A partire dagli eventi dell’undici settembre 2001, il tema del terrorismo internazionale, principalmente di matrice islamica radicale, è stato al centro delle preoccupazioni di molti governi e oggetto di analisi di ogni tipo. L’arco di tempo trascorso, d’altro canto, ha consentito di mettere a fuoco una sorta di nuova geopolitica della rete terroristica, i cui elementi identificativi, a ben vedere, si erano già manifestati prima dell’undici settembre. Ricordiamo in proposito gli attentati di New York del 1993, ma soprattutto gli attacchi alle Ambasciate USA in Kenya e Tanzania e l’attentato di Aden nell’ottobre 2000, contro la nave da guerra USS Cole. Il dopo undici settembre ha in qualche modo reso ancora più palese tale nuova geopolitica del terrorismo, ove solo si pensi al disastroso attentato di Bali, che ancora una volta ha richiamato una preoccupata attenzione sulla situazione nel sud est asiatico, al recente attacco perpetrato ai danni di una struttura alberghiera in Kenya, nonché al tentativo di abbattimento di un aereo di linea israeliano nel medesimo paese. Ci si trova in altre parole di fronte ad un’organizzazione a rete che dispone in alcune parti del mondo di veri e propri punti di forza. Quali sono, a Suo modo di vedere, gli elementi più interessanti sui quali riflettere in relazione a questa nuova geopolitica del terrorismo, con particolare riferimento al ruolo esercitato dai governi legittimi?
Pellicani - Subito dopo l’attentato dell’11 settembre, uno dei consiglieri del Presidente Bush dichiarò: “Sarà una guerra che durerà molti anni poiché dietro i terroristi c’è un’Idea”. In effetti, la cosa più importante e decisiva della sfida lanciata da Osama bin Laden è che essa si inserisce in quella che nel 1990 – quindi alcuni anni prima che Samuel Huntington elaborasse la sua teoria dello “scontro di civiltà” – descrissi, in un saggio pubblicato su “Mondoperaio”, come la “guerra culturale fra l’Occidente e l’Islam”. Il terrorismo non è che l’espressione più violenta, radicale e devastante della rivolta fondamentalista contro la secolarizzazione che da alcuni decenni sta attraversando il mondo islamico. Una rivolta che si basa sull’opposizione fra la Fede e la miscredenza. La Fede (islamica) aspira a instaurare il “Governo di Dio” su tutta quanta l’umanità conducendo una guerra planetaria contro il materialismo, l’ateismo e il culto idolatrico della ragione e del denaro, dunque contro la civiltà moderna, rea di aver voltato le spalle a Dio e alla sua Legge, la cui massima espressione politico-militare è il Paese che Khomeyini chiamava il Grande Satana: l’America. Quella in atto, pertanto, non è solo una guerra asimmetrica; è anche una guerra ideologica, più precisamente una guerra di religione, le cui radici risalgono alla costruzione ideologica dei Fratelli Musulmani, l’associazione fondata nel 1928 dall’egiziano Bannah con il preciso scopo di restaurare la piena vigenza della Sharia nel Dar al-Islam per poi condurre la Guerra Santa contro l’Occidente.
Nirenstein - In effetti, i bersagli principali di questo nuovo terrorismo, definibile come “catastrofico”, sono l’Occidente, la cultura occidentale e tutto ciò che impedisce al mondo, secondo il disegno che Bin Laden ha dichiarato più volte di voler realizzare, di diventare un califfato. Negli anni novanta questo concetto si è diffuso ed è diventato col tempo un’ideologia che ha reso gli americani e Israele i primi obiettivi da colpire. Non perché l’Europa non sia nel mirino. Esistono tuttavia alcune ragioni pragmatiche per cui l’Europa, in un certo senso, è da considerare “in lista d’attesa”. Queste ragioni sono da rintracciarsi nell’intera storia del mondo arabo che ha sempre cercato, in tutte le sue battaglie, un alleato nel mondo occidentale, trovandolo prima nel nazismo e nel fascismo e successivamente nel comunismo. Adesso sembra essere arrivato il turno dell’Europa. Si è trattato di un’alleanza molto profonda, durata parecchi anni, che poi si è spezzata sulle sconfitte prima dei regimi nazisti e poi di quelli comunisti: per i paesi arabi è stata un’autentica delusione. In questa fase il mondo arabo cerca nuovamente di appoggiarsi a qualcuno che, almeno momentaneamente, fornisca un appoggio morale e garantisca, anche se certo non di sua volontà, un’opportunità logistica in cui trovare spazi, attrezzarsi, organizzarsi. Ma l’Europa è un obiettivo quanto lo sono gli Stati Uniti e Israele.
Non è affatto vero che gli Stati Uniti siano nel mirino perché difendono Israele, è piuttosto vero il contrario. Israele è vissuto dall’Islam come una punta di Occidente infilata nel mezzo di un mondo diverso e, in quanto tale, considerato l’avamposto di una cultura e di un mondo da distruggere per poter arrivare alla costruzione del califfato mondiale. È perché Israele è considerato un estraneo, un paese occidentale che fin dalla sua fondazione, nel 1948, si è sempre opposto a qualunque accordo.
Dopo l’undici settembre, si sono verificati numerosi attentati in diverse parti del mondo. Ma lo stato d’Israele, proprio per la sua posizione geopolitica, oltre che per il conflitto con i palestinesi, è di gran lunga il luogo più colpito da questo terrorismo “catastrofico”, lo stesso che ha colpito le Twin Towers. È un terrorismo che ha colpito ovunque, che è in larghissima misura di matrice estremista islamica e che ultimamente ha assunto tratti propriamente antiebraici.
La mondializzazione del terrorismo antiebraico non si è manifestata soltanto in Kenya, ma anche in Francia, in Inghilterra, in Germania, dove hanno avuto luogo numerosi attentati ai simboli ebraici e agli ebrei come persone. Il terrorismo antiebraico ha un carattere genocida: esso, infatti, prende di mira un intero popolo negando, a lui solo, l’esistenza come nazione autodeterminata e colpendo in maniera specifica le famiglie.
Pedde - La lunga e sanguinosa lista di attentati che ha preceduto e seguito i tragici fatti dell’undici settembre è chiaramente l’espressione di un disegno criminale pianificato ed attuato secondo un modello di nuovo stampo.
L’apice di questa rete criminale – nella sostanza l’organizzazione Al Qaeda di Osama Bin Laden – costituisce con ogni probabilità solo l’elemento visibile e palese di una struttura ben più complessa ed articolata. Una struttura che, con certezza, non avrebbe potuto svilupparsi e determinare una così grande capacità operativa senza l’attivo e concreto supporto logistico e finanziario, palese od occulto, di uno o più governi.
La nuova rete del terrorismo, però, conosce anche con estrema precisione quali siano i limiti dell’accesso al sostegno da parte di governi legittimi o di organizzazioni transnazionali e valuta con estrema attenzione anche il rischio rappresentato dal sempre più attivo ruolo dell’intelligence internazionale.
Il supporto palese e diretto da parte di un governo o di un Paese al terrorismo è una questione complessa. Se, entro una certa misura, era possibile un tempo potersi dichiarare “a favore”, o comunque “vicini”, ai gruppi terroristici che colpivano interessi israeliani od occidentali in genere, appoggiandoli con ogni probabilità più verbalmente che concretamente, oggi una politica di tal fatta comporterebbe quasi certamente un intervento diretto ed armato degli Stati Uniti.
Prima dell’undici settembre, in una condizione sul piano internazionale di tensione e moderata instabilità – seppur costante – non era raro poter individuare paesi che offrivano apertamente supporto logistico ed economico a diversi gruppi terroristici o, comunque, ad organizzazioni armate operanti in diverse aree del pianeta. L’attività in questa direzione della Libia, della Siria, dell’Iraq, dell’Iran, dell’Afghanistan e di molti altri paesi ancora, non era certo occulta, tuttavia nulla ancora aveva determinato una modificazione ed una frattura così profonda come i tragici fatti dell’undici settembre.
Non era un mistero peraltro che diversi influenti membri della famiglia reale e della classe politica dell’Arabia Saudita, baluardo filo-americano nella regione sino a dieci anni prima, fossero in diretto contatto con lo stesso Osama Bin Laden seguendolo nel peregrinare dei suoi spostamenti sino all’Afghanistan.
Ciononostante, l’attività di alcuni governi in favore delle reti del terrorismo non ha incontrato particolari ostacoli, con una risposta da parte dei paesi occidentali che, in buona sostanza, si è tradotta solo nelle sporadiche azioni degli Stati Uniti successivamente agli attentati in Kenya e Tanzania ed in una più concreta attività di intelligence spesso, però, limitata al solo ambito continentale europeo od americano.
Margelletti - Condivido molte delle osservazioni finora formulate. Mi pare di poter aggiungere che la struttura del terrorismo di matrice mediorientale è sostanzialmente cambiata negli ultimi anni.
Nel ventennio settanta-novanta, la principale tipologia di minaccia proveniente da quell’area è stata sicuramente di matrice palestinese, sostanzialmente laica, con alcuni gruppi che abbracciavano la dottrina marxista leninista.
Il punto di svolta per la stabilità dell’area avviene nel 1979 con la rivoluzione islamica in Iran.
L’azione rivoluzionaria trae spunto all’epoca dalle azioni svolte contro il Governo dello Scià da parte del Partito Comunista Iraniano TUDEH. Successivamente diviene vessillo delle donne, degli studenti universitari e dei “baazari”, i motori dell’economia locale.
La nazione islamica iraniana produsse un’onda che scosse sin dalle fondamenta le nazioni musulmane.
