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Per Aspera Ad Veritatem n.21
Intervista all'autore: Mimmo Franzinelli - Mondadori Editore, Milano, 2001

Delatori





D. - Delatori, il suo ultimo libro, prosegue l'analisi di un aspetto tipico del ventennio fascista: lo spionaggio organizzato del regime a fini di difesa dalla minaccia interna.
Questo libro affronta infatti un aspetto (quello dell'informazione anonima) rimasto sullo sfondo nel suo precedente lavoro "I tentacoli dell'OVRA", dedicato alla storia ed all'analisi delle metodologie utilizzate dalla polizia segreta del regime. Ritiene ci siano altri, ulteriori aspetti del fenomeno ancora da porre in luce, oppure la ricerca storiografica sull'argomento può considerarsi conclusa?


R. - Delatori costituisce la prima monografia pubblicata in Italia sulla delazione in epoca fascista; la mancanza di studi su questo problema mi ha costretto a presentarne le diverse modalità di espressione, delineando anche una variegata «tipologia della delazione», il che ha ovviamente impedito di sviscerare i singoli aspetti in dettaglio; si tenga inoltre conto che le cospicue dimensioni assunte da questo rapporto distorto tra cittadini e autorità in epoca fascista richiederebbe, per una trattazione esauriente, lo spazio di un'enciclopedia... Ciò premesso, credo che dal volume il lettore possa ricavare una serie di elementi generali e di esemplificazioni rappresentative della totalità del fenomeno. Tra le piste di ricerca che meriterebbero ulteriori ricognizioni segnalo la delazione dentro il Partito Nazionale Fascista, tra gerarchi indotti a tradire la fiducia di loro camerati per invidia, rivalità, desiderio di compiacere al Duce o per asservimento alla polizia. Altra strada che si rivelerebbe senz'altro produttiva sul piano storiografico è quella dei traditori degli ebrei, anche se ovvie ragioni di riservatezza ridussero al minimo ciò che di questa delazione venne annotato, preferenziando il campo delle confidenze a voce.
Che la ricerca non sia conclusa e che il campo sia aperto a ulteriori integrazioni, l'ho notato nel corso del lavoro di cui proprio in questi giorni correggo le bozze di stampa: un libro dedicato alle stragi perpetrate in Italia nel 1943-45 dai tedeschi e al cinquantennale occultamento dei fascicoli processuali da parte della Procura generale militare.
Esaminando la dinamica degli eccidi, emerge in diverse circostanze il ruolo sinistro dei delatori nella segnalazione di fuggiaschi e di partigiani ai militari delle forze d'occupazione.

D. - Tratto comune dei suoi lavori è la notevole mole documentale che sorregge la trattazione. Infatti anche nel suo più recente lavoro, dedicato ad uno degli aspetti tipicamente più grigi e moralmente più discutibili dell'attività di polizia, può vantare una mirata ricerca negli archivi premiata dal rinvenimento di innumerevoli documenti.
Come spiega questa apparente contraddizione tra un lavoro tipicamente "sporco" e la vastità della relativa documentazione a supporto che è possibile rinvenire negli archivi? è forse un connotato tipico delle burocrazie?


