La sera del 3 maggio 1991 i telegiornali aprirono con la notizia dell'uccisione a Taurianova di quattro persone, una delle quali con modalità tali da far inorridire l'opinione pubblica nazionale e da essere ampiamente riprese anche dalla stampa estera.
Il giorno successivo i figli di una delle vittime riuscirono miracolosamente a salvare la vita, pur rimanendo gravemente feriti da killer travestiti da carabinieri che avevano evidentemente il compito di annientare l'intera famiglia.
Taurianova, centro agricolo della piana di Gioia Tauro con poco più di 17.000 abitanti, era da tempo al centro di episodi mafiosi di inaudita gravità e violenza.
Cronisti di tutte le parti del mondo furono inviati a documentare il "caso Taurianova": i giornali riportarono una sequela impressionante di omicidi, dalla strage di contrada Razzà a metà degli anni settanta, ove nel corso di un violentissimo conflitto a fuoco rimasero uccisi due pregiudicati e due militari dell'Arma, sino ad allora.
Sul versante del crimine organizzato il ritorno sulla scena del boss locale, rimasto assente dal 1984 al 1987 a causa di una condanna all'ergastolo per omicidio, vanificata dalla decorrenza dei termini, sembrò coincidere con la fine dello stato di anarchia che regnava tra le bande. Significativa fu una singolare coincidenza: la microcriminalità (furti, rapine, estorsioni, piccolo spaccio di sostanze stupefacenti) che era esplosa a Taurianova nel periodo di assenza del boss, cessò con il suo ritorno e la riconquista delle antiche posizioni di potere. Ma la riaffermazione della "pace sociale" passò attraverso l'eliminazione fisica di diciotto giovani che avevano osato turbarla.
L'uccisione del boss e del suo luogotenente, avvenuta nel 1990, riaprì la guerra fra le cosche per il controllo economico della zona e il dominio di ogni attività parassitaria, sia nel campo delle estorsioni che dell'accaparramento dei subappalti.
In poco più di un anno si contarono trentatré delitti, quindici tentati omicidi e decine di danneggiamenti a scopo intimidatorio. Le forze dell'ordine, già oltremodo impegnate, risposero con la richiesta di misure di prevenzione nei confronti di decine di pericolosi elementi.
Il clima di paura e di violenza si rifletteva anche sul piano amministrativo: in consiglio comunale si susseguivano dimissioni e surroghe di consiglieri. Uno di essi fu assassinato con modalità tipicamente mafiose a colpi di lupara mentre si trovava all'interno di un salone da barbiere.
Era evidente che di fronte a una tale pressione criminale era difficile attendersi azioni di denunzia da parte della popolazione o delle autorità locali. Del resto "l'occupazione" dell'amministrazione comunale di Taurianova era già avvenuta, tanto che un noto personaggio del luogo aveva potuto concludere un discorso tenuto alla cittadinanza dal balcone di casa propria asserendo di essere "l'uomo della provincia di Reggio Calabria che ha sistemato più gente".
La prefettura era intervenuta in più occasioni con provvedimenti di rigore nei confronti di singoli amministratori, ma era chiaro che la criminalità organizzata condizionava la vita dell'intero consiglio comunale, compromettendone il regolare funzionamento e influendo sullo stato della sicurezza pubblica.
Emblematico era il fatto che secondo una stima delle forze dell'ordine almeno il 90 per cento delle costruzioni edificate negli ultimi vent'anni fosse abusivo: la loro edificazione veniva infatti affidata a ditte appartenenti a "uomini d'onore", gli unici in grado di garantire l'esecuzione dell'opera. Non era mai accaduto che il comune fosse intervenuto per interrompere l'illecito.
Appariva dunque evidente che all'impegno profuso dalle forze dell'ordine per garantire la sicurezza pubblica (fu disposta anche l'istituzione di un commissariato di P.S.) dovessero aggiungersi interventi mirati dallo Stato nei confronti dell'amministrazione comunale. Questa esigenza era ben chiara, ma quali erano gli strumenti legislativi a disposizione?
La legge 8 giugno 1990, n. 142, sul nuovo ordinamento delle autonomie locali, all'art. 39, consentiva lo scioglimento dei consigli comunali in caso di atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico. Dopo i necessari approfondimenti si convenne, anche alla luce della giurisprudenza sino ad allora affermatasi, che l'art. 39 sarebbe stato di difficile applicazione al caso in questione. Non si trattava di sottili disquisizioni giuridiche, ma della necessità di assicurare che il provvedimento di rigore reggesse anche di fronte a un alquanto probabile ricorso amministrativo: le conseguenze di un suo eventuale annullamento sarebbero state fortemente negative, con effetti demotivanti facilmente intuibili sulla parte sana della popolazione taurianovese.
