D. Tra le questioni al centro del processo di trasformazione che sta interessando da tempo la società italiana, un posto di primo piano rivestono il tema del lavoro, della sua organizzazione e delle sue regole, quello del ruolo delle parti sociali, nonché la rilevanza delle scelte in questo settore nel più ampio contesto della politica economica nazionale. Vorremmo aprire questa conversazione chiedendoLe di illustrare ai nostri Lettori quali sono i passaggi essenziali del cambiamento in atto in questo delicato settore, quali le necessità più urgenti ed infine l’orizzonte strategico cui ritiene il Paese debba tendere nel medio periodo.
R. L’Italia è oggi il paese con il più basso tasso di occupazione in Europa, quello femminile in particolare. Inoltre, è il Paese con il più marcato divario territoriale in termini di occupazione e il più alto livello di disoccupazione di lungo periodo. Alla luce delle indicazioni della Strategia Europea per l’Occupazione, la situazione del nostro Paese mostra tutta l’insufficienza delle politiche fin qui adottate e una generale condizione di sottoutilizzo delle risorse umane.
Per questo il Governo, fin dalla presentazione del Libro bianco, si è orientato verso la promozione di una società attiva, ove maggiori siano le possibilità di occupazione per tutti, migliore sia la qualità dei lavori, più moderne le regole che presiedono all’organizzazione dei rapporti e dei mercati del lavoro.
La strada per raggiungere l’obiettivo europeo, che - ricordo - prevede un tasso di occupazione attorno al 70% nel 2010, è però lunga e impegnativa. Tuttavia, l’adozione di politiche del lavoro mirate può migliorare sostanzialmente, nell’arco del prossimo quinquennio, l’intensità e la qualità occupazionale della crescita.
A questo obiettivo devono concorrere vari fattori: dalla più intensa partecipazione dei giovani, delle donne e degli anziani al mercato del lavoro, all’ulteriore diffusione del lavoro autonomo e di ogni forma di autoimpiego, all’emersione di tutte le forme di lavoro irregolare, con particolare attenzione alla situazione del Mezzogiorno. L'economia sommersa ha raggiunto infatti nel nostro Paese una dimensione abnorme: secondo dati del Fondo monetario internazionale, in Italia il fenomeno ha un'incidenza doppia rispetto alla media Ue e Ocse.
Inoltre, il lavoro sommerso non è soltanto luogo di tutele insufficienti, ma spesso rappresenta anche una condizione di immanente pericolo per l'incolumità delle persone, tanto da rappresentare una priorità anche per le politiche di igiene e sicurezza nel lavoro.
La prima politica volta a garantire un lavoro di qualità dev’essere quindi rivolta all’emersione e al contrasto dell’economia sommersa, cui il Governo ha dedicato una “terapia d’urto”, che i provvedimenti attualmente all’esame del Parlamento - frutto anche del Patto per l’Italia raggiunto nel luglio scorso - intendono ulteriormente sostenere.
Le politiche del lavoro non possono prescindere dalle caratteristiche e dalle differenze dei mercati del lavoro locali. Il quadro di riferimento generale, all’interno del quale possano essere adottate misure differenti per realtà diverse, dovrà quindi riconoscere e valorizzare le diversità e specificità delle dimensioni regionali.
Gli interventi sul mercato del lavoro si intrecceranno a quel livello con la riforma dei percorsi formativi e della formazione professionale in particolare, che deve rappresentare uno strumento di base per sostenere una offerta formativa più efficace e capace di aprire reali opportunità occupazionali.
In una economia che richiede continui adattamenti delle conoscenze, il problema di una migliore integrazione tra formazione e lavoro riguarda in realtà non solo i giovani, ma tutti i lavoratori occupati: si tratta di potenziare in generale il loro capitale culturale, in modo da renderli più “forti” nel mercato del lavoro e di aumentare quella mobilità di cui il nostro paese ha assolutamente bisogno.
