L'Ufficio centrale per la sicurezza (UCSI) assolve a compiti direttivi, di coordinamento, di controllo per l'applicazione delle procedure di sicurezza derivanti direttamente da norme interne o dagli accordi internazionali NATO e comunitari. È ufficio servente rispetto all'Autorità nazionale per la sicurezza (ANS), perciò guida e controlla l'insieme degli organi che all'interno della Pubblica amministrazione sono addetti alla gestione del segreto di Stato. Fissa inoltre le norme e le procedure attraverso le quali il segreto viene tutelato, nel campo dei documenti, dei materiali, delle telecomunicazioni, dei sistemi informatici. Comprende due Divisioni ed impiega 115 persone in organico, di cui 104 effettivi.
Questo Ufficio è stato strettamente legato al Servizio segreto militare fino al 1991: fin quando il Direttore del SISMi ha continuato ad essere investito dei compiti di Autorità nazionale per la sicurezza.
Prima delle circolari riservate emanate dal Presidente del Consiglio Francesco Cossiga il 23 novembre 1979 e il 5 gennaio 1980, l'Ufficio aveva la sigla USI (Ufficio sicurezza), ma l'assetto era lo stesso; e prima ancora (fino alla metà degli anni 60) i medesimi compiti venivano svolti dall'USPA (Ufficio sicurezza del Patto Atlantico). Fu il generale Giovanni De Lorenzo a definire questo organo come "collaterale del SIFAR". (20)
La dottrina ha individuato la sua competenza fondamentale, sulla base degli scarsi elementi di cognizione disponibili, nel "rilascio del Nulla osta di sicurezza - così scrive Giovanni Cocco in un libro del 1980 - cioè di una forma di benestare che non solo condizionava a fonti particolarmente riservate…, ma condizionava di fatto l'accesso ad una serie di incarichi e di funzioni importanti fino a quelle ministeriali". (21) Va segnalato che la formula "Nulla osta di sicurezza", qui riferita, è dubbia e, almeno nell'ordinamento attuale, non esatta. Infatti, nelle norme regolamentari riservate oggi in vigore, alla sigla NOS si fa solitamente corrispondere l'espressione "nulla osta di segretezza".
Storicamente, si rispecchiava nell'USPA una posizione di subalternità del Servizio segreto italiano rispetto all'organizzazione NATO ed alla potente Agenzia di intelligence statunitense. Il rapporto è divenuto, con gli anni, meno stringente, ma l'assoluta discrezionalità e l'assenza di regole hanno continuato ad essere i caratteri essenziali di questo Ufficio, peraltro mai sottoposto finora ad un controllo parlamentare.
Il Comitato si è particolarmente soffermato sulla procedura per la concessione del Nulla osta di segretezza. Si tratta di un'abilitazione (deliberata dall'ANS) che concede ad una persona o ad una impresa (e specificamente a determinate persone che la rappresentano) l'accesso a notizie, documenti o materiali ai quali è attribuita una classifica di segretezza. Può esservi per le imprese un'abilitazione preventiva che consente di partecipare a gare d'appalto, per lavori nei quali vi siano problemi di sicurezza e di tutela del segreto, e che si converte poi in un vero e proprio Nulla osta complessivo, sulla base di ulteriori indagini.
La procedura è comunque prevista:
- per gli ufficiali generali, colonnelli e gradi equipollenti; (22)
- per i funzionari direttivi e di concetto appartenenti all'amministrazione della Difesa ed alle amministrazioni delle forze armate;
- per i cancellieri della giustizia militare;
- per i civili dipendenti da tutte le altre amministrazioni civili dello Stato, e civili con incarico di esperti, destinati a rappresentare periodicamente lo Stato a riunioni NATO e UEO;
- per i civili dirigenti ed impiegati dipendenti da ditte industriali o commerciali, da organismi pubblici e privati, che trattano documenti riservati o che concorrono (con richieste di autorizzazione inoltrate al Ministero dell'industria e del commercio o ad altre amministrazioni) per la progettazione o l'esecuzione di lavori classificati o per la partecipazione a gare relative a progetti o lavori per infrastrutture NATO o comunque da proteggere.
Il NOS ha validità per sette anni ed un anno prima della scadenza dev'essere inoltrata la richiesta di rinnovo. Per il personale NATO i termini sono, rispettivamente, di cinque anni e di sei mesi. Se il rinnovo è chiesto entro i termini e nelle more il Nulla osta giunge a scadenza, esso conserva validità fino al momento in cui è resa nota la nuova delibera. Prima del termine l'UCSI, sulla base di segnalazioni (per esempio relative a vicende giudiziarie) e di nuovi accertamenti, può decidere la revoca del NOS.
La prima e fondamentale protezione del segreto e delle stesse persone abilitate consiste nel non abilitare coloro che comunque possano presentare un lato vulnerabile. Ma quali sono i criteri di giudizio? L'aver adottato il concetto vago di vulnerabilità come elemento ostativo all'abilitazione può consentire le valutazioni più diverse.
Negli anni della guerra fredda venivano considerati inidonei a trattare documenti o attività con requisiti di segretezza i cittadini che avevano orientamenti politici avversi all'Alleanza atlantica. Vi era nella loro esclusione da determinate funzioni o impieghi, ai quali avrebbero avuto altrimenti diritto, una deroga al principio di uguaglianza, stabilita in evidente contrasto con la Costituzione. Oggi di quelle discriminazioni si coglie soltanto un residuo.
