Un grande uomo di scienza cinese, oggi Presidente della Accademia di Ingegneria a Pechino, interrogato sulla globalizzazione mi rispose: “Il mio paese ha imparato a sue spese che isolazionismo vuol dire povertà. è un errore che non ripeteremo”.
Mi sorprese certo un tale entusiasmo per la globalizzazione ed un voto a favore così incondizionato ma è anche vero che la Cina sta entrando nel mondo in molti modi come mai nella sua storia. Ricordo come quattro anni fa la crisi economica del sud est asiatico e poi quella russa avevano provocato un danno immediato notevole per l'economia cinese: il valore della moneta nazionale si era apprezzato rispetto a quelle dei vicini, di conseguenza il costo delle proprie merci era aumentato e molti posti di lavoro in Cina vennero persi, alcuni cantieri navali persero fino all'ottanta per cento del loro fatturato. Eppure la Cina non cedette alla tentazione di svalutare la propria moneta, decisione che avrebbe sì dato un temporaneo aiuto alla crisi di alcuni settori industriali ma anche danneggiato buona parte dell'economia mondiale, si assunse cioè le responsabilità di “stakeholder” dell'economia mondiale.
Il terrorismo di Al Qaeda e la influenza delle ONG, la forza dei media e l'accesso alle comunicazioni a doppio senso sono solo esempi di un altro mutamento apportato dalla globalizzazione. Un mutamento appena agli inizi ma certo foriero di sviluppi ancora imprevedibili. La necessità dell'intermediazione del potere sta venendo meno.
La stessa democrazia rappresentativa che è la sola che noi conosciamo in pratica oggi, si basa sull'intermediazione del potere: gli elettori eleggono e vengono rappresentati e così fanno udire la loro voce. Ma Al Qaeda, o Amnesty International o i media non devono eleggere nessuno per fare sentire la loro influenza o potere, lo fanno in prima persona.
La globalizzazione sta forse favorendo il nascere di un fenomeno nuovo; stiamo forse assistendo ai primi colpi dati alla democrazia indiretta da ciò che si può chiamare democrazia diretta ma che non sappiamo come si potrà gestire. Siamo entrati in un mondo caratterizzato dall'asimmetria: non solo il forte può influenzare il debole ma anche viceversa e la forza e la debolezza non coincidono sempre e solo con il più grande.
Anche questa è globalizzazione.
La globalizzazione ha permesso un accesso senza paragoni alle comunicazioni sia in entrata che in uscita. Se è vero che una grande maggioranza della popolazione mondiale ancora non ha accesso quotidiano alla telefonia o persino all'elettricità è anche vero che un numero fino ad ora impensabile di singoli individui e gruppi possono non solo accedere all'informazione ma altresì comunicare le loro opinioni o raggiungere altri nel mondo in tempo reale. Inoltre possono accedere a, e quindi valutare, attività e conoscenze di altri e consultare materiale che in passato era solo accessibile tramite la carta stampata o attraverso contatti personali. E tutto questo senza l'intermediazione delle autorità costituite.
La facilità di accesso all'informazione e alla conoscenza da un lato, e la possibilità di comunicare ad altri in modo esponenziale idee, messaggi, minacce e fatti dall'altro, ha offerto ad una serie di soggetti sociali un ruolo che era proprio solo delle istituzioni precostituite.
Il processo di globalizzazione dell'ultima decade non ha portato ad una società omogenea a livello economico, culturale e politico. Anzi proprio la globalizzazione ha risvegliato il sentimento dell'identità locale come non si era visto da tempo. Così che la globalizzazione si è ritrovata un compagno di viaggio forse inaspettato chiamato diversità.
Non c'è nulla di strano in questo poiché i due fenomeni sono come due facce della stessa medaglia.
Entrambi questi fenomeni non si sono sviluppati secondo regole e schemi prestabiliti ma piuttosto in modo confuso e incontrollato. Una riconosciuta conseguenza della globalizzazione è stata l'indebolimento dello Stato nazione. La capacità del mondo economico e finanziario nonché di quello tecnologico di operare al di sopra delle frontiere così importanti per lo Stato nazione, la necessità stessa dello Stato nazione di allentare i suoi controlli per favorire quella crescita economica che solo la riduzione dei confini di varia natura permette, ha aperto le porte ad altri attori della scena internazionale che hanno cominciato ad operare attraverso le frontiere. argomenti specifici sia di carattere umanitario che di diritti umani che di ecologia hanno creato allineamenti trasversali tra gruppi di varie nazioni che si sono ritrovati non quindi su basi ideologiche e statali ma su tematiche.
