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Per Aspera Ad Veritatem n.22
Tra secondo e terzo millennio. Gli scenari della globalizzazione

Giovanni AGNELLI




“Globalizzazione” è parola moderna e molto in voga. Ma l'ideale che esprime non è nuovo: appartiene alla storia stessa dell'umanità.
Sta nell'aspirazione delle primordiali comunità ad ampliare il proprio territorio alla ricerca di terre più fertili da coltivare e di una più ricca selvaggina da cacciare.
Sta nella spinta delle prime civiltà a estendere ad altre le proprie regole di convivenza, la propria cultura, la propria religione.
Al desiderio e all'ambizione di unificare il mondo possiamo ricondurre molteplici vicende che hanno segnato il corso dei secoli.
Vi appartengono, per esempio, i caratteri dell'espansione romana, la propagazione del cristianesimo e, poi, dell'islam, l'esperimento di unificazione dell'Europa di Carlo Magno, la curiosità per l'ignoto che ha ispirato le grandi esplorazioni, i valori civili propugnati dalla rivoluzione francese, la formazione dei grandi imperi coloniali, l'internazionalismo della lotta di classe preconizzato da Karl Marx.
Nella tensione alla globalità che ha ispirato vicende così diverse, c'è forse un'almeno parziale risposta alla “domanda essenziale” con la quale Leone Tolstoj chiudeva Guerra e Pace allorché si chiedeva "qual è la forza che muove i popoli".
E, tuttavia, l'ideale della globalità, così connaturato allo spirito dell'uomo, si è sempre manifestato - prima e dopo la tragica esperienza napoleonica in Russia - attraverso la logica della conquista e del predominio. Conquista politica, economica, religiosa, ideologica.
Così è stato fino ad un recente passato. Fino a quando i 57 milioni di morti della seconda guerra mondiale non hanno cominciato a incrinare quella logica e i calcinacci del muro di Berlino non l'hanno seppellita - speriamo per sempre - nel 1989.



Sono stati l'orrore per la guerra e la minaccia di nuove armi ancora più distruttive a spianare la strada al progressivo rigetto della logica di conquista e al graduale affermarsi di una logica diversa. La logica della cooperazione. Una cooperazione che ammette leadership, ma non tollera egemonie.
Nel 1945, la nascita delle Nazioni Unite ha aperto questa strada in una prospettiva globale.
Ma cooperare per difendere la pace non è stato cammino facile e lineare.
La stessa azione dell'ONU è stata spesso indebolita dai residui di concezione egemonica che presiedettero alla sua creazione.
Nondimeno, gli avanzamenti compiuti in quegli anni hanno indirizzato gli eventi dei decenni successivi.
A tale riguardo, credo vada fatta una considerazione.
Si sente dire spesso che la globalizzazione economica dei giorni nostri non è poi un fenomeno così originale. Ché anzi ha avuto un precedente assai simile, per intensità e ampiezza, a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Si sente dire spesso che proprio quel precedente dovrebbe metterci in guardia. Starebbe, infatti, a dimostrare quanto perigliosi possano essere gli squilibri e le tensioni che la globalizzazione innesca quando diventa - come dicono alcuni suoi critici - “caotica”, “eccessiva”, “selvaggia”.
A parte la legittima curiosità di capire che cosa significhino in concreto tali attributi, c'è una cosa da dire.
Non si può dimenticare - e certamente non possono dimenticarlo gli uomini della mia generazione - la grande diversità dei fondamenti ideali e politici che stanno alle radici dell'integrazione economica degli ultimi cinquanta anni.
Questi fondamenti non sono più nella volontà di predominio e prevaricazione.
Sono nell'idea, come ebbe a dire, in altri momenti, Paolo VI, che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Sono nell'idea che niente può permettere di difendere la convivenza tra i popoli più della loro ampia partecipazione, attraverso gli scambi, alla crescita economica e al progresso civile.
“Dove passano le merci non passano i soldati”.
Con questo intendimento a Bretton Woods furono poste nel '44 le basi delle nuove istituzioni economiche internazionali (il Fondo monetario e la Banca mondiale); gli Stati Uniti erogarono all'Europa, tra il '48 e il '52, gli aiuti del piano Marshall; l'Accordo generale sulle tariffe e sul commercio avviò nel '48 la liberalizzazione dei commerci; l'Europa, a partire dall'istituzione nel '51 della Comunità del carbone e dell'acciaio, intraprese il suo cammino di unificazione.
Vi era, in tutto ciò, anche un auspicio. L'auspicio che un maggior benessere, una maggiore domanda e offerta di istruzione, una maggiore articolazione sociale, una maggiore mobilità internazionale delle persone, un maggior confronto tra le virtù istituzionali di diversi Paesi, una maggiore solidità finanziaria, tutto questo avrebbe reso più agevole l'affermarsi della democrazia.