Il rilascio dei NOS continua ad avere effetti rilevanti nella vita professionale di numerosissimi soggetti (in gran parte militari e dipendenti pubblici) così come nelle attività e negli affari di molte imprese. Le deliberazioni dell'UCSI possono modificare radicalmente carriere individuali, possono far partecipare l'una o l'altra impresa ad appalti remunerativi o possono escluderla. È grande il potere che così viene esercitato. Ma si tratta di un potere che non è disciplinato da alcuna regola legislativa e che è svincolato da ogni controllo. La sua assoluta discrezionalità rischia continuamente di trasformarsi in irragionevolezza e in arbitrio. O - come pure avviene spessissimo - dà luogo ad indagini di routine che si riducono a mera ed inutile apparenza.
Il nulla osta di segretezza viene richiesto all'UCSI dall'ente interessato. L'Ufficio, a sua volta, chiede di regola ai Carabinieri, attraverso le strutture territoriali, di svolgere indagini. Se vi sono aspetti concernenti la sfera economica e finanziaria, è possibile che si sollecitino indagini da parte della Guardia di finanza. Il tipo di investigazione e la scelta degli organi da attivare dipendono da una piena discrezionalità.
Le indagini riguardano la persona, le sue attività, i suoi congiunti ed hanno una maggiore o minore estensione (per esempio fino ai congiunti conviventi o anche al di là di essi) a seconda del livello di segretezza a cui il soggetto abilitato dovrà accedere.
Il generale Rodolfo Guarino, Direttore dell'UCSI, al quale il Comitato dà atto di una collaborazione leale e proficua, che ha consentito di effettuare per la prima volta un controllo su questo Ufficio, ha, tra l'altro, dichiarato che le richieste inviate all'Arma dei carabinieri sono numerosissime. Le pratiche comuni, per le quali non vi sono specifiche segnalazioni dal centro, sono trattate con una notevole lentezza. Le strutture territoriali dei Carabinieri, quando non sono sollecitate, non le smaltiscono tempestivamente: "Quando c'è invece qualche indicazione particolare - ha soggiunto - allora si approfondisce mediante l'Arma dei carabinieri o anche con la Guardia di finanza". A tale scopo l'UCSI raccoglie tutte le informazioni utili ad indirizzare gli approfondimenti e le indagini più mirate. Può interessare il SISMi, domandando se esistano su un determinato soggetto controindicazioni riferite alla sicurezza nazionale. C'è insomma un duplice livello degli accertamenti. Da un lato, vi è la richiesta ai Carabinieri, che procedono secondo i loro normali schemi di attività ed in base a formulari informativi standardizzati. Dall'altro, vi è la possibilità che dal centro una determinata pratica venga pilotata, con segnalazioni particolari e sollecitando informazioni più specifiche. L'Ufficio dunque non è solo destinatario di notizie e non si limita ad ordinarle. Ha anche un ruolo attivo nella raccolta delle informazioni.
Risulta, d'altra parte, che l'UCSI ha promosso specifiche indagini su persone, nel 1992, quando si profilò l'ipotesi di illeciti disciplinari e penali commessi da funzionari del SISDe. Allora, il Segretario generale del CESIS, ambasciatore Francesco Paolo Fulci, costituì un nucleo misto, composto da personale dell'UCSI e del CESIS, per verificare la fondatezza dei sospetti. Il controllo era finalizzato ad un'eventuale revoca dei NOS ma anche a mettere in guardia l'autorità politica circa la inaffidabilità di quei funzionari (che sarebbe stata un anno dopo confermata dalle indagini giudiziarie). (23) Va rilevato che questa attività dell'UCSI non ebbe comunque alcun esito. L'autorità politica non assunse decisioni né vi fu alcuna segnalazione alla magistratura.
Presso la sede dell'UCSI sono conservati 308.000 fascicoli relativi a persone e circa 2.500 relativi ad imprese. In essi sono consolidate tutte le notizie raccolte attraverso le varie indagini (di routine o mirate). Si tratta di un patrimonio informativo enorme, eterogeneo nella sua composizione con pratiche a volte limitate ad una corrispondenza burocratica, altre volte più complesse. Il Comitato ha acquisito alcuni fascicoli, sulla base di una scelta casuale, ed ha acquisito l'elenco delle imprese titolari di abilitazione preventiva o di Nulla osta di segretezza.
In passato gli archivi dell'UCSI erano collegati con il SISMi, o meglio con il Centro elaborazione dati di quel Servizio, che comprendeva un'area riservata all'UCSI. Fu l'ambasciatore Fulci che fece trasferire questo collegamento dal SISMi al Centro elaborazione dati del CESIS allo scopo di separare il prima possibile l'UCSI dal Servizio segreto militare di cui per anni era stato un'appendice.
Risulta al Comitato che, fino alla fine degli anni 60 e all'inizio dei 70, le indagini finalizzate al rilascio del NOS riguardavano anche gli orientamenti politici. Vi erano - secondo uno schema che risaliva alla contrapposizione elettorale del 1948 - alcuni partiti guardati con sospetto, sebbene fossero rappresentati in Parlamento. Chi risultasse simpatizzante di quei partiti veniva considerato inaffidabile.
