D. Prof. Corneli, come immagina in termini di scenario futuro le questioni relative alla globalizzazione e all'antiglobalizzazione? Quale lettura originale può offrire la cultura e la ricerca di questa conflittualità? Ci sembra in realtà di poter affermare che non siamo in presenza di fenomeni nuovi, senza precedenti. Del resto in un recente articolo pubblicato sul Sole 24 ore dal titolo Quelle "tute nere" dell'Anno Mille, proprio Lei propone un originale parallelismo storico tra i mutamenti che caratterizzarono la società dell'XI secolo ed i tratti innovatori dell'attuale situazione economico-politica. Vorrebbe riprendere gli elementi salienti della sua interessante interpretazione?
R. La globalizzazione viene percepita soprattutto nella sua dimensione economica, ma le sue premesse sono di ordine tecnologico e culturale. Da un lato essa è il frutto della rivoluzione informatica, intendo l'informatica di massa, diffusasi a partire dagli anni '70 che cominciò a dare a un numero crescente di singoli individui capacità di raccolta ed elaborazione di dati mai prima conosciuta e nei decenni precedenti riservata a pochi. A sua volta questa capacità si coniugò con i progressi nelle telecomunicazioni, consentendo ai singoli una straordinaria possibilità di scambiare dati e informazioni. Dall'altro lato, l'intreccio tra informatica sempre più diffusa e telecomunicazioni con prodotti di largo consumo costituì la base culturale della liberalizzazione che investì il campo economico, sia a livello finanziario sia a livello produttivo e commerciale.
La vera globalizzazione consiste nella liberalizzazione delle informazioni con riflessi sul campo economico, che sono più visibili ma secondari. Sia la grande impresa sia la piccola, anche produttrice di prodotti tipici, hanno trovato nella liberalizzazione e nella istantaneità delle comunicazioni uno spazio immenso e comprimibile allo stesso tempo. Tutti sono diventati, come si dice, glocali, parola che sintetizza le due nozioni di "globale" e di "locale".
Non è un caso, infatti, che la globalizzazione che ci dà l'immagine di un mondo unico anche se non ancora unificato si è affermata insieme alla domanda di individuazione a carattere locale, espressa nei fenomeni del regionalismo, del separatismo, del localismo come ricerca di un senso di identità che appare necessario anche in un mondo senza confini e senza barriere.
Si tratta di una grande rivoluzione che, come quelle che l'hanno preceduta - penso all'invenzione della stampa, alla industrializzazione, alla televisione - ha diviso gli individui e le società in due gruppi: quelli che nella novità hanno visto nuove occasioni di affermazione e quelli che, invece, vi hanno visto una minaccia, hanno provato il timore di perdere l'identità. Da qui la contestazione del nuovo, il movimento antiglobal, che ho paragonato, ovviamente a grandi linee, ad alcuni movimenti ereticali dell'XI secolo che si trovarono spiazzati di fronte al primo grande mutamento dell'economia, e quindi della cultura e delle strutture sociali, con il superamento dell'economia medievale e la prima affermazione di quella capitalistica.
D. Transnazionalità del movimento antiglobal e sovranazionalità degli obiettivi della protesta sono gli aspetti di maggior novità rispetto ai movimenti di contestazione che abbiamo conosciuto nel passato. Ciò pone diverse questioni nuove. Tra le tante, una è certamente quella del rapporto tra politica ed economia, nel senso di capire come e fino a che punto le istituzioni statuali possano giocare un ruolo sui temi sollevati dalla parte più propositiva del movimento antiglobal. Un'altra, è quella del ruolo delle istituzioni internazionali e sovranazionali per quanto riguarda, in particolare, i temi relativi al loro funzionamento, ai loro equilibri, alla loro capacità di avere un peso strategico sullo sviluppo. Qual è la sua opinione in merito?
R. Non solo il movimento antiglobal è frutto della globalizzazione per reazione, per timore culturale, per incapacità di adattamento creativo. Ma è un movimento che ha tutte le caratteristiche anche operative della globalizzazione. La sua organizzazione reticolare, il suo distacco da un luogo fisso, la sua capacità di manifestarsi nelle più diverse parti del mondo in funzione di certi appuntamenti, la sua presenza molto incisiva sul Web e quindi l'utilizzazione di Internet dimostrano che la logica della globalizzazione ha permeato profondamente i suoi stessi avversari.
Questi seguono una tecnica di comunicazione particolare, concentrano l'attenzione su pochi elementi che hanno, o possono avere, la risonanza più "globale" possibile: la povertà di alcuni Paesi, la diffusione di alcune malattie, il ruolo di alcune istituzioni internazionali, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, accusati di essere la causa della povertà strutturale di alcuni Paesi, affermazione che, a livello di comunicazione di massa, è difficilmente confutabile con dati e ragionamenti complessi.
