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Per Aspera Ad Veritatem n.23
La spia sul tetto del mondo

Sydney WIGNALL



Il volume La spia sul tetto del mondo di Sydney Wignall (1) , da cui sono tratte le pagine che di seguito pubblichiamo, narra le vicende della spedizione alpinistica sull'Himalaya cui l'Autore ha partecipato.
Il viaggio verso il Tibet ha inizio nel 1955, quando forte è il contrasto tra India e Cina a seguito dell'occupazione di una porzione del Tibet da parte dell'esercito cinese di Mao Zedong e Chou En-lai.
Sebbene il Primo Ministro indiano Nehru avesse vietato qualsiasi attività spionistica, alcuni ufficiali indiani decisero di disobbedire e di controllare segretamente l'attività svolta al confine da parte delle truppe comuniste cinesi.
La spedizione di Wignall è stata, dunque, un'ottima occasione sia per ottenere informazioni preziose sul contingente militare impiegato, sia al fine di convincere Nehru della volontà di espansione cinese in danno dell'India.
La parte di seguito pubblicata, descrivendo condizioni e difficoltà della spedizione, offre un'interessante testimonianza di come una leggendaria storia della montagna possa essere considerata anche un'avvincente spy story.

"Ci stavamo ormai abituando alla routine quotidiana fatta di ricerche ed esplorazioni, mentre io e Harrop continuavamo a studiare i piani del tentativo di trovare il modo di scalare il Gurla Mandata. I tibetani si erano divisi in due gruppi. Il primo era rimasto a occuparsi del gregge di pecore e capre, l'altro si era faticosamente diretto verso la gola del Seti fino al campo di Garanphu. Stavano aspettando l'arrivo dei commercianti nepalesi che trasportavano zaini carichi di ata e tsampa da Dhuli.
Fra coloro che rimasero al di là del Saipai c'era un tibetano vestito meglio degli altri. Indossava una shuba color rosso opaco con gli orli e i risvolti di lana bianca d'agnello. Portava un cappello di feltro verde scuro, anch'esso con gli orli di lana. Damodar fece un'osservazione: «Non sembra che si occupi di pecore». Passava gran parte del tempo a fare domande a Damodar. Da dove venivamo? Dopo di noi sarebbero arrivati altri sahib? Quali erano i nostri piani e in quale direzione avremmo rivolto le nostre esplorazioni? Qualche giorno dopo il nostro amico indiscreto partì. Dal momento che all'epoca non avevo messo al corrente Damodar del fatto che io e Harrop avevamo intenzione di entrare in Tibet illegalmente per tentare di scalare il Gurla Mandata, mi sentivo sicuro del fatto che se il tibetano con il cappotto rosso fosse stato una spia al servizio dei cinesi, come in realtà era, Damodar non avrebbe potuto passargli alcuna informazione segreta che poteva rivelarsi utile per i cinesi di Taklakot.
Scoprimmo in seguito che la spia tibetana si era subito recata dai cinesi a Taklakot dove aveva informato il ragià sahib Cheenee Burra che c'erano sei europei accampati a Saipal, proprio sul confine, che possedevano attrezzature di ricerca e macchine fotografiche con obiettivi molto potenti, e che il leader della spedizione portava un fucile e una pistola automatica con la quale sparava ai bersagli di cartone. Il riferimento ai nostri portatori e all'ufficiale di collegamento nepalese che indossavano pantaloni e maglioni simili a quelli dell'esercito (e lo erano davvero, essendo stati comprati a poco prezzo a una svendita di rimanenze) doveva aver fatto scattare il campanellino d'allarme a Taklakot.
Possedevamo una radio con nove bande di frequenze, e questo lusso ci offrì, una sera, il privilegio di ascoltare un concerto per violoncello eseguito dal defunto Pablo Casals e, in un'altra occasione, di sentire che Stirling Moss aveva vinto la Mille miglia in Italia. Dopodiché nevicò. La radio ci trasmetteva da Delhi ogni giorno le previsioni del tempo. Queste erano in special modo rivolte alla spedizione gallese dell'Himalaya nel Nepal occidentale. Ogni sera ci sedevamo e ascoltavamo previsioni di ulteriori nevicate. «Che diavolo è successo alla stagione post-monsonica?» tuonò Jack Henson sentendo che erano previste cinque notti consecutive di neve. Dieci tibetani avevano fatto ritorno da Garanphu a Saipal con le pecore cariche di borse da sella piene di ata e tsampa. Avevano superato l'Urai Lekh ed erano entrati in Tibet. Quei tibetani si erano rivelati molto più esperti di noi e dei meteorologi di Delhi nell'interpretare le condizioni climatiche. Non ci sarebbe stata alcuna stagione post-monsonica quell'anno. Il monsone era arrivato più tardi del previsto e giù sulle pianure indiane stavano vivendo uno dei peggiori periodi alluvionali nella storia della meteorologia. Presto la neve ci coprì fino alla vita. Il passo dell'Urai Lekh sarebbe stato invalicabile se quella consistente precipitazione di neve fosse continuata. Convocai quel genere di riunione che la SAS (Special Air Service) britannica avrebbe appropriatamente definito "parlamento cinese". Tutti avevano qualcosa da dire e quindi si lasciarono andare. L'opinione generale era che non esistesse alcuna possibilità di scalare il Nalkankar, e per quanto riguardava il piano di Wignall a proposito di un'incursione illegale nel Tibet per tentare di scalare il Gurla Mandata, be' "doveva essere fuori di sé" per prendere in considerazione quell'ipotesi.
