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Per Aspera Ad Veritatem n.23
Migrazioni e criminalità: un'analisi di scenario

Ornello VITALI





Nel Protagora di Platone, si narra di un mito sui primordi della convivenza umana: in principio, gli esseri umani erano incapaci di vivere insieme e le loro città erano dilaniate dalla violenza. Gli dèi quindi temettero che il genere umano fosse sulla via dell'annientamento e, per evitarlo, inviarono Mercurio, dio dei ladri e dei mercanti, che recò al genere umano due doni che lo salvarono dalla distruzione: il sentimento di vergogna e la legge.
Per Susanne Karstedt, “il mito platonico e la sua origine sono alla base di un problema centrale per la criminologia comparata. Il sentimento di vergogna è una caratteristica comune in tutte le culture e in tutte le epoche? Oppure è un tratto culturale specifico presente in alcune culture e assente in altre? Il sentimento di vergogna si è preservato intatto nelle culture asiatiche, mentre è stato abbandonato dall'Occidente nel suo lungo cammino verso la modernizzazione e, in particolare, verso l'adozione di orientamenti individualistici” [Karstedt 2001, p. 286].
Nel seguito della trattazione, individueremo alcune delle principali linee di tendenza e determinanti del rapporto tra migrazioni e criminalità, integrando informazioni, teorie e modelli elaborati nell'ambito di varie discipline, che spaziano dall'economia alla dinamica delle popolazioni, dalla criminologia comparata alla geopolitica. Si tratta, naturalmente, di un primo tentativo, suscettibile di perfezionamenti e approfondimenti ulteriori, condizionato come è da intuibili motivi di spazio e dalla necessità di allinearci ad esigenze squisitamente divulgative.
Ciò che appare importante, tuttavia, è che il taglio della trattazione -per una scelta che è progressivamente maturata nel corso dell'esame preliminare della letteratura disponibile sull'argomento - si manterrà su un piano di rigore scientifico, abbandonando quindi la prospettiva più o meno esplicitamente ideologica che caratterizza molti degli interventi su un tema così delicato. Soltanto tale approccio, infatti, ci consentirà di effettuare una valutazione per quanto possibile imparziale delle politiche di controllo dei flussi migratori attuate nei principali paesi dell'area Oecd e, in particolare, quella recentemente introdotta nell'ordinamento italiano.




2.1. Le conseguenze del declino e dell'invecchiamento della popolazione sono note a tutti e non è su questo tema che ci soffermeremo. Ciò che ci proponiamo di analizzare in questa sezione sono alcune misure adottate dai governi per affrontare il problema demografico. Tali misure hanno l'obiettivo o di influenzare le determinanti dell'invecchiamento e del declino della popolazione (politiche migratorie, promozione dell'innalzamento del tasso di fertilità interno) o mitigare le conseguenze negative della transizione demografica (aumentando l'età del pensionamento, riformando il sistema pensionistico, e così via).
Restringiamo l'analisi alle conseguenze delle politiche di controllo dei flussi migratori. L'interesse per il tema 'migrazioni' è attualmente molto elevato a seguito dell'acceso dibattito sollevato da un documento diffuso dalle Nazioni Unite [UNPD 2000], nel quale l'attrazione di flussi migratori è indicata come possibile soluzione al problema demografico che caratterizza la maggior parte dei paesi sviluppati, primo tra tutti l'Italia. Il tentativo compiuto dagli esperti dell'Onu è quello di quantificare il volume di flussi migratori necessario per prevenire il declino e l'invecchiamento della popolazione degli otto paesi a bassa fertilità oggetto di studio (Francia, Germania, Italia, Giappone, Repubblica di Corea, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti).
Le proiezioni delle Nazioni Unite evidenziano che se l'andamento demografico degli otto paesi analizzati confermerà le attuali tendenze, la riduzione delle rispettive popolazioni nei prossimi cinquant'anni, con l'eccezione degli Stati Uniti, sarà inevitabile. Il caso italiano è illuminante: tra il 2005 e il 2050, la popolazione italiana diminuirebbe del 28 per cento, la proporzione di anziani (65 anni e oltre) aumenterebbe del 92 per cento (dal 18% al 35% della popolazione totale) e l'età mediana passerebbe da 41 a 53 anni.
Il declino e l'invecchiamento della popolazione di quasi tutti i paesi avanzati appare una conseguenza inevitabile della transizione demografica. Le implicazioni di carattere economico e sociale sono inimmaginabili. Le misure politiche per affrontare il problema demografico possono promuovere l'innalzamento del tasso di fertilità interno o, come si diceva, mitigare il controllo sui flussi migratori.
In particolare, la fertilità potrebbe essere incentivata tramite provvedimenti presi dai governi a favore della maternità e della famiglia.
Anche in questo caso l'esempio italiano è paradigmatico: se nel 1995 il valore del rapporto tra popolazione attiva e popolazione anziana (PSR -Potential Support Ratio) era pari a 4,08 (il più basso negli otto paesi esaminati), nel 2050 sarà pari a 1,52 se si verificherà l'ipotesi media (fertilità costante) e 1,75 se si verificherà l'ipotesi alta (aumento della fertilità). Appare evidente che la differenza, nei due casi, è molto esile: in entrambi i casi il PSR risulta più che dimezzato rispetto al valore registrato nel 1995.
Rimarrebbe la migrazione internazionale, unica tra le variabili demografiche che, a detta degli esperti dell'UNPD, può svolgere un ruolo di rilievo.
Lo studio delle Nazioni Unite considera cinque differenti scenari, ciascuno dei quali fa riferimento ad una diversa ipotesi riguardo ai futuri flussi migratori internazionali. I cinque scenari sono: 1) fertilità, mortalità e flussi migratori costanti; 2) fertilità e mortalità costanti, assenza di flussi migratori; 3) ammontare del flusso di immigrati necessari per mantenere la popolazione costante al livello del 1995; 4) ammontare del flusso di immigrati necessari per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (15-64 anni); 5) ammontare del flusso di immigrati necessario per mantenere costante il rapporto tra popolazione in età lavorativa (15-64 anni) e popolazione anziana (65 e oltre).
La situazione demografica italiana appare la più preoccupante. Il declino della popolazione, che per molti paesi è un futuribile, in Italia è reale: una contrazione di 40 mila unità nel quinquennio 1995-2000. La proporzione di anziani, infine, è più che raddoppiata in 45 anni: si è passati dal 8,3% del 1950 al 16,8% del 1995 e, come risultato, il Potential Support Ratio è sceso da 7,9 nel 1950 a 4,1 del 1995 (cfr. Tab. 1).