Appariva quindi inevitabile che il governo avrebbe dovuto fare ricorso ai suoi poteri in materia di decretazione d'urgenza allo scopo di introdurre nell'ordinamento un’ipotesi di scioglimento del tutto nuova rispetto a quelle fino ad allora previste. Il Ministro dell'Interno Vincenzo Scotti decise di sottoporre la questione al Consiglio dei Ministri.
Anche il Ministro di Grazia e Giustizia, nonché Vice Presidente del Consiglio, Claudio Martelli, fortemente colpito dall'efferata strage avvenuta il 3 maggio, auspicò lo scioglimento del consiglio comunale di Taurianova come prima tappa per il ripristino di condizioni di legalità. Si svolse così al Viminale un incontro al quale parteciparono anche incaricati del Ministro Martelli. In quell'occasione si convenne sulla necessità di emanare una nuova norma ad hoc che configurasse lo scioglimento degli enti nei cui confronti fossero stati riscontrati fenomeni di infiltrazioni o condizionamento da parte della criminalità organizzata. L'amministrazione straordinaria di tali enti sarebbe stata assicurata da una commissione per un periodo sufficientemente lungo a garantire il ripristino delle condizioni di legalità. In seguito a una serie di incontri fu approntato il testo di un provvedimento che, una volta deliberato dal Consiglio dei Ministri, divenne il decreto legge 31 maggio 1991, n. 164, recante: "Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, di tipo mafioso". Il decreto legge, che introduceva l'articolo 15 bis alla legge antimafia n. 55 del 1990, prevedeva dunque un'ipotesi nuova di scioglimento rispetto a quelle previste dalla legge sulle autonomie locali del 1990.
Il decreto legge 164 disponeva che i consigli comunali e provinciali potevano essere sciolti quando, in seguito all'esercizio dei poteri conoscitivi e ispettivi del prefetto, fossero emersi elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o forme di condizionamento degli amministratori tali da compromettere l'imparzialità e il buon andamento degli organi elettivi, il regolare funzionamento dei servizi, o fossero tali da arrecare pregiudizio per la sicurezza pubblica.
In considerazione della specificità delle cause poste alla base del provvedimento di scioglimento, il decreto legge prevedeva che esso venisse deliberato dal Consiglio dei Ministri prima di essere sottoposto alla firma del Capo dello Stato. La durata del periodo di scioglimento fu stabilita in un periodo compreso tra dodici e diciotto mesi, un periodo cioè assai più ampio rispetto alle ipotesi contemplate dalla legge 142/90. La norma stabiliva inoltre la nomina, con il decreto di scioglimento, di una commissione straordinaria incaricata della gestione dell'ente, composta da tre membri scelti fra funzionari dello Stato e fra magistrati della giurisdizione ordinaria o amministrativa. L'opzione in favore di un organo collegiale, in luogo di un organo monocratico, corrispondeva alla preoccupazione di configurare un organismo che, chiamato a operare in un contesto sociale caratterizzato da particolari difficoltà, fosse in grado di offrire maggiori garanzie per il ripristino dello stato di legalità.
Il decreto legge prevedeva inoltre una norma "anti-elusione", che consentiva cioè di far luogo all'adozione della misura di rigore anche in presenza di circostanze che avrebbero potuto determinare lo scioglimento per altre cause: si pensi ad esempio all'ipotesi di dimissioni di almeno la metà dei consiglieri, che avrebbe consentito lo svolgimento di elezioni dopo pochi mesi, bloccando così la possibilità di scioglimento per un periodo più lungo.
In attesa del decreto presidenziale di scioglimento, veniva conferito al prefetto, in presenza di motivi di urgente necessità, il potere di sospendere gli organi dalla carica ricoperta, nonché da ogni altro incarico ad essa connesso, assicurando la provvisoria amministrazione dell'ente.
Avvalendosi delle facoltà stabilite dal decreto legge, il prefetto di Reggio Calabria dispose la sospensione del consiglio comunale di Taurianova. Altrettanto fece il prefetto di Napoli nei confronti del consiglio comunale di Casandrino, rispetto al quale erano stati accertati fenomeni di condizionamento tali da compromettere la vita democratica dell'ente. I due consigli comunali, dopo la deliberazione del Consiglio dei Ministri, vennero infine sciolti con due decreti del Presidente della Repubblica, entrambi in data 2 agosto 1991.