Costretti a rimanere nel campo a causa delle continue nevicate, continuavamo a consumare le razioni ottenendo ben poco con le ricerche e nulla con le scalate.
Mandai il nostro sirdar, Koila, a Dhuli per avere altre razioni di farina di ata e patate. Quando Koila fu di ritorno due settimane dopo, lamentandosi del fatto che alcuni dei più difficili passaggi sulla parete della gola del Seti erano stati spazzati via da enormi valanghe, iniziai a preoccuparmi. Dal momento che Humfrey Berkeley non godeva di buona salute da quando eravamo arrivati, decisi che doveva tornare indietro a Chainpur con un portatore che lo aiutasse a trasportare il suo carico. Il compito di Berkeley era di assumere venti portatori da spedire a Saipal per trasportare le attrezzature. Calcolai che non sarebbe stato molto difficile; i portatori di Berkeley sarebbero tornati nel giro di tre settimane. Berkeley, a quel punto, avrebbe potuto deviare per l'India e comunicare alla rivista Life che eravamo bloccati e senza cibo.
L'unica nostra speranza era che le nevicate smettessero. Dopo qualche notte di freddo gelido, consolidatasi, la neve avrebbe costituito una rigida superficie utile per scalare il Gurla Mandata, nel caso avessi deciso di portare avanti il mio piano. Discussi della questione con Harrop e Damodar. Quest'ultimo era dell'opinione che senza conoscere l'urdu io e Harrop non avevamo alcuna possibilità di successo nel guidare i quattro infelici portatori al di là dell'Urai Lekh, nel Tibet, verso il Gurla Mandata. Così fu deciso che se fossimo andati al Gurla Mandata Damodar sarebbe venuto con noi. Sorrise radiosamente alla notizia. Considerava quel piano la più grande avventura della sua vita. Koila si unì ai tre portatori. Ma c'era un piccolo problema: a causa della neve le nostre razioni si erano ridotte, di conseguenza sarebbe stato difficile resistere fino al Gurla Mandata, scalare la montagna e ridiscendere, in parecchi giorni, con lo stomaco vuoto.
Il 16 ottobre, giorno del mio compleanno, Harrop e Roberts partirono per completare una ricerca e persero il teodolite della Royal Geographical Society mentre un'enorme valanga stava per travolgerli. Il 17 ottobre non nevicò. E neanche il 18. Senza quel teodolite il nostro programma di ricerca non poteva essere completato. Che altro c'era da fare se non andare in Tibet, sul Gurla Mandata, e dare un'occhiata al concentramento di forze militari del compagno Mao Zedong? E fare magari qualche tranquilla ripresa a lungo raggio dell'attività che tanto ricordava la costruzione di una strada sul percorso di Ladakh per Lhasa?
Il 19 ottobre ci alzammo presto, imballammo la nostra attrezzatura e io, Harrop, Damodar e Koila, con gli altri tre portatori, partimmo per la grande avventura. Dwyer, Roberts e Henson ci accompagnarono e si offrirono di marcare un sentiero sulla neve fresca fino al campeggio del primo giorno, sentiero che troppo ottimisticamente speravamo fosse breve, dalla cima del passo dell'Urai Lekh. In condizioni normali, saremmo stati in grado di lasciare Saipal, attraversare l'Urai Lekh e arrivare fino in fondo allo Jung Jung Khola in due giorni. Considerate le circostanze ci avremmo impiegato cinque giorni.
Il percorso fu davvero tremendo. La neve fresca aveva formato in superficie uno strato molto duro. Dopo due o tre passi sulla neve rigida, la crosta si spezzava e si sprofondava fino alla coscia, oppure, a volte, si rimaneva bloccati fino alla vita nella neve fresca. Dwyer, Henson e Roberts fecero un lavoro eccellente, inzuppati di neve e sudore tracciarono per noi un percorso in direzione della vetta dell'Urai Lekh.