Questi gruppi genericamente denominati ONG si sono di fatto trovati ad avere un ruolo ed un'influenza quasi inaspettata.
Per cominciare le ONG non sono il prodotto di elezioni locali o di altro tipo. Nascono cioè come il risultato della determinazione di un gruppuscolo, di un'avanguardia direbbero alcuni, di una élite direbbero altri, che non cerca la sua legittimità nel processo di creazione del gruppo ma solo nella validità della causa che essi decidono di perorare. In altre parole le ONG più rispettate oggi non sono democraticamente elette né cercano una legittimità nel sistema di elezione. Si fondano, invece, sull'attrazione del tema di loro interesse e sulla spontanea partecipazione alla causa di un numero di persone che non si riconosce nella delimitazione dei confini ma nella "giustezza" della causa che intendono perseguire. Non ci sono elezioni che dicono quanti voti ha Amnesty International, e, va aggiunto, non esiste un sistema di check and balance che ogni istituzione democratica normalmente contiene. Le ONG sono perciò attori della nuova scena internazionale che hanno già inerentemente rifiutato, consapevolmente o inconsapevolmente, il sistema di democrazia rappresentativa nel loro stesso modo di essere.
In certi casi esse hanno però aumentato i loro sostenitori in varie parti del mondo e, come conseguenza, la loro influenza reale nel mettere sul tappeto della scena mondiale questi o altri argomenti è aumentata. Chi elegge Green Peace, chi controlla i suoi dirigenti? Eppure fu Green Peace e non i parlamenti di qualche paese a fare cambiare la politica industriale di qualche grande compagnia petrolifera in Nigeria e altrove. Governi di maggiori paesi possono essere irritati dalle pubblicazioni di Amnesty International, eppure non possono più ignorare ciò che questo ente che opera nel settore dei diritti umani dichiara pubblicamente.
Si parla di società civile oggi per indicare un attore non istituzionale che pure opera e agisce in modo visibile nei nostri paesi. La società civile non è eletta, semplicemente c'è. “Medici senza frontiere” operano ormai anche senza chiedere visti di entrata in paesi in guerra civile.
Quando devono esercitare la loro influenza o pressione questi gruppi non si rivolgono ai Parlamenti: da un lato cercano di operare da soli per potere cambiare situazioni reali sul terreno e dall'altro si rivolgono direttamente all'esecutivo di vari paesi scavalcando, in alcuni casi, le istituzioni legislative.
Il mandato sul quale le ONG si basano non è certo un mandato definito secondo le regole della democrazia rappresentativa; tali gruppi decidono autonomamente quale sia la loro “missione” e, se ricevono appoggio - definito non in termini di elezioni ma di contributi economici e operativi - da parte di un numero sufficientemente attivo di individui riescono ad avere un ruolo nella scena sociale o politica.
Ma anche al di là del ruolo delle ONG, oggi vediamo crescere anche il ruolo di singoli individui nella scena politica e sociale; personaggi dello spettacolo hanno dimostrato una forza notevole nel determinare gli argomenti della comunità internazionale, una volta riserva esclusiva dei governi. Inoltre abbiamo visto il cantante Bono trascinare con sé per tre settimane in Africa il Segretario del Tesoro USA: un episodio forse unico fino ad oggi. Più ancora abbiamo assistito negli anni scorsi all'intervento di gruppi privati proprio in quel settore che sembrava ancora monopolio degli Stati, cioè la diplomazia. Certo la nazione-Stato batte ancora moneta, ultima vera spiaggia di un monopolio che copriva quasi tute le attività sociali fino a qualche decennio fa. E poi c'è l'uso della forza; ma su questo ritornerò.
Chi sono questi individui che fanno parte ormai di quella categoria definita attori non istituzionali delle relazioni internazionali? Non sono certo eletti né devono rispondere ad alcuno delle loro azioni politiche.