Altra tecnica degli antiglobal è quella di evocare minacce difficilmente verificabili a livello individuale: ad esempio quella relativa alle biotecnologie e ai cibi transgenici. Oppure attraverso l'evocazione di un "governo mondiale" presentato come una piovra dall'enorme testa e dai lunghi tentacoli: l'imperialismo americano, il dominio delle società transnazionali. Da cui è facile passare alle teorie complottologiche.
Ora, da un lato è un fatto noto che "disinventare" qualcosa è più difficile che "inventare". La scienza e la tecnologia non andranno indietro. Ed è altrettanto noto che nessun progresso in nessun campo è mai avvenuto simultaneamente in tutti i luoghi: ai Paesi o parte di essi "in fuga" si sono accodati quelli "all'inseguimento". Fino a quando i progressi della scienza e della tecnologia erano lenti e scadenzati nel tempo, la distanza tra chi era avanti e chi era indietro non solo non era grande, ma poteva essere ridotta. Adesso, invece, la scienza e la tecnologia avanzano a grandi balzi e chi resta indietro ha la sensazione di perdere più terreno di quanto non avvenga in realtà.
In ogni caso bisogna tenere conto anche della volontà di recuperare: gran parte dell'arretratezza di molti Paesi dipende dalle loro scelte o, per essere più precisi, dalle scelte delle loro classi dirigenti che nell'arretratezza ritengono di trovare la base più sicura della loro sopravvivenza.
Le istituzioni internazionali non hanno il compito di livellare le posizioni, di frenare chi corre di più affinché i più lenti rientrino in gruppo. Esse invece hanno il compito di favorire la creazione delle condizioni affinché tutti possano correre, rimuovendo molti handicap. Anche quando ciò avverrà, non tutti arriveranno primi al traguardo, ma solo perché non c'è un traguardo, un punto d'arrivo. La gara è continua: ogni partecipante deve cercare di trarre il meglio da sé e dalle circostanze. E questo non viene sempre fatto.
Prendo ad esempio il caso della Cina e di altri Paesi asiatici. Essi non hanno avuto paura della globalizzazione, anche quando il termine non era diffuso: hanno sfruttato le opportunità e hanno scommesso sulla liberalizzazione, graduandola secondo i propri mezzi e secondo un disegno più o meno chiaro delle loro classi dirigenti. E non hanno avuto paura di perdere la propria identità. Da qui una regola che ritengo importante: nella globalizzazione vince chi non ha paura della globalizzazione, chi non ha paura di perdere in essa la propria identità culturale, nazionale.
D. La questione globalizzazione e antiglobalizzazione ha dominato il dibattito politico, economico e culturale nei giorni del dopo G8 di Genova. I gravi avvenimenti di New York e Washington dell'11 settembre hanno tuttavia collocato in secondo piano i temi pure importanti dell'economia mondiale, ponendo quale priorità assoluta la questione della sicurezza rispetto al terrorismo internazionale. Quali sono le Sue considerazioni sui tragici avvenimenti degli Stati Uniti e quale nesso è possibile cogliere tra i due scenari?
R. C'è un nesso, culturale e politico, tra la violenta contestazione della globalizzazione durante il G8 di Genova, che non era la prima, essendosi il fenomeno manifestato in modo clamoroso alla fine del 1999 a Seattle, e gli attacchi ai simboli della potenza commerciale e militare - e quindi complessivamente politica - degli Stati Uniti, visti come il motore stesso della globalizzazione. L'antiamericanismo degli antiglobal è stato dichiarato a più riprese. E gli attentati dell'11 settembre hanno avuto la stessa intenzionalità antiamericana.
Se la matrice di questi attentati è riconducibile all'integralismo islamico, non è un fatto recente che esso da un lato si nutra di sentimenti antiamericani, almeno a partire dal 1979, cioè dalla conquista del potere in Iran da parte degli ayatollah, e dall'altro lato sia espressione di un'area economica che subisce la globalizzazione (e quindi in parte ne partecipa) ma parallelamente rifiuta quella liberalizzazione globale che ne è, come ho detto all'inizio, la premessa e la base di sostentamento e propagazione.
E' evidente nell'integralismo islamico il timore della perdita di identità attraverso l'accettazione dei "valori" dell'Occidente e a questo riguardo ribadisco la differenza tra la cultura di quest'area e quella di altre aree, caratterizzate da profonde civiltà anche più antiche, come quella cinese o giapponese, che non hanno avuto questo timore. Sulla difesa di questa identità si innesta poi un più preciso interesse al mantenimento di determinati rapporti politici e sociali, cioè di potere, all'interno delle società islamiche. E' evidente che tali rapporti salterebbero qualora si accettassero le premesse della globalizzazione, cioè la liberalizzazione.