Appare quindi chiaro che l'afflusso di immigrati verso il nostro Paese, per quanto rilevante negli ultimi anni (settantamila ingressi annuali netti nel quinquennio 1995-2000), non è ancora sufficiente per arginare il declino e l'invecchiamento della popolazione. Nonostante un ingresso complessivo di immigrati stimato in 6 milioni 600 mila unità tra il 1995 e il 2050, entro il 2050 si registrerebbe un declino del 28% della popolazione complessiva e un aumento del 92% della proporzione di anziani, mentre il Potential Support Ratio cadrebbe drammaticamente a 1,5 (scenario 1).
Per mantenere costante il livello di popolazione (scenario 3) sarebbe necessaria una quantità di ingressi doppia rispetto a quella che si avrebbe con le attuali dinamiche migratorie: circa 13 milioni di immigrati. Ancora maggiore il volume di flussi migratori necessario per evitare l'invecchiamento della popolazione in età lavorativa: per l'esattezza 19,6 milioni di immigrati (scenario 4) e circa 120 milioni per mantenere costante il rapporto tra popolazione attiva e anziani (scenario 5). Negli ultimi due casi la popolazione complessiva italiana aumenterebbe rispettivamente del 16% (64 milioni circa) e del 300% (194 milioni circa), con una componente fortissima di immigrati che, nello scenario 5, raggiungerebbe addirittura il 79% della popolazione complessiva (cfr. Tab. 2).







Si tratta di calcoli congetturali, schemi puramente aritmetici che spingono le situazioni al limite. Sono irrealistici e non tengono conto delle gravissime tensioni sociali che verrebbero ad originarsi. È l'errore che fanno tutti coloro che sono “quasi” favorevoli ad una politica dell'accoglienza (sinistra e frange di cattolici). Errore a cui i recenti risultati elettorali in Francia, Olanda e Austria hanno dimostrato di non voler soggiacere.

2.2. L'attuale situazione di molti paesi europei è caratterizzata da un tasso di disoccupazione relativamente elevato. Tuttavia, nel prossimo futuro, anche in conseguenza delle trasformazioni demografiche alle quali si accennava in precedenza, la situazione potrebbe capovolgersi, tanto che da più parti si invoca una politica migratoria orientata al reclutamento di forza lavoro nei paesi in via di sviluppo.
Fertig e Schmidt [Fertig e Schmidt 2002] si domandano se gli attuali flussi di mobilità interni all'UE siano adeguati. La risposta dipende chiaramente dalla definizione di attività migratoria 'ottimale', il che a sua volta implica una valutazione accurata del livello di migrazioni necessarie per risolvere specifici problemi economici. Se i mercati del lavoro sono competitivi, non dovrebbero manifestarsi differenze salariali e occupazionali tra regioni e settori. Tali differenze tuttavia esistono (cfr. Tabella 3).







Quindi, appare evidente l'importanza di un flusso di migrazioni intra-UE come meccanismo di aggiustamento dei mercati nazionali del lavoro. Eppure, dall'esame della Tabella 4, appare eclatante l'esiguità dei flussi migratori interni, se confrontati con i differenziali salariali e nei tassi di disoccupazione.






La tabella precedente mostra che i lavoratori provenienti da altri paesi dell'UE rappresentano una frazione relativamente costante nel tempo della popolazione dei Quindici, mentre la quota di lavoratori extra-UE è considerevolmente aumentata.

