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Per Aspera Ad Veritatem n.21
L’agente segreto

Joseph CONRAD



Il volume L'agente segreto di Joseph Conrad, da cui sono tratte le pagine che di seguito pubblichiamo, trae spunto dal fallito attentato all'Osservatorio di Greenwich, compiuto il 15 febbraio 1894 dall'anarchico Martial Bourdin.
La storia ed i personaggi di questo famoso romanzo, puro frutto della fantasia dell'Autore, si muovono nel contesto della società inglese dei primi anni del secolo XX, epoca caratterizzata da fermenti rivoluzionari e da tensioni politiche che condurranno allo scoppio della I guerra mondiale.
La parte di seguito pubblicata descrive l'incontro tra l'agente infiltrato, Verloc, ed il Primo Segretario dell'Ambasciata francese a Londra, Vladimir, diplomatico senza scrupoli che strumentalizza l'informatore imponendogli di compiere un'azione eclatante, quale un attentato all'osservatorio di Greenwich, luogo su cui passa il meridiano "zero", assunto a simbolo della nuova modernità.
Ci viene raccontato, quindi, seppure con ampio ricorso alla fantasia, un attentato (peraltro fallito) a sfondo politico, che rivela un'immagine letteraria dei Servizi segreti del tempo come strutture che si muovono al di fuori e talvolta in contrasto con gli interessi della società nel suo complesso, secondo una logica di raison d'Etat ovvero di obbedienza a interessi e poteri trasversali.
Un'idea letteraria, e non solo, di questi organismi che agli inizi del secolo, epoca di profonda insicurezza ed instabilità, si muovevano, com'è noto, con la massima libertà d'azione nell'ambito di principi e confini labili e mutevoli.

Così guidato attraverso un corridoio a pianterreno, a sinistra dello scalone coperto di tappeti, il signor Verloc fu bruscamente introdotto in un salotto con una scrivania pesante e qualche sedia. L'usciere chiuse la porta, ed egli rimase solo. Non si sedette. Si guardò intorno col cappello e il bastone in una mano, passandosi l'altra sulla testa nuda impomatata.
Un'altra porta si aprì silenziosa, e il signor Verloc, concentrando gli sguardi in quella direzione, non vide a tutta prima che un abito nero, il cocuzzolo calvo di una testa, e due baffi grigioscuri spioventi a lato di un paio di mani rugose. La persona ch'era entrata teneva davanti agli occhi un fascio di carte e, continuando a sfogliarle, si diresse verso la scrivania con passo leggermente affettato. Il consigliere particolare Wurmt, cancelliere dell'Ambasciata, era piuttosto miope, e posando sul tavolo le sue scartoffie, rivelò una faccia di un colorito terreo e di una bruttezza melanconica, incorniciata da una quantità di lunghi e fini capelli grigi e sbarrata dalla linea spessa di folte e cespugliose sopracciglia. Infilò sul naso corto e informe un pince-nez cerchiato di nero, e parve colpito dall'apparizione del signor Verloc. Sotto le sopracciglia enormi, gli occhi miopi ammiccarono patetici attraverso le lenti.
Non accennò un saluto, né l'accennò il signor Verloc, che indubbiamente sapeva il contegno da tenere; ma un mutamento impercettibile nella linea generale delle spalle e della schiena tradì una leggera inclinazione della sua colonna vertebrale sotto l'ampia superficie del pastrano. E l'effetto fu di una deferenza schiva.
- Ho qui sott'occhio alcuni dei suoi rapporti, - disse il funzionario, con voce inaspettatamente morbida e stanca, premendo con forza sulle carte la punta dell'indice. Tacque, e il signor Verloc, che aveva riconosciuto la propria calligrafia, rimase in silenziosa attesa, quasi senza fiatare.
- Non siamo molto soddisfatti dell'atteggiamento della polizia di qui, - continuò l'altro, con tutti i segni della fatica mentale.
Pur senza muoversi, le spalle del signor Verloc accennarono un sussulto. E, per la prima volta da quando era uscito di casa, le sue labbra si aprirono.
- Ogni paese ha la sua polizia, - disse, filosoficamente. Ma poiché il funzionario dell'Ambasciata continuava ad ammiccare, si sentì in obbligo di aggiungere: - Mi permetta di osservare che, sulla polizia di qui, non ho nessun potere.