Purtroppo, il passaggio delle competenze dallo Stato alle Regioni trova molti dei vecchi uffici di collocamento in condizioni di funzionamento persino peggiori di quelle in cui si trovavano prima della riforma e ciò condiziona negativamente il funzionamento di tutto il nostro mercato del lavoro. Anche l’assorbimento di una quota di disoccupazione strutturale e l’innalzamento del tasso di occupazione dipenderanno in misura rilevante dal successo di questi servizi di diffusione e di scambio di informazioni.
La riforma del mercato del lavoro, che sta concludendo il suo percorso parlamentare, vuole accrescere le possibilità di accesso al mercato del lavoro e rafforzare la protezione del lavoratore nel mercato, bilanciando le esigenze di flessibilità delle imprese con il bisogno di sicurezza individuale.
Ma soprattutto intende promuovere quest’ampia azione di modernizzazione di cui il nostro Paese ha certamente bisogno e che l’Europa più volte ci ha sollecitato.
D. Un altro versante assai sensibile è quello delle trasformazioni dello stato sociale. Quale significato ritiene possa oggi attribuirsi, in un Paese moderno come il nostro, al concetto di stato sociale e quali scelte politiche pensa necessarie, in tale ambito, per tendere ad una sua piena realizzazione?
R. L’esigenza di una riforma strutturale dello Stato sociale è da tempo al centro del dibattito politico ed economico, ed è dovuta oltre che alle continue trasformazioni economiche e ai cambiamenti demografici, anche all’alto costo degli apparati pubblici destinati agli interventi di protezione sociale.
L’attuale modello è inefficiente non solo dal punto di vista economico generale, ma anche da quello dell’offerta di servizi di tutela e di sviluppo della persona.
Considerare le politiche sociali nella loro sola dimensione assistenzialistica è quindi il primo stereotipo da abbattere.
C’è bisogno poi di “rivisitare” gli schemi che orientano la composizione stessa della spesa da destinare a solidarietà sociale, ridefinendo le modalità operative per identificare i beneficiari e prevedendo anche eventuali misure differenziate.
Una politica sociale moderna ed efficace non può contraddistinguersi in base ad un’offerta indifferenziata di prestazioni e servizi per tutti su tutto il territorio, senza tener conto della specificità della domanda.
In altre parole, anche le politiche sociali andrebbero concepite come politiche attive e preventive, di accompagnamento e di promozione della coesione sociale, in grado di integrarsi strettamente con le politiche occupazionali, strutturali e macro-economiche.
Come d’altra parte, sul versante dell’occupazione, la migliore tutela dei cittadini è rappresentata soprattutto da un mercato del lavoro efficiente, trasparente e organizzato. Riforma dello Stato sociale e riforma del mercato del lavoro vanno integrate in una più compiuta strategia di Welfare to Work, in cui si comprendano tutti gli strumenti di protezione sociale rivolti a incoraggiare e assistere il cittadino nei percorsi e nelle reti di inclusione sociale e di inserimento - o reinserimento - nella vita attiva.
D. In entrambi i contesti descritti, lavoro e stato sociale, esiste a Suo avviso una specificità italiana rispetto agli altri Paesi europei? Più in generale, vede una soddisfacente coerenza tra quanto matura nel contesto nell’Unione Europea e la situazione del nostro Paese?
R. Anche se non esiste una Maastricht del sociale, il ruolo crescente delle politiche sociali è stato sottolineato con particolare forza sin dal vertice europeo di Lisbona.
In coerenza con la Carta Europea dei diritti fondamentali e con i principi della prossima Convenzione Europea, le diverse politiche dei governi in materia di protezione sociale dovranno sempre più svilupparsi in stretta relazione tra loro (il metodo del cosiddetto coordinamento aperto), mantenendo inoltre un’attenzione costante e speciale agli interventi sistematici in favore dell’inclusione sociale.
Esistono dei nodi dalle dimensioni sovra nazionali - come quelli rappresentati dagli andamenti demografici e dai fenomeni di invecchiamento della popolazione - le cui ricadute in termini di costi e di qualità di vita individuale e familiare debbono essere considerate con attenzione.