Riuscimmo a percorrere non più di dieci chilometri quel giorno. Arrivò il momento per Henson, Dwyer e Roberts di tornare indietro. Ci portammo appresso soltanto due tende, una per Harrop, Damodar e me, e l'altra per i quattro portatori. Sarebbe stata una sopravvivenza difficile. Ci fermammo per la notte e preparammo una buona cena. Il giorno seguente toccò a me e a Harrop tracciare il percorso sulla neve fresca. Non riesco a ricordare nulla di più difficile in tutta la mia vita. Facevo un passo. Okay. Poi un altro, camminavo su quella rigida incrostazione sprofondando nella neve fino al petto. Non ero ancora in piena forma a causa dei ricorrenti attacchi di dissenteria, e mi sentivo come se fossi passato attraverso uno strizzatoio.
Dopo otto ore scorgemmo la vetta del passo dell'Urai Lekh. Montammo le tende. Tirai fuori la cartina e guardai dietro di me. Era incredibile. Potevo vedere il nostro ultimo campeggio, sembrava così vicino. Avevamo faticato e arrancato per otto ore percorrendo soltanto settecentotrenta metri. Con mezzo chilometro al giorno avremmo impiegato una vita a raggiungere la catena nordoccidentale del Gurla Mandata. I portatori si lamentarono con Damodar. Prima di allora, a fine stagione non erano mai arrivati così in alto né così tanto vicini alla frontiera. «I passi sono chiusi da fine ottobre, per tutto l'inverno» continuavano a ripetere a Damodar. «Rimarremo intrappolati in Tibet e moriremo di fame.» La previsione era orribile.
Il giorno seguente il sole splendeva. L'avanzata non fu più così terribile. Harrop e Damodar si misero davanti per sollecitare Koila e gli altri tre portatori. Mi sentivo allegro quella mattina. Niente dissenteria, un'ottima palla di tsampa-Weetabix calda e qualche biscotto, accompagnato da una tazza di tè, mi avevano predisposto bene verso quello che mi attendeva. Raggiunsi la vetta del passo dieci minuti circa prima degli altri. Il mio ottimismo s'infranse quando guardai in basso dalla parte tibetana dell'Urai Lekh. Il terreno che un mese prima era privo di neve adesso ne era completamente ricoperto. Feci un passo in discesa. Lo strato di neve dura resisteva. Ne feci un altro. Si ruppe, ma sprofondai soltanto di un mezzo metro prima che lo stivale ricolpisse ancora una volta la neve dura.
Mi trascinai fino alla cima del Lekh. Sentivo Harrop ansimare dietro di me. Mi voltai e guardai indietro. Le cime del Gurla Mandata e del Nalkankar erano avvolte da nuvole di neve. Non c'era un alito di vento. L'aria era calma. Meditai sulla nostra situazione. Prima di quella spedizione io, mia moglie e mio figlio non eravamo mai stati separati più a lungo dei miei occasionali weekend di scalate in montagna. Mi mancavano profondamente. "Cristo, potremmo lasciarci la pelle su quella stupida montagna" dissi a me stesso. "Potremmo darci un taglio, consegnarci al ragià sahib Cheenee Burra e passare l'inverno fra gli ufficiali; mangiare alla mensa e rimpinzarci di suey. I cinesi potrebbero non apprezzare la cosa e spedirci davvero in Cina, in una prigione in cui vige un regime severo. Perché ci troviamo qui? è poi così importante scalare la più alta montagna del Tibet? Perché rischiare la vita per la madre India quando quel sanguinario di Nehru Burra ragià sahib pandit non crede neanche che i comunisti cinesi possano rappresentare una minaccia per il suo paese?"
Continuai così per qualche minuto, talvolta rivolgendomi a me stesso ad alta voce. Avevo davvero paura da morire, e iniziai a dissuadermi dal proseguire ulteriormente verso il Gurla Mandata. "Questo è tutto" mi dissi. "Non c'è nulla di cui vergognarsi. Il tempo ha sconvolto i tuoi piani. Ti stai avvicinando all'inverno tibetano e a quello himalayano. I passi che incontrerai rimarranno chiusi. Sarà pieno novembre quando ritornerai dall'Urai Lekh. Una conclusione dignitosa e basta. Hai fatto un tentativo e hai perso. Okay, siamo d'accordo. Sta arrivando John Harrop. Gli dirò che è tutto finito."
Harrop avanzò faticosamente fino in cima al passo e, senza guardare avanti o indietro, si volse verso di me, dandomi una forte pacca sulla spalla. «Scusami per il ritardo. I portatori volevano abbandonarci. Io, Damodar e Koila siamo riusciti a convincerli. Nessun problema.» Detto questo si allontanò saltellando al suo solito modo, a passi molto lunghi, giù verso il lato tibetano dello spartiacque dell'Himalaya. Lo chiamai: «Sei sicuro di volere tutto questo?».
Senza neanche girarsi mi disse: «Non ho alcun programma per questo pomeriggio, e tu?».
