GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
Per Aspera Ad Veritatem n.2
Rischio sociale e sicurezza nazionale: il radicalismo islamico. Analisi della sua origine, teorizzazioni e possibili riflessi sulla sicurezza nazionale

R. Valery ROVER




Il 20 settembre 1955, presso il Centro di Cultura e Civiltà della Fondazione Giorgio Cini nell'isola di S. Giorgio Maggiore a Venezia, ebbe luogo un incontro fra uomini di cultura di matrice occidentale sul tema "Il processo alla civiltà occidentale da parte dell'Islam". Il tema era volutamente provocatorio, e l'incontro di Venezia sarà il primo di una lunga serie di incontri analoghi, nel corso dei quali saranno esaminati i rapporti fra cultura e civiltà islamiche e cultura e civiltà occidentali. Questo incontro ha aperto formalmente un dibattito particolarmente animato, e una nuova fase di ripensamento e di produzione storica e storiografica da ambo le parti. Molti scritti e molti fatti ne sono seguiti; sul piano ideologico non si è trattato sempre di un'analisi obiettiva e distaccata; anzi, spesso essa è stata fin troppo passionale nei giudizi, e irruenta e violenta nelle conseguenze pratiche.
E così, nel Secondo Dopoguerra, mentre l'Islam (ri-)prendeva piena coscienza di sé stesso, prendeva atto del fatto coloniale e della sua innegabile violenza, e invocava con scritti e con atti la fine di quel lungo e travagliato processo di decolonizzazione (ri-definito come "neocolonialismo), l'Occidente (ri-)prendeva a sua volta coscienza piena dell'Islam, si interrogava sulle proprie responsabilità-colpe-fardelli, e veniva proponendo etichette per designare questo nuovo fenomeno islamico, senza tuttavia interrogarsi a fondo sulla adeguatezza di queste sue definizioni ("Integrismo" - "integralismo" "Fondamentalismo" "Radicalismo" e oggi - forse la peggiore - "islamismo") e sui reali contenuti dei diversi movimenti speculativi e ideologici che così venivano etichettati.
Ma, come si è detto, soltanto in epoca relativamente recente l'occidente e alcune élites islamiche, soprattutto gli establishments di quei paesi che si autodefiniscono islamici - si sono posti davanti a una seria riflessione e valutazione delle origini e delle caratteristiche di questo tipo di movimenti. Si tratta di una riflessione che è stata un po' il risultato (I) del fallimento della decolonizzazione-modernizzazione; (II) della necessità di prendere atto della "opzione islamica" come la più favorita e la più favorevole fra quelle che si presentano per colmare un innegabile vuoto ideologico lasciato dalla disintegrazione dell'Impero Ottomano prima (nel bacino Mediterraneo) e dal fallimento di quel processo più o meno indolore di ecolonizzazione-modernizzazione.
Soltanto ripercorrendo sine ira et studio questi ultimi decenni, ricercandone le radici storico-culturali, ripensadoli e valutandoli con distacco, è possibile delineare un quadro meno pessimistico e più obiettivo. Il primo passo a una siffatta analisi è rappresentato dalla puntualizzazione di una terminologia squisitamente occidentale a definizione di questi movimenti islamici più estremisti e militanti, una terminologia che - in ultima analisi - è risultata imprecisa, deviante per i contenuti che essa implica, e, cosa ancor più grave, del tutto fuorviante per chi è nella posizione di dover valutare e operare nella realtà.
Trovandosi a dover definire un fenomeno appartenente a un mondo poco conosciuto e che stava rapidamente guadagnando gli onori della cronaca, i mezzi di comunicazione occidentali sono ricorsi alla terminologia che essi meglio conoscevano. L'integralismo cattolico e il fondamentalismo protestante avevano alcuni punti di contatto con le teorie dell'Islam estremista e militante; e così i loro nomi finirono con l'essere fatalmente utilizzati per designare quei movimenti speculativi e dottrinali - e le loro rispettive scelte politiche e istituzionali - che continuavano ad agitare il mondo islamico (e l'Occidente di riflesso) sotto la pressione di forze diverse.
Oggi, il termine "fondamentalismo" prevale forse rispetto a quello di "integralismo"/"integrismo"; ciò tuttavia non riflette la sua maggiore aderenza alla realtà cui viene abbinato, e va addebitato molto più semplicemente alla preponderanza della lingua inglese nel settore delle comunicazioni. Gli specialisti sono fortemente contrari a entrambi i termini, i quali - nei loro contenuti specifici - risultano difficilmente esportabili dal contesto storico-culturale che li ha visti nascere a un contesto storico-culturale così profondamente diverso(1). La mancata storicizzazione delle sacre Scritture che caratterizza il fondamentalismo protestante, e il carattere totalizzante dell'integralismo cattolico non hanno assolutamente corrispondenza né con le posizioni dell'Islam ufficiale né con le posizioni dottrinali dell'Islam "radicale". Quanto infatti viene messo in discussione da questi movimenti islamici è - con il ritorno alle "origini" e alle "radici" dell'Islam - la possibilità che il religioso guidi e determini direttamente tutta la vita della società, in tutti i suoi aspetti: politico, economico, sociale (2).
Maggiore successo pare invece avere incontrato in Occidente il termine di "radicalismo". Esso appare abbastanza diffuso, anche fra gli specialisti; è comodo da usare, e appropriato quando designa il ripensamento che questi movimenti fanno dell'Islam: un ritorno alle "radici", rilette, ristudiate e riscoperte nella loro purezza e forza primitiva, nell'autentico e genuino messaggio del Profeta, scevro da tutte quelle interpretazioni e sovrastrutture, spesso devianti, accumulatesi nel corso dei secoli o per ignoranza o per malafede dei governanti e dei loro consiglieri.
Nello studio che segue ci si atterrà a questa definizione per designare quei movimenti islamici che danno una interpretazione rigidamente teocratica e conservatrice dell'Islam e dei suoi modelli-valori-princìpi politico-sociali-economici.
Si tratta di una digressione terminologica che non va affatto sottovalutata; non è un pezzo di virtuosismo fisiologico o lessicale. Essa intende porre l'accento su alcuni punti cruciali di un dibattito che sta coinvolgendo anche il mondo islamico, lacerandolo al suo interno in una pluralità di posizioni ideologico-speculative.
È infatti significativo - in questo contesto - il fatto che gli esponenti del radicalismo islamico abbiano adottato il nome di al-islamiyyûn (*) (letteralmente: "gli islamici", tradotto dalla maggior parte della cultura e pubblicistica francese come "les islamistes" o "les islamisants") al posto del molto più comune al-muslimûm (letteralmente: "i musulmani"); ciò sta a indicare e sottolineare l'importanza che essi attribuiscono all'aspetto istituzionale della religione. E qui è opportuna un'ulteriore precisazione: si può a ragione parlare di crisi all'interno dell'Islam; non è però affatto appropriato configurare questa crisi come una crisi di fede. Non sono i princìpi del credo né i precetti del culto (ossia la shari'ah, la Legge religiosa islamica) a essere messi in discussione; non è l'esistenza di Dio né la sua unicità ed essenza metafisica ed etica a essere messi in dubbio. È la religione intesa come sistema di vita, nella sua onnicomprensività, che viene rimessa in discussione perché deve ritrovare la giusta dimensione, deve riconquistare quegli spazi che indubbiamente il processo di decolonizzazione e modernizzazione le ha tolto a tutto vantaggio di un modello di vita e società ispirato a modelli occidentali. E la critica che il radicalismo islamico muove al modello di vita occidentale coinvolge con la stessa prepotenza e violenza sia il modello pluralistico-capitalista sia quello socialista-totalitario esportato a suo tempo dall'URSS. È l'Islam che deve ritrovare la "sua" forza e la "sua" vitalità, una propria identità "culturale" da opporre all'Occidente e a tutti i suoi modelli.
Ma proprio mentre l'Occidente si affanna a trovare etichette e definizioni per questi movimenti islamici, gli stessi "islamiyyûn" finiscono con rifarsi a termini occidentali per definire quanto sta accadendo al loro interno. E ciò dimostra quanto i conti con la modernità (e con l'Occidente) siano tutt'altro che chiusi. Anzi! Gli ultimi venti/trenta anni circa sembrano scandire un atto particolarmente drammatico - spesso violento e cruento - di un lungo confronto-scontro, che vede l'Islam impegnato sia contro l'Occidente sia al suo interno per emanciparsi da ogni influsso esterno in nome di una riappropriazione della propria identità culturale, del proprio modello, quello originario e delle radici nella sua forma più pura e più incontaminata. Di fatto però questa lotta non riesce ad eliminare completamente alcune forme e alcuni tratti tipici di quel mondo e di quella cultura che gli "islamiyyûn" dicono di volere spazzare via e che pure ha iniettato loro gli stimoli intellettuali del risveglio e le energie dell'azione.
È innegabile che oggi un numero sempre maggiore di musulmani è portato a guardare al proprio passato - o a quanto è sentito come tale - per potere fare una critica e un'analisi dei propri problemi e dei mali attuali, e, quindi, per potere pianificare un futuro "ideale" e migliore. Il problema sociale ed economico ha acquistato una centralità senza precedenti. Il politico ha recuperato dimensioni globali. Ma è anche innegabile che il passato cui questo mondo islamico si rifà è pur sempre un passato "rivisitato", visto con gli occhi dell'oggi e col sapere delle scienze dell'Occidente, forgiato con gli strumenti che la tecnologia dell'Occidente può mettere a disposizione. Nei circoli radicali dell'Egitto, dell'Iran, del Sudan e di altri paesi sta attualmente imponendosi un linguaggio nuovo, un "linguaggio politico islamico" che - a ben guardare - è però fortemente in debito con l'occidentalizzazione (non meno che con l'Islam profetico e delle origini) non solo nei termini e nelle definizioni ma anche nei contenuti (3). È un processo che affonda le sue radici nella stessa Rivoluzione Francese e che non è certamente ancora terminato. È una nuova fase di quel "riformismo" islamico, che ha dato vita, nel primo dopoguerra, ai primi due grandi movimenti radicali: la Jamâ'at-i Islâmî di Mawdûdî e la Associazione dei Fratelli Musulmani di el-Bannâ'.


Proprio nel secolo XIX matureranno nuove ideologie e correnti culturali che agiteranno, metteranno in crisi e trasformeranno l'intero sistema politico, istituzionale e sociale dell'Europa… e di tutte quelle popolazioni con cui il Vecchio Mondo intratterrà rapporti di varia natura: coloniali, commerciali e, lungo queste stesse vie, anche culturali. L'area Ottomana e quella islamica asiatica non saranno immuni né esenti da questi stimoli. E se da un lato il Grande Malato diventerà sempre più passivo oggetto di ambizioni e di interessi politici e strategici da parte dell'Europa fino alla sua disintegrazione; dall'altro lato, l'Europa - entrando culturalmente nel territorio del Turco - innescherà quei meccanismi che metteranno in moto un processo irreversibile e non ancora compiuto: la riconquista della propria identità culturale da parte di quelle popolazioni locali ricche di tradizioni loro e di una storia loro fatta di glorie passate e passati splendori, civiltà già fiorenti e speculativamente brillanti, che il dominio del turco aveva emarginato in una situazione di insterilimento e stasi intellettuale e politica. Cosicché, sarà proprio da questa Europa "barbara e infedele" che gli Arabi per primi - ma non soltanto loro - riceveranno quegli stimoli intellettuali che ne determineranno la rinascita culturale e politica.
A partire dalla fine del secolo XVIII saranno infatti proprio le esperienze culturali europee a dare il primo impulso ad acquistare (o ri-acquistare) coscienza della propria identità. Della Rivoluzione Francese si può dire brevemente che essa rappresentò una rottura con il passato, mobilitò uomini e creò "nazioni"; diede il potere a una nuova classe sociale, la borghesia; consegnò al mondo di allora nuovi modelli ideologici e - al tempo stesso - politici e istituzionali, i quali rispondevano alle insopprimibili esigenze del mondo contemporaneo. "Libertà" "Eguaglianza" e "Fratellanza" si tradussero in modelli politici, quali monarchia costituzionale, repubblica democratica radicale, repubblica moderata borghese, bonapartismo. Furono proposte nuove alternative politiche e sociali: il potere non era più monopolio della sola classe aristocratica, bensì, per la prima volta, esso entrava di fatto nelle mani di una nuova classe sociale: la borghesia delle professioni, la borghesia del capitale e dell'industria. E questa rivoluzione sarà esportata dalla Francia, o meglio dalla borghesia francese, sulla punta delle baionette, e sarà destinata ad acquistare significato e rilevanza internazionali. Non ne furono immuni neppure gli intellettuali e gli esponenti di una fragile borghesia a base prevalentemente urbana e mercantile medio-asiatica. Il Romanticismo, dal canto suo, definendo i suoi caratteri nello sforzo del superamento del mondo culturale e concettuale illuministico, metterà in primo piano i valori del "sentimento", della "individualità" e, in genere, della tradizione storica considerata come rivelazione di disegni provvidenziali e divini: un patrimonio concettuale che, per canali diversi, penetrerà anche nel mondo islamico e innescherà una serie di meccanismi che troveranno terreno particolarmente fertile nella concezione statuale teocratica dell'Islam. In campo politico, il romanticismo si tradurrà anche in rivendicazione dei diritti degli individui e delle "nazioni" alla libertà di pensiero e di coscienza, in ribellione contro ogni forma di oppressione, di autocrazia, e di conservatorismo in nome del diritto delle nazionalità alla libertà. In altri termini, il movimento romantico costituì la grande forza culturale che immetterà nel mondo moderno l'idea di "nazione" e di "nazionalità", destinata a scuotere alle fondamenta i grandi imperi multinazionali dell'epoca, incluso l'Impero Ottomano e gli imperi coloniali dell'Occidente europeo. Nei circoli intellettuali di tutto il medio-asiatico prenderà vita un dibattito particolarmente vivace intorno a questo nuovo concetto di "nazione", e se questa "nazione" debba essere una e universale per tutto il mondo islamico (il concetto dottrinale della "Ummah" delle origini dell'Islam), ovverosia se debba condurre alla ricostituzione della unitarietà della Comunità originaria, oppure se sia possibile conciliare l'unità e l'universalità (ideale) della nazione islamica con le particolarità culturali pur esistenti nel suo seno e con le frontiere/confini esistenti. Si tratta di un dibattito ancora aperto, e oggi particolarmente vivace nei circoli radicali, che continua a contrapporre particolarismi e individualismi a teorizzazioni di stampo "romantico", tendenze "secolari" e comunque ispirate a pragmatismo a interpretazioni dottrinali radicali e militanti (4).