Trainato dalla formidabile crescita del commercio internazionale, il reddito mondiale dal 1950 ad oggi è aumentato di oltre 10 volte, mentre era cresciuto di neppure quattro volte nei cinquant'anni precedenti.
L'incremento della ricchezza non è stato appannaggio di pochi, ma ha interessato un numero crescente di Paesi. Secondo i dati della Banca mondiale, il numero dei poveri sulla popolazione mondiale è diminuito del 20% negli ultimi dieci anni; e ciò benché la popolazione sia cresciuta del 15%.
I progressi incessanti nelle tecnologie informatiche e di telecomunicazione hanno ulteriormente accelerato i processi di integrazione.
Non solo. Moltiplicando gli accessi alle fonti di informazione, ne hanno reso vano quel controllo che è fattore di sopravvivenza per le dittature.
L'incapacità di tenere il passo dello sviluppo e di erigere barriere all'informazione e all'autonomo giudizio dei cittadini ha portato al crollo del blocco comunista; crollo sul quale, peraltro, ha avuto grande influenza anche l'opera di Giovanni Paolo II, specie in Polonia.
Da allora, la globalizzazione è divenuta occasione e opportunità di entrare nel gioco dell'espansione economica anche per quella metà del mondo che ne era stata forzatamente esclusa.
La forte ripresa dell'Europa dell'Est si è affiancata ai progressi dell'America Latina e allo straordinario sviluppo dell'Est asiatico.
Anche la democrazia ha conosciuto una nuova stagione di vitalità.
In realtà, se in molti angoli del mondo la democrazia ha faticato ad imporsi, ciò non è stata la conseguenza della crescente integrazione economica. È stata la conseguenza della frattura tra Est e Ovest; tra l'area della dittatura e l'area della libertà.
Certo - ed è proprio la storia di molte esperienze asiatiche a confermarlo -, tra sviluppo dell'economia e affermazione della democrazia non è possibile stabilire un legame di causa-effetto.
Ma sappiamo che, alla lunga, tra libertà politica e prosperità economica si produce una stretta correlazione.
Solo la libertà può dare alla prosperità stabilità e certezza.
Tale consapevolezza non è mai stata radicata come oggi.
E mai come oggi la democrazia ha coinvolto un così vasto numero di popoli.



