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Per Aspera Ad Veritatem n.25
Intervista all'autore: Magdi ALLAM - Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002

Bin Laden in Italia



D. - La sua inchiesta sul radicalismo islamico in Italia ha destato notevole preoccupazione. I dati da Lei raccolti circa la presenza di numerosi immigrati musulmani legati a Bin Laden, ripresi e amplificati da tutti i media, hanno determinato nell’opinione pubblica un forte allarmismo, che ha avuto ampia eco nel nostro Parlamento e suscitato non poche preoccupazioni anche negli apparati di contrasto al terrorismo.
Quali sono le sue valutazioni sulle reazioni alla pubblicazione del libro?


R. - Se parliamo delle reazioni degli italiani, direi che sono state di sorpresa e di grande inquietudine. Probabilmente non ci si attendeva di apprendere che sul territorio italiano risiede un numero così elevato di combattenti islamici, mujahidin. Credo che questo sia l’elemento che ha maggiormente impressionato i lettori del libro. Devo dire che questa realtà ha colpito anche me, nonostante da anni mi occupi del terrorismo mediorientale, pur senza specifico riferimento alla realtà italiana.
Sono convinto, in altre parole, che il dato quantitativo sia l’elemento che ha determinato la gran parte delle reazioni, delle domande, delle perplessità.
Devo comunque premettere che nel mio lavoro ho innanzitutto raccolto interviste, offerte al lettore in modo integrale e assolutamente fedele. Si è trattato di una scelta ben precisa, adottata nella consapevolezza che ci sarebbero stati margini di errore, elementi da valutare. Mi interessava tuttavia principalmente dare un’idea corretta di come gli ambienti islamici radicali, o comunque informati di questa realtà, rappresentano se stessi. Da questa rappresentazione speravo emergessero, per una corretta comprensione, le due caratteristiche fondamentali dell’Islam radicale, che sono anche elementi dell’Islam nel suo complesso: la pluralità e la conflittualità. Il mio scopo era consentire al lettore di conoscere una realtà che si coniuga al plurale e che, al suo interno, è fortemente conflittuale. Ho già avuto modo di dire, in altre circostanze, che i personaggi che ho intervistato, se potessero, darebbero forma a conflitti reciproci assai aspri. Se c’è una cosa di cui vado orgoglioso, proprio considerato questo aspetto, è aver intervistato tutti giocando a carte scoperte. A ciascuno ho riferito il progetto del mio lavoro, compresa la circostanza che avrei sentito anche quelle persone che so non andare loro a genio, tra le quali non esistono rapporti, che si evitano, con cui sono in conflitto.
Ricordavamo all’inizio che sorpresa e inquietudine sono stati i sentimenti prevalenti tra gli italiani di fronte alle rivelazioni del libro.
Una reazione molto diversificata ho invece riscontrato nella parte musulmana, non necessariamente islamica.
Per stabilire delle coordinate di comprensione, è bene sul punto precisare che con la parola musulmani intendo l’universo di coloro che a vario titolo fanno riferimento all’Islam. La parte laica dei musulmani, ad esempio, che rappresenta a mio avviso la maggioranza, ha apprezzato molto questo lavoro e l’ha ritenuto un contributo importante per far luce su una realtà che è fonte di problemi, in primo luogo per loro stessi. Le scelte radicali danneggiano infatti i musulmani prima ancora di danneggiare i non musulmani. Quando uso l’espressione “parte laica”, intendo riferirmi a soggetti che sostanzialmente ragionano con le stesse categorie mentali di qualsiasi altro cittadino italiano e si rapportano agli altri senza fare riferimento ai precetti del Corano, a categorie religiose. Essi ricorrono, in sostanza, a categorie razionali.
La parte degli islamici, cioè coloro che hanno un approccio politico e ideologico nei confronti dell’Islam, in quanto utilizzano la religione politicamente e ideologicamente, ha pure messo in luce reazioni molto diversificate. Paradossalmente, gli elementi più radicali hanno avuto parole di stima e apprezzamento per il mio lavoro, riconoscendo che il loro pensiero è stato riportato correttamente. Coloro che assumono posizioni chiare hanno apprezzato l’obiettività della ricerca. Viceversa, quelli che si situano a metà strada tra le posizioni radicali e quelle legalitarie hanno avuto reazioni più dubbiose, del tipo: “Hai contribuito a dare un’immagine negativa dell’Islam e dei musulmani”. Ciò è dovuto al fatto che costoro si considerano i detentori dell’immagine dell’Islam e della verità islamica. Di conseguenza, tutto ciò che non quadra con il loro modo di porsi viene considerato stonato. Direi in conclusione che le reazioni al mio lavoro sono state estremamente diversificate a seconda degli interlocutori e questo ovviamente costituisce per me motivo di riflessione.