Gli insegnamenti positivistici completeranno la rivoluzione sociale e politica iniziata dalla rivoluzione francese; rappresenteranno una rottura radicale con il passato e regaleranno - anche nel mondo islamico - quelle concezioni organicistiche della società, che, rigenerate attraverso una lettura ed esegesi erudita del Corano, saranno alla base di molti "socialismi islamici" degli anni '50-'60. Ed infine, l'analisi dei mali legati alla nuova concezione sociale nata con lo sviluppo capitalistico in Europa, agli inizi del secolo XIX condurrà alla nascita di nuove dottrine promotrici della fondazione di un nuovo ordine sociale attraverso una radicale trasformazione della vita umana: si tratta delle dottrine socialistiche, che cominceranno a circolare nell'Europa dei primi decenni del secolo XIX, e del marxismo. Le prime, portatrici di temi nuovi sociali, troveranno ampia diffusione in tutto il mondo islamico. La nuova concezione della storia espressa dal marxismo troverà viceversa scarso seguito nel mondo islamico per la sua inconciliabilità con i princìpi-base dell'Islam stesso, rigida teocrazia e negatore di ogni lotta di classe. Per di più, la quasi inesistente industrializzazione ne limiterà la diffusione a pochi elementi della intellighentia cittadina fortemente occidentalizzati anche culturalmente (5).
E così, arricchendosi di nuovi stimoli intellettuali e nuove aspirazioni politico-sociali ed economiche, di nuovi ideali fatti di "nazione", libertà, democrazia, il mondo islamico avviò la sua "rinascita", e cominciò a organizzarsi al suo interno.
Per quanto riguarda obiettivi e strategie, questi primi movimenti si diedero perlopiù contenuti culturali, di scoperta dell'Occidente e della sua indubbia superiorità tecnologica, e di rivisitazione delle proprie radici e tradizioni. Solo in un secondo momento le aspirazioni si tingeranno di connotazioni squisitamente politiche, e "autonomia" e "indipendenza" diverranno le tematiche dominanti. In questa prima fase, fermenti riformisti in senso liberal-costituzionale continueranno a prevalere. Per cui si può dire che il secolo XIX è - perlopiù - il secolo del "risveglio" nazionale islamico, il secolo in cui l'Islam (ri-)prende coscienza di sé stesso e della sua identità culturale - sia pur sempre a livello strettamente elitario - una identità culturale che si pone come momento di incontro-confronto con l'Occidente e le "sue" esperienze culturali.
Ma non va dimenticato che il secolo XIX è anche il secolo in cui sorsero e divamparono i vari "pan…ismi": pangermanesimo, panslavismo, panturanesimo ecc. Essi infiammarono l'Europa sovvertendone e ricostruendone l'assetto territoriale e statual-nazionale. Anche il mondo islamico assaporò questa ondata ideologica - di importazione squisitamente europea - la quale subì una rielaborazione squisitamente locale: si costituiscono un po' ovunque, diffondendosi con stupefacente veemenza, il pan-arabismo, il pan-turchismo, il pan-islamismo ecc. Saranno più che altro movimenti ideologici, senza confini, spesso in aspro conflitto fra di loro. Ma - quanto qui preme sottolineare - tratto comune sarà sempre l'aspro conflitto con l'Occidente che, per questi "fedeli", divenne sinonimo di "infedele", un Occidente "corrotto" e "corruttore", "autocratico" "oppressore" e "negatore di ogni libertà", con il quale non vi può essere - anzi, non vi deve essere - né intesa né dialogo (6). Si tratta di etichette che perdurano ancora oggi nel vocabolario di tutti i circoli e i movimenti estremisti islamici.
E così, al liberal-riformismo delle élites occidentalizzate - dai contenuti ancora molto generali e vaghi nei programmi e strategie - si oppose già alla fine del secolo scorso questo nuovo riformismo che porta con sé sia il peso e la suggestione della tradizione religiosa sia l'appoggio delle masse di milioni di affamati, umiliati e diseredati di tutta l'ecumene islamica. Sono le radici storico-culturali dell'estremismo religioso del secolo XX e dei suoi gruppi militanti.


Sarà soltanto la Prima Guerra Mondiale a rendere attuali le aspirazioni all'indipendenza. In particolare per il Vicino e Medio Oriente, sarà proprio la Gran Bretagna a dar corpo alle aspirazioni degli Arabi soprattutto, fornendo loro armi, istruttori e mezzi come strumento di offesa all'Impero Ottomano alleato con le Potenze Centrali. Ne seguì una serie di azioni militari, politiche e di propaganda, le quali fomenteranno il sentimento "nazionale" arabo e troveranno suggello negli accordi conclusi fra Sir McMahon, Alto Commissario di Sua Maestà Britannica al Cairo, e lo Sharif della Mecca, Husein dei Banû Hâshim, nel periodo luglio 1915 - marzo 1916. È il primo riconoscimento ufficiale della esistenza di una Nazione Araba e del suo pieno diritto "a vivere, conseguire l'indipendenza assoluta e afferrare le redini della propria amministrazione": è la grande rivolta del deserto! (7)
Poi, il grande tradimento dell'Europa! L'Impero Ottomano - il Grande Malato - si sfascerà definitivamente; dalle sue ceneri nascerà il moderno stato turco kemalista; ma invece del promesso grande stato arabo - abbracciante tutti i popoli di lingua araba - si ebbero i Mandati, nuova ambigua figura giuridica internazionale, attraverso la quale le nuove realtà statuali medio-orientali create a tavolino (e col righello) dalla diplomazia europea si sarebbero avviate gradualmente all'indipendenza.
A questo punto si impongono alcune riflessioni: questo "grande tradimento", che oggi continua ad alimentare l'ideologico di quasi tutti i movimenti radicali islamici, fu realmente un grande tradimento dell'Europa? Oppure lo svolgersi degli eventi fu variamente interpretato e utilizzato da una storiografia di parte (e dagli uomini di cui essa fu espressione) fino a fornire quel lessico - simbolo di lotta e violenza - anti-occidentali?
Certamente, la creazione di un grande, unico Stato Arabo era un'utopia, era stato il sogno di pochi idealisti Arabi (musulmani e non) e non Arabi. Certamente non fu mai una intenzione reale né da parte della stessa Gran Bretagna né da parte delle Cancellerie Europee (8).
Non meno certamente, questo grande, unico Stato Arabo non fu mai una intenzione reale neppure da parte degli stessi Arabi, più che mai divisi e dilaniati al loro interno da individualismi e interessi particolaristici (9).
Comunque sia, fu sui particolarismi e sulle divisioni inter-arabe e inter-islamiche che l'Europa giocò ancora una volta per avere le mani libere e meglio tutelare i propri interessi nazionali. In realtà, i Mandati non fecero che cristallizzare la presenza europea nel bacino Mediterraneo sudorientale, secondo quelle linee politico-culturali già prefiguratesi nel secolo XIX e ribadite dagli accordi del Primo Conflitto Mondiale - con l'unica eccezione della Russia, uscita di scena con la Rivoluzione d'Ottobre.
Comunque sia, se l'Europa giocò con estrema spregiudicatezza (e poca lungimiranza) le proprie carte, è vero che anche gli Arabi non furono da meno. Non furono da meno gli Al-Sâ'ud, che nel 1925 riuscirono a proclamare la propria sovranità su quello che divenne l'Arabia Saudita; non fu da meno lo Sharif della Mecca, il quale - cacciato dal Hijaz - rientrò trionfalmente sulla scena islamica con ben due regni: quelli dei neonati stati di Transgiordania (che andò ad 'Abdallâh, figlio di Husein) e di 'Irak (che andò a un altro figlio dello Sharif, Faisal).
La Siria e il Libano furono Mandati Francesi e, su modello della potenza mandataria, scelsero come loro status istituzionale la repubblica costituzionale. L'Irak, sottoposto a Mandato Britannico, fu eretto a regno costituzionale. La Palestina - altro Mandato Britannico - si rivelò ben presto uno dei nodi più difficili di tutto il Medio Oriente: il mandato britannico si ritrovò ben presto di fronte alla inconciliabilità fra le aspettative nazionali arabe e la costituzione di quel "focolare" (home) ebraico (Dichiarazione di Balfour del 1917), tendente a identificarsi nel giro di brevissimo tempo in uno stato ebraico indipendente: scoppia il problema del Sionismo! Per il controllo strategico di questa tormentata regione, la Gran Bretagna organizzò separatamente il territorio transgiordanico, creando l'emirato satellite di Transgiordania - la futura Giordania - altro neo-stato, eretto a regno costituzionale su modello inglese. L'Egitto restò protettorato inglese fino al 1922; dopo di che seguiranno anni tormentati di monarchia costituzionale e tormentatissima vita parlamentare. La Francia vide riconosciuti i suoi "diritti" sul Maghreb: Tunisia e Marocco furono confermati come protettorato francese, mentre l'Algeria conservava il suo status privilegiato di territorio metropolitano. Mosca, proclamata l'Unione Sovietica nel 1922, passava a riconquistare con ferrea determinazione i propri territori asiatici. La pace mondiale dell'Europa consentiva il proseguimento di un ordine "coloniale" anche al di là del bacino Mediterraneo, nelle regioni dell'Asia meridionale e orientale, e nell'Africa sub-sahariana.
Dalle ceneri dell'impero degli Ottomani, il genio politico e militare di Kemal Atatürk diede corpo al moderno stato turco della Penisola Anatolica, l'unica realtà statuale compattamente (o quasi) nazionale turca, con istituzioni secolari su modello europeo, sorrette da una base militare, che di queste istituzioni sarà tutore e garante nel rinnovarsi di una tradizionale continuità culturale.
Le paci della Prima Guerra Mondiale imposero pertanto all'ecumene islamica un "ordine europeo". Dalle ceneri dell'Impero Ottomano, nel bacino Mediterraneo nacquero i moderno stati arabi, entità statuali decise a tavolino dalle Grandi Potenze vittoriose, entità forgiate su modelli statual-istituzionali europei grazie alla collaborazione di leaderships occidentalizzate, comunque legate all'Occidente da interessi ben precisi.
Nacque così un nuovo mondo, gravido di problemi irrisolti, di delusioni politiche e sociali, scosso da una ventata di rivendicazioni culturali. I 14 punti di Wilson, che avevano proclamato princìpi come il diritto dei popoli alla autodeterminazione, e i socialismi, che agitavano appassionatamente temi di giustizia sociale, alimentarono l'irrequietezza degli "esclusi". L'inferiorità e la dipendenza tecnologica (soprattutto militare) dalla Europa non poterono che far sì che questo nuovo ordine politico-territoriale continuasse a guardare all'Europa per la sua stessa sopravvivenza; ma la consapevolezza culturale cui questa Europa aveva avviato le popolazioni locali maturerà i suoi frutti. L'obiettivo non è più quello della autonomia garantita da una legge costituzionale; l'obiettivo diviene adesso quello della completa indipendenza.
Movimenti a contenuto "nazionalistico" e "rivoluzionario" prenderanno piede in un po' tutta l'ecumene islamica, mentre 'ulemâ, fuqahâ, qadî e intellighentia si adopereranno per dare alla lotta politica una base anche ideologica, che potesse coinvolgere e mobilitare la grande massa della popolazione - ancora largamente analfabeta e relegata a miserabili condizioni di vita.
Il simbolo di questa lotta diventa il Sionismo. E se l'obiettivo sarà la rifondazione di queste nuove entità statuali indipendenti su base islamica, le strategie oscilleranno dal dialogo e la via della diplomazia alla rivoluzione o al colpo di stato, fino alla lotta senza quartiere predicata dai gruppi più estremisti invocanti il jihâd.
Sono questi gli anni in cui si organizzano in Asia e in Africa le prime organizzazioni politiche ispirate a un Islam militante.


Lo Stato ideale islamico: la rivolta contro il modello occidentale di statualità e potere. La "Associazione dei Fratelli Musulmani": obiettivi - strategie per il potere - strategie di lotta - il jihâd e le prime formazioni clandestine paramilitari - attuali tendenze. La "Jamâ'at-i Islâmî": contenuti, teorizzazioni di uno stato sociale "islamico" (la teo-democrazia) - Islam, modernizzazione e sviluppo - strategie di lotta: la realizzazione pratica del jihâd - attuali tendenze.

Il primo dopoguerra è anche il periodo che vede la nascita e la diffusione di organizzazioni islamiche che - pur subendo le nuove entità statuali e i relativi confini - ne invocano con urgenza e priorità la rifondazione su basi islamiche. Sono movimenti che l'Occidente ha etichettato come "Islam riformista", e hanno nella Associazione dei Fratelli Musulmani e nella Jamâ'at-i Islâmî le principali espressioni.
