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Per Aspera Ad Veritatem n.20
I paesi del Golfo e l'Asia centrale

Valeria PIACENTINI






Gli incontri del 25 ottobre 2000 a Dushanbeh, capitale del Tajikistan, fra il Ministro della Difesa russo, Igor Sergeyev, e il leader della Coalizione delle Forze del Nord, Ahmad Shah Mas‘ud, e i colloqui che hanno avuto luogo sempre nella capitale tagika fra il Ministro degli Esteri della R. I. dell'Iran, Kamal Kharrazi, in visita ufficiale, Igor Sergeyev e il Presidente della Repubblica in questione, Emamali Rakhmonov, fanno riflettere ancora una volta sulla questione afgana (1) .
Il mese di ottobre ha segnalato una vivace ripresa dell'attività politico-diplomatica intorno all'Afghanistan, sempre più dilaniato dalla guerra e dalla guerriglia, quasi a volere indicare il delinearsi di un nuovo scenario regionale, pragmatico e realistico al tempo stesso.
La nuova stagione era alle soglie, e fra le aspre montuosità afgane cominciavano a farsi sentire i rigori del Padrone Inverno. Da un momento all'altro la stagione secca avrebbe ceduto il passo ai venti e alle tempeste di neve, che tutto bloccano ricacciando e immobilizzando ogni forma di vita. Come di prassi, l'autunno ha registrato una violenta ripresa delle operazioni militari: un'offensiva della Coalizione del Nord, cui ha replicato con durezza il regime Taliban, impedendo alle forze Mas‘ud-Rabbani di raggiungere gli obiettivi prepostisi. Contrattacchi del Nord e rinnovate controffensive Taliban, che poco o nulla hanno conseguito sul piano tattico, non hanno sbloccato la situazione sul piano militare, e - al momento - non sembrano consentire all'una o all'altra parte di utilizzare la stagione invernale per discutere un qualsiasi piano di pace su posizioni di netto vantaggio militare. Tuttavia, al di là dell'apparente situazione di stallo sul piano delle armi, al di là delle reciproche accuse (i consueti luoghi comuni, che stanno martellando le agenzie di informazione da ormai quattro anni: "Dietro Rabbani-Mas‘ud vi sono Mosca e Delhi" "Dietro i Taliban vi è il Pakistan" "fino a che gli invasori (ossia i Pakistani) persevereranno in un'opzione militare, non vi sarà possibilità di cessate il fuoco e scambio di prigionieri" "Mas‘ud non è altro che uno strumento nelle mani di Mosca per perseguire la propria politica di sicurezza e potere militare in Asia Centrale" "Nessun dialogo è possibile fino a che i Taliban persevereranno nelle loro scelte politiche relative alle donne e all'istruzione" oppure "Dostam e Isma‘il Khan si sono incontrati con Rabbani, rilanciando una loro alleanza anti-Taliban" ecc. ecc. (2) dai colloqui di Dushanbeh sembra tuttavia di poter percepire che qualcosa si sta muovendo, soprattutto a livello regionale. "Anni di guerra dimostrano che non vi può essere alcuna soluzione militare alla crisi afgana", ha dichiarato Kharrazi da Dushanbeh (3) .
Ripercorrendo a questo punto i passi diplomatici di questi due ultimi mesi sembra di poter configurare uno scenario di evoluzione nella crisi.
I protagonisti sono gli stessi: Uzbekistan, Repubblica Islamica dell'Iran, Tajikistan, Cina, India, Pakistan, e, last but not at all the least, la Repubblica Federale Russa di Vladimir Putin. Sullo sfondo campeggiano gli Stati Uniti e lo spettro malefico del saudita Osama Bin Laden con le sue interconnessioni internazionali criminali e terroristiche.
La controffensiva dei Taliban ha neutralizzato l'operazione promossa dalle forze del Nord di riconquistare Taloqan; anche se non ha avuto il sopravvento sulle milizie del Leone del Panjshir che continuano a controllare il Badakshan, ha tuttavia portato le forze afgane molto vicino alla frontiera con il Tajikistan.
A questo punto la Conferenza della CIS a Dushanbeh si è trasformata in una serie di incontri a livello diplomatico, con interventi del tutto imprevisti (quali la visita del Ministro degli Esteri iraniano). L'elemento catalizzatore, il punto reale di tutta l'agitazione regionale, è stato proprio la possibilità di una caduta dell'intera provincia di Takhar in mano alle milizie dei Taliban, e la conseguente loro avanzata fino alla porosa frontiera tagika. L'evento ha provocato l'allerta di tutti gli stati confinanti e/o interessati.
I più allarmati sono stati la Russia, l'Uzbekistan, la R. I. dell'Iran e lo stesso Tajikistan - da tempo di fatto in prima linea. Dichiarazioni, colloqui, iniziative diplomatiche si sono intrecciati con le operazioni militari, sollevando un nuovo polverone sulla crisi ormai in corso da alcuni decenni.
La voce più grossa è stata quella della Russia, forte per l'occasione della solidarietà dei dodici Paesi della CIS e, in particolare, dell'Uzbekistan.
Sia l'Uzbekistan - sempre più blindato all'interno dei propri confini per timore di una ripresa di infiltrazioni islamiche e narcotraffico - sia la Russia, che continua a investire enormemente in forze e guardie di frontiera nella delicata regione tagika, sono sempre state profondamente coinvolte negli eventi regionali. Entrambi non celano - e non hanno mai celato - i rispettivi timori per uno "spillover" del conflitto all'intera regione centroasiatica. Mosca considera l'amministrazione di Kabul e i Talibani come una minaccia diretta alla stabilità regionale, soprattutto per l'ascendente che quell'Islam ha su gruppi islamici d'opposizione nelle ex-repubbliche sovietiche centroasiatiche e caucasiche. Ed è dovuto anche a tale convergenza di interessi il consolidamento dei rapporti russo-uzbeki dopo l'andata al potere di Vladimir Putin. Mosca continua a riconoscere come legale rappresentante dell'Afghanistan il discreditato Burhanoddin Rabbani, che ormai non controlla più neppure un decimo del territorio; Mosca continua a fornire consistenti aiuti finanziari e militari al regime Rabbani; Mosca continua ad accusare il Pakistan (e la potentissima "agenzia" ISI) di aiutare i Taliban; Mosca continua a incoraggiare a detti e a fatti Mas‘ud a proseguire la guerra e le azioni militari anti-Taliban; Mosca continua ad appoggiare l'India, fornendole aiuti e sostegno diplomatico, e questa - a sua volta - è intervenuta pesantemente a fianco della Coalizione del Nord; Mosca continua a sobillare Pechino, sempre sensibile al fattore "Islam radicale militante" e attenta a quanto avviene in Asia Centrale lungo le sue frontiere (4) . Tuttavia, come si è detto, aldilà del consueto polverone si possono cogliere alcuni segnali.


Con il ristagno delle operazioni militari e le prime sconfitte, l'amministrazione di Kabul cominciò a dar segno di logoramento e divisioni al suo interno. L'offensiva militare dell'autunno 2000 ha mostrato appieno le debolezze strutturali del regime e del suo isolamento internazionale, certamente aggravato dalle difficoltà interne e dall'isolamento internazionale del Pakistan. Di contro, è emersa la determinazione di Mosca e di Delhi a continuare a sostenere militarmente la Coalizione: una prospettiva che, tuttavia, non porterebbe ad alcuna soluzione quanto meno nel breve-medio termine, dichiarazioni e fatti più che altro di immediata efficacia psicologica e di deterrenza.
