moto la prima guerra del Golfo; la questione del Sahara Occidentale, fonte di continue crisi; la guerra del Ciad; un possibile conflitto fra Egitto e Sudan; il bacino afgano, e così via.
Si trattò in ogni caso di aggressioni di tipo convenzionale, e di conflitti ancora circoscritti e regionali, in cui prevalse la consapevolezza dell’Occidente che la sicurezza implicava un sistema necessariamente cooperativo. Tuttavia, presa confidenza con i nuovi sistemi d’arma e le nuove tecnologie, le soglie del terzo millennio stanno inducendo nuove preoccupazioni nelle leadership islamiche al potere, ossia che un conflitto regionale possa avere conseguenze di portata maggiore, avere effetti domino, che producano destabilizzazione non soltanto nei paesi direttamente interessati ma anche negli altri attori regionali o out-of-area non direttamente coinvolti. Gli effetti possono andare a colpire interessi strategici ed economici di ben più ampia portata. E qui entra in gioco il discorso della globalizzazione delle relazioni internazionali e della geo-economia (le risorse energetiche, talune risorse naturali non energetiche, le vie del petrolio e del gas, criminalità, narcotraffico, e così via).
Un’altra conseguenza tutt’altro che da sottovalutare coinvolge il settore delle risorse umane. Simili conflitti hanno provocato nuove miserie fra la popolazione soprattutto civile, e, inevitabilmente, sono seguiti flussi migratori da parte di gruppi espulsi o in fuga. Si è venuta così determinando la dolorosissima piaga dei rifugiati, molto difficile da gestire. L’artificiosità delle frontiere, la loro porosità, il nuovo insorgere degli antichi legami etnico-tribali, la ripresa delle tradizionali solidarietà di confraternite islamiche ecc., con l’indebolimento delle realtà istituzionali-statuali ha favorito spostamenti di vere e proprie masse umane, sommergendo il resto del mondo con migliaia e migliaia di nuovi diseredati, sradicati dai rispettivi contesti culturali nell’estremo tentativo di salvare almeno le proprie vite, miserabili e affamati, nulle le condizioni igienico-sanitarie. Si è trattato di ondate di un’umanità che è venuta ad aggravare il già grave problema demografico anche del mondo islamico, difficile da metabolizzare per il paese ospitante, e fonte solo di nuovo malessere sociale ed economico, di povertà ulteriore, nuova miseria, disordini interni, criminalità e destabilizzazione.
• La proliferazione nucleare, chimica, biologica e l’uso di altre armi di distruzione di massa. Per quanto riguarda il nucleare, se negli anni ’90 del secolo scorso non sembrava che esistesse un pericolo reale, la presa d’atto dell’esistenza di paesi dotati di forza nucleare (Libia forse, Israele, Iraq e Iran verosimilmente, Pakistan e India, Cina popolare, Corea del nord ecc.) ha rimesso in discussione tutta la questione: arma di deterrenza psicologica o strumento della follia di un regime autocratico?
La minaccia reale si può ben profilare nel caso che una o altra di queste armi si trovi nelle mani di un esaltato, o di un piccolo gruppo di esaltati, che decidessero di farne uso per dimostrazione di potenza, oppure per vendetta personale, oppure ancora per obiettivi polarizzanti.
Naturalmente, la vulnerabilità esiste. Il famoso ABT ("Anti-Balistic Treaty") non è ancora stato sottoscritto (alle soglie del terzo millennio) da troppi paesi per potere avere una sua efficacia come strumento istituzionale internazionale; soprattutto, a non sottoscriverlo sono stati proprio i paesi che possiedono il nucleare a scopi militari. Comunque sia, anche laddove una "scheggia impazzita" ne facesse uso, è indubbio che la superiorità militare dell’Occidente non esiterebbe a interventi di dissuasione e a ritorsioni tali da polverizzare "il" o "gli" esaltati dissennati che ricorressero a una simile misura estrema.
Per quanto riguarda le armi chimiche, queste sono state purtroppo largamente testate nel corso di conflitti regionali, come nel teatro afgano, oppure nel corso del conflitto Iran-Iraq. Anche le armi batteriologiche - la cosiddetta "arma dei poveri" - costituiscono una minaccia, oggi ancora molto difficile da controllare (è sempre viva la querelle a proposito delle armi chimiche e batteriologiche per quanto riguarda Libia, Iraq e Sudan) . Le scienza sta compiendo continui progressi in materia e la legislazione è ancora del tutto inadeguata ai progressi scientifici. I controlli sono ancora pressoché virtuali. Tuttavia, pare potersi affermare che - a livello ufficiale - queste armi hanno ancora più che altro valore di arma psicologica per scopi di deterrenza; è tuttavia estremamente difficile prevedere cosa potrebbe succedere se un esaltato o un gruppo estremista decidesse di farne uso, specialmente se - conclamando la minaccia del Dar al-Islam - invocasse il jihad.