Sono parte di quello stesso gruppo di elettori che ancora si fanno rappresentare dai parlamenti nel sistema classico della democrazia che noi conosciamo ma che hanno scoperto di avere anche altri strumenti per fare sentire la propria voce, per agire in prima persona, insomma, per fare a meno della intermediazione del potere. Un discorso simile si potrebbe fare per i media. Non sono quindi necessariamente ostili alla democrazia indiretta e rappresentativa, la considerano, di fatto, o insufficiente o migliorabile da azioni di democrazia diretta. Forse nessuno di costoro si rende conto di avere contribuito alla prima grande sfida alla democrazia indiretta su molti fronti. Forse non sono neppure consapevoli di fare della "democrazia diretta" e, forse, è vero, non la fanno, ma pare proprio che qualcuno abbia cominciato a battere alla porta della democrazia rappresentativa come noi oggi la conosciamo, e potrebbe essere proprio la democrazia diretta.
Con l'indebolimento dello Stato nazione si è verificato un graduale aumento di forme di attività da parte di attori non ufficiali della scena nazionale e internazionale. Lo Stato si è indebolito non necessariamente perché ha commesso errori ma principalmente perché nuovi strumenti sono stati messi a disposizione dell'individuo per interagire e influenzare il sociale e il politico che fino a pochi anni fa non erano disponibili.
L'intermediazione del potere era una necessità se non altro perché il numero degli abitanti di una nazione richiedeva la rappresentatività. Le distanze, le informazioni, l'accesso erano solo di pochi. Con l'espandersi di tutto ciò la necessità della intermediazione va diminuendo. In altre parole la globalizzazione ha permesso a molti di acquisire un certo potere non attraverso le elezioni e la violenza delle armi ma attraverso metodi ritenuti legali e corretti dalla società stessa; di più, attraverso strumenti che la crescita economica mette a disposizione di un numero sempre maggiore di persone.
Conosciamo democrazia senza intermediazione, cioè democrazia diretta, solo in teoria o nell'ambito di manifestazioni “micro”; se dovesse espandersi a dismisura, sapremmo gestirla? O saremmo sopraffatti dall'anarchia?
Immagino che fra vent'anni i Parlamenti di mezzo mondo avranno un significato ed un ruolo molto diverso da quello di oggi. Quali forme di intermediazione di potere saranno rimaste e quali altre saranno scomparse?
Questo indebolimento della nazione Stato ha avuto una frenata brusca lo scorso anno. Per i difensori ad oltranza del concetto classico di nazione-Stato, per coloro che guardavano con timore alla dispersione del potere, conseguenza di un mondo con frontiere di tutti i tipi sempre meno consistenti, per chi guardava all'espandersi sia verticale che orizzontale della democrazia, Usama Bin Laden ha rappresentato un sospiro di sollievo. Di colpo il processo di indebolimento della nazione-Stato pareva si fosse fermato. Bin Laden ha dato un grossa spinta a chi crede nello Stato forte e, al limite estremo, di polizia. E a buona ragione: il terrorismo in generale può solo essere combattuto dallo Stato-nazione e dalle sue strutture e la sicurezza fisica degli individui di uno Stato è prerogativa dello Stato, così come l'uso legittimo della forza fa parte dei suoi strumenti. Ma il terrorismo di Al Qaeda è qualcosa di più: atti terroristici come strumento per raggiungere un fine non sono certo nuovi; il terrorismo come tattica cioè è un fenomeno ben conosciuto. Molto meno frequente, fino ad oggi, è stato l'uso del terrorismo come strategia: quello di Al Qaeda è tale. Ha degli scopi molto vaghi, quindi imprecisi, irraggiungibili: rappresenta il terrorismo della guerra perpetua o, se si vuole, il tentativo di innescare una guerra tra civiltà, o almeno tra occidente e mondo islamico, o almeno tra Stati Uniti e mondo arabo.La reazione a questo terrorismo non solo internazionale ma strategico, senza fine prevedibile, è stato il ricompattamento dello Stato-nazione e una nuova ondata di fiducia e mandato da parte dei cittadini a questo Stato rinforzato. Contraddittoriamente Al Qaeda è frutto della globalizzazione ma ha generato l'effetto opposto. Per dirla in modo più pratico: ha rafforzato, non indebolito, gli Stati Uniti come cercherò di delineare più oltre.