Attualmente, ha affermato il Direttore dell'UCSI, soltanto l'attività eversiva contro le istituzioni democratiche è rilevante; non c'è discriminazione sulla base delle opinioni e i partiti politici che costituiscono il sistema democratico sono considerati tutti uguali.
In realtà il Comitato ha accertato che ancora oggi l'Arma dei carabinieri adotta, per lo svolgimento delle indagini richieste dall'UCSI, un formulario informativo, evidentemente risalente al passato, ma la cui validità è stata di recente confermata, nel quale si prevede un'acquisizione di notizie ed una valutazione di natura politica sulle persone che sono oggetto di esame.
Questo formulario prevede infatti, tra l'altro, che i Carabinieri assumano "…altre notizie che possano meglio lumeggiare la figura dell'interessato, comprese le cariche pubbliche ricoperte, gli ambienti, anche politici, frequentati, ed eventuali relazioni con persone controindicate che possano esercitare influenza o coercizione nei suoi confronti". In un'altra stesura, di cui il Comitato ha preso visione presso la sede dell'UCSI, il riferimento alle cariche pubbliche ed agli ambienti politici non è compreso. Ciò dimostra che i Carabinieri operano secondo criteri non uniformi. Ma è certo che quel testo, il quale autorizza valutazioni discriminatorie, risulta confermato da una direttiva del Presidente del Consiglio del 20 dicembre 1990; è presente, in fascicoli recenti acquisiti e il Segretario generale del CESIS lo ha inviato al Comitato l'8 novembre 1994, confermandone esplicitamente la validità attuale.
Le anomalie che si rilevano esaminando i documenti UCSI acquisiti dal Comitato sono numerose ed in qualche caso assai gravi.
Il Comitato ha richiesto espressamente due fascicoli personali: quello intestato a Matilde Martucci, segretaria in servizio presso il SISDe fino al 1993, e quello intestato a Francesco Sorrentino, dipendente del Servizio dal 14 settembre 1988 al 10 novembre 1994 e fratello della dottoressa Rosa Maria Sorrentino, funzionaria del SISDe, recentemente condannata in primo grado a due anni e dieci mesi di reclusione, in relazione alla vicenda dei fondi riservati.
Si trattava di due casi già noti, per diversi motivi. La Martucci aveva ottenuto il NOS di più alto livello, il 19 novembre 1984, nonostante la modesta qualifica di "agente tecnico" ed essendo stati ignorati precedenti a suo carico, relativi alla "condotta morale e civile". Vi erano state difficoltà, come attestano alcune annotazioni, ma tutto si era sbloccato in seguito all'intervento personale del prefetto Malpica. Anche questo è documentato e si tratta di una procedura non regolare, resa possibile dal regime di discrezionalità.
È da sottolineare che sulla richiesta di rinnovo del NOS, scaduto il 18 novembre 1991, l'UCSI non prese alcuna decisione fino al 23 marzo 1993, sebbene fossero già emerse nuove controindicazioni anche a carico di un congiunto. Soltanto in questa data si decise di negare il NOS. Nel frattempo, quello precedente conservava la sua validità.
Francesco Sorrentino, proveniente dal Ministero della pubblica istruzione, era stato assegnato al centro SISDe di Salerno e poi destinato alla funzione di responsabile dell'agenzia di Avellino. Gli era stato assegnato un NOS in data 8 febbraio 1989. Il fascicolo contiene una schedatura, con sommarie informazioni relative al padre, alla madre, alle sorelle ed ai fratelli, alla moglie, al suocero ed alla suocera, alle figlie ed al figlio. L'unico congiunto che era sfuggito completamente all'attenzione dei Carabinieri di S. Angelo dei Lombardi, dai quali aveva origine l'informativa, risulta essere il cognato Costantino Vecchione, tratto in arresto nel 1984, perché implicato nell'attentato al procuratore della Repubblica di Avellino Antonio Gagliardi, e successivamente condannato a tre anni di reclusione, per associazione a delinquere di tipo mafioso. Come poteva la vicenda essere ignota ai Carabinieri? È chiaro che se un elemento di vulnerabilità come questo può sfuggire all'UCSI, ciò significa che l'intera procedura non funziona ed è perciò inutile.
Ma altri esempi presi in esame dal Comitato, in seguito all'assunzione casuale di fascicoli, confermano come la discrezionalità degli accertamenti non offra garanzie di certezza. Contemporaneamente, emerge l'inefficacia delle procedure rispetto allo scopo dichiarato. L'UCSI non appare in grado di individuare tempestivamente i fattori di debolezza di un soggetto, che possono esporlo a pressioni illecite e quindi renderlo inidoneo ad incarichi delicati, dai quali dipendono beni pubblici e perfino vite umane.
Come si vede nel corposo fascicolo personale di un sottufficiale marconista, acquisito dal Comitato, ove sono raccolte le informative dal 1970 al 1994, le notizie relative agli orientamenti politici vengono assunte fino al 1975. I congiunti vengono qualificati come "orientati verso la Dc". Del sottufficiale in questione è annotato il fatto che "non si interessa di politica" e tutto ciò rientra fra gli elementi favorevoli.
Ad un altro sottufficiale, partecipante ad esercitazioni NATO, viene revocato il NOS, che aveva avuto per sei anni, dopo un ricovero in ospedale determinato da abuso di sostanze stupefacenti e senza che prima ci si fosse accorti di questo elemento di vulnerabilità.