• Terrorismo. Questo esiste, è una minaccia concreta sia nei confronti degli establishment governativi e le loro istituzioni, sia nei confronti di cittadini occidentali, turisti o altri che operino nei Paesi ove il fondamentalismo militante anche di matrice islamica è attivo.
Il terrorismo è comunque una forma di violenza, a fini perlopiù politici, esercitata attraverso strutture e modalità clandestine (21) .
Si è a lungo parlato delle azioni di destabilizzazione violenta, delle ideologie portanti di siffatte organizzazioni, dei loro teatri d’azione, strategie e tattiche, obiettivi potenziali. Si è tentato anche di ricostruirne alcuni percorsi e individuare taluni filoni.
Si è anche sottolineato come le azioni terroristiche dirette alla destabilizzazione di regimi considerati da queste militanze come "non aderenti alla shari‘ah" e pertanto takfir, si possono esplicare sia sul territorio nazionale sia all’estero. In quest’ultimo caso si ha un fenomeno di "esportazione di terrorismo".
Ci si è soffermati sulle diverse peculiarità operative, tattiche e ideologie, e sui percorsi fino all’arco di crisi degli anni ’80, e le novità inquietanti del post-bipolarismo. Si sono tentate identificazioni e schematizzazioni.
Nella strategia della destabilizzazione, dopo la scomparsa del secondo polo e dei suoi aiuti, il terrorismo è divenuta una tattica che ha sempre più largo impiego. Il balzo straordinario compiuto dai media ha ulteriormente potenziato questa minaccia. Ogni punto della terra può essere base per azioni terroristiche, sia che il terrorista voglia colpire il nemico ideologico per eccellenza - ossia l’Occidente - nella sua "occidentalità" culturale, nelle sue manifestazioni culturali considerate impure e decadenti, e nella sua superiorità tecnologica, sia che il terrorista voglia usare il territorio dell’Occidente come base operativa nel quadro di quella strategia più vasta, globale, e principalmente rivolta alle dirigenze islamiche considerate takfir. Anche dei contenuti dottrinali di questi gruppi militanti si è già detto sopra, sottolineando a più riprese una innegabile ambiguità che, il più delle volte, rende estremamente difficile distinzioni, oppure pare adombrare interventi pragmatici della dottrina a legittimazione di uno o altro obiettivo ben più realistico e terreno.
Fra i fattori che negli ultimissimi anni del secolo ventesimo vennero sempre più distinguendo queste associazioni militanti rispetto al passato sono i finanziamenti e la mobilità.
L’incredibile afflusso di nuove fonti di ricchezza "illegale", congiuntamente all’addestramento fornito da quella formidabile palestra che è stata l’Afghanistan (dagli anni ’80 circa), hanno immesso sul mercato internazionale dei "guerrieri di Dio" cosiddetti arabo-afgani, ceceni, bengali, iraniani, e sciiti, disposti a battersi con professionalità ed esperienza in più di un teatro. Se il bipolarismo ha sovvertito l’ordine tradizionale dei finanziamenti e dell’addestramento, i gruppi militanti - da mercenari professionisti - si stanno ricreando un proprio ordine e mestiere. Si spostano a piccoli gruppi, con rapidità e sincronismo grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, da una base all’altra, mettendo il loro mestiere al servizio di una o altra ideologia di potere. Ma di potere si tratta sempre. Sono molto difficili da controllare; la loro mobilità - unita alla padronanza dei sistemi più sofisticati di comunicazione - ne rende sempre più difficile l’individuazione e l’intercettazione. Ed inoltre - fattore tutt’altro che da trascurare - il fanatismo ne spinge la temerarietà fino a imprese folli, disperate sul piano della razionalità, fonte di orrendi massacri, ove la morte finale del mujahid (il cosiddetto fenomeno dei kamikaze) non è altro che atto supremo di martirio fi sabil Allah, che lo porta direttamente a Dio ("Questo è il jihad, vittoria o martirio!", è il grido di guerra del mujahid palestinese). Si è accennato al caso-Egitto; e si è visto come, dopo il 1981, i gruppi di Jihad siano apparsi in teatri diversi e fra loro geograficamente distanti: l’Afghanistan ha fornito (e ha continuato a fornire), con l’addestramento e l’esperienza, anche fonti cospicue di finanziamento (il mercato della droga) e meravigliose basi operative (fra queste, Peshawar e le impervie vallate delle catene e massicci montuosi del Baluchistan e della NWF, le madraseh (22) ): Ayaman al-Zawàhri, Abu Talàl, Qàsim e tanti altri sono transitati di qui verso lo Yemen, e dallo Yemen al Sudan, per rifluire verso l’Algeria e fin nella ex-Yugoslavia. E viceversa. Del pari, dalla Repubblica Islamica dell’Iran o dalla Turchia (i famosi "Lupi Grigi", prima della loro "conversione" ideologica in vista delle elezioni del 1998, oppure frange di militanza kurda e armena) gruppi di militanza sono affluiti verso i teatri del Medio Oriente o il territorio europeo. Per non parlare delle militanze cecene, ben addestrate in Afghanistan.