E' in questo contesto che si colloca l'altra offensiva di Kabul, quella politico-diplomatica.
Mettendo insieme tanti piccoli pezzi e analizzando i fatti aldilà della cortina creata dal lessico politico-ideologico di tutte le parti coinvolte, è possibile cogliere una realtà che va oltre il luogo comune dello "spettro Osama Bin Laden", e ricorre a misure nuove. Kabul prende atto che la sicurezza - oggi - è una realtà multidimensionale, e che il regime dell'autarchia sta per finire anche in questa impervia regione, dove, alla lunga, la guerriglia ha sempre avuto il sopravvento sul dispiegamento di forza. Il linguaggio dei responsabili ufficiali del regime di Kabul si è ammorbidito; è meno intransigente e, soprattutto, è disponibile a concessioni, apre più di uno spiraglio a negoziati e soluzioni negoziali bilaterali con gli altri attori regionali.
Gli osservatori afgani hanno letto in questi termini i contatti e i recenti colloqui intercorsi fra Taliban e Uzbekistan. Ufficialmente, a Islamabad si dice che l'obiettivo di questi contatti - interrotti da ben oltre un anno, ossia dalla caduta di Mazar-e Sharif - sia l'apertura di un Pol-i Dosti (o "Ponte dell'Amicizia"), ovvero un ponte attraverso il fiume Amu Darya, che riapra il confine afgano-uzbeko consentendo una ripresa dei tradizionali traffici commerciali verso Herat e la sua fertile regione circostante. Ne beneficerebbe certamente la stabilità regionale e lo sviluppo economico. Le Autorità uzbeke sarebbero disponibili a questo passo, considerato come una prima mossa verso la normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi a condizione che:
1) ciò non implichi traffico di droga;
2) non rappresenti una via per esportare l'Islam radicale verso la regione centroasiatica. Il principio alla base delle trattative dovrebbe restare quello della non interferenza negli affari interni dell'uno e dell'altro interlocutore. Ottenute queste garanzie prioritarie, da parte propria, l'Uzbekistan riprenderebbe in considerazione la possibilità di tornare a fornire elettricità alla regione di Mazar-e Sharif, elettricità sospesa (o erogata in maniera molto discontinua) dopo la caduta della città in mano Taliban.
Sempre gli osservatori afgani fanno rilevare come i Taliban diano crescente importanza anche alle relazioni con la Repubblica Islamica dell'Iran, il Turkmenistan e la Cina.
Per quanto riguarda Tehran, sebbene i Taliban ancora non abbiano soddisfatto appieno le richieste persiane nei confronti dei responsabili degli eccidi di diplomatici e tecnici iraniani - il più drammatico di tutti quello di Mazar-e Sharif (5) -, tuttavia si rileva che missioni diplomatiche iraniane sono oggi attive sia a Herat che a Jalalabad, e un ufficio commerciale taliban è stato aperto in Iran. La decisione di Tehran di riaprire le proprie frontiere al commercio con l'Afghanistan ha decisamente allentato la tensione fra i due Paesi - tensione che, nel settembre 1998, aveva raggiunto una vera e propria punta parossistica con vasto dispiegamento di forze pasdaran lungo i confini comuni. Non vi è dubbio che le relazioni fra Tehran e Kabul stanno evolvendo e che i due poli hanno più di un progetto in comune; l'evolversi della situazione è in larga misura dovuto anche all'abile operato del Governatore di Herat, il quale ha operato con estrema abilità per eliminare i possibili elementi di attrito all'interno della regione e con i vicini; in tal modo, egli ha riportato stabilità nella regione, restituendo la sua popolazione alle attività e ai traffici tradizionali transfrontalieri - escluso (parrebbe) il narcotraffico, per il quale restano aperte le frontiere turkmene (Torghundi). A seguito di questa scelta politica, le merci persiane sono affluite sui mercati afgani, e viceversa, conferendo - con la stabilizzazione dei rapporti - nuova fiducia e credibilità al regime di Kabul. D'altronde, quello del "grande mediatore" e il ricorso alla "diplomazia parallela" è un ruolo che è sempre stato congeniale a Tehran quando vi sono in gioco commerci ed affari.
Per quanto riguarda il Turkmenistan, è ovvio che i rapporti Taliban-Turkmenistan restano ottimi, e i traffici sono quanto mai fiorenti.
Venendo alla Cina, anche in questa direzione le relazioni sembrano evolvere gradualmente, soprattutto sotto il profilo della sicurezza reciproca e dello sviluppo economico. In cambio di assicurazioni da parte del regime Taliban che il territorio afgano non verrà usato per operazioni di alcun genere contro la Repubblica Popolare Cinese, Pechino fornirebbe all'amministrazione di Kabul know-how tecnologico (comparto del cemento) e addestramento sul piano energetico e delle telecomunicazioni (6) .


In questa cornice quasi idilliaca, molte sono tuttavia le variabili, e due restano i fattori determinanti: la Repubblica Federale Russa e Putin, da un lato, e la Repubblica del Pakistan e il nuovo regime del Chief Executive, generale Parviz Musharraf dall'altro (7) . A questi, dal gennaio 2001 si può aggiungere la nuova Amministrazione del neo-presidente eletto degli Stati Uniti, George W. Bush.
La Russia sta vivendo la "propria" ristrutturazione nel più ampio quadro della "propria" dottrina politica e strategica. Come si è detto e scritto in altra sede, la Russia ha per il centroasiatico una sensibilità particolare, ed è ben lungi dall'avere esaurito il proprio ruolo in questa regione (8) . Uno dei fattori che maggiormente preoccupa Mosca è rappresentato dal "fattore Islam" e dal "congelamento delle frontiere attuali"; una ripresa non controllabile dell'Islam radicale nelle ex-repubbliche sovietiche centroasiatiche implicherebbe uno sgretolamento delle frontiere, e l'impatto sarebbe disastroso per la sicurezza della stessa Repubblica Russa e i riflessi che ne deriverebbero sulle proprie popolazioni islamiche. Se ne è accennato sopra a proposito dell'Uzbekistan e del rafforzamento dei legami fra Mosca e Tashkent anche attraverso il Presidential Centre for Regional and Strategic Studies di Tashkent. La Cecenia ha d'altronde largamente dimostrato quali effetti disgregatori possa produrre un fattore "Islam radicale" non controllabile.
Vi è per di più un fatto estremamente grave. Sul territorio afgano, vicino ai confini con il Tajikistan, vi sono dei campi di addestramento ceceni. E' una realtà. E questa realtà - ovviamente - non può risultare gradita a Mosca e, tanto meno, a Vladimir Putin.