In alcuni casi, le indagini sembrano inesistenti. All'addetto finanziario presso un'ambasciata è riconosciuto il NOS sulla base di informazioni condensate in formule quali "nessuna indicazione", riguardo a dati rilevanti per la sicurezza nazionale, o come "buona condotta morale e civile", con l'avvertenza infine che non si procede a raccogliere elementi sul conto dei suoceri del candidato "perché nati e residenti all'estero". E tutto ciò viene considerato esauriente dall'UCSI.
Per quel che riguarda i fascicoli relativi alle imprese, il Comitato ha espressamente richiesto quello della S.p.A. "Impresa Angiolini Bortolotti" di Napoli, che era stata al centro di polemiche, dopo una pubblica denuncia del prefetto Umberto Improta. Nonostante infiltrazioni camorristiche, l'impresa era stata abilitata a lavori per i quali erano necessarie garanzie particolari di sicurezza. Anche in questo caso, l'incertezza della procedura e dei criteri da applicare ha condotto ad una situazione discutibile e rischiosa.
La società risultava da tempo abilitata alla partecipazione a gare di appalto per lavori classificati. In seguito ad una serie di variazioni, nel gennaio 1991, veniva richiesto il NOS per il nuovo rappresentante legale, signor Antonino Apreda. Egli era procuratore di un'altra società di Napoli (s.a.s. IMEC), che aveva inoltrato istanza di abilitazione. Era subentrato nel 1990, come rappresentante legale di quest'ultima società, al padre, signor Giuseppe Apreda, giudicato non idoneo ad ottenere il NOS individuale a causa di pendenze penali con gravi capi d'imputazione.
Il rapporto di parentela induceva l'UCSI a non concedere il NOS individuale. Fallita la IMEC, l'intera pratica veniva archiviata, ma non si rimetteva in discussione né tanto meno si revocava l'abilitazione preventiva della "Impresa Angiolini Bortolotti". In questo caso, le pendenze giudiziarie a carico dei padre del signor Antonino Apreda non venivano considerate rilevanti. Nel frattempo emergevano le accuse di coinvolgimenti camorristici, di cui l'UCSI non riceveva però notizie da fonte ufficiale.
La situazione di rischio, in questo caso, dipendeva dal permanere dell'abilitazione, nonostante gli elementi acquisiti circa la non affidabilità del rappresentante dell'impresa e dall'assenza di informazioni all'UCSI da parte degli organi di polizia sulle ipotesi di collegamenti con ambienti della camorra.
Il Comitato segnala al Parlamento e al Governo che tra le imprese titolari di abilitazione preventiva o di Nulla osta complessivo non sono poche quelle i cui rappresentanti hanno precedenti negativi sul piano giudiziario o che risultano essere state toccate da attività illecite. Ciò appare da una serie di schede riepilogative inviate dalla Guardia di Finanza al Comitato. Le schede sono state richieste con riferimento ad imprese abilitate per disposizione dell'UCSI, che operano nelle regioni a più alta densità mafiosa. L'indagine svolta è dunque molto circoscritta: soltanto un campione. La Guardia di Finanza si è limitata ad un esame degli atti dello Schedario generale del Corpo nonché delle banche dati (Archivio della polizia e della Guardia di Finanza), estraendo controindicazioni che riguardano 92 imprese.
In particolare va rilevato con preoccupazione che, a proposito di un'impresa palermitana titolare di NOS complessivo fino al 5 aprile 1996, risulta nello Schedario generale della Guardia di Finanza la seguente annotazione: "Apposita informativa di polizia giudiziaria ha segnalato che la società potrebbe essere collegata ad attività di riciclaggio della mafia"; ed analogamente sembra non aver avuto alcuna conseguenza per l'UCSI il fatto che a una società di Agrigento munita di abilitazione preventiva risulta interessato un noto imprenditore recentemente coinvolto in inchieste di mafia.
Si tratta di episodi significativi, i quali confermano la necessità di una profonda revisione delle procedure attinenti ai NOS.
Al di là dei casi che si sono fin qui esaminati, vi è un problema più generale che riguarda la struttura e le attività dell'UCSI.
Si può certamente definire quest'Ufficio come un organo di valutazione di documenti e di dati informativi necessari al rilascio del NOS.
Esso è, in altre parole, addetto alla raccolta di informazioni. Interviene nella fase delle indagini necessarie ad istruire le pratiche relative ai NOS; può pilotarle e sollecitare approfondimenti; può trasmettere ai Servizi di informazione e di sicurezza gli elementi conoscitivi acquisiti (ciò risulta da uno dei fascicoli di cui il Comitato ha preso visione). D'altra parte la sua attività (pur con tutti i limiti e le contraddizioni che abbiamo visto nella prassi) è rilevante ai fini della sicurezza.
Se questa è la fisionomia dell'Ufficio, il fatto che esso non sia in alcun modo previsto dalla legge n. 801 del 1977 non lo colloca soltanto in una condizione che è al di là della legge, ma lo pone in contrasto con essa.
L'articolo 10, al comma 1, prevede infatti: "Nessuna attività comunque idonea per l'informazione e la sicurezza può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge".