Come si è detto, l'assetto delle nuove realtà territoriali mediterranee si era compiuto seguendo i canoni e i modelli politico-sociali ed economici dell'Occidente: monarchie (nominalmente) indipendenti e costituzionali, repubbliche bicamerali (nominalmente) indipendenti e costituzionali, le quali avrebbero dovuto introdurre adeguate riforme sotto la sapiente guida dell'Europa; queste riforme - fase la più avanzata di "decolonizzazione" - avrebbero dovuto introdurre anche progresso, modernizzazione e sviluppo. Ma - quasi nemesi storica - le fragili impalcature democratiche, del tutto estranee alla tradizione culturale locale salvo che per le élites al governo (di formazione perlopiù occidentale) e i loro gruppi di sostegno, ben presto cominciarono a scricchiolare sotto la pressione di forze interne, locali. E così, proprio contro questa Europa tutrice cominceranno le rivolte e le rivendicazioni più violente.
Le prime rivoluzioni "nazionalistiche" in Egitto e in Siria, la lotta condotta in Palestina contro il Sionismo ebbero ripercussioni devastanti in tutto il bacino Mediterraneo; ben presto gli artificiali confini tracciati dall'Occidente denunciarono tutta la loro porosità e fragilità: una stretta interdipendenza ideologica e interazione nella lotta si manifestò dalla Siria alla tunisia, Algeria e Marocco. Esplodono di nuovo quei nazional-islamismi e nazional-arabismi, che in Jamâl al-Dîn al-Afghânî e in cAbduh avevano avuto i loro padri ideologici. Ma connotazioni, contenuti e strategie cominciano a essere meno vaghi e più mirati.
Si tratta ora di movimenti che si collocano in netta opposizione sia con l'Occidente e l'Europa, che individuano come la causa prima della presente decadenza politica, sociale, economica e intellettuale, sia contro le loro stesse élites, le quali - pur professandosi islamiche - hanno decisamente tradito l'Islam abbandonandone i sacri, inviolabili princìpi. Si tratta di movimenti che denunciano apertamente i governi in carica e i loro establishments, accusati di essere l'espressione del volto più bieco del colonialismo e dello sfruttamento, della corruzione e del materialismo, il vero ostacolo alla piena realizzazione "nazionale" - ossia islamica - a alla modernizzazione del Paese.
Si tratta di movimenti che reclamano a gran voce l'urgenza e la improrogabilità di riforme in campo politico, sociale ed economico (donde la definizione di "Islam riformista"); queste riforme non sono però più concepite in senso secolare, europeo, secondo quei canoni e ideali ottocenteschi che avevano animato un po' tutto il riformismo costituzionale, e a cui erano ancora legate le classi dirigenti locali. Si invocano riforme che devono affondare le loro radici nelle genuina tradizione islamica.
Nasce tutto un movimento ideologico che ritorna ai canoni classici di statualità, si rifà ai "padri" del pensiero politico islamico (al-Mâwardî, 974-1058, e Ibn Taymiyyah, 1262-1328, in particolare), concentrando la loro opera speculativa nella ricostruzione di uno Stato ideale, ispirato solo alle norme della Rivelazione e della Legge religiosa islamica. Poco o nullo spazio viene concesso alla dottrina strategica e alla iniziativa personale del Capo (o imâm) di questo Stato e dei suoi funzionari. L'unità/unitarietà della ummah (ossia della Comunità dei Credenti) deve prevalere sopra ogni altra considerazione; compito primo e principale di ogni imâm è la difesa del benessere della comunità - una difesa che non deve rifuggire dall'uso della forza e che richiede, in cambio di questo servizio, solidarietà, rispetto e obbedienza da parte della comunità a colui che detiene l'Autorità (10).
Si fissano così i punti che saranno alla base di tutto il riformismo politico-strategico islamico fino ai nostri giorni.
Titolare della Sovranità è Dio, che, solo, può legittimare l'Autorità. E tale legittimazione avviene in maniera indiretta. Il fatto di svolgere un determinato Servizio nei confronti della Società è il fatto che conferisce al soggetto i Poteri propri dell'Autorità quali fissati in maniera una, unica, universale e immutabile da Dio tramite la Rivelazione e le sue fonti dirette e indirette di cognizione. L'Autorità è quindi concepita come un Servizio; essa usa il Potere per raggiungere e mantenere il benessere reale della Società, ovvero della Comunità dei (veri) Credenti. La Forza - nel senso più ampio del termine - è l'unico principio sperimentalmente rilevabile dell'Autorità. Lo Stato è un apparato istituzionale attraverso il quale l'Autorità esercita il Potere, che varierà a seconda del rapporto fra Autorità e Società reale. Lo Stato è etico, sia pure secondo un modello relativo; esso è enunciatore, tutore e promotore dei valori che lo trascendono; questi infatti non dipendono da lui, in quanto sono prefissati da Dio: sono princìpi/leggi immutabili; lo Stato/Autorità potrà solo emanare regolamenti (qanûn) conformi a tali princìpi. Il Potere si configura come un Potere puramente esecutivo, amministrativo e militare; all'Autorità/Stato non è dato entrare nel merito della Legge religiosa (sharî'ah), ma soltanto di farne applicare i princìpi, di difendere la Fede, la Comunità dei Credenti e il Territorio dell'Islam quando minacciati sia all'interno che dall'esterno.
L'Autorità deve avere fra i suoi requisiti essenziali quello della "conoscenza" (ossia l''ilm), ma non può entrare in materia di dogma. E sarà proprio questo punto uno dei cardini di tutta la dottrina islamica ortodossa (sunnita). Esso conferisce agli 'ulemâ' (ossia ai "dottori della Legge"), ai qadì e ai muftì (ossia ai "giudici" e "giurisperiti", cioè esperti della Legge) un potere particolare, che - sia pure molto impropriamente - si può anche definire come "religioso"; questo potere è ben distinto dai poteri dell'Autorità, e a questi giammai riconducibile o assimilabile.
Si tratta di una realtà dottrinale che conferisce alla classe dei dottori ed esperti della Legge uno status e un potere propri, in cui influenza e incidenza sul politico e sul sociale sono quasi sempre andati ben oltre i confini della dottrina fino a costituire in seno all'Islam una vera e propria diarchia di poteri. Se "politico" e "militare" sono infatti assommabili e ricongiungibili in una stessa figura istituzionale, non lo sono il "religioso" con il "politico-amministrativo". Trasferendo quindi una siffatta situazione dottrinale (ideologica) dal terreno della teoria a quello della pratica e della operatività, e configurandola in seno alle molteplici realtà islamiche, è evidente che questi "dottori ed esperti della Legge" possono svolgere nella società (e nel politico) un ruolo di primissimo piano. Vi si ritornerà a proposito delle strategie, quando si verifichi uno iato fra potere ufficiale e la massa della popolazione oppure un vuoto ideologico. Sempre sul piano pratico e operativo, ne consegue ancora che questo ruolo potrà essere diversissimo a seconda delle diverse contingenze storiche e politico-culturali: (I) di cristallizzazione e ripiegamento, nell'obiettivo di salvaguardare con lo status tradizionale anche benefici e privilegi a questo connessi (come fu il caso dell'India e dell'Egitto fino agli anni '30, ad esempio); (II) di aperto appoggio e collaborazione con la Autorità del momento contro movimenti e gruppi islamici estremisti (come è il caso della Algeria di oggi, o dell'Egitto di Mubarak nella fase attuale di collusione con l'Associazione dei Fratelli Musulmani contro le correnti militanti della al-Jamâ'ah al-Islamiyyah e di al-Jihâd); (III) di aperto contrasto con l'Autorità del momento, la quale - anche se si proclama islamica - viene apertamente attaccata, dichiarata empia, eretica o apostata, comunque deviante dai princìpi della Legge e pertanto apportatrice solo di eresia, empietà, corruzione, sfruttamento per la Comunità dei Credenti; essa va rimossa anche con il ricorso alla violenza; quindi, giocando sul forte ascendente che il religioso ha sulla grande massa di una popolazione di affamati, umiliati, emarginati e diseredati, si è proposta come nuova guida per l'Islam e spada per la rinascita e la rifondazione di nuovi stati su basi genuinamente islamiche. I segni esterni (come il velo per le donne, o l'abolizione dell'uso di alcoolici, oppure ancora l'abbandono di elementi occidentali nell'abbigliamento maschile - la cravatta ad esempio) sono diventati il simbolo più plateale di questa lotta; i mezzi (le armi), i modelli (le strategie), il linguaggio restano - nonostante tutto - di forte ispirazione occidentale. È questo il caso di tutti quei movimenti etichettati dall'Occidente come "integralismo" "fondamentalismo" "radicalismo" islamico; si tratta di movimenti che, come si è detto, si sono venuti organizzando nel primo dopoguerra; con maggiore o minore successo sono andati al potere (in Sudan, ad esempio, in Afghanistan, in Iran ecc.), oppure continuano a rappresentare un'opposizione gravida di episodi cruenti. (11)
In ogni caso, al di là della dottrina e dell'ideologico, resta sempre una lotta per il potere!
Molti movimenti sorti nel Primo Dopoguerra oggi si sono sciolti, oppure si sono trasformati profondamente rispetto al loro nucleo originario.
Molto hanno influito su questa inevitabile evoluzione il Secondo Conflitto Mondiale, il bipolarismo che ne è seguito, e l'uso che ne hanno fatto l'uno e l'altro polo nella loro confrontazione globale; molto ha certamente influito il fallimento della "terza via alternativa" al bipolarismo, esperita da Nehru, Tito e Nasser; molto ha influito senza dubbio anche il fallimento della legittima aspirazione di questi popoli a una indipendenza reale congiunta a una modernizzazione che implicasse benessere economico e sociale, senza sradicamento culturale; molto sta oggi influendo la fine del bipolarismo, il venir meno di determinati aiuti e sostegni materiali e psicologici, che sta portando allo sbando manipoli di "guerrieri di Dio" (mujahedîn o hezbollâh), truppe ben addestrate, egregi mercenari della globalizzazione della lotta armata "fî sabîl Allâh". Last but not least, le paci di Israele con il mondo arabo e islamico stanno sottraendo una linfa vitale a una lotta - la lotta anti-sionista - che negli anni '30-'40 aveva assunto espressioni di massa, simbolo della presa di coscienza culturale di tutto il mondo islamico, la quale, uscita dalla Palestina, aveva coinvolto tutta l'ecumene islamica; e questa aveva partecipato coralmente, inviando aiuti sempre più consistenti in denaro e uomini.
Sarebbe troppo lungo soffermarsi su ognuna di queste tematiche, tutte egualmente reali, tutte egualmente avvincenti e gravide di significati storici e strategici di piena attualità. Tuttavia, non è possibile balzare al presente omettendo un importantissimo anello di congiungimento e raccordo; si impone cioè - in questa analisi dei principali leit-motiven del radicalismo islamico - un brevissimo riferimento a due movimenti sorti proprio nel Primo Dopoguerra, le già ricordate Jamâ'at-i Islâmî e la Associazione dei Fratelli Musulmani (Jâmi'iyyah al-Ikhwân al-Muslimîn). Questi due movimenti - costituiti dai loro fondatori su posizioni di vero e proprio radicalismo e lotta non esente anche da violenza - oggi sono - entrambi - ancora ben vivi e vitali; stanno giocando il ruolo di forza islamica dominante e si stanno imponendo come "opzione islamica" cui l'Occidente e le leaderships locali (e relativi establishments) guardano, e sembrano non volersi più sottrarre per un dialogo. La prima domina sullo scacchiere asiatico, e, in Pakistan, è largamente coinvolta negli ingranaggi statual-istituzionali; la Associazione dei Fratelli Musulmani è cooptata al potere nella Giordania di oggi, è il punto di riferimento e dialogo dell'Egitto di Mubarak; domina (non incontrastata) nel Sudan di al-Bashir… ad esempio. (12)
La Associazione dei Fratelli Musulmani rappresenta una esperienza a sé nel mondo musulmano, la prima risposta organica della tradizione islamica alle esigenze di riforme sociali ed economiche. Anche se non mancò di interessarsi di politica, l'Associazione non si costituirà mai a partito. Fu fondata a Isma'iliyyah nel marzo 1928 da Hasan el-Bannâ' (1906-1949), ardente seguace delle dottrine predicate da cAbduh, studente del Dar al-'Ulûm del Cairo; di scuola hanbalita, egli divenne ben presto fortemente critico nei confronti dell'Islam tradizionale, che vedeva ripiegato su se stesso, sordo a qualunque stimolo di rinnovamento, asservito al potere del momento in cambio della salvaguardia dei propri privilegi tradizionali. Membro attivo di varie formazioni e associazioni islamiche, si diplomò e cominciò a svolgere una vivace attività come insegnante: iniziò così la sua opera predicatrice, che mirava alla affermazione dell'Islam in tutti gli aspetti della vita, sia pubblica che privata, attraverso la propaganda, l'insegnamento e la retta guida (murshîd). L'aspetto veramente originale dell'azione intrapresa da el-Bannâ' fu quello - per la prima volta - di una penetrazione capillare negli ambienti anche più popolari; dapprima, l'obiettivo fu quello di diffondere l'istruzione religiosa; poi il campo fu allargato alla lotta contro l'analfabetismo, alla istruzione tecnica, e ad attività sociali e all'assistenza sanitaria. Con le elargizioni dei propri seguaci, i Fratelli Musulmani fondarono sezioni in città o villaggi, ovunque vi fosse una moschea: la strategia della moschea ha, con l'Associazione, il suo primo vero successo. Nel 1934, con il trasferimento di el-Bannâ' al Cairo, l'Associazione cominciò a interessarsi anche di politica: sono gli anni della grande insurrezione palestinese contro la Gran Bretagna e il Sionismo; e questa circostanza particolare diede a el-Bannâ' l'opportunità di lanciare la sua Associazione sulla scena nazionale e araba. El-Bannâ' tenne discorsi alla radio, non più soltanto su temi di ordine religioso e sociale, bensì anche su questioni di politica interna ed estera, sollecitando e incitando popoli e governanti a radicali cambiamenti e riforme, che riportassero le istituzioni sui princìpi della ortodossia islamica.