Il terrorismo come strategia meglio avrebbe fatto ad autodefinirsi “tattico”: ma la generalità ed enormità dei suoi obiettivi lo rende limpidamente strategico.
Inoltre, il terrorismo strategico di Al Qaeda non esiste senza un nemico. Se Bin Laden non avesse un nemico, egli e la sua struttura non esisterebbero. Non hanno altro da offrire se non il nemico e per questo il nemico deve esistere per sempre poiché solo la guerra eterna mantiene in vita la struttura, sia a livello ideologico che organizzativo.
E su questo fronte Al Qaeda ha fatto un gran favore a chi si sentiva orfano di nemico. I veri fautori della globalizzazione non parlano in termini di nemici, ma al massimo di concorrenti da battere sul piano dell'efficienza e competitività. Al Qaeda, rispetto, ad esempio, a strutture classiche che nel tempo hanno usato il terrorismo come tattica, tipo Hezbollah, non offrono servizi sociali o di fatto un welfare state ai loro supporters. Hezbollah, senza nemico, rimane una struttura che ha offerto molto ai suoi concittadini. Al Qaeda fino ad ora si è nutrita solo del nemico e solo nemico ha saputo offrire. Si potrebbe definire una struttura classica da guerra fredda; un'ideologia del passato in cui il cambiamento è temuto poiché risulta ingestibile se non cambiando la natura stessa della struttura.
L'undici Settembre 2001 ha quindi dato nuovo vigore a quella nazione-Stato che la globalizzazione stava indebolendo ma ha tuttavia evidenziato anche qualcosa che la globalizzazione aveva già dimostrato, cioè che viviamo in un mondo asimmetrico. L'influenza di Amnesty International non è legata al numero dei suoi elettori ma alla loro determinazione; la capacità distruttiva di Al Qaeda non è legata alla sua alleanza con una grande potenza ma all'organizzazione di un gruppo relativamente piccolo - in proporzione alle armate della superpotenza - ma efficiente grazie agli strumenti della globalizzazione. Nel 1888 una crisi economica in una colonia inglese dell'Asia non avrebbe certo sconvolto la piazza di Londra; nel 1997 la svalutazione della moneta tailandese ha fatto tremare i mercati finanziari del mondo. Al Qaeda non regge alla forza di impatto della tecnologia militare USA però ha fatto storia e continua a dimostrare l'asimmetria in cui viviamo.
L'asimmetria non aiuta l'intermediazione del potere, anzi. Se anche il piccolo può fare sentire la sua voce, se non occorre acquisire le stesse dimensioni delle istituzioni per avere voce in capitolo, l'intermediazione come classico strumento per comunicare la voce del singolo e/o del debole al più grande o più forte non è necessariamente il solo metodo di procedere.
Uguaglianza nella vulnerabilità può essere la lezione che molti hanno appreso nel settembre 2001. Ma tale vulnerabilità era ed è la conseguenza di un mondo in cui a livello ecologico, umanitario, di salute pubblica, di migrazioni, di scienza e di tecnologia e, certamente, di uso della forza la nuova realtà è dettata dal fatto che anche il meno forte, il meno potente il meno strutturato istituzionalmente può avere una influenza sul suo opposto. La globalizzazione ha forse aumentato il gap tecnologico, economico e di potere tra molti ma ha anche offerto a coloro che sono meno dotati di questi strumenti una possibilità senza precedenti di influenzare i più forti.
L'asimmetria di Al Qaeda ha però anche introdotto un altro problema. Poiché Al Qaeda e i suoi simili non rispettano i valori, le regole e le leggi comuni, la stessa forza della legge internazionale viene messa in dubbio da chi vuole e deve combattere Al Qaeda.