La Coalizione del Nord e un suo rafforzamento costituirebbero un rafforzamento delle difese a sud rispetto all'Islam radicale dei Taliban, e, nella fattispecie, rispetto alla minaccia del terrorismo ceceno. La Coalizione del Nord rappresenta anche un "cordone sanitario", una "fascia di sicurezza", nei confronti della fragilità del Tajikistan e della porosità delle sue frontiere. Lo stesso Ahmad Shah Mas‘ud ha dichiarato in una intervista rilasciata a Dushanbeh il 25 ottobre 2000, subito dopo l'incontro con Sergeyev, di avere in progetto un trasferimento del suo campo-base e quartiere generale a Kulyab, in Tajikistan, qualora non riuscisse a tenere le proprie posizioni in Afghanistan di fronte all'avanzata delle milizie talibane. Il recente viaggio di Putin a Islamabad si può pertanto anche leggere in questa chiave. E in questa chiave vanno certamente lette le richieste e i pesanti condizionamenti posti dal Presidente russo al C.E. del Pakistan durante la sua visita ufficiale a Islamabad (nel corso della quale si sarebbe però incontrato anche con diplomatici "afgani"): Mosca non avrebbe esitato a lanciare attacchi aerei contro i Taliban e a impiegare l'artiglieria pesante se questi non avessero sospeso l'addestramento di Ceceni sul proprio territorio (9) . A Dushanbeh, le dichiarazioni di Igor Sergeyev (riportate dalla ITAR-TASS) sono state quanto mai esplicite: Mosca avrebbe continuato a fornire ogni aiuto possibile alle forze della Coalizione del Nord. Secondo l'agenzia di stampa Reuters, la replica di Kabul è stata altrettanto dura. Non meno significativa è stata la visita ufficiale di Vladimir Putin in India, all'inizio di ottobre e le dichiarazioni rilasciate dal Presidente russo circa un rafforzamento dei legami russo-indiani e l'impegno a una più stretta collaborazione nei settori nucleare, economico-commerciale, biotecnologia, ingegneria aeronautica, farmaceutica e altri. Si tratta di una mossa finalizzata anche a operare pressioni sul Pakistan, che Mosca continua a ritenere responsabile della instabilità e insicurezza regionale centroasiatica. Resta tuttavia il fatto che la Russia non ha voluto chiudere ogni relazione con il regime di Kabul, e che, nonostante i fatti e le dichiarazioni ufficiali, continua a mantenere rapporti ufficiosi con esponenti dei Taliban.
E qui si viene all'altro grande protagonista, ossia il Pakistan.
La seconda metà del 1999 aveva visto il Pakistan prostrato, sull'orlo della disgregazione: embargo, economia allo sbando, un crescendo di disordini interni e lotte di potere all'interno di fasce sempre più ristrette di grossi gruppi di interessi economici, destrutturazione del sistema partitico, clientelismo e corruzione politica avevano raggiunto limiti senza precedenti. L'insolvenza del sistema bancario aveva accresciuto i disagi gettando ulteriore discredito sul debole governo di Nawaz Sharif, il grande artefice e regista politico-finanziario di tutta l'operazione Taliban, mentre l'esercito e l'ISI venivano sempre più coinvolgendo il Paese in "avventure esterne" e relativi impegni anche finanziari, quali l'Afghanistan e il Kashmir (10) . La sola forza politica in grado di preservare la repubblica dallo sfacelo erano le Forze Armate; e queste - il 12 ottobre 1999 - andarono al potere. In un discorso alla nazione, il Capo di Stato Maggiore, Parviz Musharraf, si impegnava a formare un governo di tecnici e civili (il che avvenne puntualmente a metà novembre 1999), a rafforzare le istituzioni del Paese e il sistema politico, a combattere la corruzione, a procedere al più presto a riforme economiche e finanziarie adeguate, a ricostruire una coscienza nazionale attraverso l'istruzione e il rispetto dei diritti umani. A distanza di un anno, la strada imboccata - anche se estremamente impervia e inevitabilmente impopolare - sembra avere cominciato a produrre i primi risultati.
E' tuttavia soltanto l'inizio. Restano i due nodi cruciali: Kashmir e regime Taliban. A monte vi è il narcotraffico.
Sia il Kashmir che l'appoggio dato all'operazione afgana dei Taliban hanno aumentato l'isolamento politico e diplomatico del Pakistan. Ma analizzando la situazione in un contesto più globale, non si può fare a meno di prescindere dai pesanti condizionamenti del passato; nessuno scenario e nessuna previsione può sperare di avere una qualsiasi base di realismo se non ci si riporta a questi. Si tratta di fatti e strutture, che gli analisti indiani hanno ben individuato nei loro studi. Anzitutto, non si può non tenere presente che il Pakistan è il secondo paese islamico del mondo, in termini demografici. E l'Islam è uno dei temi nazionalistici portanti della nascita e unità del Pakistan. Non solo; con il regime di Zia' ul-Haqq, l'esercito, che fino ad allora aveva rappresentato nel Paese una struttura orizzontale, cominciò a "islamizzarsi" in maniera sempre più consistente. Ed oggi sono al potere proprio quei militari che, avvalendosi anche dell'ondata emotiva che l'Islam può suscitare come vero e proprio movimento di massa, avevano preordinato e appoggiato le operazioni in Kashmir e Afghanistan. Sconfessarle, o ritirarsi dai due teatri, implicherebbe sconfessare la propria politica ufficiale con conseguente grave perdita di popolarità all'interno (in particolar modo la Jami‘at-i Islam, o Lega Islamica, e i legami che continuano a unire la dirigenza Taliban e diversi influenti gruppi pakistani islamici, fra i quali la Jami ‘at-i ‘Ulema'-i Islam (11) ); disimpegnarsi, implicherebbe provocare grosse fratture all'interno dell'esercito stesso, con conseguente venir meno del sostegno dei "generali" (o, quanto meno, di alcuni fra i più influenti), necessario al governo Musharraf per portare avanti il proprio programma politico e le sue "impopolari" riforme economiche e finanziarie.
Anche se pertanto non sembra che, a breve termine, la situazione possa evolvere su posizioni di maggiore moderazione, tuttavia qualcosa sta cambiando anche su questo scenario.
Alcuni segnali sono indicativi.
Questi sembrano portare a un graduale ripiegamento in Kashmir (12) a favore di un consolidamento in Afghanistan. Ma il segnale più indicativo è dato dal regime di Kabul e dalle sue "aperture" negoziali e diplomatiche. E come non è dubbio l'impegno dell'ISI in Afghanistan, così non vi è dubbio che Islamabad non è estranea a questa svolta.
In questo quadro - e in questo scenario - più che le operazioni militari, acquistano valenza particolare:
1) le aperture diplomatiche alla Cina e le garanzie fornite, in cambio di un disimpegno di questa nei confronti della Coalizione del Nord;
2) l'alleggerimento delle pressioni in Kashmir, in cambio di un diminuito appoggio indo-israeliano a Mas‘ud;
3) il contenimento della propaganda islamica nella NWF Province e le pressioni sul governo di Kabul a proposito dei campi ceceni, in cambio di un "ammorbidimento" della Russia, ossessionata dal crescente impegno militare in Tajikistan, continua emorragia in termini di vite umane e risorse finanziarie, e dalla integrità delle frontiere;
4) i colloqui e le intese con l'Uzbekistan;
5) lo sviluppo dei negoziati con la R.I. dell'Iran, l'altro grande alleato della Coalizione; da un punto di vista pragmatico, questi sembrano essere ormai realisticamente avviati a un'intesa più solida.
Restano il Tajikistan e la Coalizione delle Forze del Nord. Resta la possibilità di ritorsioni statunitensi dopo l'incidente terroristico yemenita di ottobre. Resta l'India, l'arci-nemico, l'altro grande sostenitore di Rabbani-Mas‘ud insieme a Mosca. Resta soprattutto la triangolazione di Mosca e il suo asse Delhi-Pechino.