Il mio amico e compagno di alpinismo John Harrop aveva deciso per me. Damodar e i tre portatori si trascinarono oltre e io li guardai arrancare in basso, verso nord. Le nuvole si dileguarono e il sole cominciò a splendere. Là, davanti a noi, c'era il grande massiccio del Nalkankar. Era bello essere ancora vivi. Mi sentii in pace con me stesso passeggiando giù dal Lekh verso lo Jung Jung Khola. Eravamo sopravvissuti alla più grande avventura della nostra vita, del tutto ignari che a nord, a pochi chilometri di distanza, una pattuglia di soldati cinesi armata fino al collo si stava muovendo verso sud, alla ricerca dei «cani da corsa lacchè dell'imperialismo fascista occidentale al servizio della CIA americana».
Mentre continuavamo la nostra marcia in basso verso lo Jung Jung Khola, il percorso si faceva via via migliore. Dal momento che il versante tibetano dell'Urai Lekh era sferzato dal vento gelido che soffiava da sud dell'altopiano tibetano, la neve su quel punto si era trasformata in roccia dura. Il sentiero ripido, su cui io e Harrop avevamo camminato quando non c'era la neve, adesso era un ripido pendio di ghiaccio; passammo diverse ore a romperlo con fatica per tracciare il percorso ai portatori. Koila fu magnifico, ma gli altri tre, Ungya, Ratti e Giddy, non erano fatti per questo genere di cose, e si lamentavano ripetutamente dei pericoli che avrebbero affrontato se fossero caduti. Harrop, in preda alla disperazione, si mise in spalla il carico di trentasei chili di Giddy, trasportandolo per tutto un difficile tratto. Questo risolse il problema. Gli altri due seguirono Harrop e Koila giù sul pendio di ghiaccio dove io e Damodar li stavamo aspettando.
Io e Harrop mostrammo agli altri come scivolare da seduti sulle lastre di ghiaccio che adesso erano lievemente inclinate. Damodar e i portatori lo trovarono molto divertente; ci riducemmo tutti in un fagotto di stracci in fondo alla parete, mentre i portatori, prima preoccupati, adesso ridevano di gusto. Una volta lontani dai confini ombreggiati della cima del passo, il sole aveva ammorbidito la neve e ci ritrovammo nell'ormai nota condizione avvilente di dover marcare il sentiero per diversi chilometri. Alle 16, Harrop, Damodar e io ci fermammo all'ombra di un muro basso di pietra che era stato costruito dai commercianti tibetani come luogo di riparo dal vento del nord. Indossai un maglione e una giacca imbottita, eppure sentivo ancora il freddo gelido penetrarmi nelle ossa. I portatori arrivarono mezz'ora dopo. Io e Harrop togliemmo le tende Meade dai carichi. Ostacolati dalle dita congelate, imprecammo e lottammo contro la tenda dei ragazzi, e dal momento che dovevamo sciogliere la neve per preparare da mangiare, cucinare si rivelò un'attività tediosa e lenta. Erano le 19 quando ci infilammo nei sacchi a pelo.
Il giorno dopo ci limitammo a prendere il tè, intenzionati a cucinare dopo aver superato il tratto di neve. Partimmo alle 7 per scoprire con sgomento che la neve lì era profonda come sul versante meridionale dell'Urai Lekh. Questo perché dovevamo attraversare una zona del fondovalle completamente piatto dove, per circa tre quarti di chilometri, la neve giaceva in mucchi. Io e Harrop prendemmo il comando, tracciando a turno il sentiero, sprofondando fino alle ginocchia pressappoco a ogni passo. Raggiungemmo l'altro fianco dei mucchi di neve esausti e sudati.
Qui la valle si restringeva e si abbassava leggermente a nordest attraverso una ristretta lingua di terra, per poi allargarsi, e con gioia vedemmo l'acqua scorrere. Koila tolse dai pacchi uno dei nostri pentolini d'alluminio e lo riempì. Successivamente ci riparammo tutti in quella zona sottovento del macigno che aveva le dimensioni di una casa e azionammo il nostro fornello a petrolio per preparare una miscela di tè. Avevamo percorso meno di un chilometro in tre ore. In seguito arrancammo sulla neve alta. Superammo due laghi; nessuno dei due era indicato sulle cartine indiane.
Raggiunte le enormi vette coperte di ghiaccio che si ergevano alla nostra sinistra, tutte alte più di seimila metri, ci saremmo ritrovati su un deprimente altopiano ricoperto di pietre con un unico panorama comprendente i villaggi tibetani, il fiume Karnali e, sull'altra sponda, il grande monastero di lama di Khojarnath. Commentai con Harrop che gli errori riguardanti il Nepal sulle cartine indiane non avrebbero reso più semplice il nostro cammino verso il Gurla Mandata. Dal momento che il terreno non corrispondeva alle descrizioni della cartina, avremmo dovuto trovare il percorso su basi esclusivamente empiriche. Questo poteva comportare un giorno o due in più rispetto ai nostri piani, e rendere ancora più insufficienti le nostre razioni di viveri.