Questi i frutti di una globalizzazione nata e costruita sul principio di cooperazione. Tali frutti meritano alcuni ulteriori commenti.
Il primo. Le spinte alla crescita e all'integrazione che possono provenire dall'esterno, per quanto robuste, non bastano a innescare processi di sviluppo solidi e duraturi.
Esse devono essere fatte proprie dagli agenti interni di un Paese, da soggetti politici ed economici che vogliano e sappiano farsene carico.
Non fu il piano Marshall da solo ad attivare la rapidissima espansione del benessere in Europa, i “trent'anni gloriosi” di cui parlano i francesi.
Il piano Marshall si incardinò nell'opera di modernizzazione degli Stati europei. E trovò nel contemporaneo maturare della scelta europeista - di cui la CECA fu il primo mattone - un terreno fertilissimo di progetto, iniziativa, sinergia.
È anche questa esperienza a suggerirmi un secondo commento.
V'è chi obietta che la globalizzazione tenda a impoverire i Paesi poveri.
La verità è, semmai, che si impoverisce chi dall'integrazione economica e sociale si chiama fuori.
Cogliere i dividendi della globalizzazione non dipende dalle decisioni di questa o quella istituzione internazionale, di questo o quel Paese ricco, di questa o quella multinazionale.
Dipende dai governi, dalla loro credibilità, dalla loro intransigenza contro la corruzione, dalla loro volontà di investire in acquedotti piuttosto che in armamenti.
Dipende dalla loro determinazione nel dare certezza al diritto, autorità alle istituzioni, istruzione alle persone, libertà d'iniziativa e di concorrenza agli operatori economici.
Per chi offre queste garanzie non c'è problema di risorse finanziarie.
Troppo spesso non c'è stato neppure per chi le garanzie le ha solo promesse, dando luogo a esperienze imperfette, precarie, sempre in bilico sulla crisi.
Va anche aggiunto che gestire i flussi di capitali internazionali richiede una maturità politica e una responsabilità fiscale che non sempre sono sufficientemente radicate. E le conseguenze possono essere molto pesanti.
Le drammatiche vicende dell'Argentina ne sono solo l'esempio più recente.
Niente può superare le nostre preoccupazioni per le sofferenze della popolazione di quel Paese così vicino a noi italiani.
Ma certo, con il popolo argentino ha perso anche chi in quel Paese ha creduto. Ha creduto nella sua voglia di riforma, nella sua ritrovata stabilità politica, nella sua fiducia nello sviluppo; e per questo vi ha portato ingenti investimenti in tecnologie, organizzazione industriale, formazione delle persone.
Ciò che è avvenuto in Argentina, in ogni caso, non fa che ribadire quale grande capacità di gestione sia richiesta dall'integrazione globale da parte dei singoli Paesi e delle istituzioni internazionali.
Ferma restando la responsabilità dei singoli governi, non c'è dubbio che la dimensione sovranazionale dei problemi connessi alla globalizzazione esiga una sempre più adeguata governance.
Una governance che
- si esprima, innanzitutto, attraverso un miglior funzionamento e una più adeguata capacità di intervento delle istituzioni finanziarie internazionali;
- indirizzi e faciliti i processi economici in modo da dare una risposta rapida ed efficace al dramma della povertà, che ancora oggi colpisce un quinto della popolazione mondiale;
- affronti i problemi per i quali le soluzioni a livello nazionale non appaiono più adeguate, dal capitolo oggi decisivo della sicurezza interna fino alla salvaguardia dell'ambiente;
- sappia rispondere alla richiesta di affermazione e di effettiva tutela, in ogni angolo del mondo, dei diritti dell'uomo.