D. - Una questione di grande interesse è quanto da Lei riferito circa la presunta violazione, da parte dell’Italia, del “Aqd al aman”, il patto di sicurezza. Il nostro Paese sarebbe ora visto come un “Dar al Harb”, paese nemico dell’Islam, quindi possibile scenario di atti terroristici.
Vuole ricordare ai nostri Lettori i passaggi essenziali di questo cambiamento?


R. - Vorrei fare una premessa, da esperto che si occupa di questa materia da tempo. Negli anni settanta/ottanta, quando l’Italia si è trovata a fronteggiare il terrorismo di matrice palestinese, un terrorismo laico portato avanti da organizzazioni laiche, né integraliste né religiose, è risultato più facile trovare dei punti d’intesa per prevenire il verificarsi di attentati sul territorio italiano. Attraverso una sorta di gentlemen agreement, un patto di sicurezza, l’Italia avrebbe tollerato una certa attività di tipo logistico in cambio dell’”incolumità”. Avrebbe tollerato, ad esempio, l’ingresso di persone che si fermavano per un certo periodo per raccogliere fondi, ovvero procurarsi armi che, comunque, non sarebbero state impiegate sul territorio italiano. Mi ricordo in particolare la vicenda di Daniele Pifano, scoperto con un missile nel vano della propria macchina, mentre il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina si affrettava ad affermare, in quell’occasione, di non aver intenzione di attaccare l’Italia. Per costoro si trattava di un’attività all’interno dei parametri che essi ritenevano validi in base all’accordo di cui si parlava poco fa.
Questa situazione ha retto per un certo periodo di tempo, sebbene con alcune eccezioni. La principale riguarda Abu Nidal, dissidente di Al Fatah, condannato a morte da Arafat, protagonista dei due gravi attentati contro la Sinagoga di Roma e l’aeroporto di Fiumicino nel 1982 e nel 1985, se ricordo bene.
Tale patto di sicurezza, con le sue eccezioni, ha comunque consentito all’Italia di godere di una certa tranquillità, come si è potuto osservare anche in occasione dell’intervento italiano in Libano. Ricordo che tutti gli Stati che sono intervenuti militarmente in quel paese subirono pesanti perdite, con la sola eccezione dell’Italia. Non credo che ciò sia avvenuto per caso. Tale situazione era in effetti il frutto di una politica italiana sensibile nei confronti della questione palestinese, in prima linea nel favorire una soluzione politica. Ricordo, a questo proposito, la dichiarazione di Venezia che ha rappresentato, a livello europeo, la posizione più avanzata su questo argomento. Per la prima volta l’Europa si pronunciò a favore della creazione di uno Stato palestinese a fianco dello Stato di Israele.
L’impalcatura non ha più retto quando al terrorismo palestinese di natura laica è subentrato il terrorismo di natura integralista, che si muove secondo categorie mentali profondamente diverse. L’inversione di tendenza si è accentuata ulteriormente quando il terrorismo di matrice islamica è stato egemonizzato da Bin Laden, un miliardario che investe le sue risorse per privatizzare e globalizzare il terrorismo, rendendosi autonomo dall’azione degli Stati sovrani, come ad esempio l’Iran e la Libia.
Viene così meno l’interlocutore. Vengono meno i riferimenti circa la possibilità di trovare punti di intesa.
Nell’esaminare tale contesto, dobbiamo anche prendere in considerazione alcune forze - in qualche modo diretta emanazione di Bin Laden o comunque a lui vicine - che hanno identificato l’Italia come paese che ha cessato di essere neutrale, almeno a partire dal coinvolgimento nella guerra in Afghanistan, e ciò che ne è seguito. Mi riferisco all’intensificazione delle azioni di repressione dei musulmani in Italia e all’opera delle forze di sicurezza e della Magistratura che nel 2002, a seguito dell’introduzione della nuova normativa antiterrorismo, hanno avuto gli strumenti per iniziare procedimenti per reati di terrorismo.
Una parte del movimento islamico, insomma, ritiene che l’Italia abbia cessato di essere un paese amico, la considera di fatto un paese ostile all’Islam.
Su questo punto, tuttavia, le posizioni non sono univoche. C’è una fazione che ritiene che l’Italia non sia un paese amico dell’Islam ma, nonostante ciò, non debba essere attaccata dai musulmani che risiedono in Italia perché costoro hanno l’obbligo di rispettare il cd. patto di sicurezza, Aqd al aman, che è implicito nel fatto di essere entrati pacificamente in Italia e di aver quindi accettato di rispettare le leggi vigenti. Altre posizioni sono più oltranziste. Nel mio libro è riportata la testimonianza di Omar Muhammad Bakri, leader islamico residente a Londra, capo di un’organizzazione di emigranti principalmente formata da pakistani. Si tratta di un personaggio che ha conosciuto Bin Laden quando questi frequentava Londra, tra il 1992 e il 1996, prima del suo trasferimento in Afghanistan. Egli sostiene che i clandestini entrati in Italia senza un permesso di soggiorno non hanno l’obbligo di rispettare le leggi italiane, in quanto non hanno sottoscritto alcun patto con l’Autorità italiana. Secondo gli islamici che fanno riferimento, o sono contigui, a Bin Laden, gli obiettivi italiani al di fuori del territorio nazionale sono certamente obiettivi leciti da attaccare. Registro, infine, una posizione di ostilità nei confronti dell’Italia espressione dell’area dell’Islam intermedio, che proviene dai Fratelli Musulmani, integralisti islamici che tuttavia non adottano la lotta armata e il concetto del jihad come strumento programmatico di lotta, pur non rinnegandone la fede.