R. - L'apparato burocratico tende per sua natura a conservare una caterva di materiale cartaceo, poiché il funzionario ravvisa in esso la giustificazione e il resoconto del proprio lavoro. Il meccanismo di accumulo della documentazione per logiche interne all'ufficio ha funzionato anche in un campo così delicato ed elusivo. D'altra parte negli anni Trenta la polizia concepiva e utilizzava i propri archivi quali strumento di schedatura, di verifica, di raffronto e di controllo dei dissidenti politici, di ognuno dei quali si potevano agevolmente ricostruire i «precedenti». Ne consegue, per l'odierno studioso della società italiana in epoca fascista, la possibilità della fruttuosa consultazione di un materiale dalle dimensioni davvero ragguardevoli, costituito da rapporti di servizio, da scritti anonimi e confidenziali prodotti da una molteplicità di soggetti (privati cittadini o pubblici funzionari). Una parte di questa documentazione, probabilmente piccola per dimensioni ma di massimo rilievo, fu fatta sparire negli anni 1943-46 da chi aveva interesse a rimuovere traccia di determinate responsabilità, la parte preponderante degli archivi si è comunque salvata ed è oggi a disposizione degli utenti dell'Archivio centrale dello Stato.
Debbo peraltro precisare che si tratta di fascicoli del tutto particolari, data la natura della delazione e gli intenti prefissi dai "volonterosi" cittadini autori di segnalazioni anonime: carteggi che ho utilizzato e verificato con ogni cautela per il loro forte carattere di soggettività. Dal fondo degli archivi sono emerse quantità di piccole storie ignobili che ricollegate e soppesate, analizzate nell'intreccio con le strategie del potere, rivelano dimensioni impensate e inquietanti. Le denunzie segrete richiedono un'analisi che superi il loro orizzonte di riferimento (in sé misero, nella stragrande maggioranza dei casi) e affianchi allo strumento dell'indagine storica osservazioni di carattere psicologico, con l'attenta comparazione del rapporto cittadini-potere. Scorrendo e ammonticchiando quelle carte si ha la sensazione dell'irruzione della politica dentro il privato, con vicende controverse di legami familiari, di rapporti di vicinato, di contatti di lavoro trasformate in grimaldelli per scardinare il corso di tante esistenze. Negli anni Trenta la delazione affondò le radici nella società civile, pervadendo ambiti apolitici e finanche settori schiettamente fascisti. Gli spioni si ritenevano (o comunque si definivano nelle loro lettere, spesso anonime) buoni cittadini dell'Italia littoria, collaboratori esemplari dell'autorità.
Aggiungo, per completare il quadro delle fonti, che manca purtroppo la possibilità di visionare la documentazione prodotta e conservata dall'Arma dei carabinieri: la legislazione in materia di accesso agli archivi non è di fatto valida per il materiale raccolto e custodito dai carabinieri, assolutamente fuori consultazione anche relativamente a periodi lontani nel tempo. Non conosco le vere ragioni di questo impedimento alla ricerca storica, parendomi inattendibili quelle ufficialmente avanzate, relative cioè al disordine nel quale verserebbe l'archivio dell'Arma. Ho avuto accesso alle carte della polizia politica del regime fascista (riferite in taluni casi anche a persone viventi), ma se volessi utilizzare la documentazione dei carabinieri per una monografia sui moti del 1898, ne sarei impedito, nonostante la legislazione archivistica classifichi quel materiale come di libera consultazione.

D. - Colpisce nella Sua documentata analisi la circostanza della diffusione della pratica della delazione durante il regime fascista, sviluppatasi per lo più secondo lo schema della "delazione orizzontale" (in cui il delatore appartiene al medesimo ambiente sociale del soggetto colpito dalla delazione), piuttosto che secondo quello della "delazione verticale" (in cui la denunzia anonima riguarda soggetti di diverso e superiore ceto sociale). Le motivazioni sottese sono le più svariate (invidia, arrivismo, antipatia personale, malinteso senso dello Stato, etc.) e sono tutte insite nella natura dell'uomo; questo naturale, disdicevole carattere dell'animo umano ha però nel periodo storico esaminato permeato qualunque ambiente. Questa lunga premessa per chiederLe se e, soprattutto, quanto la circostanza di vivere in un regime illiberale può aver costituito una sorta di giustificazione morale per una pratica, la delazione anonima, solitamente considerata riprovevole? Ed ancora, ritiene che l'ampiezza del fenomeno sia direttamente riconducibile alla peculiarità del regime fascista oppure, in via generale, l'aumento della pratica della delazione è inversamente proporzionale alla democraticità del sistema di Governo?