Della necessità di una rinnovata governance internazionale si discute da tempo - e senza molto costrutto, per la verità.
Credo che si possa dire, tuttavia, che tra gli effetti inattesi e positivamente sorprendenti dei drammatici eventi dell'11 settembre vi sono importanti segnali. Segnali non di allentamento o arretramento, ma di rafforzamento della volontà di perseguire l'integrazione e di coordinarla più efficacemente.
Essi riguardano, da un lato, la gestione dell'economia e, dall'altro, la politica internazionale.
All'indomani degli attentati terroristici negli Stati Uniti, da più parti era stato espresso un timore. Il timore che l'insicurezza generata da un mondo divenuto improvvisamente ostile potesse invertire il processo di integrazione pacifica che aveva segnato in particolare gli anni Novanta.
Si è temuto che la comunità economica globale potesse disperdersi e cadere vittima di una “sindrome dell'eremita” intesa a ridurre ogni rischio o impegno esterno.
In effetti, così è stato, ma non a lungo. E ciò per le risposte che la politica economica ha saputo dare alla crisi.
Per la prima volta abbiamo assistito all'attivazione rapida, globale e coordinata delle grandi autorità monetarie mondiali, Federal Reserve, Banca Centrale Europea, Banca d'Inghilterra.
Anche le politiche di bilancio si sono mosse, certo non con la stessa incisività, la stessa omogeneità, la stessa rapidità.
Gli Stati Uniti hanno potuto far leva sui margini di surplus di bilancio. L'Europa, che questo surplus non l'ha, ha di fatto procrastinato l'avvicinamento al pareggio di bilancio. Ciascun Paese ha sfruttato secondo le sue necessità il limite massimo di deficit consentito dal Patto di stabilità.
Nel loro complesso, le politiche economiche hanno comunque arginato i timori di collasso di breve termine delle economie.
Ancora non abbiamo certezze su quel che potrà avvenire nei prossimi sei o nove mesi. Ma uno sguardo più "lungo" non può non cogliere caratteri incoraggianti.
Elementi di giudizio ancora più incoraggianti vengono da un altro versante, quello della risposta politica agli eventi dell'11 settembre.
È su questo terreno, soprattutto, che sono maturate scelte che ci fanno parlare di un'inattesa ripresa della capacità di governance mondiale.
Quel che è divenuto chiaro a tutti, dopo l'11 settembre, è che non può esistere salvaguardia nazionale senza cooperazione internazionale, in tutti i campi.
In questa prospettiva abbiamo visto, per esempio, l'Amministrazione americana modificare radicalmente le sue posizioni in materia di controllo sui mercati finanziari e di contrasto ai paradisi fiscali.
Abbiamo visto chiudersi in tempi strettissimi la trattativa di partnership strategica tra gli Stati Uniti e il Pakistan, con accordi economici che sono ora materia di negoziato anche con altri Paesi dell'area asiatica.
Abbiamo visto finalmente la Cina entrare nell'Organizzazione mondiale del commercio.
Abbiamo visto compiere a Doha passi decisivi per garantire l'apertura dei commerci globali e per stabilire una rinnovata fiducia fra il Nord e il Sud del mondo.
I Paesi più ricchi si sono detti finalmente disponibili ad abbassare le barriere protezionistiche, specie nel tessile e nell'agricoltura, che costano ai Paesi in via di sviluppo assai più di quanto ricevano in aiuti internazionali.
Occorre superare l'ipocrisia di chi incoraggia i Paesi poveri ad aprirsi e adeguarsi al libero commercio e, al tempo stesso, nega gli accessi al proprio mercato interno.
A Doha è stato anche riconosciuto il principio che la tutela della salute pubblica prevale sulla tutela dei brevetti, permettendo così ai Paesi in via di sviluppo di beneficiare di farmaci indispensabili e finora inaccessibili.
Sul piano delle relazioni internazionali, poi, i fatti dell'11 settembre hanno mostrato per la prima volta che Mosca, Washington e Pechino possono essere schierate insieme dalla stessa parte. E non solo per un'associazione oggi tattica, ma anche in vista di un possibile nuovo ordine mondiale.
Il temuto scenario anti-globale di un Occidente contrapposto al resto del mondo sembra svanito.
Certo, non si può trascurare che nella nuova alleanza antiterroristica siano entrati Paesi - tra i quali lo stesso Pakistan e la Turchia - la cui leadership appare più vicina all'Occidente di quanto non sembri essere l'opinione pubblica. Ma è un fatto che questi Paesi sono stati la spina dorsale dell'azione militare occidentale.
Si tratta di un'accelerazione eccezionale, quella dei livelli di cooperazione che vediamo maturare, dettata da eventi eccezionali.
È auspicio di tutti che si torni alla normalità.
Ma la normalità è fatta spesso di dialettica aspra, di interessi faticosamente conciliabili, di atteggiamenti unilaterali, di trattative interminabili e anche di conflitti regionali da comporre.
I rischi connessi alle tensioni tra India e Pakistan ci ricordano che la guardia va sempre tenuta alta. E così per quel che riguarda il Medio Oriente.
In ogni caso, i risultati che la cooperazione internazionale ha già raggiunto, e quelli per i quali si sono poste le condizioni, sono nell'interesse di tutti; e dunque difficilmente reversibili.
Questa maggiore volontà di cooperazione sarà di grande importanza di fronte alla grandi sfide che domineranno i prossimi decenni.
Voglio riferirmi, per la loro particolare rilevanza, a due di esse: quella legata all'evoluzione demografica del pianeta e quella legata al confronto - per alcuni, allo scontro - tra le culture.



In effetti, si parla molto di globalizzazione economica. Assai meno si parla di quella che potremmo chiamare “globalizzazione demografica”. Vale a dire la progressiva estensione al resto del mondo dei ritmi di natalità già propri dell'Occidente.
Secondo gli specialisti, due giorni fa, il 19 gennaio, la popolazione mondiale ha varcato la soglia dei sei miliardi e duecento milioni dì abitanti. Dalla caduta del muro di Berlino a oggi la popolazione del pianeta è cresciuta di oltre un miliardo di individui - quanto Nord America, Europa e Russia messi insieme.
Sappiamo che l'incremento demografico sta rallentando quasi ovunque.
Ma sappiamo anche che il pianeta è comunque destinato ad accogliere, nel 2050, un numero compreso tra gli 8 e i 10 miliardi di abitanti, tra i 2 e i 4 miliardi di persone in più di oggi.
Gran parte di esse sarà concentrata in quelle aree in cui il rapporto tra popolazione e risorse è ancora piuttosto degradato.
Tra le tante implicazioni di questa evoluzione demografica, ve ne sono due che richiederanno al Nord del mondo una particolarissima attenzione.
La prima riguarda le pressioni migratorie verso i Paesi più ricchi. La seconda, forse ancor più importante per le prospettive di lungo termine dello sviluppo economico del pianeta, riguarda lo squilibrio geografico tra giovani e anziani.

