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Per Aspera Ad Veritatem n.25
La NATO e il terrorismo

Giuseppe CUCCHI


Vi è un punto che deve essere completamente chiarito prima che si possa iniziare a parlare di Alleanza Atlantica e di lotta al terrorismo. Consiste nel fatto che la NATO non è stata concepita, e di conseguenza strutturata, per quel tipo di missione. I suoi compiti erano diversi. In primo luogo vi era quello di difendere il territorio nonché gli spazi aerei e marittimi degli stati membri. Negli anni novanta all’impegno originario si era poi affiancato anche quello della gestione delle crisi, e quindi peace keeping, peace enforcing e nation building, specie in quei Balcani che risultavano così vicini e così strettamente collegati all’Europa occidentale da innescare la paura di un “effetto domino”. Nonostante la sua sostanziale estraneità al fenomeno, con un guizzo di preveggenza la NATO aveva comunque pensato bene di inserire il terrorismo fra i rischi emergenti – cioè quelli destinati ad imporsi all’attenzione a media ed a lunga scadenza – previsti dall’articolo 24 del “Nuovo Concetto Strategicoo” approvato a Washington nel millenovecentonovantanove in occasione del vertice del cinquantenario della Alleanza. Non era però riuscita ad andare più in là, cioè non aveva neanche iniziato ad adattare compiti, dottrine, strutture ed organici ad un cambiamento la cui dinamicità e pericolosità erano stati drammaticamente sottovalutati da tutto il mondo. La NATO dell’11 settembre 2001 è quindi una NATO del tutto impreparata e parzialmente inadatta a far fronte alla nuova sfida. L’unica reazione efficace che è alla sua portata è quella sul piano politico ed in effetti è proprio su quel piano che essa si esprimerà con la massima efficacia all’inizio della crisi facendosi interprete di una solidarietà atlantica tanto forte da riuscire a scattare pressoché con immediatezza. Per l’ambito militare dell’Alleanza l’attentato alle Torri Gemelle costituisce invece l’innesco di un vasto piano di revisione che appare subito destinato a non risparmiare alcun settore. Si tratta, in sostanza, di modificare la NATO in maniera tale che essa possa recuperare attualità ed efficacia orientandosi verso compiti che non dimentichino del tutto il passato ma fra i quali la lotta al terrorismo, specie quello che potrebbe un giorno riuscire a disporre di armi di distruzione di massa per le proprie azioni, appare destinata ad assumere valore predominante e priorità pressoché assoluta. E’ infatti esattamente in questo senso che vanno tutte le decisioni politiche assunte dall’Alleanza dall’11 settembre in poi. La conclusione del trattato firmato con la Russia a Pratica di Mare consente infatti di considerare definitivamente concluso il periodo bipolare e di procedere di conseguenza, al Vertice di Praga, ad un allargamento che sino a poco tempo fa avrebbe trovato sulla sua strada l’ostacolo di una feroce ostilità russa. Nonché ad eliminare gli elementi della struttura di comando e delle forze che risultavano del tutto superati perché concepiti in funzione di uno scontro oriente-occidente. La gestione delle crisi continua, specie nei Balcani, ma godendo di una priorità nell’allocazione degli uomini e delle risorse molto inferiore a quella di cui usufruiva nel recente passato. Fa capolino inoltre l’idea che a media scadenza le funzioni di gestione delle crisi possano essere assunte dall’Unione Europea che oltretutto, disponendo di una panoplia di strumenti di intervento più differenziata di quella della NATO, può forse operare con una maggiore flessibilità. Infine vi è, sempre nell’ambito del medesimo Vertice, tutta una serie di decisioni che riguardano in maniera esplicita l’impostazione della lotta al terrorismo. Su di esse si tornerà in dettaglio nel prosieguo di questo articolo. Il cambiamento dell’Alleanza è quindi ora del tutto impostato. Dovrà però trascorrere parecchio tempo prima che quanto è stato di recente oggetto del consenso politico possa trasformarsi in realtà sul terreno. L’unico cambiamento di portata paragonabile attraverso cui è passata la NATO, quello successivo alla caduta del Muro di Berlino, ha comportato infatti un periodo di adattamento