Tra il capitalismo occidentale e il panarabismo socialista appariva praticabile una terza via, quella islamica, che avrebbe portato conforto e dato voce alle frange meno abbienti e dimenticate.
La rivoluzione islamica in Iran e la successiva invasione sovietica dell’Afghanistan produssero in altre parole un movimento di pensiero e di massa pari al nasserismo degli anni cinquanta.
Con gli anni ottanta assistiamo insomma ad un cambiamento radicale degli equilibri in Medio Oriente. I Governi arabi dovettero iniziare a fare i conti con una opposizione interna che spingeva verso la presa del potere e verso un radicale cambiamento delle leadership.
Afghanistan, Sudan, Bosnia, Libano, Indonesia e Arabia Saudita sono solo alcuni degli avamposti dai quali partire per propagandare un “Islam possibile”.
Nel contempo, é sempre più evidente in che misura la politica statunitense in Medio Oriente sia percepita come particolarmente “invasiva” dai nuovi seguaci radicali. La presenza statunitense nei Paesi arabi diviene il feticcio da combattere, attorno al quale coalizzarsi, anche tra diversi.
In questo contesto va interpretata l’alleanza stipulata, sotto i buoni uffici del sudanese Al Turabi, tra sciiti e sunniti.
Al Qaeda nasce proprio da questo: da un malessere di un Islam un tempo amico – ed in alcuni casi suddito – dell’Occidente, che si diffonde anche tra le classi maggiormente abbienti.
Al Qaeda non rappresenta certamente una struttura statica, ma piuttosto si trasforma a seguito dei mutamenti dello scenario interno ed internazionale.
L’organizzazione attuale è molto probabilmente il risultato di almeno tre metamorfosi verificatesi nel corso degli anni.
La “prima” Al Qaeda era rappresentata dal nucleo del MEK, una specie di organizzazione non governativa nata allo scopo di combattere i sovietici in Afghanistan, fondato da Bin Laden e dallo Sceicco Azzam.
“La Base” evolve poi nel corso degli anni in un gruppo il cui nucleo centrale è formato da appartenenti all’estremismo religioso egiziano.
A seguito dell’Operazione “Enduring Freedom”, Al Qaeda subisce un nuovo cambiamento, divenendo una struttura multinazionale e spostando il suo principale asse di interesse dall’area del Golfo al supporto all’Islam in diverse parti del mondo.
Un dato interessante è sicuramente fornito dall’appoggio di alcune componenti delle case reali arabe alla causa di Bin Laden.
Tra le diverse ragioni che hanno fatto acutizzare la crisi Usa-Iraq vi è certamente quella dell’erosione del consenso che gli USA hanno avuto in Arabia Saudita.
Dal 1991 ad oggi vi è stata un’inversione di tendenza nell’appoggio, da parte delle Nazioni del Golfo, agli Stati Uniti. Da fedeli alleati, oggi questi paesi sono molto più probabilmente “riottosi compagni di viaggio”.
La stessa struttura dei Governi della penisola arabica, fragili monarchie spesso impegnate in accese dispute sulla successione al regno, ha permesso che nel largo novero degli appartenenti alla casa regnante si creassero “isole di consenso” nei confronti dei fondamentalisti.
Per questa ragione, al di là della cattura di Osama Bin Laden, gli USA dovranno “combattere” nel mondo islamico, per ottenere di nuovo quei favori, e quella capacità di influenza, che sino a pochi anni fa erano alla portata di ogni Amministrazione americana.
Pedde - Le organizzazioni terroristiche, però, avevano con certezza previsto una reazione imponente da parte degli Stati Uniti e dell’Occidente, con la conseguente necessità di non poter più contare su un diretto, costante e palese appoggio da parte di alcuni Stati sovrani. Avevano certamente valutato, quindi, di poter continuare ad operare anche in assenza di tale concreto, ma non totalmente essenziale, supporto.
La rete del terrorismo aveva pianificato per tempo il suo progetto operativo, creando progressivamente le basi per una indipendenza ed una autonomia che, con ogni probabilità, doveva potersi concretizzare più sul territorio “del nemico” che non sul facile bersaglio degli “Stati canaglia”. È così, quindi, che possiamo identificare una struttura di vertice – ma anche operativa – largamente attiva in Europa e negli Stati Uniti ed impegnata in un complesso network di attività che, dal reperimento delle risorse economiche all’addestramento degli uomini, si serve dell’Occidente come base logistica e come sorgente finanziaria.
Siamo dinanzi ad una struttura assai efficiente e capace che ha saputo creare il suo potere economico, logistico e mediatico attraverso quello che al tempo stesso rappresenta il punto di forza e di debolezza delle moderne democrazie occidentali: il sistema globalizzato.
I dirigenti ed i quadri di questo terrorismo internazionale che, è bene precisarlo, non è certo quello dell’Intifada palestinese o degli scontri di piazza in Medio Oriente, hanno saputo sviluppare nel corso di poco più di un decennio una struttura ed un modus operandi assai sofisticati e flessibili.
Alla mera dimostrazione di forza legata all’esasperata azione del singolo o del gruppo, hanno sostituito una compatta, pianificata e rigenerabile struttura operativa capace di autoalimentarsi e garantire un costante flusso finanziario e di “manodopera” dispiegabile in breve tempo, e con successo, in ogni luogo dove l’interesse degli Stati Uniti e dell’Occidente in genere sia attacabile.
Tutto ciò, senza entrare nel merito di come operativamente i gruppi d’azione siano fisicamente organizzati, è supportato da una massiccia ed imponente struttura logistica largamente distribuita fisicamente in Europa e negli Stati Uniti, capace spesso, nella più assoluta trasparenza e legalità, di gestire operazioni di sostegno finanziario, e non solo, a favore dei gruppi operanti in tutto il mondo. Proprio quest’ultimo aspetto mi pare particolarmente significativo.
La gestione di ingenti patrimoni riconducibili ad alcuni tra i più attivi sostenitori di uomini ed organizzazioni del terrorismo internazionale, unitamente alla massiccia presenza nel mondo finanziario ed economico in genere di cittadini di Stati considerati come “sospetti” garantisce, grazie all’assoluta trasparenza delle operazioni condotte ed alla altrettanto assoluta onestà e limpidezza dell’operato della gran parte degli individui fisicamente coinvolti, un margine di successo non ostacolabile in alcun modo e capace, soprattutto, di generare legalmente flussi finanziari ingenti.
In altre parole, sfruttando il moderno sistema del mercato globalizzato e le sue logiche, il terrorismo internazionale è in grado di potersi alimentare e rigenerare con una progressione pressoché inarrestabile. Ben sapendo che il determinarsi di una frattura nell’economia e nella politica internazionale tale da poter generare una vera e propria distinzione tra il sistema occidentale e quello del “resto del mondo” è fisicamente impossibile – pena la fine del sistema economico che oggi conosciamo – le attività di sostegno alle reti terroristiche possono annoverare come unico ostacolo solo l’azione dell’intelligence nella ricerca e nella mappatura della complessa rete di operazioni e transazioni a monte delle operazioni di finanziamento illecito.
In sintesi, la mia opinione è che al supporto – spesso peraltro assai blando – di alcuni governi legittimi, le organizzazioni terroristiche hanno sostituito o quantomeno affiancato una ben più articolata e pericolosa architettura economico-finanziaria concentrata sulla “produzione di servizi” in aree virtualmente protette quali gli stati occidentali stessi. Appare quindi evidente come l’attività di contrasto all’operato di tali organizzazioni dovrà concentrarsi secondo uno schema reticolare in una pluralità di ambiti dove, con ogni probabilità, il teatro di operazioni potrà coincidere sempre più spesso con quello dei nostri stessi confini.
Trova conferma in questo primo giro di opinioni l’idea che ci troviamo di fronte ad un’organizzazione a rete, che conduce una vera e propria guerra sullo scenario globale. Tuttavia, le radici profonde della questione islamica affondano principalmente nella realtà dei paesi arabi. Non si può non tener conto, in proposito, che conflitti e alleanze sul teatro del Golfo ruotano storicamente anche intorno alla “questione petrolio”. Il tema delle fonti energetiche e dell’acqua emerge con tutta la sua forza anche in altre parti del mondo. Ad esempio, nelle repubbliche dell’Asia centrale, in cui la presenza islamica gioca un ruolo di primo piano, ed anche all’interno della Federazione russa, dove costituisce un ulteriore fattore di conflittualità, come dimostra il caso ceceno. Qual è la sua opinione sulla rilevanza della questione delle fonti energetiche nei nuovi scenari di conflitto?
Pedde - Sulle cosiddette “guerre del petrolio” è opportuno fare chiarezza partendo dai fondamentali dell’energia e dall’analisi di ciò che accadde nel 1973, anno in cui i paesi occidentali si trovarono per la prima volta a dover fronteggiare una concreta e potenzialmente pericolosa politica condotta dai paesi produttori di petrolio.
Quello che comunemente viene chiamato lo “shock petrolifero” del 1973 è un episodio legato più all’inizio di una modificazione nelle relazioni tra paesi produttori e paesi consumatori che non ad elementi di immediata e impellente criticità nel mercato petrolifero.
Riassumendo in modo assai sintetico gli avvenimenti di quei giorni possiamo ricordare come in un momento di difficoltà strutturale del sistema energetico degli Stati Uniti e dei paesi europei – condizioni peraltro cicliche in questo mercato – si inserì un tentativo di profonda modificazione di quello che sino ad allora era stato il tradizionale rapporto di fornitura tra paesi produttori e consumatori. I paesi aderenti all’OPEC ritennero fosse maturo il momento per una più aggressiva azione sui mercati energetici mondiali, agendo sulla leva dei prezzi ed ingenuamente considerando l’evidente e reale condizione di quasi monopolio in cui operavano come irreversibile.