a. Immigrazione? Nessun catastrofismo
Quanto alle pressioni migratorie credo si possa dire questo.
Il potenziale migratorio è senza dubbio destinato a crescere almeno - stando a quanto ci dicono gli esperti - sino al terzo decennio del secolo.
E, tuttavia, un conto è il potenziale, un conto è il flusso effettivo.
Benché in molti credano diversamente, in realtà negli ultimi decenni non c'è stata una consistente crescita delle migrazioni. Né le migrazioni hanno coperto tutte le aree del mondo.
In effetti, se c'è una globalizzazione che non è avvenuta, questa è la “globalizzazione delle migrazioni”.
Come ha messo in rilievo uno studioso italiano, gli immigrati in quel che corrisponde all'attuale Unione Europea erano il 4% della popolazione totale settanta anni fa, sono il 5% oggi. Una variazione minima.
Eppure, quel che dicono statistiche e studiosi non è quel che dice l'opinione comune.
La ragione credo sia molto semplice Sta nel fatto che si sono venute rafforzando, in simultanea, due tendenze contrastanti.
Da un lato, vi è una maggiore convenienza all'emigrazione, frutto della drastica caduta dei costi di trasporto e dell'immagine delle società benestanti diffusa dai media nei Paesi in via di sviluppo. Il che genera legittime aspirazioni di maggior benessere.


Dall'altro lato, nei Paesi di destinazione, ci sono crescenti resistenze all'immigrazione. Resistenze da mettere in relazione con l'ampiezza e la generosità dei servizi erogati dallo Stato sociale. I cittadini, specie quelli europei, ben consapevoli del carico fiscale loro richiesto per finanziare le politiche sociali, sono comprensibilmente restii ad ampliare la platea dei beneficiari.
Dalla contrapposizione di queste due tendenze - maggiore convenienza della scelta di emigrare e diffusione di un vasto consenso per politiche migratorie restrittive - emerge il rischio di ulteriori fratture e incomprensioni tra il Nord e il Sud del pianeta.
La questione migratoria è destinata a rimanere a lungo iscritta nell'agenda dei problemi globali.
Ci chiediamo, dunque, come affrontarla.
Certo non con soluzioni semplicistiche, come l'apertura indiscriminata delle frontiere o la loro chiusura ermetica.
La naturale predisposizione alla mobilità delle persone alla ricerca di lavoro e di benessere va gestita, non impedita.
La mia convinzione è che investire nell'accoglienza e nell'integrazione degli immigrati - tanto più per l'Italia, uno dei Paesi a più bassa natalità e a più alto invecchiamento - sia il più importante banco di prova di una responsabile solidarietà.
La solidarietà è doverosa. È doverosa non solo per cercare di contrastare il declino demografico e per assicurare una migliore qualità dell'immigrazione regolare, che è il più efficace antidoto alla quantità dei flussi irregolari. È doverosa anche per permettere a questo patrimonio di uomini e donne di contribuire allo sviluppo delle nostre economie, di innalzare il loro tenore di vita e, se lo ritengono, di tornare nei loro Paesi d'origine e di portarvi una cultura sociale ed economica più moderna. Come tanti nostri emigranti hanno fatto con l'Italia.