D. - Il suo lavoro si sofferma sul malinteso di fondo all’origine dell’incongruenza fra i dati emersi dall’inchiesta e quelli che le istituzioni italiane preposte alla sicurezza ritengono attendibili. Tale malinteso sarebbe da attribuire alla circostanza che nel nostro Paese l’attenzione viene rivolta alla ricerca dei “terroristi”, mentre sfuggono alla considerazione tutti quei numerosi elementi che, pur addestrati in campi militari in varie parti del mondo, si riconoscono come mujahidin, anche senza avere, per il momento, intenzione di compiere attentati. La causa di tale malinteso sarebbe la carente percezione della peculiarità dell’elemento religioso come fattore motivante e aggregante su un’ampia platea di “fedeli”, ovviamente al realizzarsi di determinate condizioni. Vuole soffermarsi su quest’aspetto?

R. - È un profilo molto interessante, che emerge con chiarezza dal mio lavoro. In particolare, dall’intervista ad uno dei personaggi probabilmente più eclatanti del libro, il senegalese AbdulQadir FadlAllah Mamour. Costui vive a Carmagnola, in provincia di Torino, dove era Imam della locale moschea, che ora mi risulta essere stata chiusa. Pubblica, insieme alla moglie, italiana convertita, una rivista che si chiama “Al Mujahidah” (“La Combattente sulla via di Allah”), fortemente impregnata di ideologia binladiana. Ho trovato interessante il fatto che egli abbia accettato di parlare, convinto dell’importanza di chiarire la differenza tra essere combattenti islamici e essere terroristi. Su questo punto si è soffermato a lungo. Mamour sostiene: “Noi riteniamo che il jihad sia un precetto della fede islamica, il sesto precetto della fede islamica, e che l’ottemperanza a questo precetto costituisca un dovere per tutti i musulmani”. Il musulmano, secondo il suo punto di vista, sarebbe tenuto ad avere un addestramento militare in quanto ciò è prescritto dal Corano. Il fatto di credere nel jihad e avere un addestramento militare è, nella sua visione, un qualcosa che attiene al rispetto della fede e che non ha nulla a che fare con il terrorismo. Questo dal suo punto di vista. Tuttavia è chiaro che la questione assume una connotazione diversa se consideriamo queste affermazioni con la prospettiva di chi invece deve fare i conti con la legalità e lo Stato di diritto. Ci troviamo di fronte a personaggi che sono stati addestrati alla guerriglia urbana, alle tecniche di sabotaggio, all’uso di esplosivi, che hanno fatto propria un’ideologia islamica radicale, in cui l’Occidente viene considerato il nemico da colpire. Anche se queste persone affermano di non voler compiere attentati in Italia, rimane il fatto che si tratta di soggetti che potrebbero farlo nel momento in cui dovessero cambiare le regole del gioco, le condizioni generali. In ogni caso, si tratta di una quinta colonna presente sul territorio italiano.
Bisogna anche tenere presente che in Italia sono presenti mujahidin che hanno combattuto in Bosnia. Il periodo dal 1993 al 1996 rappresenta un arco di tempo in cui l’Italia, probabilmente in modo non del tutto nascosto ai suoi servizi segreti, è stata considerata territorio privilegiato per l’accesso dei combattenti islamici nell’ex Jugoslavia. Ricordo che in quella fase l’Occidente guardava con favore al fatto che ci fossero forze islamiche che combattevano contro la Serbia. C’era una mobilitazione internazionale contro i serbi. In quel periodo si è proceduto all’arruolamento di numerosi combattenti islamici e diverse moschee in Italia hanno rivestito un ruolo importante in quel processo. Credo che oggi questi nodi stiano venendo al pettine. Dopo l’undici settembre, in un contesto in cui si è alla resa dei conti e l’Occidente ha deciso di fare chiarezza, quella che era una realtà ambigua e fluida si va in qualche modo definendo, percepita in modo diverso rispetto a quanto non avvenisse anche pochi mesi prima di quella tragica data.
Se da una parte è chiara la realtà dei combattenti islamici, l’ideologia che si basa sul jihad, ben presente in taluni luoghi di culto islamici in Italia, può assumere un volto diverso, dal mio punto di vista ancora più preoccupante in prospettiva. I combattenti islamici si possono arrestare e giudicare. Nel secondo caso, siamo invece in presenza di strutture permanenti di formazione, forte elemento di coesione culturale che tende a perpetuare il fenomeno.
La mia tesi di fondo è che lo Stato italiano non possa rimanere neutro di fronte alla realtà dell’Islam. Non è mai esistito d’altro canto un Islam neutro. In ogni Stato islamico le Autorità intervengono. Ogni Islam è plasmato da una presenza politica o, almeno, culturale. Guardare all’Islam in modo neutrale e inerte significa semplicemente lasciare che altri lo condizionino e lo trasformino a loro piacimento. In Italia questo ruolo è svolto in primo luogo dai Fratelli Musulmani. Costoro rispondono a logiche proprie di taluni regimi islamici, ovvero di talune organizzazioni islamiche in lotta con regimi al potere. In alcuni casi si tratta di un Islam di tipo rivoluzionario, che fa riferimento a Bin Laden, ad Hamas o a Hezbollah. Credo che questo sia il vero problema. L’ideologia islamica presente all’interno, o attorno, ai luoghi di culto.