Il decreto legge venne convertito nella legge 22 luglio 1991, n. 221.
I dubbi di costituzionalità della legge 221/91, che di fatto consentiva la sospensione del diritto di voto per l'elezione degli organi comunali anche per un lungo periodo, furono sciolti dalla Corte Costituzionale, investita dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con la sentenza 103 del 1993. Il TAR aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della legge sulla base di tre considerazioni: essa consentiva di attribuire rilevanza a collegamenti "indiretti" di taluni amministratori con la criminalità organizzata, riducendo in tal modo lo spessore probatorio; prevedeva lo scioglimento dell'intero organo elettivo pur in presenza di collegamenti della criminalità organizzata con soltanto alcuni degli amministratori, vulnerando il principio di personalità della responsabilità; stabiliva il permanere degli effetti dello scioglimento per un periodo da dodici a diciotto mesi, comportando in tal modo la sospensione del diritto di elettorato attivo garantito dalla Costituzione nonché la sospensione dell'autonomia degli enti locali garantita dalla Costituzione.
La Corte dichiarò le questioni non fondate e respinse il ricorso argomentando che le disposizioni impugnate erano formulate in modo tale da assicurare il rispetto dei principi che si ritenevano violati e contenevano in sé tutti gli elementi idonei "a garantire obiettività e coerenza nell'esercizio del potere straordinario di scioglimento degli organi elettivi". La Corte respinse anche l'eccezione di inammissibilità del ricorso che era stata sollevata dall'Avvocatura dello Stato. Quest'ultima riteneva che ai decreti di scioglimento dovesse riconoscersi la natura di atti politici, contro i quali, com’ è noto, non è consentito sindacato giurisdizionale. L'Avvocatura aveva rappresentato, a sostegno della propria tesi, che i provvedimenti di scioglimento rispondevano a esigenze unitarie e generali di difesa dello Stato dall'aggressione dei contropoteri criminali. La Corte argomentò il rigetto dell'eccezione osservando che gli atti politici, da individuarsi con criteri restrittivi stante il principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale, attengono alla direzione suprema e generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. Requisiti, questi, che la Corte non rinvenne nei provvedimenti di scioglimento che "rispondono a un interesse specifico dello Stato, per quanto pressante e necessaria sia l'esigenza dell'intervento".
Sulla base dell'esperienza maturata nei primi due anni di applicazione della legge 221/91, emerse l'esigenza di apportare alcune modifiche e integrazioni allo scarno impianto normativo, al fine di renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose negli enti locali.
In particolare, risultò chiaro che in taluni casi il ritorno alla gestione ordinaria dei comuni sciolti avrebbe comportato la ricandidatura alle elezioni delle stesse persone che erano state causa del provvedimento di scioglimento, vanificando così l'opera di risanamento svolta dalla commissione straordinaria. Altra esigenza che emerse fu quella di consentire alla commissione straordinaria di avvalersi di personale esterno all'amministrazione comunale. Non era infrequente difatti che si riscontrasse la presenza nell'apparato comunale di personale legato alla precedente gestione o, comunque, assunto con criteri non propriamente rispondenti all'esigenza del perseguimento dell'interesse pubblico. Inoltre, apparve chiara la necessità di costituire presso il Viminale un nucleo dedito al sostegno dell'attività delle commissioni straordinarie.
Tali esigenze trovarono risposta nell'emanazione da parte del Governo del decreto legge 19 ottobre 1993, n. 420, reiterato nel decreto legge 20 dicembre n. 529, che fu infine convertito nella legge 11 febbraio 1994, n. 108.
La legge 108 introdusse la possibilità di prorogare la durata dello scioglimento, stabilita in un periodo compreso fra i dodici e i diciotto mesi, fino a un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali. In merito all'esigenza di assicurare il regolare funzionamento dei servizi pubblici, fu introdotta la possibilità per il prefetto di disporre, su richiesta della commissione straordinaria, l'assegnazione in via temporanea o il distacco di personale amministrativo e tecnico di amministrazioni ed enti pubblici, anche in posizione di sovraordinazione. Presso il Ministero dell'Interno fu, inoltre, istituito il comitato di sostegno e monitoraggio dell'azione delle commissioni straordinarie e dei comuni riportati a gestione ordinaria. Infine, la legge 108 istituì un circuito preferenziale per l'accesso ai finanziamenti statali e regionali per la realizzazione di opere pubbliche e per far fronte alle disfunzioni dei servizi di competenza degli enti commissariati. Allo scopo di garantire nel tempo il ripristino delle condizioni di funzionalità di tali enti, la legge 108 precisò che il circuito preferenziale per l'accesso ai finanziamenti permanesse anche per la durata del primo mandato elettivo conseguente alla cessazione del commissariamento straordinario.