Come si è detto sopra, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti furono i primi a riconoscere il regime Taliban insieme al Pakistan (13) . Se il fatto suscitò all'inizio non poche perplessità, a una seconda analisi e valutazione appare estremamente coerente e in linea con gli eventi e il quadro globale del momento.
Indubbiamente, il riconoscimento formalizzò dei rapporti che già esistevano di fatto. E, indubbiamente, il riconoscimento non fece che dare seguito ufficiale a una linea politica di intervento nella regione centroasiatica, inauguratasi subito dopo la disgregazione dell'Unione Sovietica nel 1991.
La scoperta delle immense risorse energetiche centroasiatiche polarizzò l'interesse di tutta la comunità mondiale su un'area fino ad allora poco conosciuta (se non quasi del tutto sconosciuta) perfino ai sovietici.
Si aprirono una serie di giochi e di interventi politici ed economico-finanziari, un ventaglio di prospettive e scenari, che chiamarono in causa attori regionali e non, a livello governativo e/o privato. Per Washington, l'Asia centrale - indipendente o meno - era ancora la periferia dell'impero sovietico, il non ben definito "near abroad" della Repubblica federale Russa, un'incognita comunque da controllare, la cui stabilità acquistava valenze non solo regionali ma globali. Se quindi da un lato la dissoluzione dell'Urss poneva termine alla guerra fredda e ai tentativi storici di Mosca di aprirsi una via d'accesso ai "mari caldi", dall'altro essa poneva il grave problema della stabilità (e stabilizzazione) di una regione, la cui instabilità (o destabilizzazione) avrebbe potuto produrre effetti domino dai ricaschi imprevedibili. E in questa regione, vi erano ben due aree di crisi aperte: l'Afghanistan e la R.I. dell'Iran.
Con il venire meno della forza e dell'ordine sovietici, in Asia centrale si era creato un pericoloso vuoto di potere, e Washington temette che potesse essere riempito dall'Islam rivoluzionario khomeynista forte della assonanza "persofona" dei Tajiki. Come si è detto altrove, fu un errore di analisi cognitiva e valutazione (14) . Comunque, così nacque l'impegno saudita nel settore energetico centroasiatico, e, in Afghanistan, si diede vita all'operazione "Taliban", con coinvolgimento diretto del Pakistan (soprattutto l'ISI), con consiglieri israeliani e con aiuti e supporto finanziario saudita.
L'Arabia Saudita si trovò quindi coinvolta in pieno nel centroasiatico, forse più che per volontà propria per "suggerimento" statunitense. Era, in un certo qual senso, il prezzo che gli Al Saud pagavano per la "propria" sicurezza, per la protezione militare degli Stati Uniti e la stabilità del Golfo. D'altronde, la scomparsa dell'Unione Sovietica e il venir meno degli aiuti e rifornimenti del blocco di Varsavia alla repubblica dello Yemen del Sud, consentiva una qual certa soluzione del contenzioso che da anni veniva coinvolgendo il mondo arabo nelle regioni meridionali della Penisola in un logorante stillicidio di forze e risorse umane e finanziarie. Questo dava a Riyadh mano libera in altri teatri, e questi furono in quegli anni l'Asia centrale e il Caucaso, con il beneplacito e l'incoraggiamento degli Stati Uniti, i quali non esitarono a proiettarvi anche l'altro "guardiano" regionale, ossia la Turchia, "sentinella" e cerniera del continente euro-asiatico.
Per quanto riguarda l'Asia centrale, una delle prime iniziative prese dai Sauditi fu quella di appoggiare la re-islamizzazione della regione. Riyadh iniziò pertanto una campagna massiccia di finanziamento per la costruzione di moschee, madraseh (ossia, scuole religiose), istituti culturali, centri per l'informazione e la diffusione della fede (da'wa), centri ove fossero istituiti corsi di insegnamento per ‘ulema', e distribuiti liberamente testi religiosi e Corani; fornì addirittura biglietti gratuiti e istituì voli charter speciali per il pellegrinaggio alla Mecca (15) . Essa agì o direttamente o indirettamente per mezzo di Università e Istituti perlopiù pakistani.
Si trattò di una serie di iniziative che, tuttavia, a livello di massa ebbero un impatto limitato.
L'Islam hanbalita saudita non si adattava molto bene alla coscienza culturale locale, dove il risveglio islamico era fortemente sentito - anche se con connotazioni del tutto peculiari, fortemente mistiche e legate a correnti sufiche, credenze in santi e sant'uomini, in folletti e genietti della natura, secondo rituali ispirati a uno sciamanesimo ancestrale.
E' un Islam vicino al mondo turco, ovviamente data la componente etnico-culturale prevalente delle popolazioni locali, il quale affonda le proprie radici in lontane-lontanissime memorie e miti del mondo turco originario. E' un Islam che non cessò mai di esistere nel corso dei secoli, anche durante la dominazione zarista e, quindi, all'interno delle strutture sovietiche. E come tale, esso ben presto si strutturò in forza/movimento alternativo al potere. Come si ebbe a dire in passato, "…it would appear to be difficult for Saudi Wahhabism to impose itself on Central Asia even as a religious ‘image of reference'…the greatest obstacle to the diffusion of Saudi Arabian Wahhabism being, in effect, Central Asian Islam itself, which is incompatible with the rigorous Wahhabite doctrine…" (16) . Ne conseguì che gli establishments locali ben presto si allinearono su posizioni più o meno rigorosamente islamiche - anche se nessuna delle repubbliche centroasiatiche ex-sovietiche si è ufficialmente proclamata "islamica" - e il cosiddetto "islam parallelo" o "alternativo" fu circoscritto con misure diverse, represso o comunque controllato, come forza reale di destabilizzazione regionale. Ma le radici culturali di questo islam parallelo non furono al momento né iranico-sciite né islamico-hanbalite.
Se quindi l'effetto religioso saudita in Asia centrale fu più che altro un supporto "energetico", ossia ebbe presa quel tanto che interessò agli ambienti governativi in cambio di possibili investimenti nei settori energetici, esso viceversa ebbe un impatto profondo in Pakistan e Afghanistan. E' qui che esso fu destinato a lasciare segni profondi.
Come si è detto, l'Arabia Saudita agì o direttamente o indirettamente.
E, come si è anche cercato di spiegare, l'operazione afgana nacque nel più ampio quadro delle strategie centroasiatiche, come una delle pedine - al momento sembrò "la" pedina più importante, escluso nel 1995 l'Uzbekistan - da giocare sia in funzione delle possibili vie di transito delle ricchezze energetiche centroasiatiche, sia come fattore la cui stabilizzazione e controllo politico-militare avrebbe contribuito a "contenere" l'incognita russa e controllare a sua volta tutto l'anello centroasiatico con proiezioni verso l'Iran e il Caucaso/Mar Caspio.
E come si è infine anche detto, quando l'Arabia Saudita si mosse per vie indirette, essa si appoggiò ai Paesi e alle Organizzazioni locali, più vicini alle repubbliche ex-sovietiche e - si riteneva - più sensibili all'ambiente sociale e culturale centroasiatico.
Furono così messi in moto tutta una serie di meccanismi che - se funzionali nel breve tempo - nel medio termine sembrano usciti di controllo: è quel fattore "Islam", di cui è stato a lungo discusso in altre sedi; è quell'elemento del substrato culturale che può avere in determinate contingenze una presa emotiva imprevedibile e suscitare ondate di emozioni e fanatismi militanti facilmente manipolabili da poche menti logiche e razionali.