- Quello che vorremmo, - disse l'uomo delle scartoffie, - è un avvenimento capace di stimolarne la vigilanza. Questa rientra nei suoi poteri... o no?
Il signor Verloc non rispose che con un sospiro sfuggitogli certo involontariamente giacché procurò subito di darsi un tono allegro. Il funzionario batté le ciglia come se la luce incerta della stanza l'infastidisse, e ripeté vagamente:
- La vigilanza della polizia... e la severità dei magistrati. La clemenza della magistratura britannica, e l'assenza completa di misure d'ordine repressivo, sono uno scandalo per tutta l'Europa. Quel che si desidera, ora, è l'accentuazione del malessere... del fermento che senza dubbio esiste...
- Senza dubbio, senza dubbio, - intervenne il signor Verloc in un basso profondo, deferente di timbro oratorio, così profondamente diverso dal tono in cui finora aveva parlato, che il suo interlocutore ne fu sorpreso. - Esiste in misura impressionante. I miei rapporti degli ultimi dodici mesi lo mettono abbastanza in chiaro.
- I suoi rapporti degli ultimi dodici mesi, - ribatté il consigliere Wurmt, nel suo tono mite e spassionato, - li ho letti. E non sono riuscito a capire perché mai li abbia scritti.
Un breve, triste silenzio seguì. Sembrava che il signor Verloc avesse inghiottito la propria lingua mentre l'altro fissava intensamente le carte sparse sulla scrivania. Infine, diede loro un colpetto.
- L'esistenza dello stato di cose da lei descritto è presupposta come la condizione prima del suo impiego. Ciò che le si chiede non è di scrivere ma di creare un fatto preciso, significativo... direi quasi allarmante.
- Non occorre dire che a questo scopo tutte le mie forze saranno rivolte, - rispose il signor Verloc, dando all'abituale tono flebile un accento di convinzione. Ma il senso d'essere attentamente osservato dietro lo scintillio cieco degli occhiali al lato opposto della scrivania lo sconcertava. Tagliò corto con un gesto di devozione assoluta.
L'utile, sebbene oscuro, scribacchino di Ambasciata parve colpito da chissà quale improvvisa idea.
- Lei è molto corpulento, - disse.
Questo rilievo di natura squisitamente psicologica, mosso con umile esitazione da un uomo più avvezzo all'inchiostro e alla carta che alle esigenze della vita attiva, ferì il signor Verloc come un crudele appunto personale. Fece un passo indietro.
- Eh? Che cosa si è compiaciuto di dire? - esclamò, in tono duramente risentito.
Il cancelliere d'Ambasciata, investito della condotta di quel dialogo, parve ritenerla superiore alle proprie forze.
- Credo, - disse, - che farebbe meglio a parlare col signor Vladimir. Sì, penso proprio che dovrebbe vedere il signor Vladimir. Sia così gentile di aspettare, - aggiunse, e uscì con passo affettato.
D'un tratto, il signor Verloc si passò la mano sui capelli. Un leggero velo di sudore gli era apparso sulla fronte. Emise dalle labbra increspate un soffio d'aria come chi cerchi di raffreddare una cucchiaiata di brodo caldo. Ma, quando l'usciere in abito scuro apparve silenzioso sulla soglia, il signor Verloc non si era mosso di un pollice dal luogo che aveva occupato durante tutto il colloquio. Era rimasto immobile come chi si senta circondato da trabocchetti.
Percorse un andito illuminato da un solitario becco a gas, una rampa di scale a chiocciola, un luminoso corridoio a vetrate al piano nobile. L'usciere spalancò una porta, e gli cedette il passo. I piedi del signor Verloc sentirono sotto di sé un tappeto soffice. La stanza era grande e a tre finestre; e un giovane dalla larga faccia glabra, seduto in un'ampia poltrona davanti a una grossa scrivania di mogano, disse in francese al cancelliere d'ambasciata che stava uscendo con in mano le scartoffie:
- Ha perfettamente ragione, mon cher. E' grasso... l'animale.
Nei salotti, il signor Vladimir, primo segretario, godeva fama di uomo amabile e spigliato. Era, in società, un po' il gallo, della checca. Il suo spirito consisteva nello scoprire strane associazioni fra idee contrastanti, e, quando conversava in questo umor bizzarro, sedeva sull'orlo della sedia con la mano sinistra sollevata come per esibire fra pollice e indice le sue facezie, mentre la faccia, rotonda e ben rasata, prendeva un'espressione di comica perplessità.