Le reazioni dei paesi consumatori, però, nell’arco di un decennio riuscirono a sovvertire diametralmente la struttura del mercato, mandando in produzione le sicure ma onerose riserve nazionali ed obbligando, in sintesi, i paesi produttori (e soprattutto l’OPEC) a trincerarsi entro i limiti di una posizione difensiva che, senza particolari modificazioni sino ad oggi, li ha visti trasformarsi da attori incontrastati del mercato a “swing producers”, e quindi calmieratori del mercato.
Quello che viene definito “shock energetico”, quindi, non ha dato luogo – come molti ritengono – ad una sostanziale interruzione di flusso sui mercati ma solo ad una sua profonda modificazione e, in sintesi, ad una restaurazione del controllo occidentale sul mercato stesso.
Ciononostante le leggende ed i luoghi comuni sul sistema della produzione e del consumo di idrocarburi non si sono esaurite, dando luogo anzi ad un vero e proprio genere che ancor oggi riesce ad influenzare in modo notevole l’opinione pubblica mondiale.
Il mercato odierno dell’energia è sostanzialmente stabile. I principali elementi di variazione nell’arco dell’ultimo decennio sono stati rappresentati dall’ingresso di nuovi attori nel mercato globale (come la Russia e le repubbliche centrasiatiche) e da una profonda revisione dei piani di lungo periodo da parte delle moderne economie occidentali. Questo, però, senza intaccare in modo sostanziale il mercato nella sua struttura e, soprattutto, nelle sue logiche di funzionamento.
Verso la metà degli anni settanta iniziarono a circolare con sempre maggiore frequenza allarmanti dati circa un prossimo esaurimento delle risorse di petrolio nel mondo, con il traguardo dell’anno 2000 quale “data ultima” entro cui poter sviluppare sistemi alternativi e svincolarsi quindi dal prezioso ma scarso oro nero.
A tre anni dalla fatidica scadenza possiamo valutare oggi, dati alla mano, la consistenza delle riserve accertate e stimate del pianeta come sufficienti a soddisfare i crescenti tassi di consumo mondiale ben oltre l’intervallo temporale dei prossimi trent’anni.
Al progredire delle tecnologie di ricerca e di estrazione degli idrocarburi, il tasso di recupero dei giacimenti è stato incrementato notevolmente, con una crescita delle risorse accertate e stimate di oltre il 40% rispetto alla valutazione degli anni settanta.
Il progresso nelle tecnologie di settore, però, non è un dato valutabile esclusivamente ex post. Potevamo ipotizzarne il ruolo negli anni Settanta e ne possiamo senza dubbio considerare la portata anche per il futuro, concludendo che l’informazione di settore tende a perseguire obiettivi assai spesso più destinati all’orientamento dell’opinione pubblica che non alla reale divulgazione dei meri dati quantitativi.
Un episodio eclatante in tale direzione è, ad esempio, quello relativo alle potenzialità del Mar Caspio, dove alle promettenti – ed artificiosamente elaborate – prospettive di un eldorado petrolifero alla portata dei mercati occidentali si è sostituita nell’arco di un decennio una ben più ragionata e moderata politica di considerazione cui si è accompagnata una altrettanto modesta reale attività di produzione.
Questi dati ci permettono di considerare la duplice natura del sistema. Da una parte la reale dimensione del mercato, sia in termini di produzione che di consumo. Dall’altro la valenza politica di tale mercato, con le sue molteplici ripercussioni sull’opinione pubblica e sulla determinazione degli equilibri regionali e globali.
Partendo da queste considerazioni la valutazione della rilevanza energetica nel contesto della crisi irachena può essere letta alla luce di un duplice ordine di fattori.
Da un lato, il mero rapporto tra domanda ed offerta nel mercato – unitamente alle dinamiche complessive del settore – tende ad escludere una rilevanza primaria del fattore energetico. Dall’altro, sono presenti ragioni di ordine economico e politico che rendono l’accesso alle risorse petrolifere irachene come assolutamente imprescindibili.
Nirenstein - Io non sono tra coloro che pensano che il conflitto Stati Uniti - Iraq sia dettato da oscuri disegni di dominazione delle fonti di petrolio. In generale, non penso che gli Stati Uniti abbiano alcun disegno imperialista. Questa idea mi sembra una vera sciocchezza. Per gli Stati Uniti la questione delle compagnie petrolifere è molto meno centrale di quello che il mondo crede o fa finta di credere, è certo molto meno centrale che non per la Francia, con il suo odierno atteggiamento “pacifista”. Al contrario, Washington ha in questi ultimi dieci anni adottato sempre decisioni che non tenevano in gran conto i propri interessi in campo petrolifero. È il caso, ad esempio, delle sanzioni unilaterali imposte a paesi come l’Iran e la Libia, o l’Iraq stesso. L’Iran-Libia Sanction Act viene sempre rinnovato dal Congresso con un voto favorevole molto consistente, credo che solo sei senatori vi si oppongano. Tale atto, recentemente rinnovato, è sempre stato contro gli interessi della lobby delle compagnie
internazionali. Non credo affatto che le compagnie petrolifere americane siano particolarmente interessate ad assistere al rovesciamento del governo di Saddam Hussein da parte degli Stati Uniti. Questa è una visione da XIX secolo. È un’idea cospiratoria, anticolonialista, che assume che l’unico modo in cui le compagnie petrolifere americane possano registrare profitti sia attraverso la presenza delle truppe americane. Le compagnie internazionali non sono, tra l’altro, solo americane. Gli americani infatti non sono i primi in questo commercio, bensì preceduti, se non sbaglio, dagli inglesi. Esse sono molto più interessate ad un gioco depoliticizzato sul petrolio, all’adozione di decisioni di investimento guidate esclusivamente dal business. Anche l’idea che la famiglia Bush sia fortemente legata ai baroni del petrolio del Texas è uno stereotipo che non ha a che fare con la guerra all’Iraq, non c’è una sola prova di tutto questo. In realtà, il vero danno al mondo intero è che attualmente la situazione è sotto il controllo esclusivo di Saddam Hussein il quale, nonostante le sanzioni, utilizza i grandissimi guadagni derivanti dal petrolio per la costruzione di armi di distruzione di massa.
Sarà un bene per tutti quando un Iraq con un governo diverso potrà vendere al mondo il suo petrolio senza passaggi “sottobanco” a prezzi di mercato. Oggi, infatti, esso produce solo due milioni e mezzo di barili al giorno, forse anche meno, pari al 3% della produzione mondiale. Detiene invece riserve gigantesche di petrolio. Sarebbe, quindi, molto utile poter finalmente mettere in circolazione, naturalmente attraverso una trasparente gestione irachena del petrolio, questa immensa energia inutilizzata. Ma ciò non può accadere che in un’era post Saddam, in cui l’Iraq che, come sostengono gli esperti, ne ha tutto il potenziale, può diventare uno dei maggiori produttori di petrolio e rimettere in moto il commercio internazionale facendone in tal modo beneficiare anche la sua popolazione, oggi ridotta alla fame dalla dittatura vigente.
Pedde - Teniamo presente, però, che l’accesso alle risorse non comporta obbligatoriamente la necessità della sua messa in produzione, come peraltro storicamente già avvenuto in Iraq nell’intervallo tra le due guerre mondiali quando inglesi ed americani, al fine di non saturare il mercato, decisero di puntare con maggiore intensità sulle risorse saudite da un lato e quelle iraniane dall’altro e ponendo l’Iraq in un relativo “congelamento”.
In questo momento è necessario avere presenti le condizioni dei due principali mercati di consumo del pianeta, gli Stati Uniti e l’Europa, per poter comprendere gli scenari di lungo periodo e le necessità connesse alla stabilità delle aree di produzione.
Da un lato, infatti, gli Stati Uniti sono un paese fortemente condizionato da un mix energetico impostato sostanzialmente su petrolio e carbone, con una altrettanto evidente esposizione geografica per l’approvvigionamento in direzione di una ristretta rosa di fornitori che, oltre alla produzione nazionale, contribuiscono a soddisfare le esigenze del consumo interno. In particolar modo l’area del Golfo Persico, il Centro ed il Sud America costituiscono le aree primarie dell’input petrolifero degli Stati Uniti, con minacciose possibilità di degenerazione nelle relazioni soprattutto in Arabia Saudita ed in Venezuela.
Dall’altro, invece, l’Europa gode di una condizione complessiva del mercato energetico connotata da un mix locale ben più diversificato, sia in termini di fonte di energia che di aree di provenienza, dove al petrolio si viene progressivamente ad affiancare in modo cospicuo il gas naturale, soprattutto per la generazione dell’energia elettrica.
Mentre per il mercato europeo, quindi, permangono condizioni generali di accesso e sicurezza accettabili, per gli Stati Uniti si impone la necessità di disporre di aree sorgente relativamente stabili sotto il profilo politico per un intervallo temporale medio/lungo. E ciò anche in funzione di una necessaria revisione del proprio sistema complessivo del mercato energetico che, con ogni probabilità, sarà impostato più in direzione di fonti di energia alternative che non di una diversificazione del mix energetico di base.
Per tale ragione, quindi, l’interesse degli Stati Uniti non è quello di un controllo del mercato in funzione del mero profitto derivante dalla produzione di petrolio, bensì quello della stabilità delle aree di produzione in funzione della determinazione di condizioni stabili per una trasformazione industriale di lungo periodo assolutamente imprescindibile per il paese.