Filiali sorgeranno ben presto in Libano, Siria, Palestina, transgiordania, Irak e Sudan.
Durante il Secondo Conflitto Mondiale, el-Bannâ' concentrò i propri sforzi nei confronti delle forze armate e delle forze di polizia egiziane, dove la Fratellanza riuscì a infiltrarsi.
In questi stessi anni fu creata una Organizzazione Speciale, una unità segreta che addestrava i propri uomini all'uso delle armi. È un momento molto importante non soltanto della vita della Associazione dei Fratelli Musulmani, bensì di tutti i movimenti estremisti sovversivi consimili: l'Organizzazione Speciale è in grado di fornire uno strumento di lotta armata per il successo dei programmi e degli obiettivi definiti dalla Associazione. Sarà collaudata con buoni risultati sia durante la fase del conflitto mondiale sia durante la guerra arabo-israeliana del 1948. È vero che mancò una strategia precisa, è vero che divisioni interne e scollature con la Associazione impedirono la formulazione di un'azione organica al di là di sporadiche azioni di terrorismo e attentati; è però anche vero che la creazione di questa Organizzazione accrebbe sensibilmente l'influenza della Associazione sul piano politico e che - attraverso le sue cellule clandestine paramilitari - rappresentò sempre più una aperta sfida alle Autorità.
Nel 1945, in conformità alle disposizioni di legge egiziane, l'associazione si dette uno Statuto. Questo dichiarava apertamente gli obiettivi religiosi, sociali e culturali dell'Associazione, il proposito di interventi anche in campo economico per il conseguimento di quelle riforme che consentissero all'Egitto (e a tutti i paesi musulmani del mondo) di avviarsi sulla strada della modernizzazione e dello sviluppo, l'obiettivo di lotta contro ogni forma di colonizzazione e di sfruttamento straniero e contro ogni regime che - pur definendosi islamico - si piegava e serviva il colonialismo, lo sfruttamento e la corruzione.
Lo scontro diretto con il Governo Egiziano fu a questo punto inevitabile.
Con il Colpo di Stato degli Ufficiali Liberi (luglio 1952), i Fratelli ebbero la loro prima, reale opportunità di andare al Governo in cambio dell'appoggio popolare - che solo loro potevano dare alla rivoluzione militare egiziana. Si trattò però di un "matrimonio" di breve e burrascosa durata. L'assassinio di el-Bannâ' (1949) aveva privato l'Associazione di una guida carismatica in grado di superare particolarismi, ambizioni personali, faziosità, estremismi. Ed ora, la rottura fra l'altro ideologo e pensatore dell'associazione, Sayyid el-Qutb, e Nasser condusse fatalmente a un insanabile scontro fra i Fratelli Musulmani e il nuovo regime egiziano: disordini in tutto il paese, sommosse di piazza, scontri violenti e attentati - una vera e propria spirale della violenza - porteranno a un ennesimo attentato a Nasser; la ritorsione fu l'imprigionamento e la condanna a morte di sette Fratelli Musulmani (fra cui la stessa "guida" el-Hodeybî), lo scioglimento dell'associazione, la confisca di tutti i beni (1954). Finiva così nel sangue il più serio tentativo di presa di potere da parte di un movimento radicale islamico dall'inizio di questo fenomeno.
Due righe a parte merita l'altra grande personalità dell'Associazione: Sayyid el-Qutb. Personaggio interessante e singolare, entrato nell'associazione quando aveva quaranta anni (e una matura esperienza di pensatore e uomo di cultura), pagherà nel 1964 con la vita il non essersi piegato a compromessi con il regime egiziano e il non aver accettato di entrare al servizio della rivoluzione nasseriana come suo ideologo. Viceversa, el-Qutb resta tuttora simbolo della lotta armata, è l'ideologo padre dell'azione militare, cui egli dà - per la prima volta - costruzione filosofica e dottrinale. È il recupero della categoria del jihâd, è la sua piena legittimazione in nome dei princìpi sacri e inviolabili del Corano nel quadro delle strategie per la presa del potere: "l'unica arma politica di un capo di stato musulmano nei suoi rapporti con un governo infedele", "necessario atto di forza" per risolvere l'insostenibilità morale di una situazione politica e per ristabilire l'ortodossia delle istituzioni in uno stato che si definisce "islamico". La sua analisi affonda da un lato nella teologia pura, dall'altro nell'indagine del sociale e del politico attraverso il recupero della dottrina classica. Le posizioni di el-Qutb non incontrarono mai il favore della linea ufficiale dell'Associazione, con la quale Qutb si troverà spesso in aperto contrasto. Le posizioni di Qutb, e il suo pensiero, hanno però gettato le basi ideologiche di tutti quei movimenti radicali che richiamano il jihâd, e lo praticano come la vera strategia, l'unica strategia possibile in un contrasto-conflitto ormai globale, che non ammette alcun dialogo sia nei confronti dell'Occidente che nei confronti di quelle leaderships islamiche devianti, occidentalizzate, corrotte, traditrici della intera comunità dei (veri) credenti. È questo il caso - ad esempio - delle attuali organizzazioni egiziane di al-Jihâd e al-Jamâ'ah al-Islamiyyah; la prima sarà successivamente ribattezzata Talâ'i al-Fattâh (Avanguardia della Vittoria). È questo il caso - ad esempio - dell'Organizzazione palestinese Hamas (considerata la filiazione della Associazione dei Fratelli Musulmani, e di cui sono noti i contatti con le due associazioni egiziane), oppure di altri movimenti sudanesi, o i gruppi militanti algerini del MIA (Movimento Islamico armato) e del GIA (Gruppo Islamico Armato), ecc.
Fra i caratteri distintivi più significativi, anche per la loro attualità, si possono individuare i seguenti:
1. l'Associazione dei Fratelli Musulmani rifiuta sul piano dottrinale-ideologico un ritorno totale e acritico ai princìpi della sharî'ah. Essa si batte per un nutrito programma di riforme sociali ed economiche, non prescinde dal contesto delle nuove realtà politiche, sociali e tecnologiche, rifiutando di tornare a sistemi "medioevali e ormai superati";
2. l'enfatizzazione di taluni aspetti formali più tradizionalisti - come la proibizione dell'uso di bevande alcooliche, la proibizione dell'usura, la severità dei costumi femminili e l'uso del velo per le donne, un maggiore rigore nell'adempimento della preghiera, ecc. - rientrano in una strategia intesa a enfatizzare la differenza delle posizioni islamiche rispetto a quelle occidentali (e pertanto - per taluni movimenti - divengono anche mezzi per enfatizzare una politica decisamente anti-occidentale e anti-europea; è il concetto che questi hanno della "leadership morale" dell'Islam);
3. l'uso dei media, la diffusione capillare della dottrina perché questa susciti un movimento di massa, popolare e islamico, e non soltanto limitato a una élite;
4. l'organizzazione di solide strutture, intese a evitare che il movimento viva del carisma personale del suo leader; la possibilità di un rinnovamento anche ideologico-dottrinale attraverso l'istruzione e il sostegno di studiosi qualificati e professionisti;
5. la ricerca dell'appoggio di tutte le varie componenti e fasce della società, non soltanto delle masse popolari più povere e dei diseredati. Di conseguenza, ricerca di forme di cooperazione con le diverse forze politiche, coinvolgimento delle varie organizzazioni sindacali, professionali e studentesche; vivace attività di moschea;
6. universalità del messaggio coranico, e, pertanto, universalità anche del messaggio della Associazione e del suo campo d'azione (13).

La Jamâ'at-i Islâmî fu fondata nel 1941 da Abû al-Â'lâ al-Mawdûdî (1904-1979); il suo ruolo nel sub-continente indiano e - oggi - anche in Asia Centrale è paragonabile a quello dell'Associazione dei Fratelli Musulmani in Egitto e nel Medio Oriente. Mawdûdî ricevette un'educazione classica e svolse attività giornalistiche; dal 1932 pubblicò un mensile in cui predicava la necessità che gli uomini ricevessero una istruzione vera, conforme ai princìpi dell'Islam; nel 1941 fondò una associazione musulmana, la Jamâ'at-i Islâmî, i cui scopi erano prevalentemente religiosi e sociali. Solo dopo il 1947 - e cioè con la Partition e la nascita dello stato del Pakistan - Mawdûdî si diede ad attività politiche con l'obiettivo ultimo di realizzare, o contribuire alla realizzazione di uno stato che fosse realmente islamico, e poggiasse su una corretta interpretazione dei princìpi della sharî'ah, ossia della Legge religiosa islamica.
Le opere di Mawdûdî sono continuamente ristampate, e di piena attualità e diffusione in tutta l'ecumene islamica occidentale quanto orientale. Il suo messaggio è estremamente critico nei confronti dell'Occidente (sono significative le sue due opere Towards Understanding Islam e The Sick Nations of the Modern Age)(14), di cui condanna l'ateismo e il materialismo: un mondo in cui sono andati perduti tutti i valori morali nel trionfo della tecnologia, del benessere e dello sviluppo economico. Egli ripropone - e contrappone - a questa immagine e a questo modello di vita, l'immagine dell'Islam e il "suo" modello politico-sociale, i suoi valori non soltanto religiosi (nella accezione che l'Occidente dà a questo termine) ma anche etici, politici, sociali: la missione civilizzatrice dell'Islam.
Si tratta di un fondamentalismo riformista, che ben vede la necessità di recarsi in Occidente per apprendervi gli elementi intellettuali e scientifici su cui costruire la modernità tecnologica dello Stato islamico (l'uso della stampa, i media, le scienze moderne e la moderna tecnologia - anche quella che viene impiegata nell'arte della guerra - sono tutti princìpi base da acquisire). Mawdûdî non manca di prendere atto che anche il mondo islamico sta attraversando una crisi profonda - non meno dell'Occidente: una crisi ideologica, una crisi di valori e di princìpi dovuta all'ignoranza dei dottori della Legge (gli 'ulemâ'), i quali, anziché applicarsi per risolvere i problemi del presente e guardare al futuro e al benessere della comunità dei credenti, la stanno tradendo per salvare il "loro" benessere e i "loro" privilegi (in questo caso, la critica di Mawdûdî si indirizza anche alla sua gente, e non è meno pungente e determinata): difendere e far applicare i princìpi coranici non significa andare contro l'inarrestabile marcia del progresso e dello sviluppo sociale ed economico.
Comunque sia, però, la visione sociale di Mawdûdî è - e resterà - una visione "islamica" della società e dell'umanità tutta, una visione che non rinnega i princìpi coranici della differenziazione sociale, insita nella società stessa e dovuta alle diverse circostanze e alle diverse possibilità e capacità dei singoli individui; tuttavia, questa naturale disparità fra gli uomini deve essere accuratamente regolamentata, e per questo esistono leggi e norme comportamentali poste da Dio agli uomini, proprio per impedire che la disparità - anziché armonica collaborazione e cooperazione - divenga iniquità, ingiustizia sociale, oppressione (15). Sulla base di questa concezione sociale "islamica", Mawdûdî costruisce quindi la sua dottrina del potere e della guerra: quella che lui stesso definisce una teo-democrazia. Nella teo-democrazia di Mawdûdî non vi è spazio per il pluralismo partitico né per la concezione occidentale di democrazia. Il potere è un contratto fra la comunità dei credenti e colui che questa liberamente sceglie ed elegge nel suo seno per guidarla e difenderla; e come un contratto si stipula, così si può rescindere da ambo le parti quando vengano meno condizioni e requisiti. Nella teo-democrazia di Mawdûdî non può neppure esistere l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, poiché la stessa essenza confessionale dello stato pone delle distinzioni ideologiche fra i suoi cittadini: solo coloro che professano la religione islamica possono essere cittadini a pieno diritto. E così ancora: l'universalità della dottrina islamica non pone confini o limiti di territorio o di razza: tutti, bianchi e neri, purché musulmani, sono eguali davanti a Dio; essa pone però una precisa scala sociale in rapporto alla fede professata: è la discriminazione su base confessionale (oggi di piena attualità in molti stati islamici) (16).
L'Islam non è soltanto una religione; l'Islam è un movimento ideologico, universale e rivoluzionario; il jihâd è l'arma, il mezzo per diffondere nel mondo questo messaggio (17). Di qui prende l'avvio la dottrina strategica di Mawdûdî, che affonda le sue radici nei princìpi classici della teoria: il Corano e la Tradizione. È dovere di ogni musulmano adoperarsi per diffondere l'ideologia islamica, un dovere tanto più incombente quanto più l'Islam è minacciato e in pericolo a causa di attacchi concertati provenienti da più direzioni. Ed oggi l'Islam è in pericolo: da un lato vi è l'Occidente, con la sua visione materialistica ed "economica" dell'uomo, dall'altro vi sono quegli stessi musulmani che hanno distorto i veri princìpi dell'Islam per compiacere la moda "liberale" e "democratica" dell'Europa. E l'arma che l'Islam possiede per combattere la sua missione è il jihâd, un'arma che l'Islam si è data con il suo stesso nascere. L'attacco islamico deve precedere l'attacco nemico, deve essere sferrato con tutte le forze che l'Islam possiede, con tutte le risorse (umane e materiali) di cui dispone, deve essere portato fuori dal Territorio dell'Islam (il Dar al-Islâm), ovunque nel mondo!