Ma ora, nel modo come guardava il signor Verloc, non v'era né facezia né perplessità. Affondato nell'ampia poltrona, piantato sui gomiti aperti, con una gamba sul ginocchio polputo dell'altra, aveva, con quella sua carnagione morbida e rosata, l'aria di un ragazzo precoce, che non tollera sciocchezze da nessuno.
- Lei capisce il francese, immagino, - disse.
Il signor Verloc dichiarò con voce flebile che, sì, lo capiva. L'intera massa del suo corpo era inclinata in avanti. Stava ritto sul tappeto al centro della sala stringendo in una mano cappello e bastone e lasciando penzolare l'altra come morta. Balbettò senza darvi peso, con voce profonda e velata, qualcosa come:- Ho fatto il servizio militare nell'artiglieria francese. - D'un tratto, con malignità sprezzante, il signor Vladimir cambiò lingua, e cominciò a parlare in un inglese corrente senza la minima traccia di accento straniero.
- Oh, già, appunto. Vediamo. Quanto ha preso, per carpire il disegno della culatta ultimo modello del cannone francese?
- Cinque anni di carcere duro, - rispose inaspettatamente, ma con la massima calma, il signor Verloc.
- Se l'è cavata bene, - fu il commento del signor Vladimir - D'altronde se lo meritava, visto che s'è lasciato beccare. Ma come ha fatto a cascarci?
Si udì la flebile voce del signor Verloc parlare in tono dimesso di gioventù, di dannata infatuazione per un'indegna...
- Aha! Cherchez la femme! - si degnò d'interrompere il signor Vladimir, senza asprezza ma anche senza affabilità; e nella sua condiscendenza v'era una punta di biasimo. - Da quanto tempo è al servizio dell'Ambasciata? - domandò.
- Dai tempi del defunto barone Stott-Wartenheim, - rispose in tono smorzato il signor Verloc, increspando malinconicamente le labbra in segno di dolore per la morte del diplomatico. Il primo segretario osservò attentamente questo gioco di fisionomia.
- Oh, da allora... Be', che cos'ha da dire sul proprio conto? - chiese con asprezza.
Il signor Verloc rispose, un po' stupito, che non credeva di aver nulla di speciale da dire. Era stato convocato per lettera... E si frugò nella tasca laterale del pastrano; ma, sotto lo sguardo cinico e beffardo dei signor Vladimir, decise di non insistere.
- Bah! - disse quest'ultimo. - Che cosa pensa di cavarne, da un mestiere simile? Non ha neppure il fisico della professione. Lei... membro di un proletariato ridotto alla fame? Mai! Lei... un disperato di socialista o di anarchico... quale dei due?
- Anarchico, - precisò il signor Verloc, in tono dimesso.
- Puah! - riprese il signor Vladimir, senza alzar la voce. - Perfino il vecchio Wurmt se n'è stupito. Non imbroglierebbe un idiota, lei. Sono un po' tutti così, è vero; ma lei mi sembra addirittura impossibile. Dunque, i suoi rapporti con noi sono cominciati col furto di modelli di cannoni francesi. E si è fatto beccare; il che, al nostro governo, deve aver fatto tutt'altro che piacere. Non si direbbe che sia molto scaltro, signor Verloc.
Il signor Verloc cercò flebilmente di giustificarsi.
- Come ho già avuto modo di osservare, una dannata infatuazione per un'indegna...
Il signor Vladimir sollevò una grossa mano, bianca e massiccia.
Oh, sì, l'amore infelice... della sua giovinezza. Si è preso il danaro e l'ha venduta alla polizia... È così?
L'accorato mutamento nella fisionomia del signor Verloc; il momentaneo accasciarsi di tutta la persona, confessarono che le cose, purtroppo, erano andate appunto così. La mano del signor Vladimir strinse la caviglia posata sul ginocchio. La calza era di seta azzurro scura.
- Vede? Non è certo una prova di astuzia, da parte sua. Forse, lei è troppo suscettibile.
In un bisbiglio velato, tutto di gola, il signor Verloc osservò che non era più uno sbarbatello.