della durata di ben cinque anni. Questo non significa, in ogni caso, che per un lustro l’Alleanza rimarrà del tutto fuori gioco, totalmente incapace di reagire in qualsiasi maniera ad altre eventuali offensive terroristiche. Vuole invece semplicemente dire che la sua potenzialità nei riguardi del particolare compito – una potenzialità che già esiste ed è già considerevole – continuerà progressivamente a crescere fino a divenire ottimale verso il 2006. Ammesso e non concesso, ovviamente, che altri sobbalzi della storia non la costringano a proiettarsi in differenti direzioni verso l’assunzione di diversi, inediti compiti. In ogni caso c’è un ultimo punto che merita di essere sottolineato. Consiste nel fatto che, per quanto la sua idoneità a reagire ad atti terroristici del livello dell’attacco alle Torri Gemelle rimanga per il momento parziale e ridotta, l’Alleanza rimane pur sempre per i suoi membri europei l’unico possibile strumento di reazione in caso di un attacco che investa questa volta non gli USA ma qualche obiettivo di qua dell’Oceano. Noi non disponiamo infatti della possibilità di azione autonoma propria degli Stati Uniti, ed anche le più rosee previsioni relative allo sviluppo di una Identità Europea di Sicurezza e Difesa rimangono confinate entro i ristrettissimi limiti delle missioni di pace tipo Petersberg. La NATO risulta quindi per noi ancora più insostituibile di prima. Teniamocela dunque cara.
Quando l’attacco di Al Qaida colpì il Pentagono e le Torri Gemelle per l’Alleanza Atlantica la sorpresa fu completa. Oltretutto il colpo fu sferrato in un momento particolare – la seconda settimana del mese di settembre – in cui la routine NATO prevedeva che l’intero vertice militare fosse assente dalla sede di Bruxelles, impegnato in una serie di riunioni e di visite dirette ogni anno, a turno, verso due dei paesi membri. Nel duemila e uno il viaggio del Comitato Militare coinvolgeva prima l’Italia poi l’Ungheria ed il caso fece sì che la notizia dell’attentato pervenisse ai diciannove Capi di Stato Maggiore dei paesi, ai due Comandanti Strategici (SACEUR e SACLANT, entrambi americani), al Direttore dello Stato Maggiore Internazionale, ai Rappresentanti Permanenti Militari nazionali ed al loro Chairman, l’Ammiraglio italiano Venturoni, nel momento in cui si trovavano in volo fra Napoli e Budapest. Alle comprensibili difficoltà di un simile momento si sommarono quindi anche quelle connesse con le comunicazioni terra bordo terra. La prima riunione del Comitato Militare dopo l’attentato ebbe poi luogo a Budapest, in un salone dell’hotel Hilton. I Capi di Stato maggiore si limitarono in tale occasione a prendere atto dell’accaduto, ad esprimere la loro piena ed incondizionata solidarietà al paese aggredito ed a decidere di rientrare immediatamente nelle sedi stanziali. I tempi tecnici necessari per fare affluire i mezzi per il ritorno furono comunque tali che gli europei rientrarono in patria soltanto nella tardissima serata dell’undici, mentre americani e canadesi giungevano oltre oceano nella mattinata del dodici. L’assenza del Comitato Militare da Bruxelles, se da un lato sottolineò impietosamente ed in maniera incontrovertibile la sorpresa subita dalla Alleanza, dall’altro però non incise affatto sulla efficacia e rapidità della sua reazione. In assenza dei titolari, ed in pieno accordo con quel vecchio e fondamentale principio militare secondo cui tutti sono utili ma nessuno deve risultare indispensabile, il posto degli assenti venne automaticamente preso dai vice che subentrarono senza alcuna soluzione di continuità, adottando con immediatezza tutte le misure indispensabili per elevare al limite necessario il livello di allarme della Alleanza. Pressoché con immediatezza reagì anche il massimo organo politico della NATO, il North Atlantic Council, che si riunì prima nella serata dell’undici per esprimere corale solidarietà agli Stati Uniti, poi nella giornata del dodici per dichiarare, dopo febbrili consultazioni degli Ambasciatori con le rispettive capitali, che l’aggressione rientrava nel caso previsto dall’Art. 5 del Trattato, a condizione che Washington potesse fornire la prova che si trattava di una aggressione proveniente