Le politiche sociali dovranno misurarsi con queste tendenze e con una domanda di servizi alla persona dalle dimensioni nuove, mentre una nuova centralità della famiglia e delle reti di solidarietà (formali e informali) possono giocare un ruolo essenziale nella riorganizzazione del sistema di welfare.
Anche per questo diventa quindi necessario impostare uno schema di gestione nell’erogazione dei servizi in cui lo Stato, il privato e il no profit possano coesistere in modo complementare e competitivo. E se al cittadino/beneficiario va riconosciuto il diritto di scegliere liberamente a chi potersi rivolgere, gli va però richiesto anche un atteggiamento proattivo di corresponsabilità, secondo un modello di composizione tra diritti e doveri di cittadinanza già sperimentato in altri paesi europei.
Esattamente ciò che anche la riforma del mercato del lavoro si propone di fare in Italia trasformando i tradizionali sussidi monetari alla disoccupazione che hanno sempre avuto una funzione assistenziale (prepensionamenti, cassa integrazione, indennità di mobilità e di disoccupazione), in forme di sostegno al reddito accompagnate e condizionate dalla partecipazione attiva a percorsi di reinserimento nel mercato del lavoro.
D. Una delle questioni chiave legate al mondo del lavoro è senza dubbio il ruolo del sindacato. Certamente le modificazioni del mondo del lavoro stanno cambiando la rappresentanza delle organizzazioni tradizionali. Secondo il Prof. Marconi, intervenuto sulla nostra Rivista, i lavoratori giovani si spostano in direzione del sindacalismo di base, oppure verso l’assenteismo e l’astensionismo associativo, mentre le organizzazioni di massa rappresentano soprattutto pensionati. Come interpreta, se lo condivide, questo processo? Ritiene in particolare che in Italia le attuali organizzazioni sindacali, seppur caratterizzate in questa fase da divisioni, possano svolgere un ruolo di primo piano nella definizione delle politiche del lavoro? Quali cambiamenti, se ritiene ve ne debbano essere, pensa siano necessari affinché sia garantita un’adeguata rappresentanza del lavoro nella politica che, in una società democratica, può essere vista anche come possibilità di emersione positiva, nell’ambito istituzionale, del conflitto sociale?
R. È giusto porre il problema di un nuovo sistema di relazioni industriali in Italia. Il sindacato antagonista rappresenta un’esperienza ormai consumata, mentre non si è ancora compiutamente affermato un modello nuovo, di tipo partecipativo.
Il Governo - da parte sua - nel Libro bianco sul mercato del lavoro, ha già dato un contributo che testimonia l’adesione alle culture e alle tesi proposte da una parte del sindacato italiano.
Il Libro bianco esalta il ruolo degli attori collettivi, esprime un dichiarato favore verso un ruolo autonomo delle associazioni di tutela della rappresentanza e usa l’espressione “sussidiarietà orizzontale”, riferendosi ai casi in cui il regolatore pubblico debba ritirarsi per lasciare spazio al ruolo degli attori collettivi e agli strumenti che essi liberamente si danno.
Il Governo ha compiuto in quest’anno diverse azioni in tal senso, per esempio incoraggiando le parti a raggiungere avvisi comuni in materia di tipologie contrattuali, sicurezza, orario di lavoro, e per ultimo ha siglato il Patto per l’Italia che ha segnato il momento più alto dell’intera stagione del dialogo sociale.
Gli strumenti partecipativi e di dialogo sociale diffusi, e non più solo centralizzati, sono funzionali ad un sistema di relazioni industriali che si baricentri quanto più possibile sull’azienda e sul territorio. Tale sistema può rappresentare un’evoluzione della tradizione e dell’esperienza italiana, può produrre forme di regolazione flessibili, può generare meccanismi di fidelizzazione del lavoro, e può rappresentare anche una spinta alla coesione sociale capace di tradursi in una diversa gestione del conflitto.