Chi potrà negare che l'attività dell'UCSI sia, almeno in teoria, attività idonea per l'informazione e la sicurezza e che perciò essa violi l'articolo 10 della legge n. 801 del 1977? Una regolamentazione legislativa che disciplini ex novo la struttura e le funzioni di questo Ufficio è dunque, a maggior ragione, indispensabile.
La discrezionalità è un aspetto essenziale del modo di operare dei Servizi di informazione e sicurezza. L'amministrazione agisce alla luce di una "legittimità dei fini" (24), con un'ampia libertà di comportamento, che può implicare specifiche deroghe alle disposizioni ordinarie di legge cui si attengono gli altri organi dello Stato. Tali deroghe (ciò è già nella logica della legge n. 801 del 1977) richiedono naturalmente una previsione legislativa ed un controllo.
La deviazione dei Servizi si verifica quando questi perseguono specifiche finalità informative od operative, in contrasto con il dovere di fedeltà alla Repubblica. È una circostanza che ricorre più volte nella storia del Servizio segreto militare. Ma recentemente fatti del genere, ed in particolare l'acquisizione di potere e di denaro al di fuori delle finalità istituzionali del Servizio, si sono individuati anche nell'attività del SISDe. Il nuovo Direttore ne ha riconosciuto la gravità ed ha manifestato l'impegno a liquidare le eredità del passato.
Inoltre, la deviazione è riscontrabile in tutti i casi nei quali le notizie vengono occultate e sottratte alle indagini giudiziarie, oppure quando si raccolgono e si conservano informazioni su personalità pubbliche, prescindendo da ragioni di sicurezza, o vengono usate notizie a fini discriminatori o per esercitare pressioni politiche.
Infine, vi è deviazione quando il rapporto fiduciario dei Servizi con l'autorità di governo viene distorto e le garanzie di riservatezza sono strumentalizzate per coprire l'illegalità dei comportamenti, l'abuso nell'amministrazione e l'appropriazione privata di danaro pubblico.
In tutti questi casi, la discrezionalità è esercitata ad arbitrio; non è ancorata alle finalità ed ai principi fissati dalla Costituzione; è diretta a sostenere interessi di parte o addirittura è indirizzata verso scopi illeciti.
Il Comitato intende esaminare alcune vicende emblematiche e più rilevanti nelle quali le deviazioni sono venute alla luce.
Il Comitato sottolinea come la fedeltà ai principi di democrazia, la lealtà nei confronti delle istituzioni, l'impegno per sventare insidie interne ed internazionali alla libertà di tutti siano finalità essenziali, in un corretto ed equilibrato sistema democratico, dei Servizi di informazione. Questa via impegnativa è stata ed è percorsa con efficacia da non poca parte operativa dei componenti dei Servizi. Risultano perciò ancor più gravi a parere del Comitato le deviazioni che, partendo talora, come appare documentato, dai vertici, si sono susseguite in questi anni e che hanno riverberato e continuano a riverberare la loro ombra anche su quanti dimostrano fedeltà ai loro doveri.
La riconquista dell'onestà, laddove appaia necessaria, è premio per tutti gli onesti. La riaffermazione della lealtà democratica, talvolta offuscata, come è dimostrato in taluni dei casi qui di seguito presi in esame, è garanzia per tutti i cittadini liberi. Fuori e dentro i Servizi.
Tra le deviazioni, che stanno per essere esaminate, assume un risalto drammatico il fatto che in varie occasioni, dall'interno dei Servizi, ma specialmente del Servizio segreto militare, vi siano stati interventi volti a depistare le indagini sul terrorismo delle stragi e che vi siano stati collegamenti con gruppi eversivi. Del resto, in una fase difficile della vita politica italiana (fine degli anni 70 - inizi degli 80) al vertice di tutte le strutture dei Servizi vi sono stati esponenti della loggia massonica P2, con effetti di inquinamento e con la creazione, in particolare nel SISMi, di un gruppo di comando parallelo rispetto all'amministrazione e del tutto fuori controllo.
Vi è stata continuità nelle deviazioni. Esse sono proseguite e si sono, per certi aspetti, aggravate, nonostante la legge n. 801 del 1977 avesse introdotto garanzie nuove.
Le indagini giudiziarie su fatti eversivi e sulla partecipazione ad essi di uomini dei Servizi sono state rese più ardue dall'assenza, o dalla lacunosità e dal disordine, dei documenti concernenti l'attività dei Servizi e che avrebbero dovuto essere puntualmente conservati. La effettiva organizzazione degli archivi, in tutte le loro diramazioni e i loro livelli, continua ad essere non chiara. Fino ad oggi non è stato possibile, per l'Autorità giudiziaria, un compiuto censimento dei documenti relativi alla VII Divisione del SISMi ed alla struttura Gladio; né si è realizzato un accertamento esaustivo circa i suoi componenti e le sue strategie operative.
In ogni deviazione c'è una debolezza istituzionale, una insufficienza di regole o di garanzie. Il Comitato intende trarre, dall'esame delle deviazioni, un insegnamento utile per definire una disciplina più stringente e consona alla legittimità dei fini che i Servizi perseguono.
Alcune delle deviazioni più gravi discendono - come si è detto - dal ruolo inquinante che la loggia massonica P2 ha avuto nella vita pubblica e nella organizzazione dello Stato.
La loggia P2 è stata protagonista di un'operazione di svuotamento delle regole e delle garanzie introdotte nel sistema di informazione e sicurezza con la legge n. 801 del 1977.