2.3. Proseguiamo tuttavia nella nostra analisi. In uno studio pubblicato nel 1998, Mekonnen Tesfahuney [Tesfahuney 1998] analizza alcuni punti chiave sulla costruzione sociale del 'problema delle migrazioni' in Europa, fornendo una lucida analisi delle migrazioni in prospettiva geopolitica e mettendo in discussione le argomentazioni di routine sulla 'minaccia' costituita dalle migrazioni verso l'Occidente.
Per Tesfahuney, “migrazioni internazionali e geopolitica hanno contatti a più livelli. Se la nuova cartografia del potere, dello spazio geografico e delle relazioni internazionali 'rappresenta flussi, non entità', le migrazioni internazionali sono le più emblematiche e corporee materializzazioni di tali flussi” [Tesfahuney 1998, p. 500]. Se il principale effetto della globalizzazione è “[…] la 'transizione perpetua, mobilità di informazioni, individui, capitali e merci', allora il movimento di uomini nelle sue varie forme è un aspetto chiave del riposizionamento del potere, delle società e dello spazio su un ideale continuum che va dal locale al globale” [Ibid.].
Le migrazioni internazionali e la nascita di un fenomeno completamente nuovo per la nostra società, l'ethnoscape - eterogeneo panorama di turisti, professionisti, immigrati, gente di passaggio, rifugiati, lavoratori stranieri - sono le principali conseguenze di un'economia transnazionale e globalizzata, il cui impatto si estende alla nozione stessa di identità nazionale e culturale, con l'erosione di vecchie mitologie relative all'omogeneità culturale. I controlli che i paesi europei esercitano sui flussi migratori internazionali possono essere quindi considerati come proxy del grado di controllo esercitato sul territorio e sull'identità culturale nazionale.
Sebbene le migrazioni siano una costante nella storia umana, attualmente sono considerate un problema politico ed economico poiché, contrariamente ai precedenti cicli di migrazioni, è l'Europa occidentale a rappresentarne la presumibile principale destinazione, tanto che spesso ci si chiede se l'Europa non sia 'sotto assedio'. Dal 1945 fino ai primi anni Novanta, la frazione più consistente dei flussi migratori a livello mondiale era rappresentata da rifugiati, di cui soltanto una piccola quota si dirigeva verso i paesi sviluppati. Nel 1992, ad esempio, dei 44 milioni di rifugiati censiti dall'UNHCR, solo 1,8 milioni si sono diretti in Europa e in Nord America.
Nota Weiner che “quasi due terzi dei flussi migratori in Europa sono costituiti da migrazioni interne al continente europeo”[Weiner 1993]. Dello stesso avviso Fertig e Schmidt, secondo i quali soltanto il 19,6% degli immigrati in Germania è di nazionalità non europea [Fertig e Schmidt 2002, p. 6]. Tuttavia, nonostante il carattere 'interno' delle migrazioni europee, su tale circostanza gli esperti sorvolano, continuando a trascurare il fatto che i flussi migratori di cittadini europei sono attualmente di gran lunga superiori a quelli in senso contrario (cfr. Tab. 5) e la cui portata è tradizionalmente descritta come una vera invasione. In altre parole, si dà per assodato che l'Europa stia fronteggiando un'esplosione di flussi migratori in entrata da Sud e da Oriente, con il necessario corollario dell'urgente necessità di adottare politiche restrittive di controllo.







I discorsi sulla 'minaccia migrazioni' considerano pressione demografica e povertà del Terzo mondo le principali determinanti dei flussi migratori. In realtà, secondo Zlotnik [Zlotnik 1998], il numero di turisti è passato da 70 milioni nel 1965 a 450 nel 1990, mentre nello stesso periodo gli immigrati sono passati da 75 milioni a 120, mantenendo costante la loro quota sulla popolazione mondiale, aumentata nel frattempo alla stessa velocità.
Secondo Tesfahuney “affermazioni come la seguente: 'nel 2020 la popolazione dell'UE tornerà ai livelli del 1990, mentre quella del continente africano raddoppierà', sono ormai di rito nella descrizione della futura inevitabile invasione. Tuttavia, attualmente, né la pressione demografica né la povertà determinano automaticamente e necessariamente flussi migratori” [Tesfahuey 1998, pp. 503-504]. Come mostreremo sommariamente, povertà, pressione demografica e flussi migratori interagiscono in modi ben più complessi rispetto a quelli suggeriti da tali scenari riduzionistici.