L’ideologico per la causa non viene trascurato; il Cairo, Beirut, Islamabad e Lahore continuano a ristampare, e aggiornare con eruditi tafsir (esegesi), le opere di Mawdudi, di Sayyid al-Qutb, di Hasan al-Banná, ma anche quelle di Faràj e di altri fra i più recenti ideologi del neo-fondamentalismo militante, accanto ai testi classici di Ibn Taymiyyah soprattutto (1263-1328), di al-Ghazali (secolo XI) e Ibn Jama ah (1241-1333).
L’operato di questi gruppi e gli obiettivi dichiarati sono in pratica quelli di cui si è parlato sopra. E mettono in crisi le leadership, creando una vera e propria sindrome da successione.
La strategia che queste militanze continuarono ad applicare fu quella della violenza, fisica e psicologica, una vera e propria strategia del terrore. L’obiettivo era - e resta alle soglie del nuovo millennio - quello della destabilizzazione di determinati regimi, se non la loro caduta immediata, con conseguente purificazione di tutti quei settori della società contaminati, oppure ostacolanti l’affermazione dell’Islam vero. E, come si è detto, rientrano, fra gli obiettivi di questa strategia, anche comunità islamiche non considerate "ortodosse", ambienti religiosi filo-governativi, intellettuali, giornalisti e letterati filo-governativi, insegnanti e professionisti considerati filo-governativi, e le donne in generale - considerate "impure" nella loro condotta di vita -, musulmani definiti come "tiepidi", non osservanti, e così via. Un’altra espressione di questo radicalismo è costituita dall’irrigidimento dei costumi in senso "coranico" (velo per la donna, abiti castigati, barba per gli uomini
, niente alcoolici o bevande fermentate, nessuna promiscuità nelle scuole e nelle università, ecc.); si tratta più che altro di fatti simbolici, i quali - nell’ambito di una ideologia particolarmente rigida, conservatrice e fustigatrice (nel senso letterale del termine) di quelle manifestazioni imitate dal costume occidentale - sono considerati a loro volta simbolo di corruzione e devianza; acquistano valenze ben precise, divengono altrettanti simboli di lotta e di auto-identificazione, pretestuosità a interventi radicali in nome anche della dottrina del takfir sociale (23) . Restano una costante i temi anti-occidentali (che si auto-giustificano con l’aggressività, il passato coloniale dell’Occidente, l’emergere della Forza militare statunitense, di cui sono oggi emblema gli attacchi agli scritti di Huntington oppure le affermazioni del tipo "finita la guerra fredda, l’Occidente ha dovuto trovarsi un nuovo nemico, e si è inventato l’Islam"), la critica all’apertura a finanziamenti occidentali, trasferimenti e investimenti esteri; nodo cruciale resta - sopra a tutti - Israele e il processo di pace in Medio Oriente.In questo contesto, e in queste strategie di lotta, l’economico entra con nuova violenza, ma con valenze nuove, profondamente nuove rispetto al passato.
Non è la "giustizia sociale ed economica" delle rivoluzioni degli anni del dopoguerra da Nasser in poi. Il terrorismo è strumento tattico di destabilizzazione, è un’arma anche psicologica. In particolare, le azioni di questi gruppi mirano ad alcuni obiettivi ben precisi, fra cui l’annientamento delle basi economiche dei regimi takfir per annientare il loro potere e la loro autorità; divengono pertanto obiettivi prioritari l’annientamento di infrastrutture economiche (per minare la stabilità economica e la credibilità di stati definiti artificiosità dei supremi interessi occidentali, e non espressione della ummah islamica), il boicottaggio anche violento di politiche di modernizzazione e adeguamento alla comunità mondiale del sistema dei finanziamenti interni ed esteri e del sistema bancario (il sistema bancario è uno dei nodi più spinosi del dibattito dottrinale islamico, data la presenza nel Corano di talune prescrizioni che impediscono il prestito ad interesse e l’azzardo); l’aggressione contro strutture turistiche e gli stessi turisti stranieri - sistema largamente praticato dai gruppi di al-Jihad e dalla Jama‘ah Islamiyyah in Egitto, dove il turismo rappresenta una delle principali voci degli introiti egiziani (ma, al tempo stesso, colpendo il turismo si colpisce anche l’Occidente - sia pure indirettamente - in una delle sue versioni più decadenti).
Merita osservare che, in questa "guerra economica", le vere fonti della ricchezza economica raramente sono obiettivi: pozzi petroliferi, gasdotti e oleodotti, raffinerie e piattaforme off-shore, coltivazioni di oppiacei et similia e relativo manifatturiero; ecc.