Per motivi puramente congiunturali i paesi che Al Qaeda ha identificato come suoi principali obiettivi - almeno fino ad ora - sono proprio paesi che hanno un forte senso dello Stato e della sovranità statale e nel tempo hanno dimostrato talvolta “allergia” al sistema internazionale. Russia, Cina, India e Stati Uniti non hanno firmato la convenzione, per esempio, che istituisce il Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra; sono storicamente Stati allergici a interventi del sistema internazionale nei loro affari e oggi sono tutti potenze nucleari. Perché Bin Laden abbia scelto con precisione questi paesi è difficile dire. Al tempo stesso sono proprio questi i paesi che si sono sentiti nel mirino di Al Qaeda come i fatti hanno dimostrato. Al Qaeda ha di fatto facilitato la coesione fra questi quattro paesi. Impresa che fino ad oggi non era riuscita a nessuno.
Lo scacchiere mondiale è in via di mutamento e l'allineamento di questi quattro grandi paesi sta emergendo, a mio avviso, come l'elemento cardine del futuro sistema.
è un allineamento potente sia in chiave politica, che economica, che culturale, che tecnologica. Questo fenomeno non è cominciato il dodici settembre 2001, ma gli atti terroristici hanno accelerato un movimento che era già in atto. Hanno anche rafforzato la convinzione di quei paesi a coalizzarsi contro un terrorismo strategico a tout azimout.
Hanno ritrovato in ciò quel nemico a cui erano abituati ma che sembrava essere diventato evanescente durante gli anni novanta.
Le relazioni tra gli Stati Uniti e l'India sono cominciati a cambiare sotto la presidenza Clinton favoriti principalmente da due sviluppi, uno negativo e uno positivo. Quello negativo è rappresentato dalla svolta politica del Pakistan negli anni novanta: non solo è diventato un paese nucleare, ma anche un grande sostenitore del regime talibano, la cui ideologia, visione della regione e forza militare non avrebbero potuto esistere senza la connivenza di Islamabad. Questa “sbandata”, per così dire, di un paese che da sempre è stato alleato di Washington è stata certamente determinante nell'allontanamento tra i due paesi che la situazione interna pakistana non ha fatto altro che aumentare. Lo sviluppo positivo è da rintracciare nel potenziale economico indiano, sia come paese consumatore sia come produttore di quella information technology che sta alla base della globalizzazione stessa. La perdita di vitesse internazionale che l'India subì nel 1994, quando per la prima volta nella storia non riuscì neppure a farsi eleggere come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU - infatti ricevette il minor numero di voti tra tutti i candidati - aveva già segnalato la necessità per New Delhi di rivedere la propria collocazione geopolitica dopo la caduta dell'URSS. La "minaccia musulmana" in Kashmir aveva inoltre già cominciato a riscaldare i rapporti tra militari indiani e pakistani.
La connessione Bin Laden, Taliban, Pakistan, Kashmir e attentati terroristici del dicembre 2001 in India non lasciano dubbi che New Delhi è un obiettivo importante per il terrorismo di Al Qaeda.
La Cina rappresenta per gli USA da almeno un decennio il solo vero grande interlocutore. Chi vive negli USA da molti anni, come me, non può non notare come questo paese sia sempre più rivolto alla Cina. Il discorso va molto al di là dell'economia dove i conti sono presto fatti. La Cina è l'unico paese che garantisce alle grandi compagnie USA le dimensioni necessarie per svilupparsi nei prossimi vent'anni.
Il bacino del Pacifico diventa sempre di più non solo il più popolato del nostro pianeta ma anche quello che presenta la maggiore spesa per la ricerca tecnologica e l'educazione in generale.
Ad un grande stratega americano, ancora molto influente, chiesi un giorno dopo il suo ennesimo viaggio trimestrale in Cina quando sarebbe andato in Europa. Mi rispose: "Quando vado in ferie".
Il cambiamento di rapporto che sta avvenendo tra i due paesi è dimostrato dall'episodio dell'aereo spia USA che fu fatto atterrare in Cina nell'aprile 2001. Molti "esperti" che non credono nel continuo cambiamento della realtà si affrettarono a scrivere che i rapporti tra Pechino e Washington avrebbero sofferto per anni a causa di questo increscioso episodio. La velocità con cui i due paesi hanno invece superato quel momento critico ha dello straordinario. Nel giro di pochi mesi dal famoso aprile 2001 i capi di stato dei due paesi si incontrarono tre volte e oggi di quell'avvenimento non se ne parla neppure.