3.1. L'analisi del complesso rapporto tra migrazioni e criminalità può essere effettuata solo adottando un approccio integrato e multidisciplinare tra dinamica delle popolazioni, criminologia comparata, geopolitica, teorie della crescita.
In via preliminare, è interessante approfondire il tema delle determinanti che influenzano i tassi di criminalità all'interno di un paese dato. L'esame della letteratura sull'argomento mostra l'importanza dei fattori economici e, in particolare, del rallentamento nei livelli di attività economica nella determinazione del trend della criminalità.
Il contributo della criminologia comparata è fondamentale, in quanto dimostrerebbe che la “risposta” individuale a circostanze economiche sfavorevoli, in termini di propensione a commettere reati, è un tratto culturale peculiare nelle singole popolazioni. Considerando le migrazioni (anche) come processi di trasferimento culturale, dovremmo quindi attenderci fenomeni di persistenza di tutti i tratti culturali, compresi quelli relativi ai comportamenti criminosi.
Altri due aspetti sembrano influenzare, in maniera contrastante, la relazione tra criminalità e flussi migratori.
In primo luogo, l'esistenza o meno nel paese di destinazione di reti relazionali, cioè di comunità stabili che mantengono stretti legami con la madrepatria e che rappresentano preziose fonti d'informazione 'di prima mano' per quanti stanno maturando la decisione di trasferirsi. Da un lato, la presenza di tali reti relazionali è un importante fattore di attrazione di flussi migratori. Per Locher, “un'ondata migratoria non si realizza semplicemente in presenza di un differenziale salariale positivo (tra paese di destinazione e paese di origine, N.d.A.) ma può verificarsi anche quando tale differenziale è negativo. […] Anche i vincoli di comunità e di etnia svolgono un ruolo importante” [Locher 2001, p. 17]. Dall'altro, è stato dimostrato come l'esistenza di reti relazionali o di enclave etniche è spesso la pre-condizione per l'emergere di attività criminose [Schrag e Scotchmer 1997].
In secondo luogo, osservando che i comportamenti individuali risentono dell'influenza dell'ambiente culturale specifico, dovremmo attenderci nel medio periodo un adattamento del comportamento individuale dell'immigrato al nuovo ambiente e, a livello aggregato, la convergenza dei tassi di criminalità degli immigrati a quelli del paese ospitante [Karstedt 2001].
Naturalmente, tale processo di convergenza è influenzato dalla più o meno rapida assimilazione degli immigrati nel tessuto economico e sociale del paese d'accoglienza. È dimostrabile che gli immigrati per motivi economici, selezionati sulla base delle loro caratteristiche e capacità lavorative, pervengono velocemente all'assimilazione, mentre ciò non si verifica nel caso dei rifugiati [Bauer et al. 2000]. Di qui l'importanza delle politiche di controllo dei flussi migratori.

3.2. Occupiamoci per sommi capi del primo aspetto, quello relativo alla relazione tra criminalità e livelli di attività economica. Alcuni studi empirici hanno messo in questione forza, significatività e direzione della relazione tra disoccupazione e crimine individuata da Freeman [Freeman 1980] e Long e Witte [Long e Witte 1981] all'inizio degli anni Ottanta. Le basi teoriche di tale dibattito sono rappresentate da due effetti contrapposti della disoccupazione sul crimine, uno positivo di natura motivazionale già individuato da Becker [Becker 1968] e un effetto opportunità di segno negativo [Cantor e Land 1985]. Comunque, è stato dimostrato che intensità e segno della relazione nelle verifiche empiriche condotte sono condizionate da fattori quali il livello di aggregazione e la misura di disoccupazione adottata. Quanto a quest'ultima, non risulta ancora chiaro il ruolo dei tassi specifici di disoccupazione per età e sesso. Nel Regno Unito, tale omissione appare importante considerati gli elevati livelli di disoccupazione giovanile maschile.
In un recente studio condotto da Carmichael e Ward [Carmichael e Ward 2001], i tassi di criminalità relativi ad un certo numero di reati (furti, furti con scasso, truffe e contraffazioni) sarebbero spiegati dai tassi di disoccupazione più che da altre variabili, quali la durata media di detenzione, i tempi medi per giungere ad una sentenza definitiva, la densità demografica, la percentuale di nascite al di fuori del matrimonio.
Una conferma dell'esistenza di tale relazione per l'Italia è contenuta in uno studio di Scorcu e Cellini [Scorcu e Cellini 1998], che tentano di individuare le principali determinanti economiche dei tassi di criminalità in un framework volutamente a-teorico. Scorcu e Cellini analizzano i tassi di criminalità italiani (relativi a omicidi, rapine e furti) tra il 1951 e il 1994 e l'influenza, in un orizzonte di lungo periodo, di variabili economiche quali i consumi, la ricchezza e la disoccupazione. I due ricercatori non soltanto dimostrano che sussisterebbe un legame forte tra consumo e omicidi e rapine, mentre il tasso di disoccupazione influenzerebbe in prevalenza i furti, ma individuano anche un break strutturale (in altri termini, un'inversione di tendenza) a cavallo tra anni Sessanta e anni Settanta, che fornirebbe conferma empirica dell'effetto del rallentamento dell'attività economica sui tassi di criminalità, dopo gli enormi progressi compiuti negli anni del 'boom' economico.