2. Per quanto riguarda le minacce provenienti alla sicurezza da parte di eventi non militari, queste non sono affatto da sottovalutare, sia per le conseguenze interne ai singoli Paesi di area islamica sia per i possibili riflessi sulla sicurezza collettiva (Occidente incluso).
Queste possono configurarsi come: (a) indebolimento/rovesciamento del regime al potere, con conseguente vuoto di potere interno e parcellizzazione della regione in un insorgere di conflittualità e micro-conflittualità a sfondo etnico-tribale; (b) indebolimento/rovesciamento del regime al potere, con conseguente andata al potere di quelle opposizioni occidentalizzate sul piano delle tecnologie, ma legate a concezioni teocratico-religiose più conservatrici (le élite del neo-fondamentalismo di cui si è parlato sopra); (c) indebolimento/rovesciamento del regime al potere, con conseguenti flussi migratori (configurabili: i - nella fascia degli expatriates, ossia la tecnologia e i capitali veri e propri, nell’area del Golfo, ad esempio, dove questi rappresentano le strutture portanti dell’economia e finanza locali; ii - masse di profughi disperati); (d) pressione demografica.

• Per quanto riguarda i punti (a) e (b), ossia indebolimento/rovesciamento dell’establishment al potere e conseguente insorgere di conflittualità-microconflittualità etnico-tribali o andata al potere di fasce di opposizione "escluse dal potere" ma occidentalizzate sul piano del sapere tecnologico, questo è un avvenimento sempre in agguato in Paesi la cui statualità si basa su un modello di Autorità "personale" e di poteri derivanti da un ben preciso patto sociale ad personam. La solidità del patto sociale su cui poggia il consenso popolare è garanzia di stabilità; l’alterazione di questi equilibri - decisamente spezzati dal fallimento del modello socialista di democrazia e dalla riorganizzazione dei gruppi militanti - ha minato la stabilità di molte leadership dell’area islamica, provocando una ripresa dei tradizionali individualismi e particolarismi locali a base etnico-culturale e tribale. Su questo stato di insoddisfazione generalizzata, le scelte politico-strategiche delle singole leadership hanno avuto peso determinante per precipitare o salvare il proprio paese dal caos. L’Algeria è un caso estremo, dove il potere dei militari si è confrontato con la società civile in una lotta che ha letteralmente immerso il paese in un bagno di sangue; lo scontro etnico fa da sfondo allo scontro politico-ideologico, e il territorio algerino sembrò trasformarsi nel banco di prova delle attuali militanze islamiche e relative dottrine e strategie. La Giordania era - fino a poco tempo fa - un caso all’estremità opposta. La monarchia hashemita si venne muovendo secondo scelte politiche - e di sicurezza interna ed estera - ben precise: 1) rafforzamento delle forze islamiche moderate, recupero al potere e dialogo con queste forze moderate; sradicamento delle militanze e dei gruppi terroristici; 2) compenetrazione dei vari gruppi etnico-religiosi e dialogo; 3) alleggerimento del problema demografico mediante un’oculata politica di impiego delle risorse umane con particolare riguardo all’istruzione, al potenziamento delle infrastrutture civili (scuole, università, istituti tecnici e scuole superiori, ospedali ecc.), turismo, artigianato e manifatturiero, trasferimenti di tecnologia; controllo della spesa militare e riforma dell’esercito; 4) interventi in materia ambientale-ecologica, soprattutto migliore sfruttamento delle risorse idriche disponibili e potenziamento dell’agricoltura; 5) adeguamento del proprio sistema finanziario-bancario; 6) prosecuzione ad ogni costo sulla via del dialogo per raggiungere - con la pace con Israele - anche l’obiettivo di garanzie internazionali per la propria sicurezza interna ed estera. È interessante evidenziare la netta percezione che la monarchia giordana ha della prospettiva mondiale in termini di globalizzazione delle relazioni, geo-economia, rivoluzione dei media e dell’informatica, centralità di precise e coraggiose scelte strategiche. Non diversamente si mosse la sponda araba del Golfo, facendo tuttavia affidamento per la propria sicurezza sulla forza degli Stati Uniti (24) .

• Per quanto riguarda il punto (c), ossia la minaccia derivante da migrazioni improvvise e superiori a quanto è metabolizzabile, è ovvio che - laddove ciò si è verificato - ha provocato gravi riflessi sia sull’ordine pubblico interno che in direzione di una radicalizzazione della lotta politica interna. Inoltre, come fattore aggiunto, ha contribuito a determinare lo spostamento dello stesso asse politico interno verso nuove forze e verso nuovi poli di aggregazione, con equilibri/squilibri imprevedibili fino alla stessa rimessa in discussione del patto sociale. A ciò si aggiungano i già ricordati disastri provocabili da una massa di "rifugiati" nel contesto di economie già estremamente impoverite e la piaga dei "campi profughi".