Si tratta di una lotta politica e armata al tempo stesso, di una strategia globale, i cui postulati hanno costituito lo sfondo dei tenebrosi scenari di Huntington nel suo The Clash of Civilizations (18), radicalizzando (a torto o a ragione) le visioni più pessimistiche dell'Occidente. Si tratta però anche di princìpi che, ristampati e diffusi con tutti i mezzi delle moderne comunicazioni, stanno oggi infiammando molti movimenti in Asia Centrale, dall'afghanistan agli sterminati territori dell'ex Unione Sovietica, dove un vivacissimo "Islam parallelo" - aggressiva versione di una identità nazionale - minaccia con la stabilità dell'intera regione anche la sicurezza dell'occidente. Si vedano ad esempio, il Partito della Rinascita Islamica ed il Birlik in Uzbekistan, oppure il Movimento della Rinascita Islamica in Tajikistan, oppure ancora l'Alash in Kazakistan - tutti egualmente dichiarati fuori legge dalle attuali leaderships (espressione per lo più della vecchia nomenklatura), tutti egualmente determinati a rovesciare gli attuali establishments al governo e a rifondare i neo-stati su basi islamiche, tutti egualmente in maniera più o meno diretta sono collegati alla Jamâ'at-i Islâmî (19).


L'Islam radicale "progressista" come elemento di destabilizzazione (Nasserismo e Gheddafismo). Presa di potere dell'Islam "progressista" radicale. Sua istituzionalizzazione. La ricostruzione di una opposizione "radicale": la Associazione dei Fratelli Musulmani e la Jamâ'at-i Islâmî. Il nuovo volto del radicalismo islamico come reazione al fallimento del processo di modernizzazione-sviluppo-giustizia sociale.

La Seconda Guerra Mondiale e gli anni immediatamente successivi segnano la fine del colonialismo tradizionale. Ideologicamente, sono la proclamazione del venir meno della distinzione fra "civiltà e popoli superiori" e "civiltà e popoli inferiori". La Francia sarà l'ultimo paese europeo a rinunciare alla sua "missione civilizzatrice", e tale rinuncia non avverrà spontaneamente, bensì soltanto con la forza e il sangue, e sotto l'incalzare di pressioni internazionali (Siria e Libano, 1946; Tunisia e Marocco, 1956; Algeria, 1962).
Una reazione gravida di conseguenze per il futuro a questi "atti di forza" sarà - da parte dell'Islam - la riscoperta della "sua" Missione civilizzatrice (di cui si è accennato nel paragrafo che precede). Sul piano dottrinale, questa riscoperta aprirà quel dibattito (non sempre obiettivo e distaccato) di cui si è parlato in apertura; sul piano operativo, essa alimenterà tutta una serie di malcontenti, risentimenti e rivendicazioni che confluiranno in una nuova ondata di radicalismi islamici.
La fine del Secondo Conflitto Mondiale segna certamente l'apertura di una nuova epoca storica. Si costituiscono i due grandi blocchi della NATO e del Patto di Varsavia, e con questi inizierà un lungo periodo che viene comunemente denominato come il periodo della Guerra Fredda fra un Occidente - legato a un modello di vita capitalistico e pluralistico - e un Est - legato a un modello di vita socialistico.
Con la Guerra Fredda si ricostituisce anche quella grande arena internazionale di diritto, che è l'O.N.U., nel cui seno confluiscono e trovano espressione istituzionale risentimenti e "processi" a quell'Europa dell'uno e dell'altro blocco, da cui tutti i neo-stati debbono continuare a dipendere per conseguire modernità, sviluppo, tecnologia… pace interna. Con la Guerra Fredda si costituiscono però anche nuove alleanze, fra cui i ben noti "Patti di Contenimento" (anti-marxista), che vedranno coinvolto e protagonista più di uno stato islamico.
Cambiano pertanto le forze in gioco e, con queste, cambiano radicalmente gli equilibri e le strategie. Stati Uniti e Unione Sovietica sono di fatto i nuovi garanti e gendarmi di questi equilibri internazionali e delle paci del Secondo Conflitto Mondiale. Escono praticamente di scena le tradizionali Potenze Europee. Entrano in scena nuove potenze, grandi e piccole. Su tutto domina la propaganda, una propaganda martellante e capillare, alimentata dai mezzi di comunicazione di massa e sapientemente utilizzata.
I nuovi equilibri e le nuove strategie di questo secondo dopoguerra si focalizzano sui "mercati", e, fra questi, il settore energetico acquista una centralità senza precedenti. E con la centralità del settore energetico, l'Islam rientra nel gioco "occidentale": le principali fonti di produzione, le principali vie di transito sono e passano per territori abitati da popolazioni islamiche, per quei neo-stati "islamici" sorti dalle ceneri del grande impero degli Ottomani.
Oggetto e soggetto al tempo stesso di questo nuovo gioco geopolitico e geoeconomico, l'Islam si trova profondamente lacerato al suo interno. I movimenti radicali più estremisti sorti nel primo dopoguerra sembrano ora compattarsi intorno alla Guida (Murshîd) dei Fratelli Musulmani. La "Moschea" continua a svolgere un ruolo centrale nei contatti con la popolazione; facendo leva sulla pietas di alcuni ambienti intellettuali e delle professioni - esclusi dal potere, da un lato, e dall'altro sulla disperazione di una massa indigente e affamata -, essa costituirà ancora una volta l'unico mezzo veramente efficace per la diffusione delle dottrine/ideologie delle rivendicazioni negli angoli più remoti e inaccessibili dell'ecumene islamica. Il rurale "entra" nella storia, si affianca al contesto urbano e fornisce uomini, risorse… e preziosi rifugi nel deserto alla lotta armata.
In questo gioco globale, la Rivoluzione ha un suo compito essenziale. È la sola via per arrivare alla libertà dall'Occidente, "per recuperare il ritardo imposto" nello sviluppo sociale ed economico. La rivoluzione è vista come una fase necessaria e cruenta, indispensabile per spazzare via gli ultimi indegni epigoni di quella corrotta classe dirigente ancora legata all'occidente e ai "suoi" interessi. E - compiuto questo atto necessario, quasi un sacrificio purificatore - solo allora sarà possibile ricomporre unità e collaborazione armonica fra tutte le forze sociali della comunità dei credenti, rifondare uno stato genuinamente islamico sull'esempio della primitiva comunità islamica e secondo i princìpi del Corano e della Legge.
È questo il "radicalismo progressista", è questo il radicalismo di Nasser, di Gheddafi, di Khomeyni e di quanti si affiancarono ai vari leaders islamici nelle rivoluzioni che hanno scosso l'Islam negli anni '50-'70. I Fratelli Musulmani e la Jamâ'at-i Islâmî hanno dato a queste rivoluzioni (1) contenuti ideologici e dottrinali; (2) strategie e il consenso popolare; (3) l'adesione di quelle fasce della media borghesia delle professioni e dei gradi inferiori dell'esercito; (4) il sostegno dei Dottori della legge, ossia della Moschea.
L'Islam radicale - ora al potere - sembrò all'Occidente tutto (incluso il blocco sovietico e i suoi milioni e milioni di musulmani turchi, tatari, tajiki…) un tutto monolitico, minaccioso, aggressivo, determinato. Eppure non fu (e non era) così. E l'Occidente "trattò" con quell'Islam e, trattando, lo divise e frammentò al suo interno: il "radicalismo progressista" fu istituzionalizzato e legalizzato sul piano internazionale nel momento stesso che andò al potere e fu ammesso alle Nazioni Unite. I Fratelli Musulmani e le loro associazioni militari o para-militari clandestine ritornarono all'opposizione e nella clandestinità.
L'Islam radicale "progressista" basò la sua ideologia su alcuni caratteri distintivi, fra cui:
1. l'uso dello strumento giuridico del 'aql. Attraverso una rigida interpretazione degli 'ûsûl al-figh, esso privilegia il Corano come fonte di ogni giuridicità, e relega la Sunnah (ossia la "tradizione" relativa ai detti, ai fatti e ai silenzi di Maometto) a un ruolo del tutto secondario. È un punto cardine, poiché questo meccanismo giuridico consentirà a questi movimenti una flessibilità notevole, tale da poter conciliare i princìpi islamici con la tecnologia moderna e con lo sviluppo economico e sociale di cui si faranno promotori e portatori;
2. l'istituzionalizzazione del socialismo islamico - postulato dal loro revisionismo - e, una volta al governo, tradotto in concrete realizzazioni statuali. Anche questo sarà uno dei punti cardine di tutte le rivoluzioni islamiche che si succederanno a ritmo incalzante a partire dagli anni '50. È il "nasserismo", alla cui base sta il motto "unione - disciplina - lavoro", e il gheddafismo. Entrambi pongono alla base dei loro programmi l'espressione "solidarietà sociale" (la quale può scaturire solo "dalla coscienza della nazione e dall'evoluzione del suo pensiero sociale, che gli ha evitato la lotta di classe" - Titolo II della Costituzione Egiziana del 1956, Economia e Società): sarà - nella clandestinità - lo slogan di tutto il radicalismo islamico fino ad oggi!
3. la rivoluzione, come contrapposta al "colpo di stato". Quest'ultimo è il risultato dell'ambizione di pochi, e non della volontà popolare (20);
4. il rifiuto (teorico) di prestiti ideologici dall'Occidente, poiché il Corano - "parola di Dio" - è la dottrina più completa, in sé perfetta. Nel Corano si possono ritrovare le basi e i fondamenti dello stato moderno nazionale islamico, inclusi concetti come modernizzazione, tecnologia e sviluppo tecnologico, sviluppo sociale e solidarietà sociale.
Una volta al potere, per restare al potere i progressisti dovettero operare una sterzata. Essi portarono avanti le riforme postulate nei loro programmi con incredibile senso della realtà. Le leaderships vennero a più di un compromesso sia in campo di politica interna che in campo di politica estera. L'Occidente rientrò così nel gioco del potere, di prepotenza grazie alla sua superiorità tecnologica e militare!
Stato e società furono "rifondati" e "riformati" dall'Islam progressista ancora una volta: le parole e le dottrine furono islamiche, gli strumenti e la tecnologia furono occidentali. La "forza" per portare avanti le riforme provenne dal nuovo esercito "nazionale" e dall'appoggio internazionale nel più ampio contesto degli equilibri bipolari. Questo è anche il momento in cui esplodono i grandi sogni della "via alternativa" al bipolarismo - utopica illusione del neutralismo di Nehru -, cui Tito e Nasser non mancarono di dare consenso e appoggio.
Nel giro di una-due generazioni l'Islam radicale dei progressisti si trasformerà così nell'Islam dei cosiddetti "moderati", della nascente borghesia delle professioni (medici, ingegneri, architetti, insegnanti…) e dell'esercito. E, a questo punto, si consumerà il divorzio - cruento - fra l'Islam progressista e un Islam neo-radicale.
I fratelli Musulmani a occidente, e la Jamâ'at-i Islâmî ad oriente continuano a conservare la leadership morale di questa opposizione, che diviene tanto più violenta quanto più si trasforma ed evolve la situazione internazionale. Le accuse rivolte all'Islam oggi al potere - figlio del "progressismo" - sono quelle di avere operato con cinico pragmatismo, di anteporre la prassi alla dottrina, di anteporre la convenienza politica - e i propri interessi e privilegi - al benessere reale della società islamica, di deviazionismo nell'uso spregiudicato che viene fatto degli strumenti giuridici (accusa questa, che coinvolge la fascia dei "dottori" ed "esperti" della Legge islamica, che appoggiano il potere dei "progressisti"), di essere servi del colonialismo (o neo-colonialismo) e, in quanto tali, di essere schiavi del loro ventre e del loro forziere. Sono proclamati "rei di apostasia" "eretici", e - come tali - viene fatto appello al dovere di tutti i musulmani per combattere e rovesciare questi traditori, secondo quanto prescrive il Corano.
Il bipolarismo, nella sua ultima fase, giocherà largamente su queste divisioni.
Il radicalismo islamico - molto cautamente - era tuttavia già stato utilizzato dal genio politico di Stalin per destabilizzare i "blocchi" dell'occidente nel Medio Oriente e aree petrolifere. Il Sionismo continuerà a rappresentare la carta vincente e mobilitante di questo confronto anti-occidentale (e gli accordi di Camp David costeranno la vita ad Anwar Sadat nell'ottobre 1981 - opera di due gruppi al-Jihâd e Jamâ'ah al-Islâmiyyah (21); la Siria - paese dichiaratamente Arabo e non-islamico - fu base e munita fortezza anche per azioni terroristiche. La Libia di Gheddafi - per alcuni anni - diverrà un'altra spina nel fianco dell'Occidente, mentre, più a oriente, Afghanistan, Iran, Yemen, Hadramawt, Corno d'Africa, Sultanato dell'oman diverranno altrettanti terreni di scontro.
Ma saranno proprio le una-due generazioni dalla rivoluzione progressista a bruciare l'Islam progressista e a consentire all'Occidente di riprendere in mano le fila. Facendo leva sugli individualismi e sui particolarismi etnico-tribali, spezzerà gli assi trasversali che sembrano unire il radicalismo islamico in un grande blocco compatto e monolitico; il fallimento delle rivoluzioni socialiste, l'arretratezza delle masse, la fame e la miseria dei contesti rurali saranno un terreno particolarmente fertile per proporre nuovi (e più vincenti) modelli di modernizzazione, progresso, sviluppo e giustizia sociale. Se da un lato ciò ha implicato intese più o meno ibride proprio con quelle correnti più conservatrici dell'Islam - come il Wahhabismo oggi al potere in Arabia Saudita, oppure la guerriglia afghana anti-sovietica - dall'altro lato ha posto sul piano politico due punti centrali.
1. l'Islam radicale non è un blocco unico, compatto e monolitico al suo interno; è, viceversa, fortemente frammentato e comprende movimenti e correnti estremamente variegati per contenuti dottrinali-ideologici e strategie.
Con la fine del bipolarismo, e con il venir meno degli aiuti e sostegni dall'Est, questa frammentazione emergerà in tutta la sua drammaticità, imponendosi all'attenzione di politici e istituzioni varie;
2. l'Islam radicale non costituisce necessariamente una minaccia per gli interessi dell'Occidente. È una realtà con la quale si impone ormai un dialogo.