3.3. Vi sono profonde differenze nella proporzione di reati contro il patrimonio e contro la persona nei paesi sviluppati e nei paesi in via di sviluppo. Il ruolo svolto dalle differenze culturali è un problema aspramente dibattuto nella criminologia contemporanea, sebbene si riconosca l'importanza decisiva dei tratti culturali di una società data nel delineare le caratteristiche del sistema penale e del controllo sociale formale. Crimine e controllo sociale sono quindi fenomeni culturali e sociali. La giustizia penale, per Christie, è “politica culturale” e, come tale, sembra meno influenzata dai tassi di criminalità che dall'identità culturale che una società intende raggiungere [Neue Kriminalpolitik 1998].
Il dibattito su eccezionalismo asiatico e cultura occidentale è il più recente esempio di irruzione della 'cultura' nella criminologia. La contrapposizione tra l'attuale inadeguatezza culturale dell'Occidente nella repressione del crimine da un lato, e il ruolo di valori familiari e tradizione confuciana per il suo controllo nei paesi asiatici dall'altro, è considerata la principale spiegazione degli esigui tassi di criminalità registrati nei paesi dell'estremo Oriente. Per i criminologi asiatici, questi tratti culturali sono oggi minacciati dall'impatto con la cultura occidentale e dall'affacciarsi di una sindrome socio-culturale determinata da individualismo e edonismo, non a caso additati come cause dell'aumento dei tassi di criminalità giovanile anche nei paesi asiatici.
Secondo Susanne Karstedt, il dibattito è limitato da pregiudizi culturali e si fonda su un concetto monolitico di 'cultura'. Inoltre, tale prospettiva trascurerebbe la rapida modernizzazione delle Tigri asiatiche che ha influenzato in maniera considerevole i valori tradizionali in Corea, Giappone e Cina [Karstedt 2001, p. 287].
Un ruolo importante nel dibattito tra valori asiatici e occidentali e sul loro impatto in termini di criminalità è giocato dal problema della stabilità e omogeneità dei tratti culturali. Per Karstedt, la diaspora etnica e culturale mette a confronto società con crescenti problemi sul versante criminalità. “[…] I migranti portano la loro cultura in un paese straniero. Agli inizi del ventesimo secolo gli immigrati italiani negli Stati Uniti avevano un tasso di crimini contro la persona (in particolare omicidi) identico a quello della madre patria e più elevato di quello di altri gruppi etnici” [Ibid., p. 297]. Tali evidenze proverebbero che nei processi di trasferimento culturale si manifesterebbero fenomeni di persistenza dei tratti culturali tipici dei paesi d'origine, con particolare riferimento ai tassi specifici di criminalità.
Ma tali andamenti sono destinati a mutare considerevolmente al progredire del processo di integrazione nel paese ospitante. “Il comportamento individuale è influenzato dall'ambiente culturale specifico, quindi i 'tratti culturali modali' cambieranno e si adatteranno al nuovo ambiente” [Ibid., p. 297]. Ciò nonostante, alcuni tratti culturali degli immigrati potrebbero rafforzarsi anche in contrasto con quelli predominanti nel paese d'accoglienza. Gli immigrati turchi in Germania, nota la Karstedt, hanno sviluppato un orientamento comunitario più forte rispetto a quello che caratterizza i compatrioti nella madre patria. “Differenti pratiche di socializzazione e forme di controllo presenti nella famiglia e nella comunità contribuiranno a determinare differenti livelli di criminalità all'interno dei varî gruppi etnici. […] Il crimine organizzato è profondamente radicato nelle tradizioni culturali delle minoranze etniche” [Ibid.]. La principale caratteristica dei tratti culturali - integrazione e omogeneità all'interno dei gruppi etnici e differenza rispetto all'esterno - può essere etichettata come pre-condizione per la nascita del crimine organizzato. La diaspora delle varie popolazioni determina la nascita di reti globali di relazioni etniche che presentano vantaggi competitivi nell'economia legale e illegale. Ad esempio, per Pino Arlacchi i tratti culturali peculiari della mafia sono la risposta al mutamento sociale ed economico su scala nazionale e globale, risposta che ne ha determinato il vantaggio competitivo nei reati di corruzione e nel crimine organizzato [Arlacchi 1986].

3.4. Diventa quindi centrale il processo di assimilazione degli immigrati nel tessuto produttivo del paese d'accoglienza e le sue relazioni con le politiche di controllo dei flussi migratori.
Tali politiche variano ampiamente da paese a paese e sono spesso al centro del pubblico dibattito. Per Bauer et al. “la scelta della politica di immigrazione influenza la crescita e i risultati di un'economia, seleziona le caratteristiche degli immigrati così come la percezione degli immigrati da parte della popolazione del paese d'accoglienza” [Bauer et al. 2000, introduzione]. Se la politica di regolazione dei flussi migratori si mostra sensibile alle esigenze espresse dal mercato del lavoro, è plausibile ritenere che gli immigrati entreranno subito nel processo produttivo e saranno quindi rapidamente assimilati nel paese di destinazione. Se nella determinazione degli ingressi sono i motivi umanitari ad essere rilevanti (ad esempio poiché si privilegiano gli ingressi di rifugiati) vi saranno minori possibilità di successo sul versante occupazionale e, di conseguenza, un'assimilazione ben più ardua.
Una questione importante è se differenti politiche di controllo dei flussi migratori conducono a differenti composizioni degli immigrati per paese di provenienza. La Tabella 6 mostra alcuni fatti stilizzati relativi ai flussi migratori e alla loro composizione nel periodo 1991-1995 in 12 paesi Oecd. Tra il 1991 e il 1995, in Germania, Austria e Spagna si è verificato il più elevato incremento nella quota di popolazione immigrata, seguite da Stati Uniti, Canada e Italia. Alcuni indicatori caratteristici del mercato del lavoro sono riportati nelle colonne c-g.
In definitiva, l'esame della Tabella 6 consente di individuare due andamenti di fondo: 1) le politiche di controllo influenzano non soltanto la consistenza, ma anche la composizione dei flussi migratori. I paesi tradizionalmente meta di flussi migratori e i paesi di nuova immigrazione (Italia e Irlanda) accolgono un'elevata quota di immigrati per motivi economici; 2) nei paesi elencati, la performance degli immigrati sul mercato del lavoro è sostanzialmente positiva.
L'ipotesi che gli immigrati selezionati sulla base delle loro capacità lavorative raggiungano una assimilazione più rapida e una sostanziale uguaglianza sul piano delle retribuzioni è supportata dalla teoria economica. Gli immigrati per motivazioni economiche, contrariamente ai rifugiati, pianificano il loro trasferimento e possono avere già investito in capitale umano specifico, ad esempio apprendendo la lingua parlata nel futuro paese d'accoglienza. Inoltre, osserva Borjas [Borjas 2000], l'esistenza di reti relazionali forti e di enclave etniche nel paese di destinazione, oltre a rappresentare per Schrag e Scotchmer [Schrag e Scotchmer 1997] il 'brodo di coltura' per comunità ad elevato tasso di criminalità, diminuiscono i rendimenti dell'investimento in capitale umano specifico del paese di destinazione e diminuiscono la probabilità di una rapida assimilazione, con un meccanismo dalle evidenti caratteristiche di circolarità.