Agli inizi degli anni ‘90, Riyadh decise così di sostenere anche organizzazioni e movimenti radicali in Pakistan, fra questi la Jami‘at-i ‘Ulema'-i Islami, di maulana Fazlur Rahman, e altri movimenti legati a interpretazioni dogmatiche e radicali dei principi sciaraitici, i cui legami transfrontalieri e appoggiati a madrasah e tariqa, forti dei rapporti personali ed esclusivi fra "maestro" e "discepoli", avrebbero potuto consentire proiezioni di forza extraterritoriali (17) . Il risultato di questa operazione fu - appunto - l'esplosione del movimento dei Taliban, il cui obiettivo finale era quello di instaurare in Afghanistan un regime islamico sunnita forte, in grado di riunificare militarmente e politicamente il paese, legato alle forze del Golfo.
Nel 1996-1997 questo piano sembrava ormai compiuto.


Senonché, i giochi non andarono così. E Washington dovette ancora una volta ri-elaborare la propria dottrina strategica per l'Asia (18) .
Nel 1995, gli Stati Uniti - preoccupati dall'Uzbekistan e da alcune specificità del paese - ponevano delle restrizioni e sanzioni a questa repubblica. Viceversa, nel gioco del potere entravano ufficialmente la droga e il narcotraffico.
Tehran - anziché rivelarsi un elemento di destabilizzazione nella regione - dava prova di agire con cautela, a basso profilo, e con strategie che denotavano come le proprie priorità risiedessero decisamente nel Golfo (19) . Il Tajikistan - paese persofono ma rigorosamente sunnita - non sembrava apprezzare oltre un certo limite le avances della Repubblica Islamica dell'Iran, e aveva ben altri interessi, priorità e obiettivi molto più contingenti. Quanto a Mosca, non sembrava volere sciogliere i propri legami politici ed economici con le sue ex-colonie centroasiatiche, e neppure quelli militari. La mancanza di "eserciti nazionali" locali e - di contro - la presenza soprattutto militare della ex-Armata Rossa - per lo meno nel breve-medio termine - erano gli elementi reali su cui poteva poggiare la stabilità regionale e sicurezza collettiva. L'esportazione di un Islam radicale e militante costituiva un pericolo altrettanto reale, una minaccia diretta a questa già precaria stabilità.
A partire dal 1994 circa, ossia dalla caduta di Kabul e Herat, Mosca e Tehran cominciarono ad agire nel centroasiatico con una certa sinergia di azione.
Il leit motiv era ovviamente fornito da ostilità nei confronti: 1) dell'espansione (diretta e indiretta) dell'influenza statunitense nella regione; 2) del fattore "Islam".
Le strategie poste in essere da entrambi i paesi si prefissero pertanto come obiettivi prioritari:
- frenare l'espansione di movimenti militanti islamici di matrice sunnita in Afghanistan e in Pakistan;
- la lotta al traffico di droga, minaccia alla stabilità di tutta la regione, pericoloso elemento di corruzione delle forze di sicurezza e delle amministrazioni periferiche, e sempre più impiegato come fonte di finanziamento per movimenti di opposizione.
La coltivazione, lavorazione e traffico di droga genera fortissimi guadagni, immediati e diffusi anche capillarmente fra la popolazione, sia per i paesi produttori sia per i paesi "raffinatori" sia per i paesi di transito. Le conseguenze sociali e politiche di questo lucroso commercio sono enormi, e, in determinate circostanze, possono essere anche molto gravi. Oltre a generare ricchezza, dal traffico di droga deriva anche un immediato aumento del tasso di criminalità e una radicalizzazione della violenza, facile corruzione di interi settori dell'apparato statuale, deterioramento dell'immagine del paese, un proliferare incontrollato di armi e un altrettanto incontrollato proliferare di "movimenti" che possono trarre facile sostegno finanziario da "quella" ricchezza. E inoltre, sul piano del sociale, la diffusione della droga fra la popolazione può portare a vere e proprie "epidemie" se non addirittura a genocidi.
Non vi è dubbio che si tratta di fenomeni meno immediati dei vantaggi finanziari e, rispetto ad essi, meno percepibili nel breve termine. Tuttavia, sono fenomeni di estrema gravità sociale e politica, i quali possono incidere profondamente sulla stabilità di un paese e/o di una intiera regione.
E' fatto risaputo e comprovato che il regime Taliban e le autorità civili e militari periferiche pakistane erano largamente implicate in questo lucroso traffico (20) . Ne conseguì che il regime Taliban - anziché lasciarsi condizionare politicamente dalle ricchezze del Golfo - fu in grado di auto-finanziare la propria guerra e il proprio potere. Non solo; ma come si dirà nel paragrafo che segue, seppe ben finalizzare la propria ricchezza per condizionare a sua volta strategie e vita politica di molti paesi, incluso il Golfo e le sue regioni adiacenti e gravitanti, inclusa soprattutto l'Arabia Saudita.
Dal canto suo, l'Iran - letteralmente invaso dalla droga in transito a causa della porosità delle frontiere orientali - cominciò a battersi quasi subito contro il traffico di droga, e, pare, con discreti risultati, al punto da ottenere il riconoscimento delle Nazioni Unite e della DEA.
Più complessa è la situazione centroasiatica. L'Uzbekistan - che negli anni ‘90 sembrava avere tollerato la produzione e il traffico di stupefacenti - visti i danni sociali e i ricaschi negativi sulla stabilità stessa del paese, si è impegnato attivamente a combatterne sia la produzione che il transito a partire dal 1994 circa (21) . Si tratta di una politica di repressione, che non sembra avere influenzato gli altri stati centroasiatici, in particolare il Turkmenistan, il Tajikistan e il Kirghisistan.
Per il Pakistan, come si è detto sopra, il discorso è più complesso, a causa della pluralità dei centri decisionali che erano con-presenti nel paese prima della presa di potere da parte del generale Musharraf. Non vi è dubbio che Nawaz Sharif fosse largamente implicato nel business; sembra tuttavia che il nuovo Chief Executive abbia preso delle misure più efficaci e meno di "immagine" rispetto ai propri predecessori (22) . Quanto ai risultati, questi non possono certo essere visibili nel breve termine; tuttavia - come si è detto in apertura - sembra che qualcosa cominci a cambiare e ad evolvere.
Resta il fatto che uno degli sbocchi della via della droga era proprio l'Oceano Indiano, o attraverso i porti pakistani o quelli iraniani. I dati ufficiali informano altresì che la preziosa merce - risalendo il Golfo o percorrendo le antiche carovaniere hijiazene - si incanalava quindi verso le coste libanesi.
è anche molto verosimile che di questi movimenti il regime saudita fosse consapevole. Quanto meno, contribuisce a spiegare su terreno molto pragmatico il pronto riconoscimento del regime Taliban aldilà dei legami di religione e ideologici.
Da forza virtualmente condizionante, l'Arabia Saudita - e in misura minore gli Emirati Arabi Uniti - divennero realtà del tutto condizionate. Se era conveniente per i Taliban un qualche riconoscimento a livello internazionale dell'esistenza di un regime che - de facto - già governava, e si era strutturato statualmente su oltre il 90% del territorio nazionale, in realtà questi signori non erano disposti a pagare prezzi che superassero o ignorassero i loro interessi.