• Ed infine, per quanto riguarda il punto (d), ossia il fattore demografico, l’esplosione demografica dell’Islam è un fatto statistico. È, al tempo stesso, una realtà drammatica (25) .Questa realtà, diffusa oggi in tutta l’ecumene islamica, alimenta la povertà, la disoccupazione e rende il terreno particolarmente fertile alla diffusione di ideologie estremiste. A questo va aggiunto il fenomeno della urbanizzazione, un’urbanizzazione selvaggia che sta provocano l’ammassamento di popolazioni in megalopoli ingestibili, dove si vengono determinando condizioni di vita sub-umane, altamente esplosive: l’approvvigionamento idrico, l’apparato igienico-sanitario, l’alimentazione, il rifornimento energetico ecc. sono del tutto carenti. Un siffatto processo di urbanizzazione accresce le difficoltà dello sviluppo, che non riesce a decollare per le troppe carenze in tutti i settori; è causa di tensioni e di disordini in una spirale in continuo e preoccupante crescendo. Di contro, il rurale, emarginato, si spopola; oggi si può dire che, quello che era uno dei settori trainanti dell’economia, è quasi ovunque in crisi, insufficiente a far fronte al fabbisogno interno (per non parlare dell’esportazione). Le periferie, abbandonate, si tornano a rifugiare nella moschea e nel religioso alla ricerca di quei valori, istituzioni e servizi che il centro non è più in grado di offrire. L’esplosione demografica ha pertanto aggravato la drammaticità di situazioni economiche già difficili, creando per converso un numerosissimo sottoproletariato urbano fatto di disoccupati, diseredati e umiliati, e alimentando il fenomeno-sistema dell’emigrazione, quella hijrah considerata un dovere giuridico da parte della comunità musulmana in pericolo.
A questi problemi, di per sé gravissimi, si è aggiunto quel fenomeno degli "esclusi dal potere", di cui si è detto sopra, il fenomeno islamico più inquietante di questo nuovo millennio.
In esso l’Occidente ravvisa il proprio vero nemico, la minaccia reale a ogni ordine e stabilità. E, come circa un secolo prima, appoggiando e legando a sé le leadership al potere ha ritenuto di poterne parare il pericolo. L’ipotesi di un ricambio politico apre nuove incognite, forse ancora più inquietanti: sarebbe possibile e realistico - ed in quale misura - aprire il potere a queste opposizioni, senza riacutizzare il fenomeno islamista? Entro che limiti è possibile scardinare l’ordine tradizionale e forgiare nuovi modelli statuali e sociali etero-referenziali? È un quesito senza risposta, che spaventa e travolge non soltanto le leadership al potere, ma le stesse opposizioni islamiche e la massa che si viene coagulando intorno alle nuove élite.
Come si è detto, il fenomeno degli "esclusi dal potere" è in larga misura il risultato della non gestione delle risorse umane, la conseguenza di scelte politiche di reclutamento in base alle "parentele". Il clientelismo, prassi largamente diffusa in queste società, in passato aveva certamente garantito stabilità e sicurezza a molti regimi, ma, nell’arco di un paio di generazioni, forgiò una formidabile opposizione istruita e formata alla tecnologia dell’Occidente. Si trattava - e si tratta ancora - di una generazione giovane ma senza futuro politico immediato, senza prospettive adeguate alle proprie ambizioni e alla propria cultura. E così l’anello delle opposizioni - alle soglie del nuovo millennio - sembra sul punto di saldarsi nuovamente in una Rivoluzione, il cui pensiero ravvisa nell’Islam non tanto (o soltanto) la fede, quanto quell’insieme di valori etici, politico-sociali ed economici al tempo stesso, in grado di rivitalizzare una società stremata dagli abusi, e consentire alla Ummah una ragionevole via allo sviluppo sulla strada di nuove concezioni statuali senza frontiere, e modelli auto-referenziali. Riecheggiano le parole di al-Qutb, il capo carismatico della Fratellanza Musulmana, che, con la propria vita, pagò la propria coerenza all’ideale:
"Il sistema islamico poggia su due pilastri fondamentali che si ispirano alla sua concezione universale dell’esistenza, della vita e dell’uomo:
(1) l’idea dell’unità dell’uomo nella specie, nella natura e nell’origine;
(2) che l’Islam sia un sistema universale ed eterno per l’avvenire dell’umanità".

Mito, utopia, o realtà?


(1) A. Quadrio Curzio, Il pianeta diviso. Geografia dello sviluppo, il Mulino, Bologna 1993, p. 175.