Con la fine del bipolarismo, si è assistito a una ripresa virulenta del radicalismo, che ha rapidamente cambiato volto ancora una volta. Si sono creati nuovi vuoti dottrinali-ideologici sulle ceneri di una classe politica bruciatasi rapidamente, e sul fallimento di quel processo di modernizzazione-sviluppo-giustizia sociale, che la aveva portata al potere.
L'Islam è una realtà, fede e modello di vita al tempo stesso. È una realtà con cui si impone di trattare. La necessità, pertanto, di riempire questi vuoti ideologici sta conducendo a una nuova analisi del radicalismo, con l'obiettivo di individuarne le possibili opzioni alternative.


Il nuovo volto del radicalismo islamico - il caso dell'Egitto. Riflessi sulla sicurezza nazionale - Dialogo e mediazione.

Come si è detto, la fine del bipolarismo anziché semplificare la situazione la ha ulteriormente complicata e frammentata.
Al vuoto dottrinale-ideologico creatosi con il fallimento del processo di modernizzazione-sviluppo-giustizia sociale, che aveva visto salire al potere l'Islam progressista, si è venuta aggiungendo una crisi economica senza precedenti, aggravata dall'esplosione demografica e da un violento processo di urbanizzazione, che ha portato alla creazione di megalopoli immense, afflitte da un sottoproletariato di sradicati, disoccupati, affamati, e da pressoché insolubili problemi gestionali. A ciò si aggiungano difficoltà sempre più critiche nel settore idrico, disastri ecologici, l'esasperazione della endemica conflittualità inter-etnica/inter-tribale, epidemie, carestie, siccità… tragedie umane senza fine. Di contro a questo panorama desolante, anche l'Islam dell'opposizione - quell'islam più radicale, che aveva rifiutato di schierarsi con i Progressisti e le Rivoluzioni - il quale aveva largamente beneficiato delle rivalità e dei conflitti regionali del periodo bipolare, venuto meno il sostegno dell'Est si è ritrovato senza aiuti esterni, e, dopo la crisi del Golfo e il processo di pace avviato con Israele, ha dovuto abbassare i tradizionali stendardi ideologici e ha dovuto riconoscere che le sue strategie sono in questo momento non meno perdenti delle strategie praticate dalle leaderships occidentalizzate che esso combatte. Le orgogliose bande di "guerrieri di Dio" - ben armate e ben addestrate - sono oggi in cerca di nuovi teatri e di nuove cause, seguendo un asse che dall'Afghanistan, dal Kashmir e dal Tajikistan passa per l'Iran, il Sudan e arriva all'Algeria e al Sahara occidentale… talvolta con veloce transito e brevi soste in territori occidentali!
È quindi, quella dell'islam oggi, un'immagine estremamente sconcertante, piena di contraddizioni (in termini e contenuti), dove i poli estremi sembrano quasi ricercarsi per ricongiungersi, e ricontrapporsi al centro. Certamente è una fase di transizione e trasformazioni profonde, aperta a dialogo, equilibri nuovi e compromessi. (22)
A questo punto dell'analisi val la pena di soffermarsi brevemente su alcuni aspetti del volto attuale di questo nuovo (?) radicalismo islamico.
Uno dei casi più emblematici è quello dell'Egitto - geopoliticamente uno dei paesi chiave del Mediterraneo, determinante per il processo di pace nel Medio Oriente, per la stabilità della valle nilotica e della Penisola Arabica. Il Presidente Mubarak, consapevole della marea montante del radicalismo islamico e del rischio che questo rappresenta per la stabilità del paese, ha preso alcune misure: talune sono scontate (come l'ulteriore rafforzamento delle misure di sicurezza per prevenire e reprimere le attività violente dei gruppi radicali), altre sono invece più sottili e significative; rientrano cioè nella strategia del dialogo. Il regime, mostrandosi molto attento a questo fenomeno (tutt'altro che nuovo per l'Egitto!) di "risveglio islamico", ha deciso di avviare (anzi, ha avviato) un piano di moderata islamizzazione avvalendosi del sostegno dell'Università islamica di el-Azhâr, istituzione che gode altissimo prestigio in Egitto e ha larga influenza anche in altri paesi della regione. Il confronto fra establishment e organizzazioni estremiste è apertissimo (è di luglio l'attentato alla vita stessa del Presidente), e la strategia del Governo sta incontrando non poche difficoltà; ma l'opposizione maggiore, oggi come ieri, continua a provenire dalla Associazione dei Fratelli Musulmani, le cui due filiazioni armate (al-Jihâd e Jamâ'ah al-Islâmiyyah) stanno ottenendo alcuni successi soprattutto nelle province dell'Alto Egitto, nonostante la vigilanza delle Unità di Sicurezza. Le strategie del radicalismo egiziano non cambiano rispetto al passato: i Fratelli Musulmani continuano a perseguire il loro obiettivo di "caduta del regime Mubarak" (accusato di apostasia e tradimento) e "rifondazione di uno stato su basi islamiche"; lo perseguono in maniera pragmatica, attraverso una capillare opera di penetrazione e reclutamento da tutte le fasce della società mediante strumenti legittimi, quali le stesse istituzioni democratiche del paese (Assemblea del Popolo, Associazioni sindacali, Associazioni studentesche, municipalità, attività di moschea…). I gruppi "militanti" viceversa mirano alla caduta immediata del regime con il ricorso a forme di lotta violenta, e rifiutano la possibilità di una trasformazione graduale della società egiziana; la loro base dottrinale è quella della dottrina islamica classica (Ibn Taymiyyah in particolare) e il pensiero di Sayyid el-Qutb (v. sopra p. 60); oggi stanno emergendo due pensatori-filosofi nuovi: 'Abd el-Salâm Farâj e Shukri Mustafà. Gli obiettivi delle organizzazioni radicali militanti sono: la caduta del regime, come si è detto, e la purificazione di tutti quei settori della società che ostacolano l'affermazione dell'Islam radicale (comunità copta, ambienti religiosi filo-governativi, giornalisti, musulmani non osservanti ecc.); restano una costante l'ostilità nei confronti dell'Occidente e di Israele. Coerentemente a queste premesse ideologico-dottrinali ne consegue una strategia della violenza che ha come suoi obiettivi più immediati: l'assassinio del presidente stesso (obiettivo primario), funzionari governativi a lui più vicini, membri delle Forze Armate e dei Servizi di Sicurezza, infrastrutture economiche e governative (per minare la sicurezza dello Stato e creare ondate di psicosi); una nuova tattica è stata quella di colpire strutture turistiche e gli stessi turisti (verosimilmente per indebolire l'economia del paese, fortemente sostenuta dalle entrate del turismo, e per colpire l'Occidente stesso - indirettamente - in una delle sue versioni più "decadenti"). Altri obiettivi di questi gruppi sono scrittori, intellettuali, giornalisti… quanti si oppongono con scritti e con fatti all'islam radicale condannandolo apertamente (in tale quadro rientra, ad esempio, il fallito attentato al Premio Nobel egiziano, Naguib Mahfuz nel novembre 1994). Finora l'attività di queste associazioni ha avuto luogo pressoché esclusivamente sul territorio egiziano; tuttavia, un gruppo di sostenitori di uno dei loro leaders, Sheykh Omar 'Abd el-Rahman, negli Stati Uniti, è stato sospettato di coinvolgimento in varie azioni esterne, fra cui - ad esempio - l'attentato alle "Twin Towers" di New York (1993) (23).
Quest'ultima osservazione conduce a un interrogativo: quali possono essere i riflessi di questo radicalismo islamico - così vecchio nei suoi contenuti, e neppure così nuovo nei suoi obiettivi e nelle sue strategie di lotta - nei confronti della sicurezza nazionale? Certamente sono cambiate alcune tattiche, e le armi. Certamente sono cambiati anche gli uomini, sono passate generazioni, sono evolute le circostanze globali e gli scenari. Scorrendo nella stampa i profili di questi nuovi "eroi fî sabîl Allâh" colpiscono alcuni aspetti che essi hanno in comune fra di loro: i canali attraverso cui sono stati reclutati, indottrinati e addestrati a combattere e uccidere; colpisce anche la loro mobilità da un teatro all'altro: quasi tutti si sono addestrati in Afghanistan, quasi tutti - quelli che non si sono guadagnati col martirio il paradiso di Allâh - si sono poi trasferiti in Pakistan, quasi tutti sono passati per il Sudan prima di arrivare su altri campi di battaglia. Quasi tutti sono giovanissimi. È anche vero che i dati ufficiali di cui si dispone affermano che questi gruppi militanti - organizzati in cellule fra loro separate - non contano che pochissime centinaia di adepti; tuttavia… l'Occidente continua ad etichettare le loro attività col termine di "terrorismo" (uno dei più grandi crimini dell'umanità), e ad averne profondo e timoroso… rispetto. Quali possono essere quindi i riflessi sulla nostra sicurezza?
Molto schematicamente, si può distinguere fra: (a) rischi di natura militare, e (b) rischi di altra natura. Per quanto riguarda i primi, questi possono configurarsi in (I) aggressioni di tipo convenzionale, (II) conflitti regionali, (III) proliferazione nucleare, chimica, biologica, (IV) terrorismo. Circa il punto (I), dato che il monolitismo e l'unitarietà del radicalismo islamico sono più che altro un mito, non sembra che vi possano essere minacce aperte, neppure a medio/breve termine. Circa il punto (II), non sono invece da sottovalutare i riflessi che i processi di destabilizzazione da parte del radicalismo islamico all'interno di un singolo paese possono avere nei confronti della nostra sicurezza. Poiché la destabilizzazione - oggi - può aver luogo sotto la pressione di fasce radicali di opposizione a regimi perlopiù legati all'Occidente, il riflesso più immediato può essere di carattere "economico" - quando si tratti di un paese nei cui confronti si abbia un interesse economico (l'Algeria, ad esempio, oppure l'Egitto, l'Iran ecc.) e/o strategico (l'Egitto ancora, ecc.). Un altro impatto più diretto potrebbe provenire da un flusso emigratorio da quel paese, da parte di gruppi che si sentano minacciati dal nuovo regime. (III) Un pericolo reale può provenire dalla proliferazione nucleare o da altre armi di distruzione di massa, le quali, in mano a pochi esaltati, possono ben neutralizzare l'enorme superiorità convenzionale dell'Occidente. E poiché uno degli obiettivi degli slogans del radicalismo islamico è l'Occidente… la vulnerabilità esiste, ed è un problema squisitamente strategico-militare. Quanto al punto (IV), e cioè al terrorismo, questo esiste, è una minaccia concreta sia nei confronti di cittadini occidentali che operano in paesi ove il radicalismo islamico "militante" è attivo (si veda il caso dell'Egitto sopra descritto, oppure l'Algeria - dove gli orrori non si contano più), sia nel nostro stesso paese. In quest'ultimo caso, il terrorismo può essere utilizzato contro obiettivi "occidentali", volendosi colpire il "nemico Occidente" in quei punti che sono al tempo stesso il simbolo della "sua" occidentalità e superiorità tecnologica; oppure, data la massa di immigrati, il nostro territorio può divenire molto più semplicemente una base operativa, nel quadro delle strategie di destabilizzazione interne ai diversi paesi di provenienza, per combattersi fra di loro.
Sono più rilevanti i riflessi sulla nostra sicurezza da parte di eventi non militari: (I) l'eventualità di destabilizzazione interna ad opera di gruppi radicali, la quale provochi una ondata improvvisa di migliaia di emigranti; (II) la pressione demografica "normale", dato l'enorme gap demografico e di ricchezza fra noi e loro. Per quanto riguarda il primo punto, immigrazioni nuove e superiori a quello che è metabolizzabile potrebbero provocare gravi riflessi nella criminalità organizzata, una radicalizzazione della lotta politica, l'insorgere di movimenti xenofobi e razzisti, lo spostamento dell'asse politico interno verso una destra radicale e fondamentalista a sua volta.
L'esplosione demografica dell'Islam è una realtà; alimenta la povertà, la disoccupazione e, come si è visto, rende il terreno pericolosamente fertile alla diffusione delle ideologie radicali più estremiste. Si è anche già accennato al fenomeno mostruoso dell'urbanizzazione selvaggia e dell'ammassamento della popolazione in megalopoli dove si vengono determinando situazioni sempre più esplosive legate a nuove esigenze - come nei settori dell'acqua, dell'elettricità, della sanità ed igiene. L'urbanizzazione accresce le difficoltà di sviluppo, è causa di tensioni e difficoltà di ogni genere, di epidemie ecc. Il rurale si sente emarginato, torna a rivolgersi alla moschea, si rifugia nel religioso alla ricerca di valori, istituzioni e servizi che il centro non è più in grado di offrire. L'esplosione demografica aggrava ulteriormente la drammaticità della situazione creando nuove masse di sottoproletariato urbano, di diseredati, di umiliati. Vi sono poi gli esclusi dalla compartecipazione al potere: la giovane generazione degli istruiti, degli ingegneri, degli architetti, dei medici, dei fisici, dei biologi ecc.; questi - pieni di ideali di giustizia sociale e sviluppo economico - vorrebbero prodigarsi per il loro paese, ma non appartengono alla élite che detiene il potere né alla sua clientela, a quella élite - spesso occidentalizzata e largamente corrotta - che gestisce il potere per trarne il massimo utile possibile per sé e per la sua famiglia/clientela. E questi "esclusi" - oggi appunto non più analfabeti o sottoproletariato abbrutito - oggi questi esclusi si uniscono alla grande massa degli altri, confluendo nelle fila del radicalismo che cerca nell'islam non tanto la fede quanto quell'insieme di valori politico-sociali ed economici in grado di rivitalizzare una società stremata e consentire al paese una ragionevole via di sviluppo. Oggi, questi esclusi rappresentano l'alternativa al potere in carica, rappresentano il ricambio generazionale, rappresentano un potere che affondi le sue radici nei princìpi di un islam rivisitato e si regga su una classe di tecnici e professionisti. Il collasso delle attuali leaderships occidentalizzate - e delle strutture statuali cui queste hanno dato espressione - ha determinato anche il riemergere delle tradizionali strutture etnico-tribali e clanico-familiari (che sono sempre molto forti), con i loro individualismi e particolarismi, con le loro rivalità e lotte spesso molto cruente. L'Islam radicale si contrappone a questo stato di cose, e si ripropone come elemento di ordine, di coesione "nazionale", di giustizia sociale e di sviluppo economico di statualità, stato territoriale e nazionale al tempo stesso. E per questo "deve" guardare ancora all'Occidente.