Dal 1994, l'art. 15 bis non è stato oggetto di ulteriori integrazioni, in quanto ha dimostrato sul piano normativo di essere un valido strumento di contrasto delle infiltrazioni e dei condizionamenti malavitosi. A riprova della validità della norma vi è la circostanza che essa ha retto egregiamente non solo alle eccezioni di incostituzionalità presentate all'indomani della sua emanazione, ma anche di fronte ai numerosissimi ricorsi di natura amministrativa di cui è stata fatta oggetto.
L'unico intervento sull'art. 15 bis, di tipo comunque meramente formale, è stato attuato in occasione dell'emanazione del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali. Il contenuto dell'art. 15 bis è stato trasfuso nel titolo VI, capo II, del testo unico, e in particolare negli articoli 143, 144, 145 e 146.
Nei casi in cui la mafia entra in comune, arrivando a controllare il tassello dello Stato più vicino ai cittadini, vengono meno i principi fondamentali delle convivenza civile. Dove il governo del territorio viene esercitato da amministratori collusi con la criminalità organizzata i segni sono evidenti: assenza di piani regolatori, inefficienza dei servizi di polizia municipale, scuole in rovina, strade dissestate, rifiuti abbandonati per la mancanza di raccolta, abusivismo edilizio dilagante che non risparmia neppure il suolo demaniale, assistenza sanitaria inesistente, cimiteri abbandonati, personale assunto in maniera clientelare e senza selezione di merito, assolutamente impreparato ad affrontare le incombenze lavorative.
Le relazioni delle commissioni straordinarie evidenziano come una delle principali esigenze che si manifestano all'atto del loro insediamento sia quella di mettere mano agli interventi più elementari di ripristino dei servizi essenziali. Quest'opera, già difficile in sé per il particolare contesto ambientale, è resa ancora più ardua da un'altra costante di questi comuni: le condizioni paurose in cui si trovano i bilanci. Il dissesto finanziario è infatti un'altra caratteristica che accomuna i "governi" mafiosi. Le ragioni consistono nel fatto che la spesa pubblica, anziché essere finalizzata a soddisfare le esigenze della collettività, è diretta a favorire le imprese "contigue" o quelle direttamente controllate dai sodalizi criminali (sono frequenti i casi in cui si acquistano o si affittano macchinari a prezzi da capogiro, oppure si affidano servizi, come la tesoreria e la nettezza urbana, a condizioni di assoluto favore a società appaltatrici fittizie). Questo complesso di circostanze comporta una sorta di esenzione permanente dal pagamento di qualsiasi tassa o imposta. La totale inazione fiscale, che si manifesta nella mancata riscossione di tributi di ogni tipo, fa sì che le condizioni di indebitamento di tali comuni siano drammatiche e che essi dipendano, in tutto e per tutto, dai trasferimenti erariali dello Stato.
Lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazione mafiosa costituisce l'atto più rilevante attraverso il quale lo Stato interviene in situazioni di illegalità e degrado amministrativo. Prima di ricorrere a questo strumento, sicuramente traumatico, l'ordinamento consente di intervenire nei confronti di singoli amministratori.
L'articolo 40 della legge 142/90 (oggi art. 143 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) consente di rimuovere singoli amministratori, per gravi e persistenti violazioni di legge o per gravi motivi di ordine pubblico. Dall'entrata in vigore della legge 142 a oggi sono 289 gli amministratori locali rimossi. è da notare la loro distribuzione geografica: 246 al Sud (cioè l'85%), 32 al Centro (31 nella sola provincia di Roma) e solo 11 al Nord.
Inoltre, l'art. 15 della legge n. 55 del 19 marzo 1990 stabilisce le cause ostative alle candidature e di sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali. L'art. 15 è stato nel tempo profondamente modificato, prima dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 14 del maggio 1996, poi dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475, che ha recepito le indicazioni della Corte Costituzionale (oggi artt. 58 e 59 del Testo Unico).