Il Comitato osserva che i Servizi hanno un particolare dovere di vigilanza sui propri dipendenti, per impedire che essi siano eterodiretti e che si riproducano situazioni di interferenza analoghe a quelle proprie del sistema piduista.
Il Direttore del SISDe ha reso noti al Comitato alcuni casi di funzionari allontanati negli anni scorsi per la loro appartenenza a logge massoniche. Questo è stato considerato un elemento di inaffidabilità.
La questione è stata posta, nei suoi termini generali, anche al Direttore del SISMi, sottolineando l'esigenza che tutti i dipendenti dei Servizi siano comunque liberi da un vincolo associativo così stringente quale è il giuramento massonico.
Le vicende della loggia P2 dimostrano, del resto, come un'associazione di tipo riservato, inserita nella massoneria, possa agevolmente divenire un centro di affari, di disegni politici occulti e di interferenze illecite nell'attività della Pubblica amministrazione. Il Direttore del SISDe ha, a questo proposito, precisato che il Servizio ritiene di non dover utilizzare persone appartenenti alla massoneria non tanto per un giudizio di valore sulle finalità della loro affiliazione, quanto per la considerazione che esse potrebbero essere condizionate e non autonome a causa di tale appartenenza.
Avendo ampia possibilità di scelta, il Servizio preferisce tenere con sé persone non condizionate. Si tratta di un impegno che il Comitato valuta positivamente.
Nelle vicende del Servizio segreto militare si sono verificati più volte comportamenti in contrasto con il dovere di fedeltà alla Repubblica. Ciò dipende da interpretazioni aberranti dell'interesse nazionale, da scelte politiche eversive (oppure tendenti ad una stabilizzazione realizzata con mezzi non legali); infine, dall'intenzione di acquisire potere.
Il controllo effettivo da parte dell'autorità di governo, in modo tale che questa sia davvero responsabile dei servizi, la vigilanza sulle loro modalità di formazione e la scelta di uomini affidabili rappresentano antidoti essenziali alle deviazioni. Così come lo è la previsione che di tutte le operazioni compiute resti memoria e che il segreto dal quale esse sono coperte sia temporaneo. Solo una disciplina rigorosa di questa memorizzazione, della conservazione dei documenti e dell'accesso ad essi può garantire contro l'uso anomalo delle informazioni, contro il loro occultamento o la loro alterazione (fenomeni frequenti, che hanno causato il depistaggio di indagini giudiziarie) e può scoraggiare le attività devianti.
Il fatto che le funzioni di Autorità nazionale per la sicurezza siano state esercitate per tanti anni dal capo del Servizio segreto militare ha creato un circuito che legava questo direttamente alle Autorità similari dei paesi alleati, ai loro Servizi segreti e soprattutto a quello statunitense, più potente e di fatto in posizione sovraordinata.
È nata da qui l'estrema difficoltà dei controlli. I governi italiani hanno a lungo accettato questa situazione, anche dopo la legge n. 801 del 1977. Ciò ha limitato nella loro effettività i poteri riconosciuti al Presidente del Consiglio. Soprattutto, ne ha vanificato la responsabilità politica, rendendo ancora più aleatorio il controllo parlamentare.
Soltanto all'inizio degli anni 90 è intervenuto un parziale cambiamento. Si sono tolti al Direttore del SISMi i poteri di Autorità nazionale per la sicurezza. Ma è continuata l'assenza di una effettiva guida politica, unitaria e responsabile, e di un controllo efficace.
Una grave attività deviante dei Servizi di informazione e di sicurezza fu quella che negli anni 60 ruotò attorno al generale Giovanni De Lorenzo. Essa si collocava in un contesto, su cui esiste ormai documentazione e letteratura, caratterizzato da stretti rapporti di dipendenza tra il Servizio segreto militare italiano e quello statunitense (25).
Non vi fu soltanto la vicenda del golpe tentato o minacciato durante l'estate del 1964. Essa fu preceduta dalla predisposizione, da parte del Servizio segreto, di 157.000 fascicoli, 34.000 dei quali furono considerati illegali sia dalle commissioni amministrative che dalla commissione parlamentare d'inchiesta. Questi ultimi contenevano informazioni su persone. In una puntuale relazione sulla vicenda, redatta a seguito di una inchiesta amministrativa dal generale Beolchini, si segnalava che, con circolare del 6 febbraio 1959, erano state richieste a tutti i capi degli uffici periferici del Servizio note biografiche e dettagliate notizie sull'attività "comunque svolta" dai deputati e dai senatori. Per ciascun parlamentare era stato formato un fascicolo. Nel 1960 erano state raccolte notizie personali relative a prelati, vescovi e sacerdoti delle varie diocesi. Lo stesso era poi avvenuto per gli appartenenti al mondo economico e ad altre categorie di interesse rilevante per la vita della nazione, con riferimento anche a sindacalisti, funzionari e dirigenti di partito, fino ai livelli periferici. "I fascicoli - osservava la relazione Beolchini - erano in origine limitati al controspionaggio vero e proprio e formati per le persone accertate pericolose o sospette, vale a dire per coloro che erano comunque indiziati di svolgere attività pericolose per la sicurezza dello Stato… Senonché, diversa considerazione deve essere fatta quando muta il carattere e la dimensione del fenomeno, allorché la formazione del fascicolo per le persone non sospette non è più un fatto eccezionale, giustificato da particolari circostanze, ma viene esteso come sistema a tutti gli uomini che abbiano assunto un ruolo di qualche rilievo nella vita del paese; ...quando per la stessa natura scandalosa delle notizie raccolte si abbia motivo di temere che i documenti informativi possano essere usati per colpire la persona, nel perseguimento di fini non chiari e comunque non coincidenti con l'interesse pubblico" (26).