- Oh, è un difetto che l'età non guarisce, - rispose, con sinistra familiarità, il signor Vladimir. - Ma no, lei è troppo grasso. Non si sarebbe mai ridotto a far questa figura, se fosse anche solo un tantino suscettibile. Le dirò io quel che penso: lei è un poltrone. Da quanto tempo vive sull'Ambasciata?
Undici anni, - fu, dopo un momento di accigliata esitazione, la risposta. - Sono stato incaricato di diverse missioni a Londra, quando S. E. il Barone Stott-Wartenheim era ambasciatore a Parigi. Poi, dietro istruzioni di S. E., mi sono stabilito qui. Sono inglese.
- Ah sì? Ah sì? Davvero?
- Suddito inglese di nascita, - disse, avventatamente, il signor Verloc. - Ma mio padre era francese, per cui...
- Non si preoccupi di dar spiegazioni - lo interruppe l'altro. - Forse, legalmente, avrebbe potuto essere maresciallo di Francia e membro del parlamento britannico... e allora, certo, qualche servigio l'avrebbe reso alla nostra Ambasciata.
Questa battuta strappò al volto del signor Verloc un debole sorriso. Il signor Vladimir mantenne una gravità imperturbabile.
- Ma, come ho già detto, lei è un poltrone; non sa sfruttare le occasioni che le si presentano. Ai tempi del barone Stott-Wartenheim, le teste buche che dirigevano la nostra Ambasciata erano molte, e a gente della sua specie, instillavano un'idea totalmente sbagliata della natura dei fondi destinati allo spionaggio. Ora il mio compito è di correggere questo falso concetto dicendole che cosa il servizio segreto non è. Non è un'istituzione filantropica. E' proprio per dirle questo che l'ho fatta chiamare.
Il signor Vladimir osservò l'espressione di finto sgomento sul volto del signor Verloc, e abbozzò un sorriso sarcastico.
- Vedo che mi capisce, perfettamente. Penso che per il suo lavoro, intelligenza ne abbia quanto basta. Quello di cui abbiamo bisogno, ora è attività... attività.
Nel ripetere quest'ultima parola il signor Vladimir puntò sull'orlo della scrivania un lungo indice bianco. Dalla voce di Verloc ogni traccia di raucedine scomparve. La sua spessa collottola prese una tinta accesa sopra il collo di velluto del soprabito. Le labbra tremarono prima di socchiudersi.
- Se è così gentile da dare una scorsa al mio rapporto, - sbottò nel suo basso tono potente chiaro ed oratorio, - vedrà che, non più tardi di tre mesi addietro, in occasione della visita del granduca Romualdo a Parigi, ho fatto una segnalazione che di qui è stata telefonata alla polizia francese e...
- Ssst! Ssst! - lo troncò il signor Vladimir, accigliandosi. - La polizia francese non aveva nessun bisogno della sua segnalazione. Non faccia tanto baccano! Che cosa diavolo le salta in testa?
Con accento di orgogliosa umiltà, il signor Verloc si scusò di essersi lasciato trasportare. La sua voce, famosa da anni ai comizi all'aperto e alle assemblee operaie in sale chiuse, aveva contribuito, disse, a creargli la nomea di compagno fidato. Era un aspetto essenziale della sua efficienza, che aveva ispirato fiducia nei suoi principii. - Nei momenti critici, i capi hanno sempre mandato me alla tribuna, - dichiarò, con evidente soddisfazione. Non v'era baccano, aggiunse, al disopra del quale non riuscisse a farsi sentire; e si affrettò a dimostrarlo.
- Permetta, - disse. Abbassando la testa e senza alzar gli occhi, attraversò la sala a passo rapido e pesante fino a una delle vetrate e, come cedendo a un impulso incontrollabile, la socchiuse. Balzando stupefatto dagli abissi della sua poltrona, il signor Vladimir gli guardò da sopra le spalle; e sotto, di là dal cortile dell'Ambasciata, un po' oltre il cancello aperto, si videro le spalle larghe d'un poliziotto che assisteva ozioso al passaggio in pompa magna, attraverso la piazza, della lussuosa carrozzella di un bambino ricco.
- Gendarme, - disse il signor Verloc, non sforzandosi più che se stesse bisbigliando; e il signor Vladimir scoppiò a ridere, vedendo il poliziotto girar su se stesso come punto da uno strumento acuminato. Il signor Verloc chiuse con calma la finestra e tornò al centro della stanza.
- Con una voce simile, - disse, schiacciando il pedale del solito tono flebile, - è naturale che si avesse fiducia in me. E poi, sapevo che cosa dire.