Le verifiche empiriche forniscono sostanziali conferme alla teoria della trasferibilità del capitale umano. Le politiche di controllo basate sulla selezione degli immigrati in base alle loro caratteristiche lavorative possono garantirne una rapida assimilazione. Per quanto riguarda il caso italiano, Venturini e Villosio studiano le condizioni del mercato del lavoro degli immigrati e dimostrano che le retribuzioni medie degli immigrati sono del 13-21 per cento inferiori a quelle dei residenti, con situazioni differenziate per paese di origine: gli immigrati asiatici incorrono nelle maggiori penalizzazioni, immediatamente seguiti dagli immigrati dal continente africano, mentre le differenze più lievi si manifesterebbero per gli immigrati latino-americani e dell'Est europeo.
Rimane da esaminare un ultimo punto. Se le politiche di immigrazione possono influenzare competenze e performance degli immigrati sul mercato del lavoro, possono avere anche un impatto sull'orientamento dei residenti nei confronti degli immigrati? Considerata la variabilità dei risultati degli immigrati sui mercati del lavoro, non ci sorprenderebbe che anche gli orientamenti dei residenti sul problema dell'immigrazione mostrino un'analoga variabilità.
Un'analisi di tale aspetto è stata svolta, per un certo numero di paesi Oecd, da Bauer et al. [Bauer et al. 2000] sulla base dei risultati dell'ISSP-International Social Survey Programme che nel 1995 si occupò del tema dell'identità nazionale. Come era logico attendersi, Bauer et al. verificano l'esistenza di “una drammatica variabilità tra paesi” riguardo ai sentimenti dei residenti nei confronti degli immigrati. Il paese in cui il contributo degli immigrati per l'attività economica è generalmente considerato con favore è il Canada, dove non a caso il controllo dei flussi si avvale dal 1967 di un sistema 'a punti', mentre all'altra estremità della scala figurano Paesi Bassi e Norvegia, nazioni che tradizionalmente accolgono una frazione significativa di rifugiati e in cui il rapporto tra tasso di partecipazione alla forza lavoro rispettivamente degli immigrati e dei residenti ammonta ad appena 0,68.
La maggioranza dei residenti nei paesi di nuova immigrazione, ad eccezione dell'Italia, si mostrano favorevoli all'immigrazione. In Italia ha dichiarato di essere contrario all'aumento dei flussi migratori il 75% del campione. Va detto che l'Irlanda ha registrato, nel corso degli anni Novanta, una crescita economica sorprendente in cui il ruolo dell'immigrazione non è stato certo secondario e che la composizione dei flussi migratori è profondamente diversa in Spagna e in Italia. Nel nostro Paese soltanto il 15 per cento degli immigrati proveniva da un altro paese dell'UE, contro il 60 per cento della Spagna.
Un altro diffuso motivo di preoccupazione sull'immigrazione è che gli immigrati possano sottrarre posti di lavoro ai residenti. Tale sentimento appare prevalente nel Regno Unito, dove circa il 50 per cento del campione risponde affermativamente alla domanda. All'altra estremità dello spettro è la Svezia, dove soltanto il 16 per cento esprime tale preoccupazione.
In conclusione, tre sono i punti di rilievo nell'analisi degli orientamenti dei residenti nei confronti degli immigrati svolta da Bauer et al.: 1) nei paesi in cui gli immigrati sono selezionati sulla base della domanda emergente dal mercato del lavoro, è più probabile che i residenti considerino favorevolmente le immigrazioni in quanto utili all'economia; 2) le caratteristiche socio-economiche dei rispondenti non influenzano l'atteggiamento nei confronti del fenomeno dell'immigrazione; 3) nei paesi che tradizionalmente accolgono flussi migratori, è prevalente la paura per la competizione con gli immigrati sul mercato del lavoro, mentre nei paesi meta di rifugiati la principale preoccupazione riguarda l'aumento dei tassi di criminalità. Tale evidenza suscita timori per eventuali future tensioni sociali e razziali in quei paesi.