E così si arrivò a una situazione di stallo; i negoziati e le mediazioni operate a livello internazionale o nell'ambito di fori multilaterali regionali si incagliavano su concettualità come "loya girga", democrazia e rappresentatività, diritti umani e diritti delle donne e dei bambini. Il termine "narco-traffico" e l'ammissione dell'esistenza di fatto di un vero e proprio "narco-governo" erano appena sussurrati. Il concetto di "criminalità" veniva riempito di contenuti spesso impropri, mentre le cosiddette "connessioni arabo-afgane" venivano universalmente criminalizzate - ma non arrestate.


A partire dagli anni 1995-1996, analisti e specialisti cominciarono a ri-studiare il termine-concetto "terrorismo", e i nuovi rischi e le minacce che esso poteva implicare dopo la fine della guerra fredda come strumento di pressione, deterrenza psicologica, destabilizzazione di un regime o di una intera regione. E così, si arrivò a riformulare interamente il fenomeno sia sul piano ideologico che su quello tattico-operativo e strategico globale. Esso veniva acquistando nuove valenze in rapporto ai balzi in avanti dell'informatica e di tecnologie varie, acquistava consistenza nuova, si ammantava di un ideologico nuovo e antico al tempo stesso, ma sempre molto reale. Mano a mano che la sicurezza diveniva inevitabilmente sempre più un bene collettivo, la sinergia di analisi e azione consentiva di dare corpo e spazio tutt'altro che virtuali alle connessioni internazionali. Anche questo entrava nell'economia della globalizzazione (23) .
Tornando alla realtà del Golfo, non si può dire che la propaganda saudita in Asia centrale abbia avuto risultati eclatanti. Di fatto, non vi era una esportazione di islam sciita militante da arrestare, né sussisteva un terreno particolarmente fertile alla propaganda del hanbalismo di matrice saudita. L'unica realtà assai ben accetta e calorosamente accolta furono gli sperati aiuti finanziari e joint ventures nel settore energetico. Ma anche queste non si realizzarono.
Quando l'operazione Taliban sembrò quindi conclusa, cominciarono a manifestarsi apertamente i lati negativi della medesima.
La propaganda saudita non ebbe risonanza fra le masse - si è detto sopra; essa però trovò terreno fertile fra alcuni movimenti di opposizione islamica, e fra i gruppi islamico-radicali attivi soprattutto nella vallata del Ferghana (una delle "nicchie" più significative dell'Islam centroasiatico, ma anche, per sua stessa configurazione geomorfologica e posizione geopolitica, una delle principali vie di transito della droga).
Gruppi cosiddetti "neo-wahhabiti" si diffusero rapidamente in Tajikistan e questa ex-repubblica sovietica precipitò in una spirale di vera e propria violenza e guerra civile malamente (e con crescente affanno) tenuta sotto controllo dalle basi militari e dai corpi di frontiera russi costà ancora di stanza. La diffusione di questi movimenti - come si è accennato sopra, caratterizzati dalla "personalità" del rapporto e dalla loro transfrontalierità - fu rapida: dal Tajikistan all'Uzbekistan, essi si estesero anche alle Repubbliche autonome del Daghestan e di Cecenia all'interno della federazione Russa (24) .
La loro diffusione contribuì a radicalizzare le richieste e i comportamenti del maggior movimento politico presente e dichiaratamente ispirato all'Islam, ossia il Partito della Rinascita Islamico. Questo fu immediatamente messo al bando dalle cinque repubbliche centroasiatiche. Il Partito della Rinascita Islamico era di matrice sunnita, fortemente ostile a ogni forma di credo popolare, considerato spurio e da combattere in nome della ortodossia e del rigorismo islamico più intransigenti. Anche l'Islam ufficiale - quello cioè appoggiato dagli establishments al governo - era considerato da combattere, in quanto corrotto e compromesso con il precedente regime sovietico. All'interno della regione, si verificò pertanto una duplice reazione:
1. da un lato, i rappresentanti dell'Islam ufficiale - fra questi in primis il Gran Mufti di Tashkent - si considerarono direttamente minacciati; di conseguenza fu iniziata una dura lotta contro questo "Islam parallelo", contrastando con la repressione anche più dura ogni movimento radicale;
2. dall'altro, le altre manifestazioni dell'Islam popolare più moderato, raccolte intorno alle confraternite, cominciarono di loro spontanea volontà a organizzarsi e a porre un freno alla diffusione di questi movimenti "neo-wahhabiti". L'opposizione al neo-wahhabismo si coagulò infine intorno alla confraternita regionale più potente, la Naqshbandiyyah, il cui cuore religioso è in Uzbekistan, vicino alla città di Bukhara, con diramazioni in tutta la regione centroasiatica e oltre, fino alle regioni caspiche e alla Cecenia stessa.
Ne deriva quello che può sembrare un paradosso. A partire dagli anni 1996-1997, l'Arabia Saudita divenne il principale sostegno di gruppi e movimenti dalle connotazioni sempre più evidenti di "opposizione" e "alternanza" al potere. La loro messa al bando da parte dei governi ufficiali, anziché eliminarli finì con l'attizzarne la militanza e favorirne - anche sul piano ideologico - lo scivolamento verso azioni violente. I contatti con i Taliban e i guerriglieri del Kashmir, i finanziamenti e l'addestramento che ricevevano da parte di gruppi ex-mujaheddin (e qui si entra nelle connessioni arabo-afgane) misero in piedi tutta la intricata rete dei gruppi di jihad, con azioni internazionali.
Il Partito della Rinascita Islamico si articolò così in una pluralità di movimenti ancora più radicali.
In Uzbekistan e Tajikistan - alla fine degli anni ‘90 - aveva attecchito il "Partito della Liberazione" (Hizb-e Tehrir), un partito a tinte radicali, violentemente anti-sciita, il cui obiettivo finale era quello di rovesciare i regimi al potere in tutta l'Asia centrale e creare un grande stato islamico unificato (25) . In Uzbekistan agiva anche il "Movimento Islamico", una sorta di milizia anti-governativa, addestrata in Afghanistan (26) . I leaders di entrambi questi movimenti hanno dichiarato apertamente i propri legami con l'Arabia Saudita e con studiosi sauditi di shari‘a, che si erano recati in Asia centrale dopo il 1991. Su posizioni analoghe è un movimento - apparso in questo ultimo scorcio degli anni ‘90 - denominato "Truppe Islamiche" (Islam Lashkarlari). Si tratta di vere e proprie milizie combattenti, addestrate militarmente da gruppi di guerriglieri afgani e indottrinate da religiosi "neo-wahhabiti" (27) .
Non vi è dubbio che il proliferare di militanze islamiche con legami - conclamati o attribuiti - con l'Arabia Saudita ha finito con l'esporre Riyadh forse oltre gli stessi suoi desideri. I legami di questi movimenti con il terrorismo internazionale sono comprovati (il più celebre di tutti è il ricco principe saudita Mohammad ben Laden, ospite del regime Taliban); si tratta di connessioni che - oltre a offuscare l'immagine degli Al Saud - hanno messo in un certo imbarazzo il grande alleato di Riyadh, ossia gli Stati Uniti. Non solo; paradossalmente, lo stesso governo saudita ha sperimentato direttamente come queste militanze, in continuo movimento, siano sempre più difficili a controllarsi allorché è stato vittima di attentati all'interno del territorio nazionale (i ben noti fatti del 1996). E nel contempo, sul suo stesso territorio si venivano costituendo e organizzando nuovi gruppi di militanza ideologica - rampollati dalle dottrine hanbalite, ossia quelli della Salafiyyah - che avrebbero concorso a mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente nel 2000 e oltre. Riyadh si è trovato nella paradossale situazione di avere finanziato e contribuito all'addestramento di gruppi, che ora si rivoltano contro gli stessi finanziatori e addestratori.