b. La risorsa "giovani"? Sempre più nel Sud del mondo
Vi è, però, anche un secondo aspetto da considerare.
Per quanto l'immigrazione potrà frenare l'invecchiamento dei Paesi più sviluppati, e in particolare dell'Europa, non è in questi Paesi che sta e starà la grandissima maggioranza dei giovani.
I ragazzi che oggi hanno tra i 14 e i 26 anni sono circa un miliardo e mezzo. Mai nella storia tante persone si sono trovate contemporaneamente negli anni più fecondi della vita. In questo miliardo e mezzo di giovani ci sono enormi potenzialità di intelligenza e di creatività.
Ma, per buona parte, essi vivono nel Terzo o Quarto Mondo. Per questo, le loro potenzialità rischiano di andare sprecate, di non trasformarsi in maggiore benessere e migliore qualità della vita per loro e per i loro Paesi.
È una questione che ci tocca tutti, per ragioni che vanno anche al di là delle mere considerazioni economiche, sollevando grandi problemi di natura politica; sociale ed etica.
È una questione che, per la sua dimensione, richiede un grande sforzo internazionale di cooperazione e di finanziamento di specifici progetti di sviluppo.
Progetti che puntino alla realizzazione delle infrastrutture indispensabili per permettere alle popolazioni del Sud del mondo l'accesso alla risorse di base, cibo e acqua innanzitutto.
Progetti che garantiscano ai giovani adeguate opportunità di formazione, il modo migliore per contrastare il lavoro minorile.
Progetti che facilitino il credito per aiutare la nascita e lo sviluppo di iniziative imprenditoriali.
A tutto ciò le istituzioni internazionali e i governi dei Paesi più sviluppati dovranno dedicare maggiori risorse di quanto non sia stato fatto finora. Risorse da allocare, con grande trasparenza, laddove più forti sono le garanzie di rispetto della legge e dei diritti umani. Risorse il cui impiego deve poter essere sempre controllato da quanti - in ultima istanza, i cittadini dei Paesi più sviluppati - le mettono a disposizione.



Guardando al futuro, emerge anche un'altra grande sfida: il dialogo fra le diverse civiltà mondiali.
Quel che le vicende terroristiche degli ultimi mesi hanno reso ancor più evidente è che la globalizzazione economica non è quel grande frullatore che omogeneizza le culture e ne annulla le specificità.
Al contrario, esse si mantengono ben vive e capaci di esercitare un forte senso di identità sul piano sociale e politico.
C'è addirittura chi sostiene che stiamo assistendo ad una rivincita delle culture tradizionali rispetto ad un processo di occidentalizzazione e, di conseguenza, a una crisi dell'egemonia occidentale sul piano etico, culturale e politico.
Dopo il crollo delle ideologie, saremmo, insomma, al “conflitto tra le civiltà”.
E tuttavia, nessuna civiltà è un monolite. Nessuna cultura è priva di un suo pluralismo interno.
Ognuna ha le sue correnti conservatrici che rifiutano l'apertura alla modernità e si pongono in antagonismo con le altre culture (giungendo, in certi casi, a legittimare sul piano religioso forme di terrorismo internazionale).
Ognuna ha le sue correnti più orientate al rinnovamento, al confronto con gli altri, alla ricerca di convergenze sul piano culturale e politico.
Ognuna, poi, vede rappresentare queste posizioni da una molteplicità di attori: stati, organismi della società civile, intellettuali.
Proprio perché esiste questo pluralismo interno, lo scontro tra culture non è l'unica prospettiva.
Capiterà sempre che momenti e rapporti più conflittuali si intreccino con momenti e rapporti più costruttivi.
Quel che c'è da fare è non perdere mai di vista la necessità di sviluppare un dialogo costante, critico, impegnato, positivo. Un dialogo che sappia promuovere la convergenza su valori etici e politici condivisi da tutti, funzionali a gestire i rapporti (e le conflittualità) in quest'epoca di crescente interdipendenza.



In tal senso, l'Europa può svolgere un ruolo di primo piano, un ruolo di cerniera tra le culture mondiali.
È un ruolo legittimato dal suo stesso patrimonio di cultura e di sensibilità ai valori della tolleranza, della giustizia, dell'equità.
Il nostro continente, ha scritto in un articolo di qualche mese fa Piero Citati, ha sempre avuto un grande dono: quello di "capire", di "comprendere gli altri".
Negli ultimi cinquant'anni ha anche dimostrato di saper costruire l'unità di popoli che per secoli si sono combattuti.
L'Europa ha in sé le virtù per essere un elemento di equilibrio nel mondo. A cominciare da ciò che può fare per agevolare l'ingresso della Russia e dei Paesi dell'Est nello spazio economico occidentale.
Ma per essere veramente fattore di equilibrio deve essere più solida, più autorevole, più unita.
Deve proseguire nel cammino di integrazione, affermarsi come soggetto unico, capace di parlare con una sola voce, e con voce non flebile.
Esiste una forte dialettica sul modo di raggiungere questo obiettivo, sulle molteplici opzioni degli assetti politici futuri che verranno discussi nella Convenzione.
È già un fatto di straordinario rilievo, tuttavia, che l'Europa si sia data, con un'unica moneta, anche un'unica lingua per la sua economia.
Siamo arrivati a questo traguardo attraverso Maastricht. Maastricht ci ha posto dei vincoli. Dobbiamo considerarli come i tutori di una pianta giovane.