Le iniziative illegittime del Servizio, volte a condizionare con il ricatto settori e personalità rilevanti della vita pubblica italiana, erano rese possibili, sotto il profilo istituzionale, dall'assoluta assenza di regole certe, entro cui collocare il potere ed i compiti di questi apparati, e dalla mancanza assoluta di controlli di qualsiasi genere. In particolare, la distorsione e la strumentalizzazione delle attività informative per scopi di parte ed extra istituzionali avvenivano attraverso una gestione arbitraria degli archivi, volutamente sottratta ad ogni criterio certo e controllabile, ma - nell'apparente confusione - tutta dominata dai gruppi di comando che di fatto manovravano i documenti riservati. Era questo un aspetto dell'abusiva utilizzazione degli uffici determinatasi all'epoca di De Lorenzo. La relazione Beolchini rilevava in proposito "un grave disordine nella conservazione degli archivi; la mancanza di una regolare rubrica nella quale risultassero in carico tutti i fascicoli, un sistema troppo sbrigativo e familiare nel prelevamento dei documenti, giacché qualunque addetto poteva farsi consegnare i fascicoli adducendo un ordine dei capi ufficio, senza registrazione".
Subito dopo la strage di piazza Fontana e i contemporanei attentati di Roma, nel dicembre 1969, il SID intervenne per depistare le indagini. Il maresciallo Gaetano Tanzilli, del Centro CS3 di Roma, aveva inviato tre informative nelle quali si indicava come possibile autore degli attentati di Roma Mario Merlino, per ordine di Stefano Delle Chiaie e su mandato di Yves Guerin-Serac. Si trattava di elementi di estrema destra e quest'ultimo risulta essere stato a capo di una rete europea di orientamento antidemocratico e filonazista. Ma nel primo rapporto informativo redatto dal maresciallo Tanzilli, Merlino è definito "filocinese" e Guerin-Serac "anarchico"; nel secondo, inviato alla polizia e ai carabinieri, ma non alla magistratura, Merlino diventa "anarchico" e di Guerin-Serac si dice "è anarchico, ma a Lisbona non è nota la sua ideologia" (27).
L'11 aprile 1970, un documento interno del SID, che l'Autorità giudiziaria conoscerà solo nel 1976, precisava: "Sia Guerin-Serac sia Leroy (suo collaboratore), non sono anarchici, ma appartengono ad una organizzazione anticomunista. Si suggerisce di tacere questa notizia alla polizia e ai carabinieri".
Nel 1985, al processo di Bari per la strage di piazza Fontana, il maresciallo Tanzilli, al quale era stata attribuita la paternità di quella informazione, dichiarò davanti alla Corte d'assise che essa era stata fabbricata dai suoi superiori, mescolando ad alcune notizie, da lui fornite, altre che egli non conosceva ed obbligandolo ad assumerne la paternità.
Le notizie originarie chiamavano in causa una struttura eversiva con la quale è accertato che Delle Chiaie abbia avuto stretti rapporti e su cui le indagini sono più volte tornate negli anni successivi. In un rapporto del 12 giugno 1989 della Sezione anticrimine di Bologna si legge: "…Guerin-Serac, alias Ralph Keriou o Yves Guillou, appartenente come Leroy ad un movimento di estrema destra neonazista denominato Ordre et tradition, rivestiva, almeno formalmente, l'incarico di Direttore dell'Aginter Press, agenzia di stampa portoghese dalla quale il Delle Chiaie riuscì ad ottenere una tessera di riconoscimento rilasciata in data 31 dicembre 1971 intestata a tale Giovanni Martelli e rinvenuta nell'abitazione di via Spartaco 30, dei coniugi Paulon-Modugno, all'interno di una valigetta 24 ore. Anche nell'appartamento di via Sartorio, nella disponibilità di Delle Chiaie, erano stati rinvenuti appunti su Guerin-Serac e domande poste allo stesso Delle Chiaie dal ‘Settimanale'". Risulta del resto che Guerin-Serac, "arruolatore di mercenari da utilizzare nella lotta anticomunista", come lo definisce il Giudice istruttore di Bologna, abbia finanziato direttamente l'attività del Delle Chiaie quando egli era latitante (28).
I rapporti tra Guerin-Serac e Delle Chiaie costituiscono un argomento che è tuttora oggetto di una istruttoria in corso: quella condotta a Milano dal giudice istruttore Guido Salvini, sulla strage di piazza Fontana. Ciò conferma quanto fosse rilevante la prima informazione del SID.