Alle 15 la neve cominciò ad assottigliarsi e fecero la loro apparizione appezzamenti di terreno spoglio. Avevamo lasciato alle spalle la parte più faticosa del nostro viaggio. Da quel momento la marcia sarebbe stata più semplice. Superammo la curva del sentiero per scoprire il suolo completamente privo di neve. Koila indicò un cerchio di pietre disposte più in basso, sul lato sinistro del sentiero. «Tharedunga, sahib.». Erano le pietre sacre.
Qualche metro più avanti trovammo una parte piana del terreno su cui piantammo le tende per la notte. Qui fummo in grado di risparmiare sulla nostra preziosa fornitura di petrolio, perché i portatori prepararono la cena sul fuoco di sterpaglia alimentato con letame di yak. La marcia dell'indomani sarebbe stata breve, in direzione di un luogo chiamato Kalapani (acqua nera). A ovest di Kalapani si trovava il villaggio tibetano di Khatang, e avanti, ai piedi dell'estremità dello Jung Jung Khola che va restringendosi, c'era il fiume Karnali. Una volta superato il Karnali saremmo stati in grado di vedere l'intero gruppo del Nalkankar fino a quel momento inesplorato, e ai suoi piedi il monastero dei monaci lama di Khojarnath. Questo sarebbe stato il nostro ultimo giorno di viaggio, alla luce del sole, in direzione del Gurla Mandata. Da Kalapani in avanti avremmo viaggiato di notte. Il nostro maggiore grattacapo erano le cartine indiane, così inattendibili.
Il giorno seguente, il 23 ottobre, superammo un dirupo di 914 metri di pietra calcarea che ricordava la Marmolata delle Dolomiti.
Gli speroni e i burroni di roccia rossa e arancione si stagliavano sopra di noi. Ci affrettammo a superare quella grande parete rocciosa. Non era il posto adatto per bighellonare, e i detriti di roccia appena frantumata sul suolo lo testimoniavano. Dopo aver vagato per una piacevole ora lungo un bel sentiero in piano, scendemmo fino alla sponda del fiume. Più in alto, sullo Jung Jung Khola, quel fiume era un semplice rivolo d'acqua. Qui si estendeva per circa sei metri, ma era troppo profondo per poterlo passare a guado. Più avanti scorgemmo un piccolo ponte a cantilever di legno costruito dai tibetani. Lo attraversammo, e Koila, indicando una pendenza di pietrisco che si trovava più avanti, urlò: «Kalapani, sahib!».
Kalapani venne meno al significato autentico del suo nome. Non c'era acqua nera. Una piccola sorgente sgorgava dalla gola della roccia, ai cui piedi cresceva un piccolo albero solitario. Berne l'acqua chiara, effervescente minerale, era come bere champagne. Ci liberammo dei carichi e piantammo le tende. Adesso potevamo vedere in basso lo Jung Jung Khola. Scalando un paio di centinaia di metri oltre il campo, si scorgeva il grande complesso delle vette del Nalkankar ricoperte di ghiaccio e, con i binocoli, era possibile individuare il monastero di Khojarnath. C'erano solo due percorsi per uscire dallo Jung Jung Khola ed entrare in Tibet. Si poteva risalire il passo di Khatang che torreggiava su di noi a ovest, oppure continuare in basso lungo lo Jung Jung Khola, verso Karnali.
Koila minò ulteriormente i miei piani. Mi spiegò, attraverso Damodar che le mie cartine, da cui sembrava che il percorso in basso sul versante occidentale dello Jung Jung Khola verso Khojarnath fosse relativamente semplice, erano in realtà terribilmente imprecise. Non c'era alcun percorso per i restanti otto chilometri dello Jung Jung Khola. Non c'era alcun sentiero, a parte uno, molto stretto, usato dalle capre selvatiche, che, secondo Koila, si esauriva dopo appena due metri, e le pareti dello Jung Jung Khola erano troppo difficili per i portatori carichi. Se volevamo entrare illegalmente in Tibet e tentare di scalare il Gurla Mandata dovevamo attraversare il passo di Khatang, entrare nella valle omonima e avanzare verso il passo a nord che portava al monastero di Khojarnath, a Jitkot. I miei piani erano andati completamente alla deriva.
«Non possiamo attraversare il villaggio di Khatang di notte, senza essere osservati?» chiesi a Koila.
«Forse, sahib. Ma il capo del villaggio, il vecchio Phrupa, può anche avere un occhio solo, ma possiede mastini tibetani dotati di orecchie e fiuto. Se riuscissimo ad attraversare Khatang senza essere intercettati, potremmo superare il piccolo passo che porta sulla pianura tibetana e procedere lungo il percorso in direzione del gompa di Jitkot. A quel punto dovremmo attraversare il fiume Karnali. È guadabile in alcuni punti, ma non sono certo che ci sia un guado in quell'area. Nel caso non ci fosse, dovremmo camminare verso Taklakot per raggiungere il punto che conosco.»