Pellicani - Non credo possa ragionevolmente prescindere dalla considerazione che, questa è la mia opinione, a rendere ancor più preoccupante la guerra asimmetrica che i fondamentalisti stanno conducendo sia contro l’Occidente che contro quelli che essi chiamano “governi apostati” – vale a dire i governi che, pur dichiarandosi musulmani, in realtà si sono allontanati dalla Sharia e sono scesi a patti con il Grande Satana – c’è la questione del petrolio, risorsa energetica al tempo stesso vitale e scarsa. Ma, a giudicare da quanto gli esperti in materia ci dicono, l’energia del prossimo futuro sarà l’idrogeno; sicché è ragionevole pensare che, entro un paio di decenni, il petrolio cesserà di essere una risorsa di vitale importanza per le società industriali avanzate. Eppure, non credo che ciò porrà fine alla guerra di religione che il fondamentalismo islamico ha dichiarato. La teoria dell’aggressione culturale, elaborata da Toynbee nel suo opus magnum, A Study of History, ci dice che i popoli del Dar al-Islam vivono la presenza dell’Occidente come una minaccia permanente alla loro identità spirituale.
Questo dato di per sé marginalizza la rilevanza della questione petrolifera. Tali popolazioni, in realtà, si sentono come assediate da una civiltà atea e pagana e ciò fornisce ai fondamentalisti un ampio e ricettivo uditorio e ai jihadisti un bacino di reclutamento di tali dimensioni da indurre a pensare che la guerra asimmetrica durerà anni e anni. I dati forniti da Magdi Allam corroborano ampiamente l’opinione dei pessimisti e confutano quella di Gilles Kepel, secondo cui il fondamentalismo islamico è entrato in una fase preagonica.
Margelletti - In verità, ritengo che il petrolio sia è sempre stato un elemento inscindibile nella chiave di interpretazione di tutti i conflitti – o anche più semplicemente delle crisi – nell’area del Golfo Persico.
Dai primi anni Settanta ad oggi, soprattutto ad opera della stampa, è prosperata una copiosa letteratura di settore fatta anche di una terminologia efficace e di grande impatto, cui dobbiamo in larga parte termini e concetti in parte già richiamati come “shock energetico”, “guerra del petrolio”, “impennate dei prezzi”, e così via.
Ciononostante, quando parliamo di energia, è bene tenere distinta l’emotività giornalistica dalla realtà dei fatti, spesso meno affascinante ma anche meno preoccupante rispetto al cupo scenario presentato da trent’anni a questa parte agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
Senza entrare in questa sede nel merito di una disamina storica circa l’effettiva valenza del petrolio nella determinazione dei processi di crisi degli ultimi anni, e concentrando invece l’attenzione sulla questione irachena, è opportuno fare delle precisazioni preliminari che considero di grande importanza.
Le condizioni complessive del mercato sono oggi connotate da una pluralità di fattori che, al di là della temporanea – e peraltro consueta – crescita del prezzo al barile, non presenta fattori di evidente criticità.
Il rapporto tra domanda ed offerta di idrocarburi nel mondo non vede oggi i consumatori in una posizione di evidente soggezione nei confronti dei produttori, con flussi di greggio decisamente equilibrati a garantire il fabbisogno mondiale.
L’aumento del prezzo del petrolio è in questo momento condizionato maggiormente – soprattutto per quanto concerne il mercato americano – dalla crisi del Venezuela e dagli scioperi che in questo paese hanno drasticamente ridotto la produzione, nonché dai dati relativi alle scorte. L’incertezza della crisi irachena ha un ruolo solo ed esclusivamente in un segmento del mercato energetico e non è in questo momento un elemento atto a determinare crisi di settore di qualsiasi portata.
I dati sulla produzione OPEC, unitamente alle valutazioni del DOE statunitense, delle agenzie europee ed anche alla nostra Unione Petrolifera, concordano nell’affermare che gli output produttivi attuali sono decisamente sufficienti ad assorbire anche una eventuale interruzione della produzione irachena – peraltro assestata, almeno ufficialmente, intorno ai 2-2.5 milioni di barili al giorno – confermando sostanzialmente al mercato ciò che gli analisti energetici affermano già da tempo: non ci sono reali preoccupazioni, allo stato, per l’andamento e la sicurezza del mercato energetico.
Parlando dell’Iraq, non possiamo in alcun modo sottrarci dal considerare questi elementi nella valutazione della rilevanza energetica della crisi.
In modo particolare, possiamo affermare che la rilevanza del petrolio nel caso specifico è un elemento correlato, e di lungo periodo, per l’interesse strategico degli Stati Uniti.
Ciò di cui gli USA hanno maggiore bisogno in questo momento non è una nuova sorgente di produzione da cui attingere milioni e milioni di barili al giorno – con tutte le perplessità, peraltro, circa l’effetto sul mercato in un circostanza di tal fatta – bensì un sistema di controllo in chiave stabilizzatrice sulle principali aree di produzione del pianeta. Su questo punto concordo pienamente con quanto affermato da Pedde.
A chi vede, quindi, gli Stati Uniti come spregiudicati speculatori di settore, è bene ricordare che i piani di lungo periodo prevedono invece proprio una serie di politiche atte a garantire la stabilità dei mercati e, in buona sostanza, il mantenimento dello status quo nel consolidato sistema complessivo della produzione.
L’obiettivo, quindi, sotto il profilo energetico non è quello di sfruttare “imperialisticamente” l’Iraq ad uso e consumo dell’Occidente, bensì quello di determinare nell’area condizioni di equilibrio e stabilità – anche attraverso l’uso della forza – per garantire la crescita e la sicurezza del regolare flusso di approvvigionamenti energetici nel rispetto del tradizionale e consolidato rapporto tra le parti.
Per gli Stati Uniti, vorrei ancora meglio chiarire, è necessario impedire che nella regione si determinino le condizioni per lo sviluppo e la crescita di un sistema anti-occidentale, ed anti-americano in particolare, determinando l’emergere di politiche di contrasto agli USA che, nel caso peggiore, potrebbero portare allo “scontro economico” tra produttori e consumatori.
Condizione peraltro già verificatasi, anche se su basi differenti, nel 1973 ed alla quale fece seguito una corposa strategia di contromosse occidentali che, nell’arco di un decennio, ristabilirono le regole del gioco e, soprattutto, l’egemonia del mercato occidentale su quello della produzione.
La politica degli Stati Uniti, non è quell’irrazionale e guerrafondaio atteggiamento che alla gran parte dell’opinione pubblica è dato di vedere. È una politica estremamente delicata e calibrata di pianificazione per l’assetto delle economie internazionali tesa, almeno in linea di principio, a garantire la continuità e la stabilità dell’odierno sistema politico ed economico mondiale.
Pedde - Desidero aggiungere, concludendo questo interessante giro di opinioni che, in questo complesso scenario, non devono essere dimenticati gli interessi della Russia e delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale che, di contro, con la produzione di petrolio e gas naturale auspicano di poter risanare, o quantomeno migliorare, bilanci storicamente deficitari e destinati con ogni probabilità ad un progressivo peggioramento nell’arco di un decennio.
Gli interessi di queste aree, quindi, sono marcatamente di breve periodo e, almeno nelle intenzioni, destinati a produrre volumi di greggio e gas in direzione di mercati – come nel caso della Turchia – saturi e scarsamente ricettivi. Né è nell’immediato ipotizzabile una diversa ubicazione geografica delle aree di destinazione, con i paesi del levante asiatico potenzialmente idonei alla ricezione ma con economie sì in pieno sviluppo ma ancora non così mature per una radicale trasformazione in direzione di un massiccio accesso degli idrocarburi.
Gli interessi della Russia e dell’Asia centrale, pertanto, sono al contempo in conflitto con quelli dell’OPEC, impegnato nella produzione di quote calmiere e preoccupato dall’aumento dei volumi di greggio in commercio e non sotto il suo diretto controllo, e degli Stati Uniti, i quali rimangono comunque tra i primi e più importanti produttori di petrolio al mondo e che peraltro non gradiscono per il futuro un ruolo rilevante della Russia nella produzione e soprattutto nel controllo delle direttrici di trasporto del petrolio e del gas naturale in Asia centrale e nell’Est europeo.
Delicati equilibri internazionali sono anche legati all'assunzione di posizioni di primo piano, si rammenti il caso dell'Algeria, da parte di forze politiche di massa di ispirazione islamica. L'attualità non può che condurci alla questione della Turchia. Senza richiamare temi abbondantemente approfonditi, quali il rapporto con l'Europa o le caratteristiche del Partito islamico recentemente vittorioso alle elezioni turche, qualche curiosità può destare, in una prospettiva futura, il peso di questo Paese sullo scenario mediorientale. Ciò anche riferendosi alla possibilità, presa in esame da più di un osservatore, che Israele ambisca ad esercitare in quell'area un ruolo di potenza regionale. Qual è il suo punto di vista in proposito?
Pellicani - L'importanza della Turchia nell'attuale quadro geopolitico non sarà mai sufficientemente sottolineata. La Repubblica turca è l'unico Stato del Dar al-Islam che si dichiara rigorosamente laico. Essa è rimasta fedele all'idea di base del suo fondatore il grande Kemal Ataturk. Il quale agì col preciso scopo di inserire il popolo turco nella civiltà moderna. L'Occidente, pertanto, non può permettersi di "perdere" la Turchia: significherebbe regalarla ai fondamentalisti e, quindi, rafforzare il "Partito di Allah". La Turchia può diventare un modello per i popoli islamici, dimostrando che la Modernità non è incompatibile con la Fede: esse possono coesistere, purché la Fede non pretenda di farsi Stato. Insomma, il problema fondamentale è la separazione, tipica della Città secolare, fra il potere temporale e il potere spirituale, fra lo Stato e la religione. Lo Stato laico non dichiara guerra alla religione; proclama la libertà religiosa e considera la religione una faccenda privata. E · torno a ripeterlo · la Turchia è l'unico Paese del Dar al-Islam che ha adottato istituzioni politiche rigorosamente laiche. Guai, se il suo esperimento dovesse fallire. Confermerebbe la tesi di quanti ritengono che ci sia una incompatibilità organica fra l'Islam e la Modernità.