Ed a questo punto, l'Occidente - ed anche noi - ne siamo direttamente coinvolti.
In ogni caso veniamo ad esserne coinvolti, sia che questa lotta interna - inevitabile esplosione di violenza - si presenti col volto del terrorismo (e di questo si è detto sopra), sia che essa provochi migrazioni di massa, sia che questa si configuri come una minaccia a interessi strategici ed economici nostri in una determinata regione. Non solo; le conseguenze potrebbero essere ancora più gravi per un paese "Mediterraneo" come l'Italia: data la porosità del concetto "confine" nell'Islam, data l'elasticità dei legami clanico-familiari, data la fluidità e "personalità" di quelle solidarietà religiose che nell'islam trascendono frontiere e confini, sono universali e mobilissime… allora, la violenza, non più localizzata, potrebbe coinvolgere rapidamente altri stati loro malgrado (le vicende del POLISARIO, ad esempio, oppure ancora quelle dell'Algeria che, in caso di vittoria dell'estremismo islamico, potrebbero provocare gravi ripercussioni a breve termine su Marocco e Tunisia).
In ogni caso, è ormai imprescindibile l'apertura a una politica di coordinamento nell'ambito della Comunità internazionale e delle istituzioni europee. Ma questo è un altro discorso. Qui si vuole concludere con altre espressioni.
Sullo sfondo cupo e negativo appena delineato - dove anziché collaborazione, convivenza e dialogo sembra dominare il demone dell'odio, del potere e della violenza - si possono purtuttavia cogliere alcuni elementi che consentono di ridimensionare lo spettro del Feroce Saladino. Ritornando a quanto affermato in premessa e, analizzando sine ira et studio, gli aspetti fondamentali del radicalismo islamico, senza processi dall'una e dall'altra parte, è possibile constatare che le posizioni rispettive non sono sempre ispirate a conflittualità verbale… e armata.
L'islam radicale, ossia l'islam del ritorno alle origini e alle radici di un passato rivisto come glorioso, sublime e sublimante, non implica necessariamente sovvertimento, disordine, violenza, minaccia all'Occidente. In taluni momenti storico-culturali e in talune circostanze, l'islam radicale ha dato vita a movimenti politici "di ricambio"; ha avuto un ruolo costruttivo: basti pensare al "risveglio", alla "rinascita", quella stupenda rinascita culturale (cui ha concorso anche l'Occidente) che ha fatto uscire l'islam dal ristagno culturale e politico in cui era insterilito, per riacquistare piena coscienza di se stesso e dei valori di cui è portatore. Basti pensare al periodo successivo a quel primo dopoguerra pieno di aspirazioni, illusioni, miti… e tragiche delusioni; basti pensare a quello che il radicalismo islamico ha costituito in "quel" momento, in un momento in cui tutto era da ricominciare e tutto era da ricostruire: sul piano della dottrina come su quello della tecnica. Basti pensare ancora al ruolo di cui si investì nel secondo dopoguerra l'Islam progressista, fornendo allo sviluppo sociale ed economico tecnici e professionisti.
Ed infine, al di là di posizioni dogmatiche apparentemente inconciliabili ed esasperate da positivi contrasti di interessi e di potere, basta guardare oggi a quei paesi dove l'islam radicale è andato al potere - oppure lo co-gestisce con le istituzioni tradizionali - come è il caso del Pakistan, della Turchia e della Giordania di re Husein dei Banû Hâshim. È la linea su cui si sta muovendo l'Egitto di Mubarak - come si è visto non senza enormi difficoltà e problemi -; è la linea su cui sembra muoversi il F.I.S. algerino (24).
È essenziale distinguere fra movimenti islamici a contenuti anche radicali e terrorismo. E l'analisi che precede fornisce utili chiavi di lettura in tal senso, evitando facili psicosi, fra cui - la più facile e la più grave di tutte - quella che, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo e del bipolarismo, l'islam radicale sia divenuto il nemico principale da cui guardarsi e da combattere.(25) Le conseguenze di un diffondersi di una simile visione potrebbero essere gravissime. Viceversa, sempre distinguendo sine ira et studio, la conclusione inevitabile è che: con i primi si può dialogare, con il secondo - ossia con il terrorismo - non è possibile alcun dialogo. Con i primi, oggi si può, anzi si deve, cercare dialogo e offrire mediazioni per agevolare il necessario ricambio di classi politiche ormai bruciate dai loro errori e fallimenti (è emblematico il ruolo svolto dalla Comunità di S. Egidio per l'Algeria, come mediazione fra FIS e "generali"). Il recupero di un margine ragionevole di collaborazione e dialogo nella ricostruzione di un ordine politico, sociale ed economico a Sud non può che avere un riflesso positivo su quella che è la "nostra" sicurezza e il nostro ordine.


(1) B. Etienne, L'islamismo radicale, Milano 1988, p. 144 sgg.; B. Lewis, Il linguaggio politico dell'Islam, Bari 1991, pp. 136 et infra; W.M. Watt, Islamic Fundamentalism and Modernity, London 1988, p. 2; P. Branca, moderatismo e opposizione estrema in Egitto, in "politica Internazionale - dossier "radicalismo islamico e lo Stato etico ", XXII (1994), 2, pp. 150-170; Dan V. Segre, la pericolosa ambizione del fondamentalismo islamico, in "Relazioni Internazionali", agosto 1995, pp. 2 sgg.
(2). In questo caso e in questa accezione sarebbe forse preferibile usare il termine di "integralismo", ma sempre con i limiti e le riserve specificate.
(*) Per la trascrizione/traslitterazione dei nomi dall'Arabo, è stato seguito il sistema adottato dalla Enciclopedia Italiana molto semplificato. In particolare, le vocali sono da leggere come le corrispondenti italiane; le consonanti seguono la pronuncia inglese: sh=sc di sciatore, w=u, th e dh come due pronunce inglesi di th. È da aggiungere che kh corrisponde a una aspirazione forte, j corrisponde alla g dolce di "giada", mentre g corrisponde alla g dura di "gatto". L'accento cade sulla vocale lunga (â î û) più vicina alla fine di parola.
(3) B. Lewis, Il linguaggio politico dell'Islam, op. cit., p. 132 et infra.
(4) B. Lewis, Europa barbara e infedele, Milano 1981; G. Levi Della Vida, Nazione Araba e Nazionalismo Arabo, in "Aneddoti e Svaghi Arabi e non Arabi", Napoli-Milano 1959, pp. 140 e sgg.; F. Gabrieli, Il Risorgimento Arabo, Torino 1958; P. Mingant, I movimenti politici arabi, Roma 1971.
Uno dei punti centrali - su cui i movimenti radicali islamici sono irremovibili - è proprio dato dalla concezione della nazione come "una" "unica" "indivisibile" "universale" e "islamica", in netta contrapposizione alla etnicità e al tribalismo - elementi di frammentazione e negazione dell'Islam delle origini. Su questa posizione si espressero in maniera sistematica - per primi - Mawdûdî e l'Associazione dei Fratelli Musulmani; v. Mawdudi, The Sick Nations of the Modern Age, Lahore 1966. Cfr. anche V. Fiorani Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano, Collana del Centro Militare di Studi Strategici, "Rivista Militare", Quaderno n. 31, Roma 1991, e n. 52, Roma 1994.
(5) Presero veemente posizione contro l'ideologia marxista soprattutto i Fratelli Musulmani (Sayyid el-Qutb in particolare) e Mawdûdî. Nelle loro opere ne denunciano spietatamente i limiti ideologici, il fallimento sociale ed economico, la eterodossia nei confronti dell'Islam.
(6) Quattro pan-ismi interessano in particolare il mondo islamico, di cui due trans-etnici (Pan-Arabismo e Pan-Turchismo) e due trans-nazionali (Pan-Islamismo e Pan-Turanesimo).
I primi hanno un volto più squisitamente "etnico" (turco, arabo), e hanno i loro principali esponenti in Mohammad 'Abduh (1849-1905), Rashîd Ridâ' (1865-1935), Ziyah Gökalp, Ismail Beg Gasprinsky (Gaspraly, 1851-1914), ecc.
Cfr. fra la ricchissima letteratura in merito, Y. M. Choueiri, Islamic Fundamentalism, London 1990; P. Minganti, I movimenti politici arabi, op. cit.; H. Carrère d'Encausse, Réforme et Révolution chez les Musulmans de l'Empire Russe, Bukhara 1867-1924, Paris 1966; K.H. Karpat, Modern Turkey, in Holt, Lambton, Lewis (eds.), The Cambridge History of Islam, specif. vol. I, Cambridge 1970; e A. Bennigsen, I Turchi sotto il dominio zarista e sovietico, in Storia Universale Feltrinelli: Asia Centrale.
Qui, interessa in particolare il Pan-Islamismo, movimento che ebbe un carattere più universale, e trovò in Jamâl al-Dîn al-Afghânî (1837-1897) un propugnatore ed appassionato agitatore, violento quanto infaticabile. Con Jamâl al-Dîn al-Afghânî, e con il Pan-Islamismo, sembrò anche che lo spettro delle guerre di religione dovesse tornare ad abbattersi sull'Europa…ed oltre. Fra i molti contenuti che il Pan-Islamo diffonderà fra i musulmani di tutto il mondo, merita segnalare: anzitutto il concetto di "nazione" e l'idea nazionale. Jamâl al-Dîn non intese ostacolare l'idea "nazionale", non almeno in maniera sistematica; egli considerava la "nazione" come un concetto del tutto estraneo alla sharî'ah se intesa in senso "etnico"; la sharî'ah postula infatti la unità/unitarietà di tutta la Comunità (islamica) in un unico stato (islamico anch'esso), retto e governato da un "principe dei credenti" (musulmano) secondo le norme contenute nel Corano. Pertanto, l'idea di nazione come intesa dall'Occidente in senso etnico-culturale e territoriale è da considerarsi - agli occhi del panislamismo predicato da Jamâl al-Dîn al-Afghânî - come un concetto del tutto estraneo all'Islam. In questo senso venivano solennemente riaffermati i sacri princìpi della universalità e extra-territorialità della società islamica, della personalità del diritto (islamico) e della artificiosità di ogni confine artificiosamente tracciato dalle Potenze Coloniali. I pilastri della fede e della società erano costituiti dal Corano e poggiavano sulla shari'ah, ossia sulla tradizione islamica purificata da ogni sovrastruttura e interpretazione deviante. Il Pan-Islamismo di Jamâl al-Dîn identificava pertanto la lotta nella lotta per la riappropriazione della vera fede (ampio movimento di rilettura ed esegesi delle fonti) e per la rifondazione di una società, quale postulata dal Corano e realizzata da Maometto nei primi anni d'oro dell'Islam. Alla cultura europea, Jamâl al-Dîn opponeva il Corano e la dottrina classica dell'Islam, propugnando una lotta senza quartiere contro ogni prestigio straniero, sinonimo soltanto di dominio, corruzione e sfruttamento. Nel suo appassionato messaggio, al-Afghânî arrivò a sostenere che il fine giustificava ogni mezzo, e pertanto, quando necessario, era lecito ricorrere alla violenza, allo spargimento del sangue fino al tirannicidio per la riconquista della vera fede e della vera società islamica.
L'ideologia pan-islamica avrà ampissima diffusione; infiammerà intellettuali e masse; farà tremare più di un trono e più di un regime. In Persia travolgerà lo stesso sovrano; in Egitto esploderà nella rivolta di 'Orabi Pashà (1882) - oggi simbolo del vero nazionalismo egiziano islamico -; ed indubbiamente continua ad avere largo seguito fra i movimenti radicali islamici. L'Associazione dei Fratelli Musulmani si considera figlia del Pan-Islamismo e, in particolare, del pensiero di Jamâl al-Dîn al-Afghânî, Mohammad 'Abduh e Rashîd Ridâ'.
(7) Sulla corrispondenza intercorsa fra Sir McMahon e Husein della Mecca (1915-1916) per l'entrata in guerra degli Arabi contro l'Impero Ottomano, v. V. Fiorani Piacentini, Processi di decolonizzazione in Asia e in Africa, Milano 1991, pp. 146 sgg.; per la documentazione relativa, v. "Oriente Moderno", 19 (1939), pp. 186-200.
È interessante sottolineare come il termine "nazione" non compaia mai, in nessun documento ufficiale originale in lingua araba e in nessuno dei termini con cui questo concetto - squisitamente europeo - sarà tradotto in arabo; viceversa, la versione ufficiale in lingua inglese parla di "Arab Nation", laddove la versione araba riporta "gli Arabi tutti" oppure "il Popolo Arabo", ecc.
La rivolta del deserto fu la risposta "araba" alla dichiarazione di guerra dell'Impero Ottomano alle Potenze dell'Intesa (novembre 1914) espressa nei termini della più rigida ortodossia islamica come "proclamazione del jihâd"; v. V. Fiorani Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano, op. cit., vol. I, pp. 127-133.