Per concludere, queste ultime vicende - unite al contesto internazionale e regionale - hanno portato a una profonda revisione delle strategie di sicurezza e del concetto stesso di sicurezza. Il riavvicinamento saudita con l'Iran, il parziale sganciamento degli Stati Uniti da tutta l'operazione Taliban e relativo sostegno, l'ostilità di alcune repubbliche centroasiatiche, il tramonto della "prospettiva turca" di penetrazione in Asia centrale e dei relativi comuni progetti d'azione, l'abbandono dei grandi programmi infrastrutturali sponsorizzati da Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita hanno contribuito a suggerire a Riyadh una politica più moderata e attenta. Ne è conseguita in parallelo una brusca sterzata anche di politica interna, con una radicale riorganizzazione strutturale e sistemica del paese, la quale ha "aperto i ranghi" alla cooptazione a posti di responsabilità di elementi hijazeni soprattutto, e di talune opposizioni.
Per tornare a quanto premesso, è quindi possibile ipotizzare che l'"affanno" di Riyadh da un lato, e il venir meno degli aiuti sostanziali sauditi dall'altro, abbiano avuto un loro peso anche nell'ammorbidire certe intransigenze. Certamente i primi palesi cedimenti strutturali del regime Taliban e le aperture di questi a dialogo e intese bilaterali hanno aperto uno spiraglio. In questo spiraglio sembra essere entrato il generale Parviz Musharraf.


(1) Il Ministro della Difesa Russo, Igor Sergeyev, si trovava a Dushanbeh per una riunione dei Ministri della Difesa del Commonwealth of Independent States.
(2) Tutta la stampa pakistana risuona di dichiarazioni consimili. Si vedano nella fattispecie i numeri degli ultimi dieci giorni di ottobre 2000 del The Finance - An Independent Daily New; The International News; The Nation; The Frontier Post - National Daily published from Peshawar; Dawn. Le testate riportano dichiarazioni dall'una e dall'altra parte, corredando gli eventi con scenari e articoli di commento.
(3) E' questo uno dei temi favoriti della diplomazia iraniana, sia ufficiale che ufficiosa. Kharrazi, a Dushanbeh, ha ribadito ancora una volta che l'unica soluzione alla crisi afgana non è la conquista di uno o altro lembo di territorio allorché restano i problemi di fondo. L'unica soluzione sarebbe che le due parti sedessero insieme al tavolo dei negoziati e costituissero un governo di coalizione (la famosa Loya Girga) che rappresentasse tutti gli interessi e i gruppi sociali presenti nel Paese senza distinzione di fattori etnici, religiosi o politici. Cfr. anche The International News, 26 ottobre 2000.
(4) Si vedano in particolare le dichiarazioni rilasciate dai vari protagonisti. Per cui si veda la nota 5. Cfr. anche P.B. Sinha, Islamic Militancy and Separatism in Xinjiang, "Strategic Analysis", XX – June 1997, n. 3.
(5) Si vedano in particolare le dichiarazioni delle due parti in "The Finance", 25 ottobre 2000, e i comunicati ufficiali dell'IRNA in data 24 ottobre 2000.
(6) Estremisti e terroristi islamici provenienti da territorio afgano sono stati causa di gravi preoccupazioni in Cina. Nel 1992, 22 persone rimasero uccise a Baren nel Xinjiang a seguito di una insurrezione islamica. Subito dopo la Cina chiuse ogni comunicazione con il Pakistan per diversi mesi. Benché Cina e Pakistan siano paesi amici e alleati, l'addestramento di militanze islamiche in territorio afgano non ha mancato di irritare Pechino, creando incrinature nelle relazioni fra i due paesi. Cfr. P.B. Sinha, Islamic terrorism, op. cit.
(7) Sull'argomento "Pakistan" sono di particolare interesse tre recentissimi articoli, ovviamente di parte, ma non per questo meno significativi delle diverse posizioni delle parti in gioco. Cfr. Hasan-Askari Rizvi, Pakistan in 1999 - Back to Square One, in "Asian Survey", XL,1, pp. 208-218 (l'A. - professore nel Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università del Punjab, Lahore - fa un'acuta analisi del colpo di stato del 12 ottobre 2000 - "the coup was the army's institutional response to what the senior commanders perceived as a deliberate attempt by the civilian government to undermine its professional and corporate interests", sottolineando la difficile situazione interna e internazionale del Pakistan e del nuovo regime, imbrigliato e pesantemente condizionato da scelte precedenti); Bidanda M. Chengappa, The ISI Role in Pakistan's Politics, Paper presentato all'IDSA il 18 dicembre 1999 e pubblicato in "Strategic Analysis", XXIII, 11, feb. 2000 op. cit.; O.N. Mehrotra, Madarsa in Pakistan, op. cit.
(8) V.F. Piacentini, Asia Centrale: verso un sistema cooperativo di sicurezza, Fr. Angeli - Milano 2000, p. 197 sgg. Si veda anche nota precedente.
(9) La Russia non ha mai smesso di accusare il Pakistan di addestrare terroristi e di inviare mercenari in Cecenia e Daghestan. Si vedano sull'argomento gli articoli dei due quotidiani The Indian Express, 5 gennaio 1995; The Hindu, 13 agosto 1999.
(10) Si veda sopra, nota 3.
(11) Circa la Jami‘at-i-‘Ulema'-i Islam e altri gruppi radicali islamici, vedi avanti § 2. e specie. nota 17.
(12) Nonostante la rigidità di taluni atteggiamenti da entrambe le parti, le diffidenze reciproche, e il ripetersi di incidenti, tuttavia il lessico politico soprattutto di Islamabad lascia intravedere una moderazione che non aveva finora precedenti, e si può interpretare come una disponibilità e apertura per una ripresa di colloqui e negoziati tripartiti (Pakistan, India e Resistenza Kashmira) sulla base della Risoluzione dell'ONU. E' indicativo in questa direzione il linguaggio di compromesso del Ministro degli Esteri pakistano, Abdul Sattar, e di altri alti funzionari di Islamabad (ultima decade di ottobre 2000). Dal canto suo, l'India - pur continuando ad accusare il Pakistan di esportare attraverso il Kashmir radicalismo islamico e terrorismo - non perde mai occasione per auspicare che gli sforzi per una soluzione pacifica della crisi kashmira possano arrivare a buon fine. Ciò non impedisce all'India di fornire consistenti aiuti in mezzi (elicotteri) e uomini alla Coalizione del Nord.