D. - Uno degli elementi dello scenario è la crescente islamizzazione della questione palestinese. Molti osservatori ritengono che tale evoluzione, insieme alla crescita di movimenti radicali quali Hezbollah e Hamas, sia la conseguenza di errori politici dell’una e dell’altra parte. I recenti attentati, solo parzialmente riusciti, in Kenya, pongono interrogativi ancora più inquietanti. Sulla base dei dati raccolti nel suo lavoro, quale ruolo ritiene rivesta la vicenda palestinese nella più ampia questione del radicalismo islamico?

R. - La questione palestinese ha da sempre un ruolo centrale nelle politiche e nei sentimenti dei governi e dei popoli arabi, islamici e musulmani. Ciò in quanto la nascita dello Stato d’Israele è stata considerata, almeno in origine, come una violazione di un diritto sacro. Tale diritto conferirebbe ai palestinesi la sovranità sull’insieme di quello che era il territorio della Palestina mandataria che, a partire dal 1947, con la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, si è deciso di spartire tra due Stati: Israele e lo Stato arabo. Come ulteriore elemento di analisi, va considerato che a Gerusalemme si trova la moschea di Al Aqsa, considerata il terzo luogo di culto sacro dell’Islam dopo le moschee della Mecca e di Medina.
Per queste ed altre ragioni, la questione palestinese è sempre stata al centro dell’interesse, dei giochi e delle strumentalizzazioni politiche attuate dai vari regimi arabi, in primo luogo quelli limitrofi alla Palestina: Egitto, Siria, Giordania, Libano, Iraq. Tuttavia, l’avvento delle forze islamiche palestinesi non è, paradossalmente, frutto di un processo autoctono. A partire dalla Guerra dei Sei Giorni nel 1967, con la sconfitta degli eserciti arabi da parte d’Israele e il tramonto del panarabismo, ha inizio la fase dell’ascesa dell’ideologia islamica che, con il successivo affermarsi della rivoluzione di Khomeini nel febbraio del 1979, troverà un impulso molto forte. In Palestina si verifica un fatto singolare, in quanto sono le stesse autorità israeliane che, a partire dall’inizio degli anni ottanta, per contrastare la forte presenza del movimento laico e radicale che fa riferimento all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina presieduta da Yasser Arafat, incoraggiano i gruppi islamici, in particolare Hamas, sostenendoli in vario modo. Ciò fino a quando, nel dicembre del 1987, con la prima Intifada, scopriamo che gli islamici controllano di fatto ampi settori della società civile palestinese e sono riusciti, sulla scia di quella che è la strategia di sempre dei movimenti che si rifanno all’ideologia dei Fratelli Musulmani, a costituire un’ampia rete logistica, presente nella gestione e nel controllo delle moschee e dei centri coranici, delle scuole, che vengono gradualmente islamizzate. Si tratta anche di una rete di solidarietà e di assistenza sociale, di gestione e controllo di ambulatori, ospedali, centri per persone bisognose. Tutto questo finisce per fare di Hamas uno Stato nello Stato, in grado di fronteggiare la leadership laica di Arafat con una base popolare e finanziaria molto solida. Le finanze diventano un elemento cruciale e si scopre che chi controlla le moschee controlla anche la “cassaforte”, gode di un flusso di denaro ininterrotto proveniente dalla “zakat”, l’elemosina legale, dalla “saraka”, donazioni volontarie che vengono offerte dai fedeli, e da una rete di solidarietà a livello internazionale, che con gli anni si scoprirà operante anche