Nirenstein - Anch'io ritengo che la Turchia sia un attore fondamentale. Bisogna sperare che il fatto che le elezioni abbiano portato al potere un partito islamico non faccia deflettere questo paese dalla sua ispirazione originaria, che è completamente diversa da quella di tutti gli altri paesi. La Turchia è un paese molto meritevole in quanto ha saputo mantenere un livello decente di democrazia, seppure con molti problemi. È un paese in cui "una testa" vale un voto e i governi si alternano. Trovo che sia meraviglioso che ciò accada in un'area in cui, invece, i dittatori hanno una durata infinita e scelgono la propria successione. La Turchia, invece, sulla memoria e sulla scia di Kemal Ataturk ha saputo mantenere buoni rapporti con l'Occidente e, anzi, aspira ad entrare in un'Europa ingrata nei suoi confronti.
Pedde - Non posso che associarmi alle valutazioni circa l'importanza strategica e politica storicamente rivestita dalla Turchia, in buona sostanza "ponte" tra Europa, Mediterraneo, Asia Centrale e Medio Oriente.
La posizione della Turchia é ben definita dal termine squisitamente geopolitico di pivot, fulcro di una molteplicità di interessi ma, al tempo stesso, di potenziali rischi.
L'odierna Turchia è il prodotto di una trasformazione politica, sociale ed economica iniziata sotto la guida del già ricordato Presidente Ataturk che a tutt'oggi io considero rimasta probabilmente incompiuta sotto il profilo della laicità dello Stato. Sono vere le affermazioni di Pellicani, ma gli osservatori registrano spinte sempre più evidenti in direzione di una islamizzazione della politica e dei costumi con il crescere contestuale della rilevanza "dell'anima religiosa" nel contesto politico.
È vero d'altro canto che l'elemento religioso non ha mai avuto orientamenti di tipo marcatamente radicale, con una connotazione altamente esplicativa di quello che storicamente viene definito l'Islam moderato. Un Islam propenso al dialogo ed allo sviluppo di relazioni con l'esterno ma pur sempre fortemente radicato alla propria tradizione ed al proprio retaggio culturale e poco incline alla presenza di elementi esogeni al proprio ambito. Un Islam, quindi, che tende ad essere percepito dall'esterno come radicale quando esprime il proprio disagio ma che, in effetti, si sostanzia in una mera e semplice presa di posizione per la difesa di valori e tradizioni che, in generale, vengono riconosciuti e condivisi unanimemente in seno alla popolazione.
La Turchia è, peraltro, un paese dalla forte tradizione mercantile e con un passato di grande potenza commerciale sui mari e sulla terra, con una consolidata propensione alle relazioni con l'esterno. Si tratta di un paese storicamente proiettato in direzione dell'Europa e dell'Occidente, pienamente consapevole della propria particolare collocazione geoeconomica ed, anzi, da tempo ansioso di poter rafforzare tale legame con l'ingresso in contesti sovranazionali quali l'Unione Europea che, di certo, consentirebbero al paese una notevole crescita economica e l'accesso diretto ai mercati del continente.
Un'opinione molto diffusa mette in relazione un futuro ingresso nell'Unione Europea della Turchia con la possibile conseguenza positiva di attenuare fortemente la potenzialità eversiva del movimento islamico radicale.
Nirenstein - Sono pienamente d'accordo con questa tesi. Spero moltissimo che la Turchia sia più ascoltata, abbia più spazi e che questo la aiuti a mantenere la sua democrazia. Quanto alla sua importanza nella zona, questa è fondamentale e il suo rapporto con Israele è un gioiello nel cuore di una zona caratterizzata da antagonismo, da invidia e da aggressività più o meno diffuse in tutti i paesi musulmani. In tali paesi, purtroppo, l'opinione degli intellettuali e di tutta la stampa va in una direzione fortemente contraria ad Israele, in un modo tale che parlare di antisemitismo è fare loro un complimento. Chi come me legge la stampa araba · sia pure tradotta · tutti i giorni si rende conto che l'antisemitismo nel mondo arabo è degno dello Sturmer e che l'unico paese musulmano dell'area ad esserne meno affetto è la Turchia.
L'asse strategico con la Turchia si sta dimostrando ancora più basilare in questo periodo che prelude, probabilmente, alla guerra contro Saddam Hussein. È evidente come per gli Stati Uniti la Turchia sarà un'indispensabile alleata. La Turchia, tuttavia, è in una posizione molto delicata. Necessita di garanzie circa la presenza dei curdi sul suo confine, che teme possano acquistare un potere eccessivo. Desidera che la propria integrità territoriale sia garantita e, suppongo, che il rapporto intenso con gli Stati Uniti non la danneggi sul terreno dei rapporti con gli europei.
Pedde - Dobbiamo, tuttavia, anche ricordare che la Turchia è un paese ancora decisamente lontano, sia in termini economici che sociali, dagli standard del modello europeo, paragonabili invece a quelli delle aree depresse del meridione d'Italia e della Grecia, seppur in presenza di un tasso di crescita eccellente e, soprattutto, da una decisa volontà in direzione del raggiungimento dei parametri base per l'accesso all'Unione.
La Turchia si è trovata d'altro canto ad assumere una posizione di crescente rilevanza strategica nel corso del secondo dopoguerra sia dal punto di vista militare che economico, dapprima quale area di confine dell'allora Unione Sovietica e poi come perno di controllo su alcune aree del turbolento Medio Oriente. Il paese, quindi, non solo è diventato una fondamentale piattaforma strategica per il dislocamento delle forze militari ma, soprattutto, è divenuto un "collo di bottiglia" per il transito delle risorse energetiche dell'Asia centrale, della Russia e di alcune aree di produzione del Golfo Persico. I terminali e le direttrici di trasporto per il petrolio e per il gas, infatti, hanno trasformato la Turchia in un passaggio obbligato in direzione dei mercati di consumo occidentali, contribuendo ad attribuire al paese una valenza strategica decisamente elevata a cui, di conseguenza, è abbinata un'alea di rischio altrettanto evidente se valutata in relazione alla stabilità politica del paese.
A ciò deve aggiungersi il tradizionale e consolidato rapporto economico e commerciale con i paesi dell'Asia centrale, i cosiddetti "turcofoni" appunto, per i quali la Turchia ha da sempre rappresentato la porta dell'Occidente e, in sintesi, il mercato di sbocco privilegiato per l'interscambio commerciale. Questa posizione, invero, è oggi largamente contrastata dal ruolo della Russia e di altri paesi occidentali, gradualmente sostituitisi alla Turchia in larghi strati dell'economia e del commercio.
Il legame con Israele, pertanto, è frutto di una attenta e lungimirante considerazione di ordine politico ed economico da ambo le parti. Per Israele, infatti, la Turchia rappresenta una duplice sfera di interessi: uno di ordine strategico e militare, in funzione dello sviluppo di un'alleanza con un paese comunque di religione islamica ed inserito nel generale contesto geografico di crisi che da sempre minaccia lo stato ebraico; l'altro di ordine economico, con l'accesso e l'interscambio verso un importante mercato che permette ad Israele di alleggerire il proprio isolamento nella regione e, contestualmente, raggiungere per mezzo della Turchia anche aree altrimenti precluse.
C'è poi un ultimo, ma non per questo meno importante, motivo di grande interesse per Israele nei confronti della Turchia: l'acqua.
Da sempre impegnato in una lotta contro il deserto, e con il rischio sempre presente di una possibile azione per rendere inutilizzabili le scarse risorse idriche locali, Israele ha firmato lo scorso anno un accordo di fornitura con la Turchia per 50 milioni di metri cubi d'acqua l'anno, che saranno forniti attraverso "trasporti sicuri" via mare. Con una domanda media di circa 2 miliardi di metri cubi l'anno, l'import di acqua potabile dalla Turchia consente di arginare parzialmente almeno i consumi di tipo domestico israeliani, riducendo a circa 100/150 milioni di metri cubi il fabbisogno da coprire con l'importazione.
Questo argomento consente però di affrontare un altro punto saliente relativo alla posizione strategica della Turchia. Unico paese della regione con una relativa sovrabbondanza idrica, la Turchia si accinge a realizzare un sistema di dighe nelle regioni sud-orientali del paese apprestandosi, di fatto, a rappresentare l'elemento di controllo dei volumi idrici del Tigri e dell'Eufrate. In questo modo la Turchia potrà in futuro disporre di una preziosa, quanto pericolosa, chiave economica regionale che, di certo, non mancherà di provocare la reazione di tutte le aree interessate "a valle".
In questo contesto sembra dunque potersi escludere qualsivoglia rischio nella presenza di un partito islamico al potere.