(2) È emblamatico di questo particolare momento speculativo dell’Occidente il lavoro intellettuale di Pietro Rossi, nello specifico P. Rossi e C.A. Viano (a cura di), Storia della Filosofia - Enciclopedia del Sapere, 6 voll., Laterza, Bari 1993 - 1999 (specif. vol. 6: Il Novecento); non meno significativa è la ristampa critica dell’opera di Max Weber - sempre a cura di Pietro Rossi - vera e propria prolusione ai tempi moderni e soglia del terzo millennio. V. anche di P. Rossi, Verso una storia globale, in "Rivista Storica Italiana", CXIII, pp. 798-816.
(3) Le considerazioni che seguono si basano essenzialmente su letteratura, materiali e documentazione (rapporti ad uso interno, analisi ecc.), gentilmente messi a disposizione dall’I.P.I.S. (Institute for Political and International Studies) di Tehran; dal Pakistan Study Centre dell’Università di Peshawar e dal Centre for Strategic Studies di Islamabad, dall’Islamic Research Institute dell’International Islamic University di Islamabad; dall’Institute for Diplomacy di Amman; dall’Emirate Center for Strategic Studies and Research di Abu Dhabi; e dall’Accademia Nasseriana del Cairo. A tutti va la nostra gratitudine per la disponibilità e collaborazione.
(4) A. Quadrio Curzio, Il pianeta diviso... op. cit., p. 178.
(5) È espressione quanto mai significativa di tutte queste esigenze economico-finanziarie e sistemico-strutturali il GCC First Economic Forum, organizzato a Mascat (Sultanato dell’Oman) il 1-2 Novembre 2002, con la partecipazione di oltre 100 delegazioni da tutto il Mondo. Non meno significativa, è l’iniziativa della Giordania, che il 17-18 Dicembre 2002 ha celebrato con una grandiosa conferenza internazionale "Amman - Capitale araba per il 2002".
(6) Si veda V. Fiorani Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano, rist. Fr. Angeli, Milano 2003.
(7) Circa il "Naserismo" e il socialismo islamico, si rinvia a V. Fiorani Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano cit., capitolo 3.
(8) Si veda in merito V. Fiorani Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano cit., capitolo 1 e bibliografia in riferimento.
(9) Sui Salafiti e la Salafiyyah, vedi V. Fiorani Piacentini, ... in "Per Aspera ad Veritatem". A parte gli scritti di Edward Said, è particolarmente interessante per penetrazione anche filosofico-speculativa lo studio di M. Arkoun, The Unthought in Contemporary Islamic Thought, Saqi Books & The Institute of Ismaili Studies, New York 2002. Cfr. anche Zafar Ishaq Ansari and J. Esposito (eds.), Muslims and the West. Encounter and Dialogue, Islamic Research Institute, Islamabad 2001, è espressione particolarmente significativa sotto il duplice profilo "autori" e "sede di pubblicazione" dell’immagine che il neo-fondamentalismo - come corrente di pensiero letterario-filosofica - dà di se stesso e del confronto con l’Occidente; si tratta di uno studio immediatamente successivo all’11 settembre 2001.
(10) Cfr. ad esempio le parole di Sayyid al-Qutb, Al-‘Adâlah al-ijtimâ‘iyyah fî al-Islâm, 4a ed. Cairo 1954, pp. 90-104, specif. "Il potere politico nell’Islam".
(11) Si veda V. Piacentini Fiorani, Processi di decolonizzazione in Asia e Africa, Pubblicazioni I.S.U. - Università Cattolica, Milano 2000, specif. capitolo 6: "Islam. Analisi dei rischi e possibili riflessi sulla sicurezza mediterranea", pp. 293-354; circa il caso Egitto, v. ibid., pp. 314 sgg.
(12) Cfr. ancora il concetto di Islam ufficiale e Islam parallelo, approfondito in V. Fiorani Piacentini, Islam: Iranian and Saudi Arabian Religious and Geopolitical Competition in Central Asia, in A. Ehteshami, From the Gulf to Central Asia. Players in the new Great Game, Short Run Press, Exeter 1994, pp. 25 - 46. Il volume raccoglie una serie di studi, ancora di piena attualità, da parte di specialisti ed analisti regionali.
(13) Si veda ancora V. Fiorani Piacentini, Asia Centrale: verso un sistema cooperativo di sicurezza, Fr. Angeli, Milano 2000, specif. pp. 197 sgg.