sul territorio europeo. Questo intreccio tra ideologia islamica, che si afferma sulle ceneri dell’ideologia panaraba, e realtà islamica, che gode di una forte base finanziaria e sociale, nel momento in cui i conflitti si esasperano consente agli islamici palestinesi di diventare l’avanguardia delle forze combattenti. Hamas in primo luogo, e in misura minore il jihad islamico, che nasce come una quinta colonna, una longa manus degli sciiti o di forze legate all’Iran di ispirazione sciita. Tutto ciò riguarda anche l’ambito del terrorismo, con un peso sempre più rilevante quando entra in gioco la forma suicida, a partire dal 1993, dopo la firma degli accordi-quadro di pace tra Rabin e Arafat. Questa nuova realtà incide fortemente sull’ideologia e sulla realtà politica delle organizzazioni islamiche al di fuori della Palestina, in particolare in Europa e in Italia.
Dalla mia inchiesta emerge, ad esempio, che tutte le organizzazioni islamiche, siano esse integraliste - legalitarie come i Fratelli Musulmani, o invece ispirate al pensiero jihadista, che propugna e persegue la guerra santa, hanno in comune l’adesione al pensiero radicale di Hamas e credono nella legittimità delle operazioni suicide e nella legittimità del jihad, inteso come guerra santa contro Israele. Ritengono che i principi, difesi e sostenuti in Italia, della centralità della vita e della necessità di mantenersi nell’ambito di un contesto legalitario e, quindi, di non procedere, ad esempio, alla costituzione di una propria milizia per imporre con le armi la propria ideologia, non valgano nei confronti dello Stato di Israele. Si realizza, come dire, un doppio binario. Si procede alla relativizzazione del principio. Quel che è valido in altre parti del mondo, non vale in Israele, perché nei confronti di Israele esiste il pregiudizio. Israele è una potenza che si è imposta, che è nata in modo illegale e di conseguenza nei suoi confronti è legale quel che non è legale altrove.
Credo che questo sia uno degli aspetti che cementa varie formazioni islamiche, divise invece per altre problematiche, in particolare nel rapporto con le Istituzioni e con i valori che queste rappresentano quali ad esempio la libertà, la democrazia, la parità tra uomo e donna. I Fratelli Musulmani affermano la necessità di confrontarsi positivamente con le Istituzioni, sostenendo le proprie idee senza tuttavia volerle imporre con la forza. Quando, invece, si tratta di affrontare la questione palestinese, l’uso della forza viene considerato legittimo. È per questo che la reazione alla mia inchiesta da parte delle forze che fanno riferimento ai Fratelli Musulmani è stata la più problematica, in quanto loro stessi sono portatori di un’identità problematica, di un’identità che risulta difficile da presentare in maniera chiara, univoca, cristallina, per il fatto che si muove su un doppio binario sulle questioni di principio.

D. - C’è un aspetto, però, meritevole di approfondimento. Se ne è parlato a proposito di Bin Laden e dello stesso Saddam Hussein. Riguarda l’uso strumentale della questione palestinese. Esiste un radicalismo islamico in Palestina ed uno al di fuori della Palestina. Quest’ultimo, fino a poco tempo fa, sembrava non avere mai avuto a cuore la causa palestinese. Che relazione c’è a Suo avviso tra queste due posizioni? La questione palestinese può diventare la base di convergenza per differenti radicalismi o siamo in presenza soltanto di un utilizzo tattico, dettato da ragioni di opportunismo?