dall’esterno del territorio statunitense. Prova, anzi prove, che vennero puntualmente fornite pochissimi giorni dopo allorché i rappresentanti americani si presentarono davanti al Consiglio documentando dettagliatamente il coinvolgimento di Al Qaida nell’accaduto. Dichiarare che l’attentato rientrava fra i casi regolati dall’articolo 5 e non fra quelli che ricadevano sotto il disposto del molto più blando articolo 4 costituì da parte dei 19 stati membri dell’Alleanza una precisa scelta politica. Tutti si rendevano infatti ben conto di come, da un punto di vista puramente giuridico, il combinato disposto del Trattato e del “Concetto strategico” portasse ad individuare l’articolo 4 e non l’articolo 5 come quello tecnicamente più rispondente alla fattispecie. La cosiddetta “dichiarazione dell’articolo 5” conferiva però alla reazione comune uno straordinario impatto e vigore, spianando altresì la strada ad ogni possibile tipo di azione, individuale e/o collettiva. Anche se la decisione maturò “per consenso”, come del resto sempre avviene nell’ambito del Consiglio Atlantico, vi fu tuttavia qualche esitazione da superare. Il BENELUX, in particolare, si chiese per qualche tempo se non sarebbe stato più opportuno decidere per l’applicazione dell’articolo 4 e soltanto in un secondo momento si lasciò trascinare dell’onda di piena degli altri paesi. Così per la prima volta dalla fondazione la NATO si trovò ad applicare l’articolo che costituisce la pietra di volta del suo Trattato in quanto sancisce come una aggressione diretta dall’esterno verso uno dei paesi membri sia da considerarsi quale una aggressione a tutti e diciannove. Poiché la storia è sempre piena di ironia tale articolo, che era stato concepito nell’idea di coinvolgere gli Stati Uniti nella difesa della Europa, venne invece applicato per coinvolgere l’Europa nella difesa degli States. Cosa che forse avrebbe fatto sorridere i padri fondatori della Alleanza!
La dichiarazione dell’articolo 5 non implicava però che la NATO fosse, e si sentisse, pronta per il nuovo tipo di guerra che si prospettava. Per parafrasare quanto dichiarato più tardi dal Segretario americano alla Difesa, Rumsfeld, essa non era infatti affatto la migliore coalizione possibile per la specifica situazione. Nata per difendere i territori nazionali e ristrutturata a fondo per far fronte anche alla gestione delle crisi essa avrebbe avuto infatti bisogno di ulteriori radicali cambiamenti per inserire anche la lotta al terrorismo nella panoplia delle sue capacità. Ciononostante almeno nei giorni immediatamente successivi alla decisione del dodici settembre l’Alleanza si illuse di poter recitare la parte del primo attore nell’ambito della possibile reazione di cui si iniziava a discutere. E ciò benché sin dal primo momento gli Stati Uniti fossero risultati adamantini nel dichiarare che avrebbero adottato, fra le varie soluzioni possibili, quella valutata come la più efficace dal punto di vista militare. Allorché decise di colpire l’Afghanistan, il rogue state che ospitava sul proprio territorio la struttura di vertice di Al Qaida, il Presidente Bush si orientò così verso l’ipotesi di una coalizione stellare che conferiva assoluta centralità al Comando americano di Tampa, si basava su una serie di accordi bilaterali con tutti quei paesi amici il cui contributo altamente specializzato era ritenuto utile in qualche settore particolare e riservava altresì all’Alleanza un piccolo ruolo, prevalentemente aeronavale. La decisione innescò nella NATO una vera e propria crisi di identità, scatenando nel contempo in impietosi commenti molti commentatori. In rapida sequenza si parlò della inutilità della NATO nel secolo dell’impero americano, si accennò all’insofferenza degli Stati Uniti per una organizzazione in cui le decisioni strategiche ed operative dovevano passare attraverso il lungo e farraginoso meccanismo del consenso, si premette l’acceleratore sul grande divario di capacità che separa gli americani dai loro alleati europei. Come sempre le succede nei momenti di bassa marea la NATO seppe però reagire con rapidità ed efficacia, a dimostrazione di come la flessibilità rimanga una delle sue qualità migliori. Le richieste avanzate