R. - La scarsa diffusione della "delazione verticale" è in buona parte riconducibile all'assetto rigidamente gerarchico del regime, sorretto da una logica secondo la quale il duce e i gerarchi «avevano sempre ragione»; qualunque tipo di critica dal basso suonava sgradita, in quanto poneva in discussione uno dei più solidi criteri di autolegittimazione del regime. Questo nella vita pubblica. Dietro le quinte il fascismo incoraggiò, utilizzò e premiò la delazione come strumento di controllo e di repressione dei "mormoratori" e dei dissidenti, maturando proprio grazie a questa forma segreta di confidenza una conoscenza altrimenti inimmaginabile, ben superiore a quella consentita dai tradizionali metodi usati dalla polizia. È davvero significativo il salto di qualità verificatosi a partire dalla fine degli anni Venti in questo campo; ho rilevato quale diretto precedente l'azione analoga svolta nella prima metà dell'Ottocento in Lombardia dalla polizia austro-ungarica. Il regime liberale postunitario si era avvalso della delazione in misura notevolmente inferiore.
Giustificazione morale? Direi di no, considerato il carattere sostanzialmente volontario (tranne poche eccezioni) di queste spiate e l'interesse diretto del delatore, che si proponeva di trarre vantaggio dalla rovina di una persona percepita quale avversaria e pertanto denunciata occultamente. Ogni forma di governo dispotico tende a perpetuare il proprio dominio mediante l'uso combinato della forza e del consenso, con un dosaggio diversamente combinato a seconda del livello di autoritarismo del sistema politico in vigore; il fascismo, una volta sgominate le opposizioni, riconvertì a nuovi compiti settori dell'apparato repressivo, adibiti a forme intelligenti ed efficaci di condizionamento della società civile, con un'opera al tempo stesso repressiva, informativa e propagandistica.
L'«offesa al Duce» venne sanzionata quale grave reato, fornendo ai delatori uno strumento efficace di denunzia di mormoratori, veri o presunti. Apposite circolari costrinsero i portinai a fungere da informatori delle questure, ovvero a trasformarsi in delatori degli inquilini. Questo il contesto dentro il quale la delazione prosperò, si seminò la diffidenza tra cittadino e cittadino, trovò diffusione il servilismo verso i detentori del potere. In termini generali, ritengo che lo studio della delazione dimostri - anche a livello morale - il regresso della società italiana in epoca fascista rispetto al periodo liberale.

D. - Prendendo spunto da quanto ci ha appena detto ed ampliando il tema, ritiene che in una moderna democrazia occidentale, in cui principi fondamentali riconoscono ai soggetti garanzie essenziali, esista ancora uno spazio per una "sottocultura" della delazione? Inoltre, per altro verso, lungi dall'assumere delle delazioni a fondamento di provvedimenti giudiziali (o anche solo amministrativi), è bene ricordare, in proposito, che il codice di procedura penale espressamente vieta l'utilizzazione di documenti che contengono dichiarazioni anonime, "salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato". Ritiene che una tale preclusione debba riguardare, in democrazia, anche l'attività informativa per la sicurezza nazionale?