R. - Il radicalismo islamico ha al suo interno diverse scuole, differenti comunità. Principalmente, a ben vedere, sono due. La prima è quella che fa riferimento ai Fratelli Musulmani, che perseguono l’obiettivo dell’islamizzazione della società dal basso, tenendo conto del contesto istituzionale in cui agiscono. Ciò non vuol dire essere legalitari al cento per cento, ma significa non essere contro le Istituzioni. La seconda comunità è quella che viene solitamente chiamata salafita. Nel caso specifico di Bin Laden viene in evidenza la corrente wahabita, un movimento puritano che, a partire dal 1700 in Arabia Saudita, tende a purificare l’Islam da tutte quelle che vengono considerate innovazioni apportate nel corso dei secoli al pensiero e all’esempio originario del profeta Maometto. Il pensiero salafita si divide a sua volta in varie correnti. Esiste un salafismo chiamato “scientifico”, che persegue l’obiettivo di islamizzare la società. I Fratelli Musulmani vorrebbero farlo a partire dal basso, mentre i salafiti vorrebbero imporlo dall’alto. Mirano cioè direttamente alla conquista del potere politico. Mentre i Fratelli Musulmani operano a partire dalle moschee, dalle scuole e dalle istituzioni sociali, i salafiti cd. scientifici rimangono nell’area delle Istituzioni. Il salafismo cui fa riferimento Bin Laden, che abbraccia l’ideologia del takfir, cioè dell’anatema nei confronti della società, è invece un salafismo che ha rotto tutti i ponti con le Istituzioni e con la società, che ha condannato di apostasia i governi e le stesse società islamiche considerate contrarie al vero Islam e che adotta la lotta armata come strumento principe per conquistare il potere. Tra un’organizzazione come Hamas, che si richiama al modello dei Fratelli Musulmani, e un’organizzazione come quella di Bin Laden, o il fronte internazionale del jihad contro gli ebrei e i crociati, che è invece di ispirazione salafita jihadista (che crede, cioè, nel jihad) la frattura è sicuramente sul piano ideologico. La lotta armata è un elemento che li unisce, così come li unisce più in generale la comune fede in una ideologia islamica che deve imporsi. Hamas la vorrebbe imporre in Palestina, Bin Laden la vorrebbe imporre su un piano più globale, partendo dall’Arabia Saudita. Non dimentichiamo, infatti, che il suo obiettivo iniziale è proprio quello di prendere il potere in Arabia Saudita. Tuttavia, nel momento in cui la situazione si inasprisce, Hamas e l’organizzazione di Bin Laden si ritrovano, contro la loro stessa volontà, ad essere costrette a fronteggiare un comune nemico, in questo caso gli Stati Uniti, che mette entrambe le organizzazioni nello stesso paniere, nello stesso “asse del male” o nel medesimo elenco di organizzazioni terroristiche da combattere. E allora, cosa succede? Questi due fronti si trovano costretti all’alleanza per fronteggiare il comune nemico. Lo stesso processo riguarda anche le organizzazioni sciite, Hezbollah, che da un punto di vista comunitario, dottrinario, ideologico non hanno nulla da condividere con Hamas e tanto meno con Al Qaeda di Bin Laden, ma per ragioni tattiche cominciano ad essere, e potrebbero esserlo sempre più, costrette ad allearsi per fronteggiare il comune nemico. In questa lotta potrebbe verificarsi che tali organizzazioni concordino anche una strategia di esportazione del terrorismo verso l’Occidente. Al Qaeda lo fa già, è parte integrante del suo programma di lotta. Hezbollah lo ha fatto in passato per un certo periodo di tempo. Sicuramente è accaduto nel 1992 e nel 1994, con gli attentati in Argentina contro l’ambasciata israeliana e il centro culturale ebraico. Hamas finora non ha mai compiuto attentati, per quello che ci è dato sapere, all’esterno della Palestina, ritenendo che il suo campo di battaglia sia tutta la Palestina, nella misura in cui non è riconosciuta la legittimità dello Stato d’Israele. Non può essere tuttavia escluso che questa strategia possa cambiare. Sotto questo profilo, gli attentati di Mombasa pongono già un interrogativo. L’azione è stata rivendicata dalla sigla, probabilmente fittizia, “Esercito della Palestina”. Il fatto che gli attentati, pur essendo stati rivendicati di fatto dall’organizzazione di Bin Laden, siano stati diretti per la prima volta contro obiettivi israeliani al di fuori dello Stato d’Israele e del territorio palestinese, con una rivendicazione a firma dell’Esercito della Palestina, sta ad indicare un cambiamento. Mette fine in altre parole ai dubbi circa l’impegno di Bin Laden per la questione palestinese, dubbi sollevati finora da molti, compreso lo stesso Arafat. Si tratta di un segnale nei confronti delle organizzazioni islamiche palestinesi che adottano la lotta armata e il terrorismo per favorire la saldatura della loro azione, saldatura che potrebbe trovare in Occidente il suo territorio di elezione. Teniamo presente che le strutture esistono già, come esistono le comunità palestinesi ed islamiche che, qui torniamo all’inizio della mia lunghissima risposta, credono nella sacralità della causa palestinese e nella legittimità della guerra santa e degli attentati suicidi perpetrati dai palestinesi nel nome della causa palestinese.
Nelle conclusioni del mio libro, sottolineo proprio come la questione palestinese sia probabilmente l’unico vero collante tra le organizzazioni islamiche in Italia, che sono divise su tantissime questioni ma su questo punto si ritrovano tutte d’accordo.