Originariamente l'art. 15 della legge 55 prevedeva che non potevano essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali o circoscrizionali e che non potevano, di conseguenza, ricoprire un qualunque incarico di amministratore locale coloro che avessero riportato condanna, anche non definitiva, per reati come l'associazione a delinquere di tipo mafioso, il traffico di droga, la detenzione o il commercio illegale di armi, il peculato, la concussione e la corruzione. Erano equiparate alla condanna sia la richiesta di rinvio a giudizio, sempre per reati di tipo mafioso o relativi a droga e armi, sia le misure di prevenzione applicate dal tribunale anche se con provvedimento non definitivo. In tutti questi casi l'amministratore locale già eletto decadeva dalla carica.
Nel maggio '96 la Consulta ha dichiarato illegittima la norma nella parte in cui disponeva l'ineleggibilità o la rimozione per condanne non definitive, richieste di rinvio a giudizio e misure di prevenzione. La sentenza è arrivata mentre il Parlamento discuteva alcune proposte di modifica della legge n. 55, proposte che però sono state approvate definitivamente solo alla fine del '99. La novità più rilevante introdotta dalla legge 475 è che, diversamente da quanto accadeva, è venuta meno l'incandidabilità per i condannati in primo grado o anche in appello per associazione a delinquere di tipo mafioso o per traffico di droga o di armi. Subito dopo, però, qualora il candidato venga eletto, sarà sospeso dalla carica per un periodo di diciotto mesi. Trascorso questo tempo, se non interverrà una condanna definitiva, sarà reintegrato. In sintesi, senza condanna definitiva non vi può più essere ineleggibilità.
E' questa una norma garantista, in parte provocata dalla sentenza della Corte Costituzionale, ma alla quale non sono estranee alcune note vicende, come quelle del Sindaco di Cosenza, Giacomo Mancini, o del Presidente della provincia di Palermo, Francesco Musotto, assolti dopo essere stati inquisito il primo e arrestato il secondo. La nuova legge prevede anche una novità di carattere restrittivo: per quanto riguarda l'ineleggibilità e, quindi, la decadenza dalle cariche, il patteggiamento viene equiparato alla condanna definitiva. In pratica, chi patteggia una condanna per reati gravi non può essere eletto o decade dall’incarico qualora il patteggiamento sia avvenuto successivamente all'elezione.
Sono 125 i consigli comunali sinora sciolti per fenomeni di condizionamento e infiltrazione della criminalità organizzata. Undici comuni sono incorsi due volte nella misura sanzionatoria: a un primo scioglimento ne è dovuto seguire un secondo, essendosi riscontrato il perdurare del condizionamento mafioso. In nove casi si è reso necessario prorogare la durata dello scioglimento, in quanto il ritorno degli organi elettivi avrebbe potuto comportare la rielezione della compagine che era stata causa del provvedimento di scioglimento.
I provvedimenti di scioglimento hanno riguardato quasi esclusivamente comuni del Sud: 59 in Campania, 33 in Sicilia, 24 in Calabria, 7 in Puglia, 1 in Basilicata. In un solo caso lo scioglimento ha colpito un comune del Nord: si tratta di Bardonecchia, ove si erano verificati condizionamenti da parte di appartenenti alla 'ndrangheta. Le province ove più elevato è il numero dei comuni sciolti sono quelle di Napoli (30), Caserta (20), Reggio Calabria (17), Palermo (17) e Catania (8). In queste cinque province si concentra infatti il 75 per cento degli scioglimenti complessivi.
Fa ben sperare il fatto che il numero degli scioglimenti, dopo i picchi registrati nei primi anni, si sia sostanzialmente stabilizzato: 21 nel 1991, 21 nel 1992, 34 nel 1993, 4 nel 1994, 3 nel 1995, 8 nel 1996, 7 nel 1997, 6 nel 1998, 6 nel 1999, 4 nel 2000, 6 nel 2001 e 5 nel 2002.
Il dato è interessante anche con riguardo alla popolazione dei comuni sciolti: nel 1991 sono stati sciolti comuni con un numero complessivo di abitanti pari a 352.289, 317.264 abitanti nel 1992, 824.732 nel 1993, 71.478 nel 1994, 5.589 nel 1995, 84.772 nel 1996, 47.569 nel 1997, 67.380 nel 1998, 153.728 nel 1999, 24.096 nel 2000, 53.159 nel 2001, 188.341 nel 2002.
Sono dati significativi, che testimoniano una migliore selezione della classe politica locale, ma anche i successi conseguiti nella lotta al crimine organizzato.
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