dagli Stati Uniti furono immediatamente soddisfatte, mentre l’Alleanza si accontentava di essere presente là dove richiesta senza tentare di imporsi in altri settori. Nel frattempo, sotto l’impulso dei diciannove paesi, il NAC ed il Comitato Militare, lo Stato Maggiore Internazionale ed i Comandi Strategici iniziarono a porsi il problema di come dovesse cambiare l’Alleanza per posizionarsi in un nuovo mondo ove il terrorismo si imponeva quale la peggiore e la più immanente delle minacce. Il primo problema da affrontare fu chiaramente quello della razionalizzazione di una intelligence che la NATO non aveva mai posseduto in proprio, ma che era sempre dipesa dalla buona volontà degli stati membri. Un processo che è tuttora in atto e ben lontano da un ottimale punto di arrivo –
per conseguire il quale occorrerebbero risorse umane e finanziarie di cui l’Alleanza non dispone – ma che ci ha tuttavia già portato a compiere considerevoli passi avanti, soprattutto nel settore del coordinamento delle varie strutture nazionali. Si presentò inoltre anche il problema di riuscire ad inquadrare il terrorismo con esattezza, definendolo in ogni suo aspetto ed espressione, in maniera tale che in caso di necessità risultasse immediatamente chiaro se una organizzazione rientrava o meno nel novero delle organizzazioni terroristiche internazionali ed un atto in quello degli atti terroristici. La discussione del tema in ambito Consiglio Atlantico risultò estremamente interessante, anche se non si riuscì a realizzare un consenso altro che sulla definizione di atto terroristico. Non ci si accordò invece né sulla definizione di terrorismo né sulla compilazione di un preciso elenco di quelle che potevano essere considerate come organizzazioni terroristiche internazionali. In questo secondo caso la disputa finì col concentrarsi sul terrorismo palestinese e su quello curdo e non fu possibile fare altro che prendere atto delle forti differenze di vedute che esistevano in questo settore fra gli stati membri dell’Alleanza. Si riscontrò parimenti un’altra differenza fra USA ed Europa, almeno potenzialmente foriera di possibili futuri gravi dissidi, nella identificazione precisa dei rogue states. Gli Stati Uniti insistettero infatti nel cercare di imporre il loro abituale elenco di cinque nomi, di cui tre (Iran, Iraq e Corea del Nord) erano stati inseriti addirittura nel “Discorso sullo Stato dell’Unione” del 2001, mentre gli ultimi due (Siria e Libia) citati invece unicamente nell’ambito della più recente “Nuclear posture review”. Tentativo cui l’Europa reagì con notevole freddezza, anche se le posizioni dei singoli paesi risultarono molto sfumate fra loro ed oltretutto aperte all’ipotesi di possibili variazioni future. La discussione fece infine emergere anche una importante differenza nella valutazione della possibilità di attacchi terroristici condotti utilizzando armi di distruzione di massa. Per gli USA infatti essi risultavano più o meno inevitabili ed immanenti. Il problema connesso era quindi soltanto un problema di “quando?” Per gli europei l’ipotesi rimaneva invece molto aleatoria, configurandosi quindi ancora unicamente in termini di “se”. Differenza che può aiutare a comprendere come le reazioni dell’Europa e degli USA nel settore dell’incremento dei rispettivi bilanci della difesa rimangano ancora sostanzialmente divergenti. Gli organismi di vertice (NAC e Comitato Militare) riscontrarono altresì la completa assenza di una dottrina relativa alla lotta al terrorismo. Fu quindi conferito mandato ai due comandi strategici ed allo Stato Maggiore Internazionale di elaborare un “Concetto per la lotta al terrorismo” che, una volta superato l’ostacolo dell’approvazione in ambito strutturale, fu poi definitivamente confermato dai Capi di Stato e di Governo riuniti in occasione del vertice di Praga. Si provvide anche a dotare il Quartiere Generale NATO di alcune strutture più o meno sperimentali che consentissero di espandere la potenzialità dell’Alleanza nel settore della difesa contro le armi di distruzione di massa. Le cinque iniziative, che furono poi confermate anche esse a Praga, coprivano tutto l’ambito NBC con particolare attenzione al biologico ed al chimico.