D. - Vorremmo ancora conoscere il Suo punto di vista sul rapporto tra la comunità islamica moderata e coloro che sostengono posizioni radicali. Si può immaginare che il cittadino normale, che professa la religione islamica, non approvi chi si pone su posizioni radicali anche perché tale realtà è fonte di discriminazioni per la comunità musulmana. In questo senso, molti sostengono l’importanza del nuovo corso della Turchia, la cui esperienza può essere fondamentale per legittimare le posizioni moderate, dare speranza a tutti coloro che si vogliono svincolare da posizioni radicali. Qual è la sua percezione per quanto riguarda la comunità musulmana in Italia? Come la pensa la maggioranza degli islamici moderati in Italia su questo punto?

R. - Partirei da una premessa. I musulmani nel mondo sono un miliardo e 250 milioni e rappresentano un quinto dell’umanità. Questo già di per sé fa capire come parlare di scontro di civiltà, prefigurare uno scontro con un quinto dell’umanità sia un’idea folle che porterebbe ad una catastrofe a livello planetario. Bisogna sempre porsi una domanda di fondo, quando si affrontano queste questioni: di chi stiamo parlando? Se facciamo riferimento all’undici settembre, agli attentati, a Bin Laden, allora dobbiamo considerare queste realtà per quello che sono realmente e cercare di comprenderne la consistenza, la natura, il pensiero, la strategia, l’azione e tutto ciò che le riguarda. Scopriremo in primo luogo che abbiamo a che fare con un contesto che è plurale, in cui questo tipo di organizzazioni sono una frangia minoritaria che da sempre, con denominazioni diverse, ha rappresentato all’interno dell’Islam un problema per i musulmani stessi. Tre dei quattro primi califfi, cioè successori del profeta Maometto, sono stati assassinati da altri musulmani. La conflittualità è sempre stata presente all’interno dell’Islam. Più recentemente, il terrorismo di matrice islamica si è scagliato e ha danneggiato in primo luogo le popolazioni musulmane, prima di interessare le popolazioni altre, l’Occidente. Basta considerare quello che è avvenuto e sta, purtroppo, continuando ad avvenire, in Algeria, in Egitto e anche in altri paesi arabi e musulmani. Il terrorismo di matrice islamica è un terrorismo che mira fondamentalmente a rovesciare i regimi arabi e musulmani e ad imporre il proprio potere su popolazioni arabe e musulmane.

D. - Tuttavia, calandoci nella realtà italiana, dobbiamo prendere atto che la maggior parte delle popolazioni musulmane che vivono in Italia non è italiana, o non è nata in Italia. Sono popolazioni migranti che vengono da altri paesi. Può succedere che la comunità musulmana si senta più discriminata e quindi, in qualche modo, si avvicini a posizioni di dissenso nei confronti dell’Italia. Può anche accadere, al contrario, che la comunità moderata abbia la forza per isolare completamente le posizioni radicali, individuate come fonti di problemi. La struttura della società musulmana in Italia ha una forza e un peso politico tali da isolare il radicalismo o sussiste, invece, il rischio che la discriminazione, che può aumentare in presenza di determinati fatti, porti paradossalmente molti musulmani a spostarsi su posizioni più radicali?