Nirenstein - Personalmente non vedo attualmente alcun rischio. Non è la prima volta che la Turchia si trova ad affrontare minacce di rivoluzione islamica ed è sempre riuscita a contenere queste situazioni, in un modo o nell'altro, talora anche con il ricorso all'esercito che, comunque, ha sempre dimostrato di sapersi ritirare così come era venuto avanti. Non mi sembra che attualmente ci troviamo in questa situazione. Credo, al contrario, che ci sia un atteggiamento positivo da parte del nuovo governo inteso a mantenere un buon rapporto con l'Occidente. Naturalmente questa realtà sarà sottoposta ad una prova drammatica entro poco tempo perché i due partner di cui gli Stati Uniti hanno veramente bisogno nella guerra contro Saddam Hussein non sono l'Italia, né la Francia, né l'Inghilterra, ma sono la Turchia e l'Arabia Saudita. Ciascuno dei due paesi ha buone ragioni per impegnarsi e buone ragioni per non farlo. Ad esempio, la Turchia ha una grande tradizione di autonomia militare e credo che una presenza dell'esercito americano sul proprio territorio le darebbe molta noia. I Sauditi temono una rivoluzione interna estremista di matrice islamica ma, nello stesso tempo, sarebbero ben contenti di avere l'occasione di eliminare Saddam, evento che costituirebbe un sollievo per tutta quella zona. Chi teme che con questa guerra si scatenerebbe una rivoluzione complessiva dell'area sbaglia; i vari governi dell·area, alcuni con maggiore altri con minore durezza, hanno sempre dimostrato di saper tenere bene a bada i gruppi integralisti islamici. Questo ha certo comportato la violazione di molti diritti umani e testimonia la durezza delle dittature mediorientali. L'idea di un'insurrezione complessiva del mondo islamico a fianco di Saddam Hussein la trovo fantasiosa.
Margelletti - Con la fine della Guerra Fredda e della politica dei blocchi contrapposti è emersa una nuova situazione strategica a livello internazionale.
La disintegrazione dell'Unione Sovietica ed il conseguente ridimensionamento della Russia a potenza regionale hanno certamente innescato notevoli cambiamenti in ambito europeo e mediterraneo.
Al contempo, la dottrina Clinton · soprattutto durante la prima fase della sua Amministrazione · ha determinato uno spostamento degli interessi USA verso l'Oceano Pacifico, al fine di favorire le industrie statunitensi in pieno surplus produttivo in mercati ben lontani dalla saturazione in atto in Europa.
In questo nuovo contesto la Turchia rimane, nonostante la vittoria di un partito islamico invero fortemente laicizzato, sostanzialmente stabile anche grazie all'influenza delle Forze Armate locali e rappresenta, nella parte orientale del bacino Mediterraneo, una sorta di "super-potenza locale", grazie ad una stretta alleanza con Israele sancita anche dagli USA.
Tuttavia, nell'area sussistono diversi scenari di instabilità. Verso nord, va considerato che i Balcani sono stati "pacificati" attraverso interventi della NATO dopo che l'azione delle Nazioni Unite si era rivelata inefficace e non in grado di esercitare le necessarie pressioni diplomatico/militari nei confronti dei Paesi coinvolti nel conflitto interetnico.
Solo l'azione militare nei confronti della Serbia, condotta sotto il principio della "ingerenza umanitaria", ha permesso un cambiamento di regime a Belgrado ed una svolta politica verso una vera democrazia. I contingenti militari tuttora presenti in Bosnia (SFOR) e Kosovo (KFOR) rappresentano del resto l'unica garanzia di contenimento delle tensioni legate al passato conflitto.
Va inoltre rilevata l'azione greca tesa a creare i presupposti per influenzare i processi decisionali nel sud dell·Albania e nella Macedonia, che da sempre Atene considera sotto la sua diretta sfera di influenza.
Lo status di Cipro ha da un lato allargato la crepa in seno alla NATO nella regione meridionale, portando la Grecia su posizioni sempre più lontane da Washington e, dall'altra, collocato la Turchia in una posizione di "gendarme" degli interessi americani nell'ambito del Mediterraneo orientale.
Verso il Medioriente, il conflitto israelo/palestinese continua ad essere la principale fonte di instabilità, non solo nell'area ma anche a livello globale. Buona parte dei gruppi eversivi islamici, ed anche alcuni governi arabi, utilizzano lo stato di conflittualità esistente come "scusante ideologica" per poter attuare una politica di forte contrapposizione agli interessi occidentali ed ai Governi ad essi legati.
Il panorama che emerge è evidentemente articolato e delinea profili di rischio meritevoli di attenzione da parte dei decisori politici occidentali.
La crisi USA-Iraq in atto costituisce del resto un caso emblematico, e le scelte adottate per la sua soluzione determineranno verosimilmente le future strategie di approccio al problema nel suo complesso.
Gli Stati Uniti sono stati il bersaglio principale dell'attacco terroristico della fine del 2001. Gli sviluppi della situazione hanno ancor più evidenziato come lo scenario delineatosi dopo la guerra fredda veda ormai un'unica potenza in grado di influenzare in modo decisivo la politica del pianeta. Questa posizione ha trovato spazio ancora maggiore nell'obiettiva difficoltà, da parte delle organizzazioni internazionali, a svolgere un ruolo efficace nella risoluzione delle controversie. Nell'ambito della risposta al terrorismo, una novità di grande peso è stata poi l'elaborazione della cd. dottrina della guerra preventiva, resa pubblica dall'amministrazione statunitense. Secondo tali principi, la sola esistenza di informazioni su presunte attività in grado di mettere in pericolo la sicurezza nazionale sarebbe sufficiente ad autorizzare il ricorso ad azioni militari. Come vede questa sorta di nuova teoria politica e militare, destinata certamente ad influenzare l'immediato futuro?
Pedde - Le teorie strategiche maturate in seno alle amministrazioni statunitensi hanno sempre scandito, per così dire, il corso della storia mondiale più recente.
Senza entrare in questa sede in valutazioni di tipo prettamente tattico, è possibile tuttavia possibile ricordare come alcune di queste teorie si siano rivelate nel corso degli anni dei successi clamorosi, così come altre hanno prodotto effetti decisamente contenuti. Prendendo ad esempio la portata del Piano Marshall (che non corrispose esattamente ad una teoria così come intesa oggi) e ponendola in correlazione con la teoria cosiddetta del "dual containment" possiamo valutare immediatamente la portata temporale delle due azioni. La prima, tende ancor oggi, ad oltre mezzo secolo di distanza, a produrre i suoi effetti. L'altra, dopo aver esaurito in breve tempo il suo ruolo di tipo prettamente strategico (nel corso del conflitto Iran-Iraq dal 1980 al 1988), ha poi generato maggiori effetti secondari negativi di quanti benefici apportò nel breve periodo.
Ciononostante, la determinazione delle teorie è espressione di un elemento assai importante dell'attività di politica interna agli Stati Uniti e, soprattutto, fornisce un chiaro quadro delle scuole maggiormente influenti in un dato momento all'interno del sistema di potere americano. Quella che ha permesso lo sviluppo concettuale della "guerra preventiva" è chiaramente di stampo jeffersoniano, con una spiccata tendenza all'isolazionismo realista ed una concomitante attiva volontà di perseguire gli interessi sensibili per la sicurezza degli Stati Uniti d'America in ogni luogo sia ritenuto necessario o semplicemente utile.
Questo dato permette di apprezzare appieno la profonda modificazione maturata, all'indomani dell·11 settembre, dall'·amministrazione Bush rispetto al suo predecessore. I fatti di New York e Washington hanno costituito un punto di svolta epocale nella politica statunitense. Un punto di svolta che, sotto il profilo della sicurezza, è oggi largamente teso al conseguimento di obiettivi nel breve periodo ed in base al quale l'identificazione delle soluzioni per gli effetti delle azioni condotte sul campo viene, in un certo qual modo, rimandata al momento in cui queste dovessero maturare.
Sotto il profilo meramente economico, invece, il nuovo corso della politica USA è potenzialmente foriero di un complesso novero di complicazioni soprattutto in direzione degli storici alleati europei, della Russia e di altre economie emergenti quali la Cina, l'India ed i paesi in via di sviluppo del Sud-Est asiatico.
Il decisionismo esasperato e fortemente autonomo della politica USA su ogni questione di politica estera, unitamente alla palese dimostrazione di debolezza offerta dalle Nazioni Unite ed all'altrettanto evidente inconsistenza di una politica estera comune dell'Unione Europea, hanno determinato l'emergere della latente consapevolezza di una condizione di fragilità in seno alle moderne democrazie occidentali. In particolar modo è stata evidente la frattura all'interno dell'Unione Europea, con la determinazione di un duplice orientamento politico decisamente contrastante ed una crescente e pressante azione di condizionamento dell'opinione pubblica ad opera dei tradizionali centri del potere locale.
La posizione di Francia e Germania, in contrapposizione a quella di Gran Bretagna, Italia e Spagna ha offerto il penoso quadro di una unione meramente monetaria e · forse · economica, a dir poco lontana dal riuscire a rappresentare anche le fondamenta di una dimensione di tipo politico e, soprattutto, di una coesione sovranazionale.
Lo spettro, in un panorama di tal fatta, è quello di un futuro dove le relazioni economiche con gli Stati Uniti siano maturate non sulla base complessiva del sistema-Europa ma, al contrario, sul rapporto bilaterale tra singoli membri e Stati Uniti. Relazioni, peraltro, fortemente condizionate dalla possibilità che l'interesse degli Stati Uniti, secondo quanto previsto nella teoria della guerra preventiva, comporti l'adozione di misure drastiche nei confronti di partner storici e consolidati di alcuni paesi europei. Non dovrebbe stupire, ad esempio, un repentino e progressivo deterioramento delle relazioni con l'Iran, con la Corea del Nord e, in un ipotetico e crescente peggioramento delle condizioni di sicurezza internazionale, con la Libia (nonostante oggi Gheddafi abbia assunto toni e posizioni decisamente filo-americane) e la stessa Arabia Saudita.
Uno scenario di tale natura, com'é evidente, costituirebbe una minaccia elevatissima non solo per la generale sfera dell'interesse economico europeo ma, soprattutto, rischierebbe di determinare realmente i presupposti di un vero "shock energetico", trasformando per la prima volta la teoria in realtà.