(13) Fazle Rahim Marwat, Pakistan's Strategic Role in the Afghan Crisis, "Journal of the Pakistan Study Centre", University of Peshawar – Spring-Autumn 1993, nn. 27-28; Abdul Sattar, Afghanistan: Past, Present and Future. From Jahad to Civil War, The Institute of Regional Studies, Islamabad 1997. Il primo A. fornisce un'analisi di parte sui principali motivi e interessi che hanno indotto il Pakistan a intervenire in Afghanistan. Abdul Sattar è Ministro degli Esteri nell'attuale gabinetto federale di Parviz Musharraf; nel suo studio, considerato un "classico" sull'argomento, dà un'analisi molto realistica e documentata delle implicazioni, degli interessi e priorità che l'Afghanistan riveste per il Pakistan, e conclude con un'esamina disincantata della spirale di violenza in cui si è lasciato coinvolgere con l'affare afgano.
(14) Si veda V. Piacentini, La disintegrazione dell'impero sovietico, Ce.Mi.S.S., Rivista Militare, 1995.
(15) Nella primavera del 1992, ad esempio, l'Arabia Saudita fornì ben 400.000 Corani tradotti in lingua kazaka e traslitterati secondo i fonemi dell'alfabeto cirillico, da distribuire gratuitamente in Kazakistan. V. M. Brill Olcott, Central Asia's catapult to independence, "Foreign Affairs", Summer 1992, p. 126.
(16) V.F. Piacentini, Islam: Iranian and Saudi Arabian Competition in Central Asia, in C.E. Davis (ed.), pp. 41-42.
(17) La Jami‘at-i ‘Ulema'-i Islam è un movimento che si costituì in Pakistan nel lontano 1948, ma che in pratica non giocò alcun ruolo politico attivo fino alla fine degli anni "60, allorché fu utilizzata da Ayyub Khan per rafforzare il consenso popolare attorno alle forze militari andate al potere con un colpo di stato. Dopo la morte di Zia ul-Haqq nel 1988, andato anch'egli al potere con un colpo di stato nel 1977, la JUI è entrata nella vita politica partecipando attivamente alle elezioni generali. Sotto la guida del suo leader attuale, maulana Fazlur Rahman, questo partito è portatore di una completa re-islamizzazione della società pakistana; pur professando un Islam radicale e dogmatico, precedentemente si era schierato con il governo di Benazir Bhutto (1992-1996), nonostante le evidenti differenziazioni ideologiche e in materia religiosa. Con la caduta della Bhutto, Fazlur Rahman si è avvicinato alla Lega Islamica (o Jami'at-i Islam), aumentando nel contempo i propri sostenitori all'interno delle Forze Armate e dei servizi segreti militari inter-forze. La JUI si presenta come un partito di massa, ordinato intorno al suo leader - di cui viene riconosciuta autorità e carisma -ben strutturato al suo interno; raccoglie l'adesione delle fasce popolari del paese, e costituisce l'indispensabile base di chi governa; è carente per quanto riguarda quadri tecnici e professionali.
(18) Sulle diverse formulazioni statunitensi di una dottrina strategica per l'Asia, si veda ancora una volta V.F. Piacentini, Asia Centrale: verso un sistema collettivo di sicurezza, op. cit..
(19) Si veda, nello specifico, V. Piacentini, Asia centrale: verso un sistema collettivo di sicurezza, op. cit..
(20) Preciso e puntuale è lo studio di J. Goodhand, From holy war to opium war? A case study of the opium economy in North Eastern Afghanistan, "Central Asian Survey", XIX (2000), n. 2. Si veda anche The Illicit Opiate Industry of Pakistan, UNDCP, Islamabad, February, 1994; A. Rashid, Back with a veneange: Proxy War in Afghanistan, "The World Today", 1996, n. 3; The Taliban Quietly Ignores Some Big Sinners: Opium-Poppy Growers, "International Herald Tribune", 12.5.1997. Non mancano dati e statistiche ufficiali forniti dalle istituzioni di controllo internazionali e dalla DEA.
(21) Central Asia's narcotic industry. The new "Golden Triangle", IISS - Strategic Comments", III (1997), n. 5; Irina Adinayeva, Regional and International Context: "Bad Neighbours, Bad Neighborhood", in V. Piacentini (a cura di), Asia Centrale, op. cit., pp. 183-196.
(22) Si vedano in merito i commenti di H.A. Rizvi, Pakistan in 1999. Back to Square One, "Asian Survey", XL (2000), n. 1; e di M.A. Rubin, Afghanistan: As Bad as its Reputation?, "Middle East Quarterly" - September 2000, pp. 55-65 (l'A. E' Soref Fellow al Washington Institute for Near East Policy).
(23) Si veda gli stimolanti studi di Farzana Noshab, Globalization: Opportunities and Challanges for Pakistan's Economy, "Strategic Studies", Islamabad, 2000, pp. 68 sgg. (F. Noshab è Research Fellow all'Institute for Strategic Studies di Islamabad), e di C.Jean, Global Economy and Corruption cit. Il primo riflette la situazione contingente regionale; il secondo offre degli spunti a riflessioni più "globali".
(24) E' proprio in Cecenia che sembra che la dottrina neo-wahhabita abbia riscosso i suoi maggiori successi, con la diffusione di un movimento i cui membri - guidati da un certo Amir Khattab, pare di origine saudita - si autodefiniscono musulmani della Jama‘ah. Il loro dogmatismo li ha portati a scontrarsi con la comunità sciita e con i seguaci delle confraternite tradizionali locali, definiti politeisti e idolatri. Le attività di questo gruppo sono uscite allo scoperto subito dopo il 1996 - anno in cui sono anche emersi rapporti fra militanti daghestani e guerriglieri ceceni. Attentamente "monitorati" da Mosca, con le loro turbolenze (spesso degenerate in veri e propri attacchi terroristici e di guerriglia) hanno contribuito a peggiorare le relazioni fra Mosca e Riyadh. Si veda A. Matveeva, The impact of instability in Chechenya on Daghestan, "Caspian Crossroads", III (1999), n. 3; R. Bruce - E. Kisriev, The Islamic factor in Daghestan, "Central Asian Survey", XIX (2000), n. 2. La Russia ha recentemente accusato formalmente il Pakistan di addestrare terroristi islamici e di inviare mercenari a combattere in Cecenia e Daghestan - per cui si veda anche sopra e The Indian Express, 5 Jan. 1995 e The Hindu, 13 Aug. 1999.
(25) Lo Hizb-e Tehrir postula addirittura la restaurazione dell'istituto califfale. Le sue connotazioni ne fanno un movimento di "jihad" e fa appello alle tematiche tradizionali di "jahiliyyah" e "kufra" per giustificare azioni eversive. Si veda in merito A. Rashid, Confrontation Brews among Islamic Militants in Central Asia, "Central Asia Caucasus Analyst", bi-weekly briefing, 22 Nov. 2000.
(26) Il Movimento Islamico è anch'esso un movimento di jihad, il quale ricorre al terrorismo per il conseguimento dei propri obiettivi eversivi. A questo sono stati addebitati alcuni attentati contro il Presidente dell'Uzbekistan, Karimov. Fra gli obiettivi del Movimento Islamico vi sono anche le comunità islamiche non sunnite.
(27) Documentata analisi dei legami fra opposizione e gruppi di militanza eversiva in Asia centrale, Afghanistan e Arabia Saudita è lo studio di P. Akçali, Islam as a "common bond" in Central Asia: Islamic Renaissance Party and the Afghan mujaheddin, "Central Asian Survey", III (1997), n. 5. Cfr. anche O.N. Mehrotra, Madarsa in Pakistan, op. cit., specie pp. 1880 sgg.


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