(14) Il linguaggio attingeva ancora in larga misura al linguaggio naseriano, e gli scritti di Mawdudi e al-Qutb venivano ancora largamente citati; l’ideologia di base era ancora quella di IbnTaymiyyah. Tuttavia, le nuove correnti neo-kharigite e neo-mutazilite già facevano prevedere una evoluzione. Oltre ai capi "storici" del secondo dopoguerra (fra cui spicca sempre lo Sheykh Umar Abd el-Rahman), cominciano ad avere un certo seguito personalità come l’ingegnere Muhammad Abd el-Salam Faraj, Abbud al-Zumur, Ayyam al-Zawahiri, Shukri Ahmad Mustafa, Salih Abdallah Sirriyah. Cfr. - fra i molti scritti dell’epoca - Shikata Sayyam, Al- ‘Urf wa al-Kitab al-Dini fi’l-Misr, ed. Il Cairo 1994; ‘Ali ‘Abd al-Raziq, L’Islam et le fondaments du pouvoir, La Découvert-Cedej, Paris-Il Cairo 1994; AA.VV., Munzarat: Misr bayna al-Dawlah al-Diniyyah wa al-Madaniyyah, ed. Al-Dar al-Misriyyah li’l-Nashri wa al-Tawzi, Il Cairo 1992 - in quest’opera sono riportate le relazioni di al-Ghazali, Ma’mun al-Hudaybi, Farah Fawda
h e altri, fra i principali proganisti del vivace dibattito scoppiato nella seconda metà del secolo ventesimo. Sul ruolo di al-Azhar e del movimento di pensiero che fa capo a questa potentissima moschea, v. M. Zeghal, Gardiens de l’Islam. Les oulémas d’al-Azhar dans l’Egypte contemporaine, Paris 1996; Saad Eddin Ibrahim, Islam and Democracy, American University Press, Il Cairo 1996, J.J.G. Jansen, The Dual Nature of Islamic Fundamentalism, Hurst & Co., London 1997. Sono voci, che rientrano anche nel vivace dibattito sollevato in ambito islamico dalle tesi di Huntington "Clash of Civilizations". Il dibattito di quegli anni sulla applicazione della shari ah è ben riassunto nel volume a cura della (ancora) Fondazione Agnelli: AA.VV., Dibattito sulla applicazione della shari‘a, Torino 1995. Si veda, sempre su questo tema, la nutrita produzione di uno studioso statunitense J. Esposito, e le sue voci nella "The Oxford Encyclopaedia of Modern Islam".
(15) Espressione della evoluzione dei tempi fu l’organizzazione nota come Jama‘ah Islamiyyah, comparsa per la prima volta in Egitto come alternativa islamica all’azione di compromesso del Presidente egiziano Sadat (accordi di Camp David e pace separata con Israele). Abdel Razim Ramadan - autore di un ottimo e documentato studio in merito - afferma "the security establishment in Egypt does not recognize this name. Rather, it calls the society the "Jihàd Organization". It is the most important organization among the Islamic societies, which, according to security sources, amount to fourty-four groups" (!): Abdel Razim Ramadan, Fundamentalist Influence in Egypt: The Strategies of the Muslim Brotherhood and the Takfir Groups, in E. Marty Martin and S. Appleby (eds.), Fundamentalism and the State, The University of Chicago Press, Chicago-London 1993. È interessante come osservazione, in quanto indice di una già chiara percezione dell’universalità di questi gruppi, che, soprattutto dopo l’attentato a Sadat,
si proclamarono membri della Tanzim al-Jihad (ossia Organizzazione del Jihad), dopo di che le due sigle Tanzim (Organizzazione) e Jihad cominciarono a ricorrere con frequenza non solo in Egitto, ma divennero comuni a tutte le organizzazioni clandestine, estremiste e militanti che postulano il jihad contro i takfir. Anche per quanto riguarda i membri appartenenti a queste organizzazioni, alcuni personaggi si ritrovano in una o altra formazione di militanza, in periodi diversi. Ciò può dipendere da vari fattori (defezione per motivi ideologici, superstiti di gruppi colpiti dalla repressione delle unità di sicurezza, ecc.); in ogni caso è sintomatico della crescente mobilità della militanza. V. anche il breve ma denso articolo di P. Branca, La Jamâ‘a Islâmiyyah e il suo "discorso" religioso, in M. Petricioli - A. Tonini (eds.), Identità e Appartenenza in Medio Oriente, Firenze-Pontassieve 1998, pp. 187-194. I materiali cui Branca attinge sono gli scritti di Shakir al-Nabulusi, Abdallah al-Misri, e il dossier
"Al-Hala al Diniyyah fi Misr" a cura del Markaz al-Dirasat al-Siyasiyah wa’l-Istratijiyyah (Centro di Studi Politici e Strategici), Il Cairo 1995; ed ancora di P. Branca, Le origini dell’Islam: luci ed ombre di un approccio demitizzante, in "Nuova Rivista Storica", LXXXIII (1999), 3, pp. 605-612 contiene una buona analisi in chiave culturale del neo-fondamentalismo del post-bipolarismo.