R. - La "sottocultura della delazione" è ancora diffusa, sebbene produca minori effetti rispetto agli anni compresi tra le due guerre, per ovvie diversità di mezzi e di fini tra dittatura e democrazia. La persistenza del fenomeno è nondimeno indicativa di una dimensione morale miserrima, di una visione subalterna e vile nei confronti del potere e dei rapporti tra cittadini.
Negli anni Ottanta l'azione contro la mafia e il terrorismo politico si giovò della legislazione speciale su «pentiti» e «collaboratori della Giustizia», con la concessione di rilevanti sconti di pena (sino al limite dell'impunità) per chi - pluriomicidi inclusi - informasse su latitanti e progetti eversivi. Ne conseguirono, anche grazie all'apporto fornito da delatori, lo sgominamento dei gruppi estremisti e una serie di operazioni in grande stile contro i clan malavitosi. In questi casi è difficile attestarsi su di una linea di principio contraria alle informazioni anonime e segrete da parte di cittadini, considerato il rilievo della posta in gioco. Che l'attività informativa per la sicurezza nazionale possa avvalersi di simili collaborazioni credo sia cosa da tutti accettata, come una sorta di spiacevole necessità imposta dai fatti.
Il discorso, a mio avviso, cambia allorquando l'autorità ricorre alla delazione, o addirittura la sollecita, in riferimento a questioni tutto sommato di rilievo secondario, le quali potrebbero venire affrontate a viso aperto dal cittadino che, a conoscenza di un reato, lo volesse segnalare per spirito civico. Mi spiego con qualche esempio riferito agli anni Novanta, che parrebbe indicare un rilancio delle forme distorte di collaborazione del cittadino alle istituzioni. L'attivazione da parte della Guardia di Finanza di una linea telefonica riservata alla denunzia dei reati fiscali (altrui) scatenò un'ondata di segnalazioni di persone interessate più che altro a danneggiare i concorrenti; disattivata la «linea diretta», il flusso delle lettere anonime pervenute ai comandi zonali della Guardia di Finanza si è mantenuto cospicuo.
Nel 1998 il sindaco di Milano fece affiggere manifesti con l'offerta di una ricompensa ai cittadini che avessero denunciato un autore di «graffiti metropolitani» (due milioni di lire: un terzo della multa inflitta al responsabile di disegni murali). L'operazione si sgonfiò dopo l'«effetto-annuncio» senza sortire risultati significativi, con rade segnalazioni da parte di comitati dei commercianti. La questione è rilanciata proprio in questo autunno da varie amministrazioni municipali, ad esempio dal comune di Chiavari: «La ricompensa è stata deliberata dalla Giunta per attribuire un premio in denaro a quei cittadini che, manifestando senso civico, collaborano all'identificazione degli autori di scritte murali su manufatti e fabbricati cittadini». Possibile che un cittadino debba agire solo se incentivato da premi economici, preferibilmente integrati dalla garanzia di anonimato?
Un ultimo esempio, di stretta attualità. Il numero del 15 novembre 2001 di un settimanale a grande distribuzione, stampato nella capitale, riporta nel servizio intitolato Il prof. rema contro? Denuncialo al telefono, l'intervista a un deputato della maggioranza che ha organizzato un servizio telefonico a disposizione degli studenti, i quali possono così segnalare gli insegnanti che in classe si siano espressi negativamente sul conto del Presidente del consiglio e/o del Governo: «cinquanta chiamate in due giorni da tutta Italia», dichiara soddisfatto il promotore di questa iniziativa. Ovviamente si trattava di telefonate anonime.
«Revival della taglia» e valorizzazione delle denunce anonime sono espressione della persistente sfiducia dei governanti nel senso civico dei governati, ritenuti incapaci di attivarsi disinteressatamente per il rispetto della legge ma disponibili a infrangere la catena di omertà in cambio di congrui compensi. La morale comune considera la delazione un comportamento indegno e deplorevole; ciò nonostante, come si è visto, in taluni casi sono gli amministratori pubblici a incentivare simili atteggiamenti. Sul lato opposto, settori della società rimangono avvinti alla cultura omertosa, coprendo col silenzio complice i responsabili di intimidazioni mafiose e di illegalità scandalose. La difficoltà di individuare un percorso alternativo agli itinerari della delazione e dell'omertà esprime la problematicità del rapporto cittadini-istituzioni nell'Italia contemporanea.


(*) Il testo presentato costituisce l'esito di una conversazione della Redazione con l'Autore sul volume "Delatori".
I contenuti ed i pareri espressi negli articoli e negli interventi sono da considerarsi opinioni personali degli Autori: non impegnano, pertanto, la Direzione della Rivista.

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