Posso tuttavia notare che gli appelli alla "guerra santa" contro l'Occidente e l'America di Osama bin Laden e del mullah Omar non hanno smosso nessuno del miliardo di musulmani del mondo. Su questo dato macroscopico bisognerebbe riflettere.
Se gli attentati dell'11 settembre volevano innescare una reazione psicologica a catena che avrebbe dovuto colpire l'economia mondiale, devo dire che anche questo obiettivo non è stato raggiunto.
Gran parte del merito di questo doppio insuccesso inferto a quella che considero la Cupola del terrorismo integralista islamico è stata determinata dalla reazione razionale degli Stati Uniti, che hanno evitato accuratamente di cadere nella trappola della guerra di religione o della guerra di civiltà. Se lo avessero fatto, avrebbero rinnegato i valori di tolleranza e di libertà su cui si fonda l'Occidente.
D. Quale tipo di impatto sociale e culturale possiamo attenderci avrà, nel breve-medio periodo, il movimento antiglobal? E' ragionevole aspettarsi che la protesta si radicalizzi, assumendo connotati aggressivi e ideologici tali da investire il profilo della tutela della sicurezza e dell'ordine pubblico, ovvero intravede la possibilità di proficui momenti di mediazione che consentano dialogo, apertura e confronto tali da recepire le istanze più costruttive di uno sviluppo socio-economico equo ed equilibrato?
R. Come ho detto, non ritengo che sia possibile "disinventare" la globalizzazione e credo che gli attentati dell'11 settembre l'abbiano piuttosto rafforzata come dimostra il consenso creatosi intorno alla coalizione anti-terroristica lanciata dagli Stati Uniti. Ma, detto questo, credo che gli attentati abbiano innescato una globalizzazione delle politiche estere, interne, di sicurezza e di intelligence degli Stati che non ci aspettavamo.
Gli attacchi terroristici hanno inferto un colpo al movimento antiglobal, che non scomparirà, ma rimarrà marginale: in buona parte esso eredita le bandiere dei Verdi, innalzate negli anni '70, ma che qua e là vengono ammainate. Ma bisogna dire che hanno suonato un campanello d'allarme. Ci sono problemi mondiali che possono essere affrontati solo a livello globale: non solo la lotta al terrorismo in tutte le sue ramificazioni, ma anche la gestione delle risorse (si pensi all'acqua o all'inquinamento atmosferico), nuove forme di protezione della salute a basso costo e alto rendimento, regole di scambio più favorevoli ai Paesi monocolturali, maggiore rigore nella destinazione dei finanziamenti (con conseguente maggiore controllo su chi li deve far fruttare).
Sappiamo tuttavia che l'esplosione della miscela creata dagli antiglobal e dai terroristi antioccidentali, come ha avuto radici profonde e lontane nel tempo, così non sarà disinnescata rapidamente. Focolai possono sorgere qua e là, soprattutto se non verranno disseccate le fonti di finanziamento (penso alla produzione e traffico di sostanze stupefacenti, al riciclaggio del denaro, alle varie altre forme di criminalità organizzata che costituisce un continuum con la microcriminalità) e non verranno accettate le basi culturali della liberalizzazione in tutti i Paesi.
Si apre quindi una fase di particolare impegno per l'intelligence. Senza abbandonare i risultati conseguibili attraverso la Techint, bisognerà tornare a valorizzare la Humint. Ma soprattutto bisognerà rovesciare il rapporto tra analisi e informazione. La tradizionale metodologia che produce analisi dalla raccolta di informazioni dovrà essere rovesciata: sarà l'analisi a guidare la ricerca di informazioni.
La capacità di pensare come chi "pensa" minacce sarà essenziale. Questo vuol dire apportare modifiche sostanziali al reclutamento e alla formazione del personale dei Servizi d'intelligence.
Infine c'è un aspetto nuovo. La risoluzione n.
1373 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, approvata all'unanimità il 28 settembre, ha fatto obbligo a tutti gli Stati membri di "scambiarsi informazioni". Questo significa legittimare i Servizi d'intelligence a livello di diritto internazionale. Ma significa anche avviare procedure affinché i vari Servizi nazionali si scambino più intensamente e più rapidamente possibile le informazioni di cui dispongono (questa mancanza è stata indicata come una causa della impreparazione dell'intelligence di fronte agli attentati dell'11 settembre). Significa inoltre che, all'interno di ogni singolo Stato, i Servizi d'intelligence e le Forze di polizia devono cooperare più strettamente (altra accusa portata ai Servizi e alle Polizie dopo l'11 settembre).
Risultato finale: si stabilirà una gerarchia tra Servizi. Quelli più efficaci si scambieranno più informazioni e aumenteranno la propria efficacia. I meno efficaci rimarranno indietro. La globalizzazione invade anche l'intelligence e non è solo oggetto di analisi da parte dei Servizi d'intelligence.