Il cuore della revisione consisté comunque nel riesame della struttura dei comandi e delle forze della Alleanza. Processo estremamente complesso, in quanto già in atto da tempo e già costellato da rivalità, tensioni e problemi parziali irrisolti. Soprattutto dopo la firma del trattato di definitiva normalizzazione con la Russia, esso finì però col ridursi progressivamente alla propria essenza. Si mirò quindi a dotare l’Alleanza di una struttura più snella, più flessibile e capace di rispondere in tempi molto più brevi di quanto non avvenisse in passato. Ciò comportò la valorizzazione del concetto di Combined Joint Task Forces, i comandi internazionali interforze e modulari proiettabili pressoché con immediatezza, con la conseguente decisione di costituirne due, di cui uno basato a terra e l’altro imbarcato. Venne altresì confermata la necessità di disporre degli otto comandi di reazione rapida a livello Corpo d’Armata (High Readiness Headquarters) che gli stati membri avevano posto da tempo a disposizione dell’Alleanza ma su cui, prima dell’11 settembre, erano esistiti dubbi ed esitazioni. In alcuni punti sulla necessità collettiva di rivedere a fondo la struttura di comando si innestarono anche necessità nazionali, spesso con buon esito. Il desiderio statunitense di affidare il controllo del territorio USA ad un Comandante che non fosse gravato anche dal cappello NATO portò così a mutare sostanzialmente i compiti del Comando Strategico per l’Atlantico, trasformandolo da operativo a funzionale ed affidandolo transitoriamente alle cure del Deputy SACLANT, un ammiraglio inglese. Provvedimento che si conciliò molto bene con lo stato dei nuovi rapporti NATO-Russia e con l’idea che una grande battaglia aeronavale che avesse come teatro l’Oceano Atlantico non fosse più concepibile.
Nel settore della riforma delle forze i provvedimenti adottati furono due. Il primo consisté nella decisione di dar vita ad una forza di Reazione Rapida NATO che fosse interforze e che comprendesse circa 21 mila uomini dotati di mezzi adeguati e per la maggior parte forniti dai membri europei della Alleanza. Il fatto che l’iniziativa per la sua costituzione fosse partita dagli Stati Uniti che l’avevano poi costantemente sostenuta, interpretato come un chiaro esempio della volontà americana di impedire che il gap di capacità già esistente fra i due lati dell’Atlantico si allargasse ulteriormente. Al medesimo fine fu anche indirizzato il cosiddetto impegno di Praga sulle capacità (Prague Capabilities Committment) che concentrò quel minimo di risorse extra che i paesi europei sarebbero riusciti a destinare all’ammodernamento dei materiali sino al 2005 sugli otto settori di intervento che apparivano i più importanti ed i più urgenti in vista della lotta al terrorismo. Si corresse così l’errore che era stato fatto al vertice di Washington, quando la Defense Capabilities Initiative aveva scriteriatamente diluito la disponibilità su più di cinquanta settori di intervento. E per di più senza fissare né una lista né alcun criterio di priorità.
Come già indicato in precedenza i provvedimenti assunti nel corso di questi undici mesi hanno sostanzialmente mutato la natura della Alleanza, senza però riuscire a risolvere integralmente i problemi che in questo momento la travagliano. Due di essi, in particolare, appaiono importanti, delicati ed urgenti. Il primo è quello che riguarda il rapporto transatlantico che l’Alleanza personifica e che rimarrà vivo e vitale producendo frutti soltanto sino a quando lo scollamento fra le due parti dell’oceano – sia esso politico o militare – rimarrà contenuto entro precisi ed accettabili limiti. Il secondo, che si innesta sul primo, consiste nel rapporto fra la NATO e l’Unione Europea, due organizzazioni che sono per molti versi fra loro complementari mentre per altri possono risultare competitive. Da considerare però come, mentre la complementarità ed un sano livello di occasionale puntuale competizione potrebbero rinforzarci ed arricchirci, un livello di competitività esasperato ci costringerebbe invece a disperdere attenzione e risorse. In quel caso non avremmo nessun bisogno di identificare e combattere i nostri nemici esterni: saremmo noi i peggiori nemici di noi stessi!Il tempo intercorso fra la chiusura di questo articolo ed il momento della sua pubblicazione rende indispensabile un brevissimo aggiornamento che dia conto di quanto avvenuto in questo ultimo periodo e del modo in cui l’azione