(8) Mentre le Potenze Centrali - avendo l'Impero Ottomano proclamato la "guerra santa contro gli infedeli" - si preoccupavano dei musulmani residenti all'interno dei propri territori e di possibili insurrezioni, le Potenze dell'Intesa, appena siglati gli accordi McMahon-Husein, si erano affrettate a definire i propri interessi con nuovi accordi segreti. Questi sancivano la spartizione dell'agonizzante Impero Ottomano, e riconoscevano rispettive sfere di influenza: gli accordi franco-britannici per gli Stati Arabi (o Accordi Sykes-Picot) del 9-15-18 maggio 1916, fatti conoscere alla Russia il 19 marzo 1916 riconoscendo a Mosca i suoi diritti sugli Stretti; gli Accordi di San Giovanni di Moriana con l'Italia del 20 aprile 1917. Si aggiunga la Dichiarazione di Balfour, del 1917. Circa i testi di questi accordi, v. V. Fiorani Piacentini, Processi di decolonizzazione… op. cit., pp. 168 sgg.
(9) Basti ricordare: la rivolta Wahhabita degli Al Sâ'ud, la quale - con l'appoggio diplomatico e militare della Gran Bretagna - mirava a costituire un proprio regno arabo, indipendente e islamico nella Penisola Arabica a spese dello stesso Hijaz - territorio dei Banu Hashim dei sopra ricordati accordi Husein-McMahon (era del 26 giugno 1916 il proclama ufficiale del Sharif della Mecca, Husein, che incitava gli Arabi a insorgere contro i Turchi); in Libia, la Senussia dimostrava il massimo disinteresse alla creazione di uno stato arabo, grande e unico, preoccupata non tanto dalla guerra contro l'Italia quanto dalla eventualità di perdere il prestigio e i benefici che le provenivano dalla attuale posizione; l'ostilità dell'Egitto era più che mai evidente: dichiarato protettorato dalla Gran Bretagna nel 1914 (alla vigilia della Grande Guerra, a tutela degli interessi inglesi strategico-militari ed economici), esso era impegnato nella lotta per la "propria" indipendenza e, se mai, guardava a un grande stato arabo sotto il primato egiziano secondo le linee tradizionali della politica egiziana (valle nilotica e Siria). Quanto al Maghreb, il nazionalismo berbero aveva ripreso la tradizionale aggressività, e mai avrebbe approvato la creazione di un grande stato arabo.
(10) V. V. Fiorani Piacentini, Il pensiero militare op. cit., specif. vol. I, pp. 192 sgg e vol. III, pp. 10 sgg. per i testi più significativi.
(11) In proposito si rinvia a quanto detto all'inizio di questo saggio, specif. al paragrafo 1, Definizioni e contenuti, pp. 40-44.
(12) Di proposito parlando di radicalismo islamico e di movimenti estremisti islamici non si è fatto - e non si farà - alcun riferimento al Ba'th.Tuttavia, data la ricorrente confusione di termini (e di concetti), si ritiene necessaria una precisazione in merito. Il "Partito socialista della Resurrezione Araba" (Hizb al-Ba'th al-'Arabî al-Ishtirâkî) è di solito citato semplicemente come al-Ba'th: la Resurrezione; è l'idea della resurrezione della nazione araba perché riprenda la sua missione eterna, affidatale nel mondo per il bene dell'umanità tutta: è questo il principio base della corrente di pensiero dalla quale il partito ha poi preso nome.
La definizione di questa idea chiave, e la sua elaborazione in chiave ideologica e in sistema coerente (anche se non sempre originale come pensiero) fu opera di un siriano, Michel 'Aflaq. Nato a Damasco nel 1910 da famiglia greco-ortodossa, 'Aflaq si accostò ad associazioni nazionalistiche arabe. Tornato a Damasco, si dedicò a studi storici e alla politica non tanto come militante quanto come pensatore; sul piano pratico l'affermazione e la realizzazione delle sue idee fu opera di un altro arabo, suo giovane amico, Salâh el-Dîn el-Bitâr (n.1912). Le idee di 'Aflaq trovarono terreno fertile fra giovani studenti e intellettuali arabi sia cristiani che musulmani; ne nacque un "movimento" (harakah) della resurrezione araba", il cui primo atto politico fu, nel 1943, in appoggio a Shukrî el-Quwwetlî, esponente del movimento di lotta contro il colonialismo francese. Si costituirà a partito vero e proprio nel 1945; nel luglio 1947 avrà luogo a Damasco il suo primo Congresso.
Il movimento - poi partito del Ba'th - ebbe sempre come suo motto: "Una sola nazione araba, avente una missione esterna", motto che conserva ancora oggi; ed ancora, nello statuto del 1947 fu approvato: "la 'resurrezione araba' è un movimento nazionale, popolare, rivoluzionario, il quale lotta per l'unità araba, la libertà e il socialismo".
Quanto sopra spiega meglio di ogni altra digressione il perché il Ba'th - pur essendo un partito rivoluzionario per sua stessa definizione - non è assimilabile ai riformismi/radicalismi islamici: il Ba'th non è un movimento/partito islamico! E questo spiega anche la sua diffusione rapida al di là delle frontiere siriane, fra la popolazione e gli stati arabi. E questo spiega anche come - membri del partito Ba'th - non siano solo musulmani, bensì anche cristiani "purchè arabi". La grande idea di Michel 'Aflaq - lui stesso greco-ortodosso, come si è detto - fu appunto quella di individuare nell'arabismo il centro coagulante di una nuova ideologia (non confessionale) in un contesto che, dal punto di vista confessionale, era un vero e proprio mosaico: musulmani sunniti, musulmani sciiti, drusi, copti, greco-ortodossi, armeni, cattolici ecc. ecc. Questo era (ed è largamente ancora oggi) il contesto culturale della Siria, del Libano e dello stesso Irak. Il Ba'th non rivendica mai una identità "islamica": "unità e libertà della nazione araba" "personalità della nazione araba" "missione della nazione araba" sono i princìpi fondamentali su cui si strutturerà l'ideologia del Partito della resurrezione araba; i suoi programmi in campo ideologico (partito arabo "universale" "rivoluzionario" "socialista" "popolare" ecc.), partitico, economico, sociale, culturale sono sempre destinati al "popolo arabo", alla "donna araba", alla "famiglia araba" ecc. La politica di insegnamento del partito mira a creare una nuova generazione araba, credente nella umanità della sua nazione e nella eternità della sua missione. L'azione del partito sarà sempre caratterizzata da una strategia per la conquista del potere; e questa strategia non rifuggirà da alleanze occasionali con il Partito Socialista Arabo (con il quale si fonderà nel 1953), e con i Partiti Comunisti locali. Oggi il Ba'th è al potere in Siria e in Irak. La Costituzione Siriana proclama infatti la Siria "Paese Arabo" (non è mai "islamico"); solo nel 1954 una modifica costituzionale preciserà che il Presidente deve essere musulmano.
(13) "Dio è il nostro fine - L'Inviato è il nostro modello - Il Corano è la nostra Legge - il Jihâd è il nostro cammino - Il Martirio è la nostra aspirazione": sono questi i cinque pilastri della dottrina dei Fratelli Musulmani, quali stesi dal fondatore della Associazione Hasan el-Bannâh . Sulla Associazione e sulla dottrina dei Fratelli Musulmani esiste una bibliografia vastissima, in lingue tanto occidentali che "orientali", molto ricca e varia per quantità e qualità. Per alcuni testi - fra i più significativi per la loro attualità - mi limito a rinviare a: Les Frères Musulmans - Courans Actuels dans l'Islam, a cura del Pontificio di Studi Arabi e Islamici, in "Etudes Arabes - Dossiers", n. 61, 1981-1982, 2 voll. (alla cui bibliografia si fa anche rinvio). Cfr. Altresì: V. Fiorani Piacentini, Il pensiero militare nel mondo musulmano, op. cit., specif. vol. 1, pp. 192-206 e note bibliografiche; vol. III, pp. 117 sgg.
(14) Mawdûdî, The Sick Nations of the Modern Age, Islamic Publications, Lahore 1966; Idem, Towards Understanding Islam, Islamic Publications, 6ª ed., Lahore 1960; et alia. Cfr. anche W. M. Watt, Islamic Fundamentalism, op. cit., pp. 55 sgg. e Y. M. Choueiri, Islamic Fundamentalism, London 1990.
(15) Mawdûdî, The Economic Problem of Man and its Islamic Solution, Islamic Publications, Lahore 1978, p. 33, p. 35 et infra.
(16) Mawdûdî, Islamic Way of Life, Islamic Publications, Lahore 11ª rist., 1979, p. 39; Idem, First Principles of the Islamic State, Islamic Publications, Lahore 1983, pp. 16-64; Idem, Rights of Non-Muslims in the Islamic State, Islamic Publications, Lahore 1982.
(17) Mawdûdî, Jihâd in Islam, Islamic Publications, Lahore 1976; Idem, Minhâj al-Inqilâb al-Islâmî, Il Cairo 1977.
(18) S. Huntington, The Clash of Civilizations, in "Foreign Affairs", Summer 1993. Idem, If not Civilizations, what?, in "Foreign Affairs", Nov-Dec., 1993, pp. 186-194. Si vedano anche - fra gli altri - gli articoli di Adam Tarock, Civilizational Conflict? Fighting the Enemy under a New Banner, in "Third World Quarterly", vol. 16 (1995), n. 1; J. O'Hagan, Civilizational Conflict? Looking for Cultural Enemies, ibidem, vol. 16 (1995), n. 1. Questa - e altre affermazioni consimili, fra cui quelle dello stesso Segretario Generale della NATO, Willy Claes nel febbraio 1995 - hanno suscitato una ondata di emozioni ed energiche reazioni sia da parte "occidentale" che islamica (si veda ad esempio il quotidiano "Al-Quds al-Arabi"); molto puntuale in merito è l'articolo di una Senior Lecturer in Middle East and islamic Studies al Westhill College di Birmingham, Dr. Haifaa A. Jawad, Islam and the West: How Fondumental is the Threat?, in Defence and National Security, Rusi Journal, August 1995, pp. 34 sgg.; e John L. Esposito, The Islamic Threat: Myth or Reality?, Oxford Univ. Press, Oxford 1992.
(19) V. F. Piacentini (a cura di), La disintegrazione dell'impero sovietico. Problemi di sicurezza nazionale e collettiva in Asia Centrale, Collana del Centro Militare di Studi Strategici - Rivista Militare - vol. n. 70, Roma 1995.
(20) Il concetto di "rivoluzione" fu reso dottrina e ideologia da Jamâl 'Abd el-Nâser (Nasser): La philosophie de la Revolution, ed. Il Cairo 1956, e perfezionato da Anwar el-Sadat, Revolt on the Nile, London 1957. Per il pensiero di Gheddafi, basta rinviare al suo "Libro Verde", di cui esistono molteplici edizioni, e alla rivista "Risalat al-Jihad", Tripoli di Libia - Beirut.
(21) L'attentato al Presidente egiziano Sadat nell'ottobre 1981 fu opera di elementi al-Jihâd, mentre attivisti di al-Jamâ'ah al-Islâmiyyah attaccavano il Dipartimento di Sicurezza di Assiut, causando la morte di centinaia di poliziotti. Dopo l'attentato a Sadat, i capi dei due gruppi furono arrestati, e ciò provocò gravi contrasti circa la guida dei movimenti e le strategie.
(22) Sul radicalismo islamico e sui diversi movimenti estremisti che oggi ne caratterizzano le fasce armate, vi è una ricca letteratura più (o meno) esaustiva, più (o meno) distaccata e obiettiva. Qui, mi limito a rinviare a una raccolta di studi - molto puntuale - sulla crisi dottrinale dell'Islam del post-bipolarismo, una crisi che sta coinvolgendo sia l'Islam ufficiale al potere che quello "radicale" all'opposizione: Ghassan Salamé (a cura di), Démocraties sans démocrates - Politiques d'ouverture dans le monde arabe et islamique, ed. Fayard, Paris 1994. Cfr. anche R. Redaelli, L'islam radicale e l'islam delle origini dinanzi all'Occidente: alla difesa delle nuove frontiere, in "Relazioni internazionali", 1995 n. 2; Sh. Hunter, New Global Trends in Culture and Identity, in "The International Spectator", XXX, 2, 1995; E. Gellner, Le basi sociali del fondamentalismo islamico, in "Modernizzazione e Sviluppo", 3, 1995.
(23) Non dissimile di quello egiziano è il nuovo volto del radicalismo islamico algerino, dove il Fronte Islamico di Salvezza (FIS) sta coagulando intorno a sè vaste fasce della popolazione, sia le masse rurali e dei diseredati sia gli "esclusi" delle professioni; esso si è posto come alternativa all'attuale leadership, ne denuncia apertamente il fallimento economico e sociale - e quindi anche politico/ideologico - e si batte per il potere. Dopo la Firma della "piattaforma di Roma", anche il FIS sta operando un faticoso distacco dai suoi due bracci armati, il GIA e il MIA. Sugli eventi algerini è puntuale fonte di notizie "RAMSES '95", IFRI, 1994, p. 73., specif. Turbolences Islamistes pp. 84-97. Anche i recentissimi avvenimenti sudanesi sono espressione di un radicalismo islamico andato al potere. Non dissimile è l'esperienza khomeynista in Iran. Diverso è, viceversa, il caso della Giordania - dove i Fratelli Musulmani co-garantiscono il potere.
(24) Il punto cruciale - non soltanto in Algeria - è il sistema elettorale adottato: l'ultima roccaforte di una élite al potere, che non intende lasciare o condividere con forze nuove. Per una puntuale, schematica analisi sulla sicurezza nel Mediterraneo e i rischi da Sud, v. C. Jean, Situazione e prospettive della Sicurezza in Mediterraneo, "Europe Programme", Oslo 19/09/1995.
(25) Si veda - ad esempio - la dichiarazione rilasciata a un giornale tedesco nel febbraio 1995 dal Segretario Generale della NATO, Willy Cles; "Fondamentalism is just as much of a threat to the west as communism was, in middle east international", 3 march 1995, p. 16.

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA