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Per Aspera Ad Veritatem n.24
Polvere di spie. Intelligence, misteri ed errori nella caccia a Bin Laden

Intervista all'Autore: Massimo Franco - Baldini e Castoldi, Milano, 2002



D. - Polvere di spie, dottor Franco, riferisce una citazione dalla quale possiamo muovere per questa intervista: “Le guerre e le rivoluzioni sono i classici agenti del cambiamento strategico”. Sono parole di John Chipman, direttore del prestigioso International Institute for Strategic Studies, subito dopo l‘undici settembre. Lei descrive molti fattori di questo cambiamento, che considerati nel loro insieme descrivono uno scenario di elevata complessità. Iniziamo dall’intelligence, uno, ma non l’unico, dei soggetti colti in una certa misura impreparati dall’attacco di Al Qaid‘a. Può riassumere per i nostri Lettori quali sono state, secondo la Sua opinione, le principali cause di tale impreparazione?

R. - Una certa presunzione di invulnerabilità da parte degli Stati Uniti, in primo luogo. Qualcosa di psicologico, prima ancora che di operativo. Gli Stati Uniti non ritenevano possibile che potesse esistere qualcuno in grado di organizzare sul suolo americano un attentato come quello dell’undici settembre 2001. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, avevano di fatto smantellato la propria rete di intelligence a livello internazionale; si erano affidati massicciamente ai mezzi tecnologici: satelliti, intercettazioni, sistemi come Echelon. Ritenevano che non fosse più necessario investire su quello che con un’espressione brutta si definisce «fattore umano». Basti pensare che a Karachi, la città pakistana più popolosa e pericolosa, secondo il Wall Street Journal la Cia prima dell’11 settembre aveva un solo agente, a contratto, che passava sei mesi lì e sei a casa, negli Usa. Così, pur avendo ricevuto decine di segnalazioni e indizi sulle possibilità di un attentato negli Stati Uniti, i servizi di intelligence non sono stati in grado di valutarne l’attendibilità perché non avevano abbastanza esperti e interpreti di lingua araba (sembra ce ne fossero una ventina in tutto all’Fbi). Ma soprattutto non avevano i riflessi pronti sul piano della sensibilità, della possibilità che accadesse qualcosa del genere. Non bastasse, esistevano ben dodici agenzie in competizione fra loro e comunque non coordinate.

D. - Bisogna abituarsi, sono parole Sue, all’idea dell’esistenza di non-Stati. Un nemico invisibile, un conflitto completamente diverso. Non solo asimmetrico ma, secondo Qiao Liang e Wang Xiangsui, colonnelli dell’aviazione cinese il cui pensiero ha richiamato nel Suo libro, senza eserciti e senza confini. Vuole descrivere, sulla base degli approfondimenti che ha potuto svolgere, questo nuovo scenario globale? In particolare, quale rapporto vede tra il ruolo dei c.d. stati canaglia e quello della rete degli attentatori, richiamo una sua immagine, free-lance?

R. - Credo che gli Stati-canaglia siano un prodotto in parte non voluto, in parte tollerato, della politica sbagliata dell’Occidente nelle aree dell’Asia centrale, del golfo Persico, di alcune zone dell’Africa. Rappresentano un pericolo, certo, e da anni. Ma un pericolo in qualche modo prevedibile, controllabile, visibile. Il fatto che abbiano confini territoriali, siano retti da governi, seppure inaccettabili secondo i nostri standard occidentali, li rendono nemici da tenere sotto controllo, e se possibile sconfiggere e abbattere. Ma rientrano in un’ottica tradizionale e, oserei dire, vecchia della geopolitica. La vera sfida posta dall’undici settembre è quella dell’esistenza di intere aree asiatiche e africane nelle quali non esiste nemmeno un simulacro dittatoriale di Stato; non esistono istituzioni, né confini, ma semplicemente caos, anarchia, lotte tribali, che qualunque avventuriero e terrorista dotato di grande disponibilità di soldi e di una strategia criminale, può colonizzare e usare per i propri fini. Quanto è accaduto in Afghanistan è stato esattamente questo. Non era Kabul a sponsorizzare Al Qaeda; è stata Al Qaeda, come un cuculo assassino, a «fare il nido» in quella terra senza legge, a sponsorizzare lo Stato dei talebani fondamentalisti. Da vera multinazionale, con agilità, la rete di Bin Laden si concentra in un territorio o si decentra in più filiali mondiali, lasciando autonomia «produttiva» e cioè terroristica alle cellule sparse nei 60 Paesi in cui si è calcolato che operi. Non a caso, adesso si tengono d’occhio Paesi dell’area sub-sahariana come il Bourkina Faso e altri, dove si prefigura l’esistenza di non-Stati proprio come l’Afghanistan. Al di là di ogni calcolo strategico, nella voglia di attaccare l’Iraq intravedo anche la voglia di tornare a identificare un nemico chiaro, e dunque in qualche misura rassicurante, come Saddam Hussein, dopo avere inseguito per un anno i fantasmi di Al Qaeda, senza patria e senza divisa; sfuggenti proprio come certe multinazionali che aprono e chiudono sedi a seconda della convenienza.