intrapresa dagli Stati Uniti nei riguardi dell’Iraq si sia ripercossa tanto sulla Nato quanto sull’Unione Europea, nonché sulla relazione transatlantica di cui entrambe sono espressione. La suddivisione dell’Occidente in due campi nettamente schierati l’uno dal lato della guerra, l’altro per il rifiuto della violenza armata e la ricerca di soluzioni differenti ma che comunque consentano di conseguire i medesimi risultati, ha infatti innescato una gravissima crisi interna al sistema evidenziando come il rapporto fra i due opposti lati dell’Oceano necessiti oggi di una radicale revisione. Ci troviamo cioè di fronte ad un momento di scelte estremamente importanti, tali addirittura da condizionare integralmente il nostro futuro. Da più parti si sostiene in questo momento la necessità di “ricucire” non soltanto i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Europa ma altresì quelli fra i due schieramenti fra loro contrapposti che si sono delineati in seno all’Unione Europea. Ogni ricucitura risulterebbe però inutile qualora si trattasse di operazione unicamente di facciata, diretta a calmare le apprensioni di opinioni pubbliche disorientate ed impaurite e non ad affrontare e risolvere il problema reale che ora ci si pone. Come già accennato in chiusura dell’articolo è chiaro infatti a tutti come ora la scelta reale da effettuare sia quella tra le tre forme che potrebbe assumere in futuro il rapporto transatlantico. L’Unione Europea potrebbe, in primo luogo, risultare pressoché totalmente dipendente dagli Stati Uniti per quanto concerne la sua azione nel settore della sicurezza e della difesa. Un condizionamento estremamente pesante che di sicuro inciderebbe anche sulla nostra autonomia politica internazionale ma che in compenso ci consentirebbe di continuare a limitare spese ed investimenti del settore nonché di godere in pieno della copertura offerta dal grande alleato USA. Occorre sottolineare da un lato come Washington appaia in questo momento disponibile ad accettare di buon grado soltanto questa soluzione, dall’altro come essa risulti chiaramente la preferita della gran massa dei paesi dell’Est europeo destinati a breve scadenza ad esserecooptati a titolo pieno nel nostro sistema. Un’altra soluzione possibile sarebbe poi quella di contrapposizione fra le due parti, secondo modi e schemi purtroppo già evidenziatisi in questo ultimo agitato periodo. Si tratta di un punto di arrivo che probabilmente nessuno degli interessati auspica. Esso finirebbe però col rivelarsi non evitabile qualora il prosieguo degli avvenimenti dovesse evidenziare una permanente divergenza nel valore conferito dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti a temi di interesse fondamentale quali l’uso della forza militare e/o il rispetto della legalità internazionale. L’ultima soluzione disponibile infine è quella che appare come la più sana e la più equilibrata, e che come tale era già stata indicata in chiusura dell’articolo. Essa prevede infatti una collaborazione fra i due partners che pur rimanendo costante non sia assolutamente priva di quella occasionale, sana dialettica che è il vero motore di ogni progresso. È chiaro comunque come per poter cooperare su un piano di
parità con gli Stati Uniti l’Unione Europea debba rapidamente crescere in alcuni settori, primi fra tutti quello politico, in cui a dire il vero molte cose si stanno già muovendo in questo periodo, e quello della sicurezza/difesa, che è invece ancora immobile anche se percorso da parecchi fermenti interessanti.
Pur nella comune, condivisa consapevolezza del fatto che questa ultima soluzione costituisce il punto di arrivo maggiormente auspicabile, non è però purtroppo affatto sicuro che essa risulterà alla fine la prescelta. I tempi che stiamo vivendo sono infatti tempi particolarmente difficili, di quelli in cui ogni scelta è motivata anche da passioni che affiancandosi alla ragione rischiano a volte di forzarla sino a distorcerla. Lo sforzo diretto a “ricucire” il rapporto transatlantico prima che sia troppo tardi non deve quindi conoscere un solo attimo di sosta. In tale prospettiva è veramente un bene chel’Italia - che in seno alla Unione Europea ed alla NATO ha sempre seguito una sua vocazione di composizione e mediazione - sia incaricata dal prossimo mese di luglio del semestre di presidenza europeo.
Al medesimo tempo una grande responsabilità ed una grande occasione!



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