L'unica buona notizia di Koila era che i cinesi non avevano messo di guarnigione alcuna truppa né a Khatang né a nord del piccolo passo che portava a Jitkot. Secondo Koila la guarnigione cinese si trovava quasi tutto il tempo a Taklakot, e le uniche truppe stazionate sul confine controllavano il versante tibetano del passo del Lipu Lekh che portava in India.
Koila poteva avere ragione circa i movimenti dei cinesi nel passato, quando attraversava quella zona come portatore del giovane ragià Oom Jung, durante il suo annuale pellegrinaggio alla sacra montagna Kailash. Ma le cose erano cambiate. La notizia degli europei che si trovavano sul versante nepalese dell'Himalaya era stata raccolta dai corrieri dell'esercito cinese diretti sugli asini al quartier generale di Gartok, a 193 chilometri a nordest di Taklakot. All'epoca, i cinesi del Tibet occidentale disponevano soltanto di una piccola radio a onde corte capace di comunicare con Lhasa, e quella radio si trovava a Gartok. Il quartier generale cinese di Lhasa aveva dato ordine al governatore militare del Tibet occidentale di arrestare i "diavoli stranieri" anche a costo di entrare nel territorio nepalese. Uno degli effetti di quest'ordine fu che una pattuglia cinese, con interpreti tibetani, incluso l'uomo che ci aveva spiati al campo base di Saipal, stava controllando in quel momento ciascuno dei tre passi che portavano a Taklakot. Il primo di questi, il Lipu Lekh, sul confine indiano, era facilmente percorribile in un giorno di viaggio a dorso di mulo o a piedi. Il secondo passo, più vicino a Taklakot, a est del Lipu Lekh, era il Tinkar Lipu, che conduceva all'area nordoccidentale del Nepal separata dal nostro campo base da una catena di montagne, la maggior parte delle quali all'epoca non erano state ancora scalate, incluse Api e Nampa. L'ignoranza dei cinesi circa il terreno a sud dello spartiacque himalayano era tale da indurli a pensare che i ·diavoli stranieri· avrebbero potuto gironzolarci intorno e attraversare uno qualunque dei tre passi per spiare il PLA (Esercito di liberazione popolare cinese - n.d.r.) a Taklakot.
Ormai la pattuglia cinese doveva aver ispezionato il posto di confine sul versante tibetano del Lipu Lekh, dove dalle guardie di frontiera doveva aver saputo che non si era visto alcun europeo. Dal Lipu Lekh la pattuglia cinese era tornata indietro, e una volta raggiunto l'altopiano tibetano si era diretta a est, fino alle vie d'accesso del passo di Tinkar Lipu. Il Tinkar Lipu, all'epoca, non veniva controllato dal PLA, e la pattuglia cinese doveva per forza salire fino in cima al passo e ridiscendere illegalmente a Tinkar Khola, nel Nepal occidentale, cosa che sarebbe stata fatta a tempo debito. E ancora nessuna traccia dei cani da corsa lacchè dell'imperialismo fascista occidentale.
Tornando giù dal Tinkar Lipu, i cinesi, non scorgendo alcuna impronta sulla neve fresca, avevano ancora un altro passo da esaminare, quello dell'Urai Lekh. Ora, essendo a corto di viveri e non essendoci villaggi nei dintorni di Tinkar in cui poter rifornirsi, i cinesi decisero di procurarsi tutto ciò di cui avevano bisogno nel villaggio tibetano di Khatang. Presto si sarebbero messi sulla nostra stessa strada.
La notizia che non avremmo potuto procedere oltre lo Jung Jung Khola e che avremmo attraversato di notte zone disabitate, dove la popolazione locale possedeva mastini feroci, non era affatto rassicurante. C'erano voluti cinque giorni per percorrere ventisette chilometri. Di questo passo la nostra razione giornaliera, già inadeguata perché inferiore alle duemila calorie, sarebbe stata del tutto insufficiente per proseguire la marcia fino al Gurla Mandata ed eseguire l'estenuante scalata di 6700 metri fino al campo d'osservazione.
Io e Harrop riesaminammo il percorso, il tempo e le razioni che diminuivano sempre di più; proprio quando la situazione ci sembrò drammatica, incassammo il colpo finale. Koila aveva discusso agitatamente con Damodar; fu lui difatti a darci il coup de grâce. «Koila dice che la carne che avete cucinato a cena per il pemmican in realtà non è di pecora, e insieme ai tre portatori crede che il pemmican sia fatto con carne di mucca. La mucca è una creatura sacra per la religione induista. Non c'è modo di persuaderli, Syd sahib. Non mangeranno mai più pemmican.»