R. - Anche in questo caso bisogna osservare la realtà ed identificarne bene i protagonisti. In tal modo scopriamo che la percentuale di coloro che frequentano abitualmente le moschee sono il 5% del totale dei musulmani presenti in Italia, quindi una percentuale molto bassa. Coloro che parlano a nome di luoghi di culto o di associazioni islamiche, o che gravitano intorno a questi ambienti, sono, quindi, rappresentanti di una infima minoranza. La stragrande maggioranza dei musulmani italiani è sostanzialmente laica nel rapporto con la religione e, soprattutto, nel rapporto con le Istituzioni. Questo serve per chiarire che, quando si ha a che fare con fenomeni eversivi o potenzialmente tali, possiamo contare su una maggioranza di musulmani in Italia che è sostanzialmente sintonizzata con quelle che sono le posizioni delle Istituzioni. Esistono, invece, problemi legati all’incapacità di alcuni settori delle comunità musulmane a stabilire un rapporto positivo con le Istituzioni. Ciò non accade per ragioni religiose, ma per motivazioni di tipo socio-economico. Come Lei giustamente ricordava, la stragrande maggioranza dei musulmani in Italia sono immigrati e certamente esistono problematiche che attengono al loro essere immigrati. Anche in questo caso, siamo in presenza di un doppio binario. Abbiamo un problema di integrazione che è purtroppo lacunosa. Diciamo pure che in Italia non esiste, tuttora, una cultura dell’immigrazione che, dal momento in cui l’immigrato arriva in Italia, favorisca il suo inserimento in modo costruttivo in seno alla società. Non si realizza alcun processo che consideri l’immigrato una risorsa e investa su questa risorsa, ritenendolo un investimento produttivo che è nell’interesse della società autoctona e degli immigrati stessi. Il deficit in questo approccio è causa di problemi di emarginazione, di fenomeni di devianza legati all’emarginazione che riguardano varie fasce di immigrati, compresi i musulmani. È naturalmente importante distinguere i problemi di devianza legati alla religione da quelli che invece hanno radici economiche e culturali. Sicuramente l’affermazione di una cultura dell’immigrazione favorirebbe l’ulteriore riduzione di quel bacino di emarginazione e di devianza a cui attingono, in qualche modo, anche gli integralisti islamici. Se esistono sbandati che passano le giornate privi di un’occupazione e a costoro si offre di spacciare droga e i proventi di questa droga vanno a finanziare certe attività, o si propone loro di compiere altre attività che comunque finiscono per rafforzare i movimenti islamici, è più facile che queste persone si prestino nel momento in cui non hanno nulla da perdere. Il mio convincimento è che l’Italia si trovi in una fase storica in cui esiste la possibilità di imporre una cultura della legalità sia nel contesto ampio dell’immigrazione che nel contesto specifico della religiosità, compresa quella islamica, quella in un certo senso più problematica. Perché ciò accada, è necessario che l’Italia percepisca e faccia propria una cultura in base alla quale senta il dovere di essere protagonista di un processo. L’integrazione non si realizza per buona volontà di una delle due parti, bisogna essere in due. L’Italia, lo Stato, le Istituzioni italiane sono il protagonista principale. Nel caso specifico dell’Islam, si deve tener presente che non è mai esistito nella storia un Islam astratto, decontestualizzato, deistituzionalizzato, depoliticizzato, destatualizzato. Tutti gli Islam sono da sempre al plurale e hanno una loro connotazione particolare a seconda dello Stato, delle Istituzioni e del contesto in cui vivono. Ciò vale anche per l’Italia. Se lo Stato italiano si mantiene neutro, sostenendo la propria laicità, lascia la gestione della realtà alle forze che sono interessate ad occuparsene. Queste forze sono, oggi, in Italia, i Fratelli Musulmani, le forze jihadiste e, in misura minore, alcune forze moderate tra cui i sufi, che sono ortodossi, e quindi si attengono al pieno rispetto della legalità.Ma in misura maggioritaria sono forze fondamentaliste che perseguono l’obiettivo dell’islamizzazione della società. Ci vuole quindi consapevolezza. In Francia, ad esempio, esiste una Consulta delle comunità musulmane. Le comunità in Francia sono molto diverse e conflittuali tra loro. Per questa ragione lo Stato francese si è attivato, prima sviluppando un dialogo con ciascuna delle organizzazioni, poi attraverso un tavolo più allargato, con un minimo comun denominatore di quanto emerso nelle trattative separate, salvaguardando alcuni criteri di fondo quali il rispetto delle leggi e dei valori portanti della Costituzione. Questo meccanismo funziona, perché lo Stato francese ha capito - teniamo presente che in Francia ci sono cinque milioni di musulmani - che non può mantenere un atteggiamento di neutralità. Altro aspetto molto importante, di cui parlavamo anche in precedenza, è quello della formazione degli Imam, delle guide religiose. In Francia si sostiene che lo Stato deve intervenire, dando vita ad un istituto a livello universitario per la formazione degli Imam, perché l’Islam in Francia deve essere un Islam francese. Non si devono accettare, quindi, gli Imam che vengono dall’estero e che sono portatori di ideologie estranee alla cultura e ai valori nazionali.


(*) A cura della Redazione. L’intervista è stata rilasciata il 16 dicembre 2002.

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