4.1. Da quanto esposto in precedenza, risulta quindi evidente quali sono le variabili chiave che dovrebbero figurare nell'elaborazione di scenari di previsione sui rapporti tra criminalità e migrazioni.
In primo luogo, appare importante l'analisi della struttura economica del paese d'accoglienza, con particolare riferimento alla struttura del mercato del lavoro e a quella dell'apparato produttivo. In futuro, i paesi a capitalismo avanzato saranno caratterizzati da una contrazione della popolazione e, circostanza ben più importante, da quella della forza lavoro. Il fabbisogno di manodopera, in generale, è tanto più elevato quanto meno è sostituibile con capitale umano specifico (addestramento, routine, formazione) e capitale fisico, il che è tanto più vero nel caso di produzioni a basso valore aggiunto, per le quali l'investimento rappresentato da incrementi del capitale umano specifico e capitale fisico potrebbe rivelarsi, per un insieme di ragioni, un'opzione non praticabile dal punto di vista economico.
In particolare, il nostro Paese sembra particolarmente esposto a tale rischio, caratterizzato come è da un tessuto produttivo incentrato prevalentemente sulla piccola e media impresa e produzioni a basso valore aggiunto. Non è un caso, infatti, che siano proprio gli imprenditori a lamentare eccessivi vincoli agli ingressi di immigrati, che evidentemente potrebbero essere assorbiti senza difficoltà dall'apparato produttivo, specialmente nelle regioni del Nord-Est. Va anche aggiunto che il problema dello shortage di forza lavoro potrebbe essere utilmente risolto incentivando la mobilità interna dalle aree depresse del Mezzogiorno, il che sposterebbe l'accento dalle politiche di controllo dei flussi migratori alla creazione di un sistema di incentivi alla mobilità interna, problema complesso e per lo più trascurato nell'attuale dibattito economico e politico, malgrado la sua fondamentale importanza.
Alla luce degli argomenti trattati nelle precedenti sezioni, è anche chiaro che finché gli ingressi verranno regolati, da un lato sulla base della domanda espressa dai settori produttivi e, dall'altro, da considerazioni relative alla sicurezza interna - con particolare riferimento all'assorbimento prioritario della disoccupazione esistente nelle zone maggiormente svantaggiate in Italia - non soltanto sarà possibile pervenire ad una rapida assimilazione degli immigrati nel tessuto economico e sociale del paese, minimizzando eventuali comportamenti criminosi da parte delle minoranze di recente accoglienza, ma anche scongiurare possibili cause di tensioni sociali e razziali.
In secondo luogo, è di fondamentale importanza determinare quali saranno, in futuro, le origini più probabili di flussi migratori, la loro entità e l'evoluzione dei tassi di criminalità nei paesi origine dei flussi stessi. Ciò risulta di fondamentale importanza per l'individuazione di politiche di accoglienza 'mirate' nel medio e lungo periodo, anche alla luce di quanto esposto in precedenza sulla persistenza dei tratti culturali anche dopo l'ingresso nel paese di destinazione.
In letteratura, vi sono evidenze [Locher 2001] del fatto che tra i principali predittori delle ondate migratorie sono annoverate le reti relazionali che collegano comunità già stabilite nel paese di destinazione e madrepatria. Per quanto attiene al caso italiano, non esistono ancora informazioni sistematiche su tale aspetto, per cui qualsiasi ipotesi formulabile non è suffragata da verifiche empiriche.
Il ragionamento sulla persistenza di specifici tratti culturali e, in particolare, sull'inerzia dei pattern relativi alla criminalità negli immigrati nasce dalle precedenti riflessioni. In particolare, i tassi di criminalità specifici degli immigrati dipenderanno da quelli prevalenti nel paese di origine, da quelli esistenti nel paese d'accoglienza, dall'esistenza di reti relazionali o, al limite, di enclave etniche nel paese di destinazione, dalla rapidità del processo di assimilazione e, non ultimo, dalla congiuntura economica del paese ospitante.

4.2. Una naturale estensione dell'analisi svolta nelle sezioni precedenti tende a distinguere tra effetti diretti e effetti indiretti delle migrazioni, in termini di impatto sui tassi di criminalità.
Per effetto diretto intendiamo il volume di reati compiuti da immigrati, che risente dell'inerzia determinata dalla persistenza dei tratti culturali specifici del paese d'origine, con particolare riferimento ai tassi specifici di criminalità, e dalla rapidità del processo di assimilazione degli immigrati nel tessuto economico e sociale del paese ospitante. Disponendo di 1) dati sui tassi specifici di criminalità, opportunamente disaggregati per tipologia e paese d'origine dei flussi migratori, dati attualmente disponibili solo per le due macrocategorie di reati (contro la persona e contro il patrimonio), e 2) informazioni dettagliate sui tassi di criminalità specifici per nazionalità del reo e riferiti al paese ospitante, sarebbe dunque possibile il monitoraggio del processo di convergenza previsto teoricamente dalla criminologia comparata.
Quanto agli effetti indiretti, si tratta delle variazioni dei tassi di criminalità specifici dei residenti in risposta ad un incremento delle migrazioni. Un primo effetto indiretto può verificarsi se, sul mercato del lavoro, l'afflusso di immigrati determina un parziale crowding out nella domanda di lavoratori autoctoni, con conseguente aumento della disoccupazione in questa fascia di popolazione. È anche plausibile ritenere che in Italia siano i lavoratori a bassa qualificazione a sopportare i rischi maggiori associati ad un aumento nell'ingresso di immigrati. Evidenze sull'effetto spiazzamento appena descritto sono state registrate nel Regno Unito, dove non a caso è più forte il timore che gli immigrati possano sottrarre posti di lavoro ai residenti [Bauer et al. 2000, p. 21]. Ma un incremento nei tassi di disoccupazione dei lavoratori residenti a bassa qualificazione può determinare l'aumento dei tassi di criminalità specifici all'interno di tale gruppo, secondo un meccanismo di causalità già descritto al punto 3.2.
Inoltre, per gli stessi motivi non è da escludersi la nascita di tensioni sociali e razziali, soprattutto in quelle zone del paese nelle quali la presenza di lavoratori immigrati risultasse più massiccia e il processo di assimilazione, paradossalmente, giungesse ad uno stadio avanzato.