«In tal caso» rispose Harrop «ci sarà molto più cibo per noi, sempre che tu voglia mangiare il nostro pemmican di carne di mucca, Damodar. Per i portatori, invece, non ci saranno più razioni.»
«Ho tentato di far credere a Koila e agli altri portatori che il pemmican conteneva carne di pecora e non di manzo, Syd sahib, ma non mi credono più. Io lo mangerò, se ci aiuterà a raggiungere quella montagna, ma cosa facciamo con loro? Abbiamo troppa poca tsampa, che per giunta a loro non piace, e pochissima ata per preparare le loro chapati. Non sopravviveranno se non ci procuriamo ancora qualche chilo di ata e di tsampa.»
«È così dunque» commentai «tutti i nostri piani sono sfumati. Gurla Mandata addio.»
«Oh, non è così grave, Syd sahib» disse Damodar «Koila dice che può entrare a Khatang e dire di far parte di un gruppo di pellegrini nepalesi a corto di cibo in viaggio verso il Kailash, potrebbe comprare un po' di farina locale dal vecchio Phrupa.»
«Troppo rischioso» dissi «Phrupa potrà anche avere un occhio solo; ma a quella vecchia canaglia deve essere certo rimasto ancora mezzo cervello, e potrebbe chiedersi come mai il resto dei pellegrini nepalesi non ha accompagnato Koila.»
«Potremmo dire a Koila di raccontare che il percorso era così terrificante che il gruppo ha pensato di tornare indietro oltre l'Urai Lekh, rimanendo così senza cibo» propose Damodar.
«Vale la pena provarci» intervenne Harrop «sarebbe davvero un peccato aver viaggiato fin qui per nulla, quando qualche chilo di farina potrebbe risolvere tutti i nostri problemi.»
«Votiamo» suggerii «da parte mia, in quanto leader della spedizione, non ci saranno più ordini. Rischiamo di morire di fame o di finire in carcere in una dannata pagoda di bamboo cinese. Alzi la mano chi dice che Koila deve andare a Khatang e cercare di gettare fumo nell'unico occhio del vecchio Phrupa.»
Alzammo la mano in tre. Fu una decisione fatale. Ci saremmo avviati verso il Tibet, qualunque cosa fosse successa, e al diavolo il ragià sahib Cheenee Burra. Rassicurato dalla nostra unanime decisione consegnai a Koila un malloppo di rupie in banconote, e a mezzogiorno, insieme a Ratti, partì per un viaggio di sei chilometri verso Khatang. Koila avrebbe cercato di acquistare ventidue chili di tsampa e lo stesso quantitativo di ata, promise che sarebbe tornato il pomeriggio seguente. Io e Harrop decidemmo che avremmo passato la giornata a riordinare e impacchettare i carichi dei nostri portatori, e che la mattina seguente avremmo fatto un giro di ricognizione. Saremmo saliti sul passo di Khatang, e da un promontorio a nord avremmo goduto di una splendida vista per la nostra documentazione fotografica del Gurla Mandata e dell'intero massiccio del Nalkankar. Inoltre, avremmo esaminato con i binocoli e il teleobiettivo le catene che uniscono il Nalkankar al Gurla Mandata, per poter escogitare una via d'accesso all'ultima delle montagne. Saremmo tornati più o meno all'ora in cui aspettavamo Koila. Ma, come sembra aver detto Sua Grazia, il duca di Wellington, ·nessun piano di battaglia sopravvive al contatto con il nemico".
Non riuscimmo a dormire bene poiché la nostra tenda era stata piantata su una pendenza, trovandomi sul lato inferiore, ero pressato dai pesi di Harrop e Damodar che rotolavano verso di me. La mattina del 24 ottobre, io Harrop e Damodar accompagnati da Ungya, il piccolo portatore dalle gambe arcuate, ci avviammo verso la vetta del passo di Khatang, priva di neve. Fu un terribile percorso, ricoperto di pietre spigolose e taglienti. Più in alto le difficoltà diminuirono e attraversammo una gradevole valletta piena di piccole bacche di ginestra. Il percorso roccioso lasciava il passo a gradevoli pendii erbosi frammezzati da appezzamenti di terreno spoglio. A sinistra si levava un'enorme vetta rocciosa, i promontori superiori erano ricoperti di ghiaccio. Era la barriera montuosa che ci separava dall'Urai Lekh. Alla nostra destra, sul lato settentrionale del passo, si ergeva una vetta calcarea di color marrone chiaro che offriva un ottimo panorama per il nostro servizio fotografico del Tibet. Ungya mi chiamò ad alta voce. Damodar si rivolse a noi con un cenno.
«Guardate cosa ha scoperto Ungya!» gridò.