Aggiustandosi la cravatta, il signor Vladimir l'osservò nello specchio sopra il camino.
- Devo dire che lei conosce abbastanza bene il gergo social-rivoluzionario, - disse, in tono sprezzante. - Vox e... Ha mai studiato il latino?...
- No, - grugnì il signor Verloc - Nemmeno pretendevate che lo sapessi. Io appartengo alla gran massa. Chi sa il latino? Solo qualche centinaio di imbecilli, incapaci di badare ai casi loro.
Per altri trenta secondi circa, il signor Vladimir studiò nello specchio il profilo carnoso, il corpo massiccio, dell'uomo alle sue spalle. Nello stesso tempo, aveva il vantaggio di veder la propria faccia, rotonda e ben rasata, col suo colorito sano e le labbra fini e sensitive, destinate da madre natura ad articolare le arguzie delicate che avevano fatto di lui il beniamino degli ambienti scelti.
Poi si voltò, e si diresse verso il centro della sala con tanta decisione che perfino le punte della sua cravatta a nodo fisso, stranamente fuori moda, parvero vibrare di oscure minacce. La mossa fu così rapida e brusca che il signor Verloc, gettando un'occhiata di traverso, si sentì perdere d'animo.
- Aha, lei ha l'ardire d'essere insolente, - cominciò il signor Vladimir con un'intonazione stranamente gutturale, non solo niente affatto inglese ma nemmeno europea, nuova perfino all'esperienza dei bassifondi cosmopoliti del signor Verloc. - Lei ha quest'ardire! Be', le parlerò schietto. La voce non vuol dir nulla. Non sappiamo che farci, della sua voce. Non di voce abbiamo bisogno, ma di fatti... di fatti sensazionali... che il diavolo la porti! - aggiunse, con una specie di crudele discrezione, proprio in faccia al signor Verloc.
- Non creda di confondermi coi suoi modi iperborei, - si difese rauco il signor Verloc guardando il tappeto; al che il suo interlocutore, sorridendo ironico al disopra del nodo minaccioso della cravatta, passò al francese.
- Lei si fa passare per un agent provocateur. Ebbene, il compito specifico di un agent provocateur è di provocare, e, da quel che posso giudicare dal suo incartamento, negli ultimi tre anni lei non ha fatto nulla per guadagnarsi lo stipendio.
- Nulla! - esclamò Verloc, senza un moto del corpo e senza alzar gli occhi, ma con un accento di sincera emozione. - Ho prevenuto più volte quello che avrebbe potuto essere...
- Dice un proverbio inglese che prevenire è meglio che curare, - interruppe il signor Vladimir, lasciandosi cadere in poltrona. - Proverbio stupido in generale (non si finisce mai, col prevenire); ma caratteristico. Il definitivo non gode le simpatie di questo paese. Non sia troppo britannico. E, nel fatto specifico, non sia assurdo. Il male esiste già. Non di prevenzione abbiamo bisogno, ma di cura.
S'interruppe, si volse alla scrivania e, sfogliando alcune delle carte ivi posate, parlò in tono nuovo, da affari, senza guardare il signor Verloc. - Lei sa, naturalmente, della Conferenza Internazionale riunita a Milano.
Con voce flebile, il signor Verloc osservò che aveva l'abitudine di leggere i quotidiani; e, a una successiva domanda, la sua risposta fu che, naturalmente, capiva quel che leggeva. Qui il signor Vladimir, con un debole sorriso alle carte che una dopo l'altra andava sfogliando, mormorò: - Purché non sia scritto in latino, immagino.
- O in cinese, - aggiunse, scioccamente, il signor Verloc.
- Uhm. Certe sbrodolate dei suoi amici rivoluzionari sono scritte in un intruglio incomprensibile quanto il cinese... - Il signor Vladimir lasciò cadere sprezzantemente un foglio grigio di carta stampata. - Che cosa sono, tutti questi volantini con l'intestazione "F. P.", e martello, penna e torcia incrociati? - Il signor Verloc si avvicinò all'imponente scrivania.
- Il Futuro del Proletariato; una società, - spiegò, restando pesantemente in piedi accanto alla poltrona, - non anarchica in linea di principio, ma aperta a tutte le sfumature del pensiero rivoluzionario.
- E lei vi appartiene?