D. - Un aspetto certamente interessante è quello che Lei riassume nell’espressione impreparazione culturale, imputabile al mondo occidentale. D’altro canto, cita molti esempi anche sorprendenti per motivare tale giudizio. Quale equilibrio vede nel necessario rapporto tra un’intelligence di analisti, forse a rischio di elitarismo ed autoreferenzialità, e la necessità di stare sul campo, in contesti assai impenetrabili, per avere le notizie che contano per prevenire concretamente specifici eventi?

R. - È difficile trovare un equilibrio in questi termini. Ho l’impressione che non si tratti di una contrapposizione fra intelligence di analisti, autoreferenziale, e intelligence sul campo. C’è qualcosa di più radicale di cui prendere atto, e cioè che occorre cambiare totalmente il modo di fare analisi e di stare sul campo. È come se l’undici settembre avesse dimostrato l’inutilità di un vocabolario strategico; cambiato grammatica, frasi idiomatiche, forma delle lettere, e loro sequenza. Bisogna imparare una lingua ex novo, sapendo che l’altra è ormai una lingua morta. Qualcuno ha detto che, siccome Usa e Russia adesso sono alleate, i loro servizi segreti sconfiggeranno presto Al Qaeda. Ma non è così: paradossalmente, potrebbero sommarsi due debolezze, perché si tratta di intelligence forgiate per la guerra fredda; e dunque impreparate a combattere un fenomeno del tutto diverso da quello dello scontro capitalismo-comunismo, o democrazia-dittatura. Quando parlo di impreparazione culturale, mi riferisco all’illusione che, finito il comunismo, fosse anche risolto il problema di alcuni movimenti terroristici di tipo ideologico. La filosofia religiosa di gruppi come Al Qaeda trascende i confini territoriali e dimostra che da alcuni anni l’eversione ha abbandonato il marxismo e il leninismo, abbracciando ideologie etnonazionaliste e religiose; e che questa metamorfosi ha fatto saltare tutti i parametri del passato.

D. - Una parte importante del Suo lavoro è dedicata allo scenario economico e finanziario londinese. Nello stesso territorio trova tracce diverse. La resistenza eroica nel cabinet war room, grotta per duemila guerrieri, la finanza dei terroristi nel cuore della City, l’Imam della moschea di Finsbury Park. L‘Unione Europea si è mossa, dopo gli attentati di settembre, sul piano del congelamento dei beni e dei flussi finanziari. Quali sono i punti chiave della questione del finanziamento?

R. - L’undici settembre è costato ai terroristi relativamente poco. Non sono state usate armi di distruzioni di massa, ma strumenti in qualche modo a disposizione di tutti. La stessa organizzazione, prolungata e accurata, non ha riguardato l’acquisizione di armi sofisticate. Detto questo, è vero che Osama Bin Laden è ricco, può contare su alcune centinaia di milioni di dollari per la sua organizzazione. Ma non è facile rintracciarli. Il problema principale è quello di muoversi nella zona grigia della finanza musulmana, e non solo musulmana, perché si tratta di un intreccio di interessi complicato dalle connivenze del sistema bancario occidentale. Capitali finanziarie come Londra e Dubai sono crocevia di operazioni di riciclaggio del denaro sporco difficili da controllare. Secondo il rapporto del deputato francese Arnaud Montebourg, fino al 1998 è esistito a Londra una sorta di ufficio pubbliche relazioni di Al Qaeda. Ancora, il denaro dei Talebani ha seguito per anni, e anche durante i mesi della guerra dopo l’undici settembre, la rotta Kabul-Karachi-Dubai, per poi finire in lingotti d’oro e diamanti, e essere depositato in fidate banche saudite. In più, non è facile distinguere tra denaro dei terroristi e denaro delle organizzazioni assistenziali e caritative: soprattutto perché negli ultimi anni si è potuto constatare che ci sono fondazioni e centri culturali islamici implicati nelle attività eversive di gruppi tipo Al Qaeda. E sono in tutto il mondo, a cominciare dalle comunità europee.

D. - Un capitolo del Suo libro reca il titolo “Islam contro Islam”. In particolare, analizza la situazione dell’Arabia Saudita, cuore dell’Islam, le sue forti contraddizioni e gli interrogativi e le resistenze riferite ad un possibile Iraq post Saddam Hussein. Entro quali strettoie dovranno muovere, con riferimento al mondo arabo, diplomazia, politica, religione e guerra nei prossimi mesi ?

R. - Il problema è che cosa vogliono gli Stati Uniti, in particolare, in quell’area del mondo. Se è vero che considerano lo status quo nel Golfo e in Arabia Saudita come un forte elemento di instabilità, faranno di tutto per rompere lo status quo. E dunque è da prevedersi una lunga fase di smontaggio e rimontaggio degli equilibri geopolitici. C’è da augurarsi che simili decisioni siano accompagnate da una chiara visione strategica. Bin Laden e il suo gruppo hanno colpito avendo in testa le reazioni del mondo musulmano, la loro «audience» è l’universo islamico, che sperano di radicalizzare. Il fattore demografico e l’arretratezza politica ed economica di quelle zone costituiscono un punto interrogativo per l’intero Occidente. Una risposta in termini di forza può rivelarsi rischiosissima, soprattutto se non sono chiare le coordinate del dopo-Saddam di tipo politico ed economico.


(*) A cura della Redazione. L’intervista è stata rilasciata il 30 settembre 2002.

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