Osservai sul terreno le orme di un animale che non riconobbi.
«Dev'esserci stato un sottile strato di neve» disse Damodar «dopo essersi sciolta, la terra si è leggermente inumidita, abbastanza da far ricomparire queste impronte di animale. Guardate qui, ci sono le impronte di uno stambecco. Adesso guardate la distanza fra questa impronta e quella più avanti.» Ungya disse che una mattina uno stambecco doveva essere arrivato fin lì inseguito da una lince. «Questa macchia indica il punto in cui la lince deve averlo aggredito. Guardate come si fanno più profonde qui le impronte della lince mentre lo trascina via.»
Mi guardai intorno. Da qualche parte, lassù fra le rocce, si trovava la lince con la sua preda, e con ogni probabilità ci stava osservando. Continuammo la nostra arrampicata fino al punto massimo della vetta di roccia calcarea. La vista da lassù era meravigliosa, tutto quello per cui ci eravamo spinti fin là si estendeva davanti a noi. In basso sulla sinistra, in lontananza, si trovava la valle di Khatang, e anche a occhio nudo potevamo vedere le quattro case, apparentemente in miniatura, che costituivano il villaggio di Phrupa. Il paesaggio era dominato dal gigantesco massiccio del Gurla Mandata, 7728 metri, il suo enorme precipizio a sud sembrava estremamente minaccioso. Il percorso più semplice, attraverso la catena nordoccidentale, si estendeva ad angoli retti davanti ai nostri occhi.
«Sembrano pezzi di torta» disse Harrop «non è neanche necessario mettere piede sul ghiacciaio per raggiungere la catena occidentale, è un lungo passo impegnativo fino alla vetta.»
Una catena intermedia nascondeva Taklakot al nostro sguardo. Anche il lago sacro di Manasarovar era fuori dalla nostra visuale, nascosto dietro una catena che raggiungeva in altezza il Gurla Mandata. Sull'orizzonte si intravedeva la stupenda e inconfondibile vetta a forma di piramide della sacra montagna Kailash.
«Se volevate il Nalkankar, eccolo lì» disse Harrop.
Rivolsi lo sguardo a nordest. Sul Nalkankar c'erano molte più vette di quante non ne fossero indicate sulle cartine indiane. Quella che sulla cartina misurava 7334 metri era senza dubbio più alta. La più alta non poteva essere inferiore ai 7600 metri. Mentre Harrop era impegnato nei rilevamenti con la bussola, io filmavo e fotografavo il panorama delle vette e dei passi che ci circondavano. Il punto di osservazione a circa cinquemila metri d'altezza offriva inoltre un bel panorama dei restanti otto chilometri dello Jung Jung Khola. Sempre dritto, più avanti, si trovava il villaggio tibetano di Khojarnath, distinguibile dalla triade dei grandi monasteri rossi dei lama buddhisti. Mi voltai puntando il binocolo sul piccolo villaggio di Khatang. Si intravedeva qualcuno nei pressi della casa più grande, era un tibetano che guidava una mezza dozzina di yak.
Il percorso sul passo di Khatang scendeva ripido lungo il versante tibetano livellato in fondo dalle sponde di un piccolo fiume. C'era un ponte di legno a cantilever, e dopo il percorso spariva in un burrone poco profondo per riapparire su un piccolo altopiano che attraversava qualche campo fino a raggiungere le case. Il pendio marrone e viola dietro le case era tagliato da lunghe linee orizzontali che indicavano i solchi scavati nel suolo rigido per incanalare l'acqua del ghiacciaio dalle vette innevate fino ai campi. Rimanemmo lì fino al tardo pomeriggio, ma non c'era nessun traccia di Koila. Detti un'ultima occhiata a Khatang con il binocolo. Mi parve di vedere alcuni cavalli legati fuori della più grande delle quattro case. Chenee Burra ragià sahib era arrivato a Khatang, anche se non lo sapevamo ancora, i poveri Koila e Ratti erano stati legati ai piedi e alle mani, picchiati e presi a calci fino a confessare che stavano guidando due europei e un nepalese nel Tibet.
Scoraggiati, tornammo al nostro campo a Kalapani, Damodar e gli altri due portatori erano dell'opinione che forse Phrupa non aveva farina a sufficienza per le nostre necessità e che probabilmente aveva spedito qualcuno giù a Jitkot per ulteriori scorte. Tornati al campo, raggruppammo alcuni fossili che Harrop aveva raccolto vicino alla sommità del passo. Ignoravamo il fatto che quei pezzi di pietra apparentemente innocui ci avrebbero presto causato molti problemi e angosce."


(*) Tratto da "La spia sul tetto del mondo" ("Spy on the roof of the world") di Sydney Wignall, Pratiche Editrice - Il Saggiatore, Milano, 2001.
(1) Membro della Royal Geographical Society e dell'Himalayan Club.

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