E l'Italia? Questa Italia in cui troppo spesso il chiasso delle dispute sembra lasciare in secondo piano l'interesse comune e l'immagine del Paese?
L'Italia deve recuperare il dialogo costruttivo tra tutte le sue componenti; e deve anche rimanere ben consapevole che non può fare a meno dell'Europa.
Assumendo l'incarico di ministro degli Esteri, il Presidente del Consiglio si è preso un impegno personale forte in questa direzione.
L'impegno a mantenere il forte legame dell'Italia con l'Europa è un fatto molto positivo, considerate le importanti scadenze istituzionali che premono.
Già sul piano delle scelte per lo sviluppo economico del Paese, il governo ha dimostrato in questi mesi di saper mettere a frutto l'opportunità nuova, mai sperimentata nel dopoguerra, di un ampio mandato elettorale a governare stabilmente per l'intera legislatura.
Questa opportunità dovrà essere utilizzata al meglio dal Presidente del Consiglio anche in riferimento alle scelte europee.
Di certo, nel momento in cui in Europa si confrontano due posizioni - l'una orientata ad una sempre maggiore unificazione politica della Comunità, l'altra ad una maggiore salvaguardia dell'autonomia dei singoli Stati - il ruolo dell'Italia può diventare quello dell'ago della bilancia.
Ne discende una responsabilità strategica.
Dalle scelte che il Paese farà dipenderà il futuro continentale.
E ciò rende, se possibile, ancor più importante il confronto e il dialogo fra tutte le persone di buona volontà.
In pari tempo, l'Europa non può fare a meno del nostro Paese, che è la sua principale finestra sul Mediterraneo.
Un'attenta politica mediterranea è stata una costante dì tutti i nostri governi, anche di quello attuale.
Certo, il concetto di “Mare nostrum” è ormai confinato negli archivi della storia antica e meno antica.
Ma il Mediterraneo resta un luogo cardine nell'incontro tra civiltà.
L'Italia vi può svolgere un ruolo vitale, dimostrando di saper affrontare con intelligenza e lungimiranza anche i problemi della trasformazione sociale e demografica delle sponde sud orientali e delle pressioni migratorie che essa genera.
La nostra collocazione geografica resta quella di un Paese di frontiera: non più tra Est e Ovest, ma tra Nord e Sud.
Dobbiamo governarla, facendoci protagonisti di un impegno alla graduale integrazione nella cultura e nella società europea di Nord Africa, Medio Oriente, Balcani.
È in questa ampia prospettiva politica che siamo chiamati per primi ad esercitare concretamente e responsabilmente i principi della solidarietà.



Mai, nel corso della storia, si è data l'opportunità così grande di crescere insieme sul terreno della pacifica cooperazione.
Ne esistono tutte le condizioni.
La forte convergenza tra i soggetti politici internazionali, grandi e piccoli, potenti o meno che siano.
La continua diffusione dell'economia di mercato.
La mobilita delle persone e delle idee.
La facilità d'accesso alle tecnologie più avanzate, soprattutto a quelle informatiche.
La consapevolezza della superiorità del metodo democratico su altri metodi di governo.
Per secoli, gli uomini hanno pensato che un destino diverso da quello altrui attendesse ogni comunità nazionale.
E perché questo destino si avverasse non hanno esitato ad utilizzare gli strumenti, anche i più cruenti, della conquista e del predominio.
Oggi, la compagine mondiale ha fatto sua la convinzione che si può percorrere un cammino comune, nel reciproco rispetto e nella reciproca valorizzazione.
Ha fatto sua la convinzione che esiste un destino comune nel conquistare insieme l'affrancamento da ogni genere di povertà e privazione materiale e immateriale.
Questa è la grande opportunità della globalizzazione.
Questo è il traguardo per cui val bene spendere tutte le nostre energie morali e intellettuali.


(*) Testo ricevuto dal Senatore a vita della Repubblica italiana Giovanni Agnelli, per la pubblicazione sulla Rivista, relativo al discorso tenuto in data 21.1.2002 presso la Sala Zuccari del Senato.

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