(16) Circa le organizzazioni di al-Jihad e le due personalità di al-Zumur e Shukri Ahmad Mustafà si veda V. Fiorani Piacentini, Processi di decolonizzazione in Asia e Africa cit., specif. "gruppi anti-regime" e "gruppi anti-società" pp. 323 sgg. et alia. Va qui ricordato nuovamente come il "Fundamentalist Watch" (newsletter) del 25 marzo 1997 segnali una ripresa di gruppi militanti clandestini nel Basso-Delta nilotico, e un loro riaccorpamento soprattutto ad opera della Tala’i al-Fattàh e della al-Harakat al-Jihad, le quali si sarebbero recentemente fuse insieme come unità combattente egiziana, dopo che le recenti operazioni delle forze di sicurezza ne avevano fortemente indebolite le strutture e la leadership carismatica - con l’arresto dello Sheykh ‘Umar ‘Abd el-Rahman. Sempre le stesse fonti segnalano divisioni interne al gruppo-madre di al-Jihàd, e, soprattutto, un crescente dissenso nei confronti della leadership di Ayman al-Zawahri, che avrebbe contribuito all’indebolimeno di quel gruppo e al
convergere di molti aderenti alle due organizzazioni madri (al-Jama ‘ah al-Islamiyyah e al-Jihad) verso nuove formazioni. Si vedano anche le due note precedenti.
(17) Sull’argomento si vedano anche distinzioni dottrinali in merito, a cura di Giuseppina Ligios.
(18) Fard ‘ayn, ossia dovere individuale. Si tratta, come precedentemente specificato, di uno dei doveri che i Musulmani devono compiere, il jihad, qualora il territorio dell’Islam venga attaccato dall’esterno o minacciato nella sua integrità (fisica e morale). La "personalità" del dovere obbliga ogni musulmano a partecipare attivamente al jihad, a prescindere dal sesso, dall’età, dalla condizione sociale ecc., con qualsiasi mezzo egli abbia a disposizione. Fard kifayah, ossia dovere collettivo, è l’obbligo dei credenti di adempiere al jihad collettivamente, ossia limitatamente a quelle categorie di persone che la shari ah ritiene abili al jihad. La politica conflittuale degli Stati Uniti e della "sua provincia periferica, Israele e il Sionismo in generale", nonché l’aggressione di Mosca nei confronti della Cecenia, sono considerate entrambe minaccia e aggressione al Dar al-Islam.
(19) Sayyid al-Qutb, Al-‘Adalah al-ijtima‘iyyah fi al-Islam, 4ª ed. Cairo 1954, pp. 90-104, specif. "Il potere politico nell’Islam".
(20) Secondo alcuni la dottrina del takfir così intesa sarebbe sorta come reazione alla repressione dei movimenti islamici da parte di altri sedicenti musulmani: Y. al-Qardawi, Al-Sahwah al-Islamiyyah bayna al-Juhud wa’l-Tatarruf, Il Cairo-Beirut s.d., trad. inglese Islamic Awakening between Rejection and Extremism, International Institute of Islamic Thought, Herndon, Virginia 1995. Cfr. anche J.J.G. Jansen, The Dual Nature of Islamic Fundamentalism, cit.
(21) La bibliografia in tema è sterminata, tende a colpire l’immaginario collettivo ed è di difficile analisi e valutazione. Pertanto ci si limita a rinviare in proposito ai numerosissimi siti web, di facile reperimento "navigando". Materiali più "sensibili" sono alcuni studi di Vittorfranco Pisano, il recentissimo Massimo Franco, Polvere di spie. Intelligence, misteri ed errori nella caccia a Bin Laden, Fr. Angeli 2002; R.Toscano, Terrorismo: breve storia di un dibattito ambiguo. Cfr. anche M. Nones, J. Pierre Darnis, G. Gasparini, S. Silvestri (a cura di), La dimensione spaziale della politica europea di sicurezza e difesa, IAI Quaderni, Roma 2002, in cui gli AA. sottolineano la de-territorializzazione delle minacce - in proporzione alla de-territorializzazione della conflittualità anche terroristica. Organo italiano aggiornato e documentato è questa Rivista,"Per Aspera ad Veritatem" - Rivista di Intelligence e di Cultura Professionale, Roma.
(22) Nello specifico, è interessante lo studio Pakistan: Madrasas, Extremism and the Military, del 29 luglio 2002, a cura del International Crisis Group-Asia Report n. 36, Islamabad/Brussels 2002.
(23) Si veda sopra a proposito del pensiero di Abbud al-Zumur e Shukri Ahmad Mustafà.
(24) Si veda in merito Fiorani Piacentini V. (a cura di), Il Golfo nel XXI secolo. Nuove forme di conflittualità, Il Mulino, Bologna 2002, e relativo repertorio bibliografico e siti web.
(25) I dati ufficiali di cui si dispone sono dati dalle Nazioni Unite e le tabelle relative danno stime decisamente allarmanti e di gran lunga al di sopra del livello di guardia. Viceversa, talune stime ufficiali dell’area-sud - ridimensionando le tabelle ONU - riducono i dati a cifre decisamente inattendibili. Sull’argomento si è svolto recentemente un convegno presso la Fondazione Edoardo Agnelli di Torino (Marzo 1998).

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