Modello contrattuale, modello partecipativo e rafforzamento delle capacità di rappresentanza vanno di pari passo. Se questa sinergia non si produce, i processi di disintermediazione degli attori collettivi potrebbero procedere e una larga parte della società potrebbe ad un certo punto trovarsi fuori dal dialogo sociale.
Potremmo scoprire che il mondo nel frattempo è cambiato, come è successo in altri paesi europei. E sarebbe tardi.
D. Nella prospettiva futura di trasformazioni profonde rispetto ai temi oggetto di questa conversazione, non può essere trascurato il rischio dell’accentuarsi delle tensioni e dello scontro sociale. Qual è la Sua visione in merito agli strumenti per garantire il processo di riforma in atto mantenendo il livello adeguato di coesione e stabilità sociale?
R. Il Patto per l’Italia, che abbiamo sottoscritto il luglio scorso con il consenso di ben 36 su 37 organizzazioni, non è un documento statico ma costituisce l’impegno a mantenere il metodo del dialogo sociale.
è ben vero che ineludibili esigenze di competitività e di rispetto dei vincoli dell’Unione Europea impegnano l’Italia a rendere più moderno il proprio mercato del lavoro e il proprio Stato sociale. Queste riforme comportano necessariamente il superamento di vecchie regole per produrre tutele più effettive e più sostenibili. Esistono tuttavia resistenze conservatrici che non sono eliminabili pena la rinuncia al cambiamento.
Il nostro sforzo sarà dedicato a coniugare ancora la migliore riforma con il massimo consenso possibile.
D. La recente recrudescenza del terrorismo interno di matrice brigatista si pone, purtroppo, come uno degli elementi che deve essere trattato in una conversazione sui temi della riforma sociale. è un fatto che i più recenti delitti rivendicati dalle Brigate Rosse - Tarantelli, D’Antona, Biagi - hanno tentato di inserirsi nel dialogo sociale attraverso l’atto terroristico. Che rapporto vede tra i processi di riforma e il ritorno del terrorismo brigatista? Esistono a Suo avviso, forme di prevenzione idonee a disinnescare il ricatto del minimalismo armato, togliendo il seppur minimo ascolto al messaggio brigatista?
R. Il tema del lavoro si è purtroppo confermato quale terreno privilegiato dell’azione brigatista che cerca sempre di porsi in sincronia con le tensioni sociali, nella speranza di acquisire una base di consenso, come si evince dai comunicati brigatisti nei quali si individua anche la mano di persone che conoscono il circuito politico sociale del lavoro.
Nessuno degli attori istituzionali e sociali può ovviamente accettare il ricatto terrorista e in relazione ad esso rinunciare alle proprie convinzioni. è peraltro certamente utile ricordare sempre che ogni contrasto di opinioni, per quanto forte, si colloca entro un quadro di valori e di obiettivi condivisi, quali sono non solo i fondamentali della nostra Repubblica, ma anche, nel caso del lavoro, i contenuti della Strategia Europea per l’Occupazione. Ciò aiuterebbe non solo genericamente ad “abbassare i toni”, ma ancor più a relativizzare il conflitto politico sociale riconducendolo alla dimensione di una normale dialettica democratica.
Sarebbe altresì necessario alzare collettivamente la guardia nei confronti di un fenomeno terrorista che in quanto più “raro” colpisce con periodicità più lunga che in passato ma che per questo risulta più difficile da individuare. Auspico quindi una rinnovata mobilitazione di tutte le organizzazioni sociali per produrre quella intelligenza e quella vigilanza collettiva che possono concorrere a isolare i fenomeni di “brodo culturale” del terrorismo e a segnalare le anomalie e le situazioni sospette nei luoghi di lavoro. Siamo probabilmente in presenza anche di figure eversive “coperte” che di giorno o per lunghi periodi svolgono attività normali, risvegliandosi in poche occasioni. Mi auguro che non sia necessaria un’altra vittima per ricordare la presenza di un fenomeno che da almeno quattro anni ha ripreso ad accompagnare la nostra vita democratica.