L'appoggio di intelligence dato dalla Cina agli USA nel caso afgano ha stupito - secondo quanto mi fu detto - gli Americani sia per la qualità sia per la quantità.
Molti a Washington vorrebbero che il secolo XXI fosse quello degli USA e della Cina: due potenze che si capiscono l'un l'altra.
Usama Bin Laden ha fatto molto per aiutarli. Colpiti dal fondamentalismo di Al Qaeda nella provincia occidentale, i Cinesi hanno scelto di cooperare con gli USA non solo sul fronte economico ma anche su quello della lotta al terrorismo. Ad un amico che di recente ha visitato la Cina i suoi interlocutori, cui aveva chiesto un commento sul comportamento "unilaterale” degli USA in campo mondiale, risposero che le critiche in questo senso è meglio che siano sollevate dall'Europa, non da Pechino.
Il fatto poi che in un allineamento, non formale ma di fatto, siano presenti India e Cina è forse una vera primizia.
La Russia di Yeltzin non riusciva neppure a far produrre tutti i pozzi di petrolio esistenti. Il recente incremento della produzione russa è dovuto al ripristino di quei 20.000 pozzi lasciati inutilizzati durante la presidenza precedente.
Il Presidente Putin ha risposto, come sappiamo ora tutti, in modo positivo all'apertura di Washington per una collaborazione di tipo nuovo: una collaborazione, per intenderci, che di fatto scavalca l'Europa. Ma anche una collaborazione su vari fronti: dal terrorismo, certo, al petrolio, alla sicurezza internazionale e c'è da aspettarsi si estenda, forse, anche al “caso Iraq”.
In che misura il quartetto USA, Russia, Cina e India comincerà a mostrarsi come tale anche in riunioni informali è difficile dirlo.
è pero evidente che se guardiamo a questo nuovo allineamento, o al G8 o al gruppo di Shangai o al "vecchio" Consiglio di Sicurezza, quello che si nota è la totale mancanza di partecipazione del mondo islamico e/o arabo.
Bin Laden ha ulteriormente contribuito alla marginalizzazione geopolitica di quel mondo forse per un lungo periodo.
I paesi che, a ragione, più temono l'asimmetria che la globalizzazione ha portato con sé sono proprio quei paesi che o sono militarmente forti e che non avrebbero la stessa forza in un mondo di cento o mille Al Qaeda, oppure quelli che devono alla forza della struttura statale la loro stessa esistenza interna.
L'allineamento tra i quattro paesi che ho menzionato quindi è logica e comprensibile.
Per questi grandi paesi Al Qaeda e il terrorismo strategico rappresentano un pericolo molto più grave poiché costituisce la loro vera nemesi. Rappresenta cioè un nemico che non è uno Stato, ma possiede capacità destabilizzanti e operative reali, non deve nulla ai suoi soggetti, non deve giustificare né gli obiettivi né le tattiche, e non deve neppure assicurare la sicurezza fisica dei suoi supporters.In altre parole Al Qaeda è l'anti-Stato e più ancora l'anti-grande Stato. Ha fatto dell'asimmetria la sua forza. Uno Stato che ha costruito un gap militare e tecnologico rispetto a tutti gli altri enorme come lo hanno fatto gli USA, o uno Stato che ha impiegato decenni per creare una coesione statale all'interno del proprio territorio come la Cina e l'India, o uno Stato che non può permettersi una destabilizzazione dopo i traumi del 1991 come la Russia non hanno altra scelta che riscoprire quello Stato sovrano di vecchia memoria che la globalizzazione ha intaccato e che Al Qaeda ha attaccato in modo frontale.
Molti nel mondo hanno reagito - e a ragione - ai morti innocenti provocati dagli attentati dell'undici Settembre 2001. Da parte mia penso che il danno più grave di un gruppo come Al Qaeda sia di avere elevato a livello di ideologia la "percezione che la diversità sia una minaccia” e, quindi, la guerra perpetua, visto che la diversità esisterà sempre in quanto fa parte della natura.
Non penso proprio si possa creare un sistema internazionale basato sulla omogeneità: accusa che a volte sento rivolgere al mondo americano.
Bin Laden ci vuole tutti, non tanto mussulmani o sunniti, ma salafiti.
Neanche la globalizzazione potrà arrivare a tanto.
|