Sono uno dei vicepresidenti, - sbuffò il signor Verloc, e il primo segretario dell'Ambasciata alzò la testa per guardarlo.
Allora dovrebbe vergognarsi, - disse, con forza. - La sua società non sa far di meglio che stampare in inchiostro sbiadito e carta sudicia queste tiritere profetiche? Eh? Perché non fate nulla? Guardi. Ho giusto per le mani questa faccenda, e le dico chiaro e tondo che il suo stipendio se lo deve guadagnare. Il buon tempo antico alla Stott-Wartenheim non è più. Niente lavoro, niente paga.
Il signor Verloc si sentì nelle gambe, pur così solide, uno strano senso di languore. Fece un passo indietro e si soffiò rumorosamente il naso.
Era, in verità, stupito e allarmato. Il sole rugginoso di Londra, lottando per disfarsi della nebbia londinese, versava una mite luminosità diffusa nello studio del primo segretario e, nel silenzio, il signor Verloc udì contro il vetro della finestra il ronzio lieve di una mosca.
- La sua prima mosca di quell'anno, - annunciatrice, in modo molto più efficace che centinaia di rondini del prossimo avvento della primavera. L'inutile frastuono di un minuscolo e tuttavia energico organismo colpì sgradevolmente quel pezzo d'uomo minacciato nella propria indolenza.
Frattanto, il signor Vladimir formulava mentalmente una serie di rilievi tutt'altro che lusinghieri sulla faccia e la persona del signor Verloc. L'amico era più volgare del previsto: goffo e sfacciatamente ebete, sembrava tale e quale un lattoniere venuto a presentare il conto. Nelle sue occasionali puntate nel campo dell'umorismo americano, il primo segretario dell'Ambasciata si era fatta un'idea tutta sua di questa categoria di artigiani, incarnazioni di una pigrizia e di un'incompetenza fraudolente.
Era quello, dunque, il famoso e fidato agente segreto, tanto segreto da non essere mai indicato che col simbolo "D" nella corrispondenza ufficiale, semiufficiale e confidenziale del compianto barone Stott-Wartenheim; il celebre agente "D" le cui segnalazioni avevano il potere di cambiar l'itinerario e la data dei viaggi regali, imperiali, granducali, e, a volte, di farli rientrare addirittura! Costui! E il signor Vladimir si abbandonò in ispirito a un travolgente e irriverente attacco d'ilarità a spese, in parte, del suo stesso sbigottimento, ma più ancora dell'universalmente compianto barone Stott-Wartenheim. La fu S. E., che l'augusto favore del suo imperial sovrano aveva imposto come ambasciatore a tutta una serie di riluttanti ministri degli Esteri, aveva goduto in vita sua fama di pessimista credulone e fumoso. S. E. aveva il chiodo fisso della rivoluzione sociale. Si immaginava d'essere un diplomatico. Chiamato per dispensa speciale ad assistere alla fine della diplomazia, - e quasi alla fine d
el mondo, - in una spaventosa apocalissi democratica. I suoi dispacci profetici e lacrimogeni avevano formato per anni ed anni lo spasso del ministero degli Esteri. Si diceva che, sul letto di morte (visitato dal suo imperial sovrano ed amico), avesse esclamato: "Infelice Europa! Perirai per l'insania morale dei tuoi figli!". Il suo destino era di cader vittima del primo mariuolo impostore che gli capitasse fra i piedi, pensò il signor Vladimir sorridendo vagamente al signor Verloc.
- Dovrebbe venerare la memoria del barone Stott Wartenheim! - esclamò improvvisamente.
La faccia depressa del signor Verloc tradì un cupo e pesante senso di tedio.
- Mi permetta di osservarle, - disse, - che son venuto qui perché chiamato da una letteria perentoria. Negli ultimi undici anni, sono stato qui solo due volte, e mai, certo, alle undici del mattino. Non è saggio chiamarmi così per tempo. Rischio di farmi vedere. Il che, per me, non sarebbe uno scherzo.
Il signor Vladimir fece spallucce.
- E di non servir più a nulla, - continuò l'altro, con foga.
Questo è affar suo, - sussurrò con morbida brutalità il signor Vladimir. - Quando cesserà d'esser utile, cesserà d'essere impiegato. Sì. Sui due piedi. In tronco.


(*) Tratto da "L'agente segreto" di Joseph Conrad, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1994.

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