L'interessante libro di Furio Colombo, edito nel 1999 per la collana "I Libri di Reset", costituisce una breve raccolta di articoli del noto scrittore e giornalista, attualmente direttore del quotidiano "L'Unità", pubblicati in buona parte dal quotidiano "La Repubblica" nell'arco di tempo che va dal marzo all'agosto 1999, durante l'intervento NATO in Kosovo.
L'evento bellico in occasione del quale questi brevi commenti sono stati scritti ha costituito un punto di partenza per alcune riflessioni concernenti argomenti di carattere generale relativi alla comunicazione, ai suoi strumenti, al ruolo del giornalismo di guerra, ai concetti stessi di guerra, di pace, di intervento "umanitario". In particolare, l'Autore analizza, anche sulla base della vasta esperienza personale maturata durante la lunga attività all'estero, quella che è stata definita la "gestione mediatica" della guerra in Kosovo, che ha rappresentato, a suo avviso, un'ottima occasione di riscatto per il giornalismo italiano. Colombo muove infatti dalla considerazione di una negativa tendenza del sistema di informazione italiano, compresa la carta stampata. Quella cioè di assumere, tale è il suo punto di vista, un atteggiamento eccessivamente aderente e contiguo al sistema politico, nel senso di appiattimento alle "dichiarazioni ufficiali", alle opinioni diffuse dal "palazzo", al di fuori del circolo virtuoso di comunicazione delle notizie all'opinione pubblica in forma autonoma e diretta. Tale tendenza, secondo Colombo, sarebbe venuta meno proprio in occasione della guerra del Kosovo. Il mondo politico ed istituzionale italiano, infatti, rispetto alla questione dell'intervento NATO, non sarebbe stato in grado di trasmettere all'opinione pubblica il senso di quel che stava accadendo dal punto di vista politico e militare. Ad eccezione di alcuni momenti specifici, l'"establishment" si sarebbe mostrato incerto e diviso al suo interno e, pertanto, sostanzialmente incapace di indirizzare i mass media e l'opinione pubblica. Ciò avrebbe "costretto" il mondo dell'informazione a riappropriarsi dei propri spazi di autonomia. "Ai giornalisti torna la competenza di dire quello che vedono e quello che sanno, senza correre dietro alle fonti ufficiali". Si sarebbe tornati a quel "giornalismo di guerra" che trova autorevoli rappresentanti in molti giornalisti americani che hanno vissuto l'esperienza di corrispondenti dal fronte nella guerra del Vietnam durante la quale, secondo l'Autore, questi descrivevano i fatti dalla parte dei soldati, dal punto di vista di coloro che si trovavano sul campo, e non sulla base dei comunicati ufficiali dei comandi militari. In un certo senso, dice Colombo, la guerra del Kosovo avrebbe fornito al giornalismo italiano l'occasione di vivere uno dei suoi momenti migliori per autonomia e libertà "da quando la libera stampa è tornata in Italia".
D'altro canto, l'evento bellico in Kosovo ha rappresentato, secondo l'Autore, una caso tutto particolare nell'ambito della comunicazione mediatica, che merita una riflessione a parte. L'elemento che viene in particolare sottolineato è quello relativo ad una sostanziale "assenza" di un comune punto di vista, basato su dati e informazioni. O meglio, avremmo assistito al formarsi di due fronti contrapposti. Da una parte, quello costituito dalle notizie fornite alla stampa dal quartier generale della NATO "più simili a grandi comunicazioni aziendali che a bollettini di guerra", dall'altro il regime di Milosevic che, viceversa, sostanzialmente taceva persino sulle cifre reali dei propri caduti, fatto alquanto singolare per un Paese che ha sostenuto di fronte all'opinione pubblica internazionale il ruolo di "vittima" di un'aggressione.
Da questi elementi, dunque, una riflessione più generale sul sistema di diffusione delle notizie, soprattutto attraverso Internet, che presenta, come sua peculiarità, quella di "... essere vicina a chi parla e disinteressata a chi ascolta o legge". La Rete, assunta a simbolo della realizzazione del villaggio globale di MacLuhan, sarebbe diventata mero luogo di affermazione del proprio parziale punto di vista: la parola priva di filtri e di possibilità di confutazione o l'immagine senza commento, stile CNN. Sistema questo che finisce, nel contesto bellico, per mostrare tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti: tante notizie, anche faziose, nessuna possibilità di distinguere e sapere realmente, se non, come si è detto, attraverso le parole di chi si trova sul posto.
Infine, una profonda riflessione su ciò che nel mondo occidentale può intendersi per cultura di pace: "La cultura della pace ha il pieno diritto di affermare che la guerra, come strumento risolutivo, non è necessario. Ma ha il ragionevole dovere di sapere e di insegnare che la pace comincia prima". Chi sostiene la pace, riflette Colombo, finisce per farlo nel momento sbagliato, cioè troppo tardi, quando questa è già venuta meno, e con strumenti inadeguati e altrettanto aggressivi, quando non fortemente ideologizzati, di quelli utilizzati a sostegno della guerra.
La pace come valore deve avere radici profonde nel comune sentire di una società, deve essere un sentimento maturo perché coltivato nel tempo, oggetto di conoscenza reale dei fatti e di consapevolezza di situazioni anche complesse in cui non è facile distinguere e separare nettamente i "buoni" dai "cattivi".
E si ritorna così, in un cerchio che si chiude, all'importanza della comunicazione, dell'informazione da parte dei governi nazionali, delle istituzioni internazionali, del giornalismo nel suo complesso, verso un'opinione pubblica che va indirizzata adeguatamente per ottenerne il consenso democratico.
Ecco che oggi, come osserva Umberto Eco nell'articolo che chiude il libro, siamo in presenza di un nuovo tipo di guerra. In passato lo scopo della "paleo-guerra" era annientare il nemico per vincere. Nei tempi moderni, almeno in Occidente, il nemico va sconfitto registrando il minor numero di perdite possibile. L'opinione pubblica occidentale non è infatti più disponibile ad accettare la sofferenza né vuole vederla. Forse, come dice Eco, "l'industria del superfluo ha bisogno di pace" e la speranza per un futuro di pace risiede, paradossalmente, più nell'avidità dell'uomo che nell'affermazione di principi e valori umani universali.
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