4.3. Un ultimo punto riguarda i legami tra migrazioni dai paesi arabi e dall'Africa del Nord, fondamentalismo islamico e rischio terrorismo. Una prima osservazione riguarda l'entità dei flussi migratori provenienti, in particolare, dai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo. Tali flussi sono aumentati del 95% tra il 1965 e il 1990 (cfr. Tab. 5). Va tuttavia aggiunto che 1) tra l'inizio degli anni Sessanta e gli anni Novanta la popolazione dei paesi nordafricani, attualmente composta per oltre il 60% da individui che hanno meno di 25 anni di età, è più che triplicata, per cui il rapporto tra migrazioni e popolazione residente è drasticamente diminuito; 2) una quota importante dei flussi migratori in uscita da quei paesi si indirizza verso altri paesi del mondo arabo ed ha carattere temporaneo [Bauer e Gang 2000], con durate di permanenza all'estero comprese tra i due e i tre anni [Richards A. 1994].
Naturalmente, l'evidenza statistica non può e non deve alimentare facili ottimismi. Se è vero che la politica di cooperazione con i paesi nordafricani è una linea costante nella politica mediterranea dei paesi dell'UE, è anche vero che “il mito mediterraneo […] è il comodo vestito indossato dai teorici del «dialogo» euroarabo. Il quale ha partorito un fiasco dopo l'altro: dall'iniziativa mediterranea proposta da Mitterrand nel 1983 a Rabat ai vari Forum mediterranei, alla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo, ipotizzata da Italia e Spagna nel settembre 1990, al gruppo «5+5» (Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Malta, più Algeria, Marocco, Tunisia, Libia e Mauritania)” [Limes 1994, editoriale]. Il che la dice lunga sull'ambiguità di tali iniziative politiche, il cui obiettivo prioritario è “[…] la creazione di un partenariato arabo moderato capace di frenare influssi migratori verso la sponda nord e di resistere all'islamismo radicale - algerino ed egiziano anzitutto - percepito in Europa sud-occidentale come la minaccia di domani” [ibid.].
Quindi, il pericolo esiste, anche se naturalmente qualsiasi tentativo di analizzare il fenomeno dell'integralismo islamico (e i suoi risvolti in termini di terrorismo internazionale) tramite gli strumenti messi a punto nel corso della presente trattazione si rivela impresa ardua, se non impossibile.




Nel corso della presente trattazione, sono state tracciate le principali direzioni di ricerca sui rapporti tra migrazioni e criminalità. Gran parte dell'analisi si è incentrata sull'individuazione di un insieme coerente di relazioni causali, nella convinzione che soltanto l'adozione di una prospettiva scientifica, non ideologica, consentirà di inquadrare il fenomeno nella sua esatta dimensione e di individuare le opportune misure politiche. Va detto che, per quanto riguarda la situazione italiana, la legge sull'immigrazione recentemente approvata sembra andare nella giusta direzione, soprattutto per quel che riguarda la creazione di condizioni favorevoli ad una rapida assimilazione degli immigrati nel tessuto sociale ed economico del nostro Paese.
Naturalmente, in chiusura potremmo chiederci perché è stata dedicata così poca attenzione alla circostanza che la maggior parte dei flussi migratori nell'UE è costituita da flussi interni e da migrazioni di ritorno? Lucidamente, Tesfahuney osserva che i principali criteri di inclusione/esclusione che marcano la (in)desiderabilità degli immigrati sono quelli di razza, sesso e classe sociale, criteri che determinano “se un immigrato debba a priori essere etichettato come 'criminale' o salutato come turista o investitore” [Tesfahuney 1998, p. 505]. Da qui, per den Boer, “la percezione largamente negativa dell'immigrato dal Terzo mondo, la costruzione dell'immigrazione come 'minaccia' e la sua identificazione con criminalità e terrorismo” [den Boer 1995, pp. 102-103].
In realtà, la sovranità dei governi sull'economia è stata soppiantata da forze transnazionali. La perdita dei poteri nella sfera economica è compensata da un maggiore coinvolgimento su temi sociali e politici. In tali settori, gli stati nazionali godono ancora di ampia libertà di movimento. Il controllo delle migrazioni internazionali e il significato accordato loro come tema politico e sociale fondamentale sono esempi di riappropriazione di uno spazio di manovra definitivamente perso nel dominio dell'economia. Apparentemente quindi il potere di selezione degli ingressi rappresenta il compromesso tra 'libero' movimento dei fattori della produzione (in particolare il lavoro) e sovranità nazionale nel determinare livelli e tipologie delle migrazioni verso l'Europa.
L'agiografia del mercato unico europeo, cioè di un'Europa senza confini e senza controlli sulla circolazione di servizi, beni e fattori produttivi, è un mito. La sorveglianza e il controllo dei flussi migratori dal Sud e dall'Est del mondo è aumentata: la mobilità sarà sempre più un tema strategico prioritario.





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