Pellicani - A mio avviso, la teoria della guerra preventiva, elaborata da Washington, non può non suscitare forti preoccupazioni: è una teoria che apre la strada all'uso discrezionale della forza e che, di fatto, esautora l·ONU, cioè l'organizzazione nata per garantire in qualche modo il rispetto delle regole di convivenza formalmente accettate dai soggetti · gli Stati · dell·arena internazionale. Quali che siano le ragioni che inducono Washington a ritenere che l'Iraq costituisca una minaccia per la pace e un potente sostegno per jihadisti, esse devono essere vagliate dall'ONU. Diversamente, si torna alla "anarchia internazionale", cioè a quella situazione sregolata precedente la costituzione dell'ONU.
Nirenstein - Se il riferimento è alla crisi irachena non penso affatto che si tratti di guerra preventiva. Non dimentichiamo che spetta a Saddam Hussein l'onere di provare che non sta preparando la guerra contro l'Occidente. Saddam Hussein detiene una grande quantità di armi, come hanno testimoniato proprio le relazioni della commissione ONU nel 1998, quando per l'ultima volta Saddam espulse gli osservatori. La guerra è stata preparata da Saddam Hussein. L'ha preparata per tutti questi anni ed è in possesso, secondo quanto risulta ai servizi segreti britannici e a quelli americani, che ne stanno divulgando gradualmente le prove, di armi di distruzione di massa molto pericolose e, quel che più conta, continua a preparare l'atomica. Anche di questo esistono prove e anche se ancora non abbiamo i risultati conclusivi delle ispezioni degli osservatori ONU quello che possiamo dire è che già sono state individuate situazioni che si cerca di dissimulare in termini di utilizzazione in tempo di pace, e o anche con il rapido spostamento dei materiali e delle attrezzature.
Saddam detiene da tempo armi che si è rifiutato di distruggere quando ha espulso gli ispettori dell'ONU. Certamente, dal 1998 ad oggi, ha avuto la possibilità di prepararne molte altre non facili da reperire per gli ispettori. In una bottiglia nascosta sottoterra da qualche parte, o in Iraq o in qualsiasi zona mediorientale in cui Saddam trovi dei complici disponibili a nascondere le sue armi, potremmo trovare quantità di botulino o di antrax sufficienti a compiere una strage. Le ispezioni degli osservatori dell'ONU avrebbero funzionato se ci fosse stato qualche scienziato o qualche testimone messo in condizione di dire la verità. Poiché è impossibile che in un paese dittatoriale esista qualcuno disposto a parlare, per paura delle sanzioni terribili che Saddam ha sempre inflitto ai suoi oppositori, si è avuto il silenzio.
Per quanto concerne, su un piano più generale, il rapporto politico tra gli Stati Uniti e le organizzazioni internazionali, credo che si tratti di un rapporto che · nel corso del tempo e con lo svilupparsi del terrorismo catastrofico, in cui giocano ruoli fondamentali i finanziamenti provenienti da tutta una serie di paesi che fanno parte degli organismi internazionali · è destinato inevitabilmente a modificarsi. Attualmente l'obiettivo fondamentale è bloccare il terrorismo. La quantità e la qualità degli attentati verificatisi in questi ultimi anni dimostra che stiamo vivendo una sorta di terza guerra mondiale. Ma come si fa a bloccare il terrorismo? Questa è la domanda che fornisce la chiave di lettura dei futuri rapporti tra gli Stati nell'ambito degli organismi internazionali in quanto, al loro interno, esistono paesi che aiutano il terrorismo e altri che lo combattono. Attualmente, le tematiche sul tappeto dell'ONU non sono, purtroppo, quelle che tutti avevamo sognato alla fine della guerra fredda, ovvero lo sviluppo mondiale o la caduta del debito internazionale. Oggi, a patto che ci sia un chiaro riconoscimento da parte degli organismi internazionali, la necessità fondamentale è quella di porre al primo posto lo smantellamento delle strutture del terrorismo. Ciò può essere realizzato bloccandone le fonti di finanziamento e attraverso adeguate misure di sicurezza.
Ciò che rende molto confuso il rapporto con gli organismi internazionali, in particolare con le Nazioni Unite, è l'uso stravolto e perverso che nasce dal fatto di vivere il tempo della religione dei diritti umani. Faccio un esempio. La Commissione per i diritti umani dell'ONU con sede a Ginevra ha recentemente condannato · tra tutti i Paesi che violano i diritti umani, oltre alla Cina, a tutti i Paesi arabi, ma anche alla Cambogia di un tempo · più volte e ufficialmente Israele. Si capisce, quindi, come attualmente siano prevalenti sentimenti politici esagitati che creano terribili difficoltà e ci dobbiamo interrogare sulla sensatezza stessa delle decisioni degli organismi internazionali. Anche la richiesta del Belgio di processare Sharon presso il Tribunale internazionale per i crimini di guerra va letta in questa direzione.
Ora il grande problema che il mondo deve affrontare è quello di combattere il terrorismo. Tutta l'organizzazione internazionale non può più prescinderne. Vedo il futuro di questi rapporti ancora in fieri, come una realtà che si sta forgiando lentamente sulla base di quella che apparentemente sembra una forzatura in quanto "cambia le carte in tavola", mettendo gli Stati Uniti in una posizione di preminenza. Ciò accade, tuttavia, perché gli Stati Uniti, più degli altri paesi, a causa del fatto che sono stati colpiti in prima persona, mostrano la volontà di prendere in mano quello che è il problema centrale del nostro tempo.
Margelletti - La nuova dottrina USA sta indubbiamente influenzando l'apparato statale della nuova Amministrazione Bush.
Operazioni preventive, quasi sempre condotte tramite azioni "coperte" o a "negazione plausibile" diverranno, anche sulla base dei risultati conseguiti in Afghanistan, sempre di maggior rilievo nella pianificazione della lotta all'instabilità che gli statunitensi stanno cercando di condurre, invero tra mille difficoltà di carattere militare e politico.
Non si tratta di una vera e propria guerra preventiva quanto piuttosto di attività non convenzionali svolte dagli apparati di intelligence e dalle Forze per Operazioni Speciali. Ne è chiaro esempio la Task Force "Corno d'Africa" che da Gibuti dà la caccia ad Al Qaeda in Africa Orientale.
Per quanto concerne invece le minacce provenienti da "Stati canaglia", gli Usa dopo l'undici settembre hanno preso maggior coscienza del "Nuovo Ordine Mondiale" e di conseguenza sulla scia della "Guerra al Terrorismo" si trovano oggi a voler affrontare situazioni complesse ove gli stessi alleati non si dimostrano così solidali quanto il Dipartimento di Stato vorrebbe. Il caso della Corea manifesta chiaramente le difficoltà che gli Stati Uniti stanno attraversando con alcuni alleati, quali la Corea del Sud, sino a poco tempo addietro ritenuti affidabili.
Last but not least, il consenso.
L'amministrazione Bush deve necessariamente riacquistare quel patrimonio di favori che gli attacchi del 2001 avevano portato agli USA.
La querelle USA/ONU durante la crisi irachena ha di fatto eroso molto del patrimonio di "affetto politico" che gli Stati Uniti erano in grado di spendere.
Se gli USA vorranno ridisegnare le mappe delle aree di crisi e se lo vorranno fare soli o con un esiguo numero di alleati di "Serie A", ciò potrà determinare in maniera rilevante i trend futuri della politica estera occidentale ed europea.
Nella penultima parte di questo volume, dedicata come di consueto alle recensioni e alle segnalazioni bibliografiche, abbiamo intervistato Magdi Allam, autore del libro “Bin Laden in Italia”, che tanto scalpore ha destato per il riferimento ad un numero consistente di militanti islamici, residenti nel nostro paese, asseritamente pronti ad agire nel nome di Osama Bin Laden. L’autore riferisce, inoltre, circa un presunto mutamento delle posizioni delle organizzazioni terroristiche islamiche rispetto al nostro paese, a seguito della violazione di quello che Magdi Allam definisce “patto di sicurezza”, che avrebbe, in passato, messo al riparo l’Italia dal verificarsi di attentati terroristici sul proprio territorio. Sulla base delle Sua competenza ed esperienza qual è il livello di esposizione e di pericolo per il nostro paese rispetto al terrorismo internazionale e, nell’ipotesi che lo ritenga possibile o auspicabile, quali considerazioni di politica interna e internazionale ritiene utile formulare perché, attraverso un ruolo diverso, il nostro paese veda abbassarsi la soglia di tale pericolo?
Pedde - La sussistenza di un “patto di sicurezza” tra l’Italia ed il mondo del terrorismo internazionale deve probabilmente essere letta alla luce di un molteplice ordine di fattori.
In primo luogo può essere utile rammentare come la politica estera italiana, a cavallo soprattutto degli anni Settanta ed Ottanta, sia sempre stata espressione di una duplice anima politica che da un lato operava nel rispetto della posizione e del ruolo di paese NATO, alleato degli Stati Uniti e solido pilastro del “sistema occidentale”, mentre dall’altro cercava di mantenere aperta una linea di dialogo con i paesi arabi e, soprattutto, con i gruppi palestinesi.
L’eterogenea composizione di interessi della politica italiana, per caso od in virtù di un ben articolato disegno, ha certamente prodotto risultati apprezzabili sotto il profilo della sicurezza interna negli anni più cupi del terrorismo di matrice mediorientale, limitando in modo evidente sul nostro territorio gli effetti dell’azione dei gruppi palestinesi e tutelando l’incolumità dei cittadini e degli interessi all’estero.
La cosiddetta componente politica “filo-araba” del Governo italiano è stata peraltro più volte oggetto di pesanti accuse da parte di Israele ed espressione al tempo stesso di timore ed interesse nel novero degli alleati, che ne comprendevano le potenzialità in termini pratici, ma ne temevano anche gli effetti nel lungo periodo.
All’aspetto prettamente politico, però, deve essere associato anche quello – forse più importante – della politica industriale del nostro paese. Dalla prima metà degli anni Sessanta infatti, trainata dal settore petrolifero e dall’Eni di Enrico Mattei, la politica industriale italiana verso i paesi del Medio Oriente e verso l’Unione Sovietica si tramutò in una vera e propria politica estera parallela.
Gli accordi di Mattei in URSS provocarono negli Stati Uniti un terremoto politico, con accuse all’Italia apertamente miranti a provocare in seno agli alleati una vera e propria condanna per tradimento. La revisione degli accordi di produzione petrolifera nell’area del Golfo Persico, poi, riuscì a sortire lo stesso effetto in un settore sino ad allora dominato dalle cosiddette “sette sorelle” e, con ogni probabilità, a segnare la prematura fine dello stesso Mattei.
In epoca successiva l’Italia riuscì ad adottare lo stesso modello di diplomazia economica anche in aree considerate altamente critiche, come la Libia, l’Iran rivoluzionario, la Somalia, il Libano e molti paesi ancora, arrivando addirittura ad opporsi in alcuni casi al potere degli Stati Uniti, come nel caso della crisi di Sigonella o con riferimento all’applicazione dell’ILSA (la legge statunitense che impone, estendendola anche ai paesi stranieri, l’embargo contro Iran e Libia), cui si riferiva poco fa Fiamma Nirenstein.
Questa politica di basso profilo, senza l’adozione di posizioni apertamente schierate e, soprattutto, con una dichiarata e vasta delega all’industria, ha prodotto risultati considerevoli in termini economici e di stabilità. Pur tuttavia ha anche plasmato in seno alla gran parte dei paesi europei e degli Stati Uniti un’immagine di inconsistenza ed inaffidabilità che ha precluso al nostro paese l’accesso a posizioni di maggiore prestigio in seno all’Alleanza Atlantica e nel consesso europeo, relegando l’Italia per lungo tempo entro gli angusti margini di un’immagine tutt’altro che positiva.
La presidenza Berlusconi, di contro, ha dato impulso ad un ruolo attivo e marcatamente orientato del paese, con l’adozione di una politica estera – o quantomeno un embrione della stessa – decisamente nuova per l’Italia.
L’aperto e deciso sostegno del Governo italiano agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo, con la contestuale totale disponibilità di supporto in tutte le operazioni che si rendessero necessarie per il perseguimento di tale fine, ha senza dubbio rappresentato un elemento di novità nella tradizionale cautela della politica estera nazionale.
Ciononostante non è venuto meno l’impegno e lo sforzo economico ed industriale nazionale verso le tradizionali aree di riferimento del-
l’Italia, anche laddove queste coincidano in larga parte con il cosiddetto “asse del male”.
La politica della cautela e del basso profilo, in conclusione, poteva sortire effetti nel rapporto con una realtà quale quella del terrorismo palestinese. Una realtà alla ricerca comunque del sostegno internazionale e, a modo suo, del dialogo con l’Occidente. Almeno in alcuni anni.
Nirenstein - L’Italia ha subito un grande incremento della presenza di Al Qaeda non certo perché è stata troppo severa. Le pericolosissime cellule del nord Italia, il tentativo di avvelenare l’acqua vicino all’ambasciata americana a Roma, il fatto che uno dei terroristi dell’undici settembre pare sia transitato lungamente a Roma, tutti questi fatti derivano dalla circostanza che è sempre esistita l’illusione andreottiana e di molti suoi successori che sarebbe bastato un atteggiamento di appeasement per evitare di essere colpiti dal terrorismo. Non dimentichiamo che l’OLP ha sempre avuto sedi strategiche a Roma che hanno contribuito molto a sostenere azioni di altre organizzazioni, tanto per fare un esempio quella che ha organizzato l’eccidio di Monaco e la strage di Fiumicino. Si tratta di un errore politico che parte da lontano, dai tempi appunto di Enrico Mattei, che ha portato a ritenere che una politica che indulgesse alla concessione nei confronti dei terroristi avrebbe potuto mantenere la pace. Trovo molto positivo il fatto che, finalmente, ci si cominci a rendere conto di questa realtà e a prendere misure, in collegamento con altri organismi internazionali, per controbatterla. È stata proprio questa politica degli anni passati che ha determinato il nostro ruolo di ponte del terrorismo sul Mediterraneo. È ovvio che la soglia di rischio è diventata più alta da quando, alla fine degli anni novanta, è sorto lo spettro gigantesco del terrorismo islamico, che ha avuto il suo culmine nell’undici settembre e che si sta diffondendo. Trovo poco condivisibile o forse troppo semplicistica la visione secondo la quale se l’Italia fosse meno dura con i terroristi, costoro non la colpirebbero, o, quantomeno, lo farebbero in minor misura. Il pericolo è il terrorismo islamico e cresce in Italia come è cresciuto in tutto il resto del mondo. L’Italia è un paese nel mirino del terrorismo islamico – come il resto del mondo occidentale – ed è un bene che ci si renda conto di questa realtà, per premunirsi e difendersi.
Pellicani - In effetti, finora, il terrorismo del “Partito di Allah” ha avuto come obbiettivi il Grande Satana – l’America – e il Piccolo Satana – Israele. Ma non è affatto detto che, prima o poi, i jihadisti non prenderanno di mira i Paesi del Vecchio Continente. Per i fondamentalisti che hanno imboccato la via della guerra santa, l’intera civiltà occidentale va rasa al suolo affinché la Sharia domini sovrana su tutto e tutti. Gli Europei commetterebbero un errore non piccolo se pensassero che la guerra santa che Al Qaeda sta conducendo non li riguardi. Per ora, li riguarda solo indirettamente; ma in un prossimo futuro, potrebbero diventare i bersagli preferiti delle reti terroristiche create dai jihadisti. I quali non possono non sapere che il tasso di vulnerabilità degli Stati europei è superiore a quello degli Stati Uniti.
Pedde - Il terrorismo di oggi, quello legato anche all’immagine di Osama Bin Laden, sembra intenzionato ad operare e colpire in ogni luogo possano presentarsi le condizioni propizie per l’azione.
La rete di Al Qaeda non ha certo evitato di compiere attentati e stragi nelle islamiche Indonesia e Yemen o nelle assolutamente neutrali e distanti Kenya e Tanzania. Non c’è dunque motivo di ritenere che possa evitare l’azione in Italia solo quale conseguenza di una politica più moderata e meno apertamente favorevole alla guerra al terrorismo. Se il nostro paese offrisse le condizioni per un clamoroso atto contro interessi statunitensi, con un ragionevole margine di certezza potremmo essere sicuri che la rete del terrorismo di Al Qaeda non esiterebbe un istante ad agire. A dispetto di qualsiasi moderazione o negoziazione.
Resta, poi, una considerazione conclusiva. Forse la più importante. Una revisione delle generali logiche di relazione in politica internazionale ed economica è senz’altro oggi necessaria. Il rapporto tra occidente e paesi in via di sviluppo deve senza dubbio emergere dall’attuale condizione di inferiorità del mondo rispetto al potere dei paesi industrializzati in genere. È necessario forse arrivare ad un nuovo piano Marshall e ad una nuova Organizzazione delle Nazioni Unite. Mai tutto questo, però, attraverso una politica di concessione alla violenza così come concepita dagli ideatori dell’11 settembre.
Margelletti - Il “patto di sicurezza”, o “patto scellerato” secondo alcuni, che avrebbe assicurato al nostro Paese una sorta di lasciapassare per non divenire la Beirut europea, è oggi del tutto inadeguato per assicurare una sorta di “protezione”.
Innanzitutto sono cambiati gli attori. I fedayn palestinesi filo marxisti hanno lasciato il campo a fondamentalisti religiosi interessati non ad azioni eclatanti “mordi e fuggi”, ma piuttosto ad accrescere la loro influenza nell’ambito religioso e sociale nel quale operano.
Le stesse azioni terroristiche sono parte di una attenta progettualità politica piuttosto che gesta destinate a creare paura, senza però ottenere apprezzabili risultati di consenso politico e mediatico.
La vera pericolosità è rappresentata dal fatto che il terrorismo religioso possa essere affrontato con le stesse chiavi di lettura dei diversi movimenti per la liberazione della Palestina degli anni ’70.Al Qaeda, ma non solo, è una struttura capace di insinuarsi silenziosamente nei tessuti sociali delle nazioni ove è presente, ottenendo appoggi soprattutto nelle fasce economicamente più deboli.
Il dialogo, che a prima vista potrebbe essere considerato dalle diverse Cancellerie come una sperimentata soluzione, è in questo caso addirittura controproducente.
La negoziazione viene percepita come segno di debolezza.
Quindi a fronte di un limitato “tattico” periodo di tranquillità, sul lungo periodo i problemi potrebbero divenire di complessa risoluzione, avendo dato alle organizzazioni criminali il tempo per “concretizzare” la propria presenza sul territorio.
Per questa ragione una politica estera “ad ampio spettro di dialogo”, nei confronti delle istanze avanzate da tali gruppi, potrebbe non essere più adeguata ad assicurare una funzionale sicurezza nazionale.
L’invio di un contingente militare a supporto dell’Operazione “Enduring Freedom” ha certamente elevato per l’Italia il livello di minaccia, ma è altrettanto vero che l’azione delle nostre truppe in quel teatro operativo così lontano potrebbe avere una diretta influenza sullo stato della sicurezza interna.
Maggiori saranno i risultati conseguiti, minori saranno le possibilità che atti terroristici possano essere organizzati e condotti.
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