A quale scopo mirava la confusione volutamente introdotta sul ruolo di Guerin-Serac? Contando sul fatto che l'organizzazione portoghese (attiva e protetta nel regime di Salazar (29) ), non poteva allora essere sottoposta ad una seria indagine, si dava spazio alla segnalazione di partenza ma se ne alterava il senso, facendo credere ad una convergenza tra opposti estremismi: tra Delle Chiaie e gli anarchici, con un supporto internazionale di estrema sinistra. La rete eversiva avente il proprio centro a Lisbona era dunque nota al Servizio e veniva posta in relazione alle vicende italiane. Ma il depistaggio consisteva nel travisarne la natura, nel rendere fin dall'inizio inverosimile il collegamento, al tempo stesso sminuendo l'importanza dell'Aginter Press. D'altra parte, anche dopo la caduta del regime autoritario portoghese, le indagini a Lisbona sono state difficili e non hanno portato a nessun risultato concreto.
Il fatto che il maresciallo Tanzilli abbia atteso sedici anni prima di rivelare ai giudici di essere stato obbligato a scrivere il falso indica quale controllo ferreo il Servizio esercitasse sui propri dipendenti.
La storia delle deviazioni induce a ritenere che molti altri uomini che hanno prestato servizio negli apparati di sicurezza, a diversi livelli, conservino ancora il segreto su episodi di depistaggio più o meno gravi e su attività illegittime, pur non essendone stati diretti responsabili. Essi farebbero opera utile per le istituzioni, se svelassero tutto ciò che sanno.
Una grave intromissione del SID nel procedimento penale per la strage di piazza Fontana è quella che si realizzò organizzando la fuga all'estero di Marco Pozan e di Guido Giannettini.
Contro il primo, il 20 giugno 1972, l'Autorità giudiziaria di Milano che indagava su quella strage aveva emesso un mandato di cattura per associazione sovversiva. Pozan era legato al gruppo eversivo di destra padovano che faceva capo a Franco Freda. Resosi irreperibile ed avendo un contatto con uomini del SID, fu da questi condotto nel gennaio 1973 a Roma, in un appartamento di copertura del Servizio, il cui proprietario doveva poi nel 1990 risultare appartenente alla struttura Gladio. Qui fu a lungo interrogato su tutto ciò che sapeva della eversione di destra e dei suoi esponenti. Nei giorni successivi, fu fatto espatriare con un passaporto intestato a tale Mario Zanella. Una persona di questo nome risulterà poi iscritta nelle liste della loggia P2. L'organizzatore dell'espatrio, capitano Antonio La Bruna, risulterà anche egli iscritto alla loggia P2. (30)
Le modalità della fuga di Guido Giannettini, giornalista di estrema destra e collaboratore del SID, furono le stesse. Il Servizio curò il suo trasferimento a Parigi, il 9 aprile 1973, quando già le indagini relative alla strage ed alle attività eversive connesse si orientavano verso di lui, sulla base di alcune parziali ammissioni di responsabilità del padovano Giovanni Ventura. I rapporti del SID con il giornalista e le stesse retribuzioni a suo favore continuarono anche dopo la fuga. (31)
L'obiettivo del Servizio sembra essere stato comunque quello di coprire Giannettini e, per un certo periodo, di sottrarlo al procedimento penale. I fatti emersi in sede giudiziaria dimostrano come il ruolo da lui svolto, in rapporto con ambienti eversivi e contemporaneamente in collegamento con il SID (con le relative esigenze di copertura che il Servizio faceva valere), fosse ben noto all'autorità politica fin dal giugno 1973.
In questo caso, il depistaggio è nato per nascondere i collegamenti del SID con ambienti eversivi. Sotto il profilo istituzionale, tutto ciò era possibile per l'assenza di controlli.
Altri depistaggi dei quali si sono resi responsabili elementi dei Servizi e che riguardano indagini giudiziarie sul terrorismo delle stragi e sulla eversione di destra, risultano ora da una nota che il Giudice istruttore di Milano Guido Salvini ha fatto pervenire al Comitato parlamentare per i Servizi di informazione e sicurezza. (32)
Essa ha dato notizia di numerosissime richieste di esibizione e di informazioni inviate alla Direzione del SISMi. Ha inoltre comunicato che il materiale richiesto è stato messo a disposizione dell'Autorità giudiziaria, unitamente a note informative esplicative, dalla Direzione del Servizio, a partire dal 1992 "con un atteggiamento di piena collaborazione".
Questa recente scelta di collaborazione da parte del Servizio ha consentito di acquisire riscontri e prove in merito a numerosi episodi di depistaggi.
La nota si riferisce in particolare:
- "alla sparizione dei nastri magnetici e dei relativi brogliacci su cui erano registrati una serie di colloqui avvenuti negli anni 1973/74 fra il capitano La Bruna e il costruttore Remo Orlandini sui risvolti del golpe Borghese e sul tentativo golpista della Rosa dei Venti. Tale documentazione", precisa il giudice istruttore di Milano, "non era mai stata trasmessa alla magistratura inquirente, nemmeno nella forma di nota informativa ed è attualmente in possesso di questo Ufficio";
- all'allestimento da parte di personale del SID e dei Carabinieri, nei pressi di Camerino, nel 1972, di un arsenale con armi ed esplosivi, la cui responsabilità era stata fatta ricadere su gruppi di estrema sinistra della zona; (33)
- al tentativo di far ricadere su gruppi di sinistra il grave attentato avvenuto nell'aprile del 1974 in danno delle scuole slovene di Trieste, commesso invece da elementi di Ordine Nuovo provenienti anche da Milano; (34)
- all'effettuazione a Reggio Calabria, all'inizio degli anni 70, di un traffico di timers elettronici ed esplosivi con la copertura di ufficiali dell'esercito;
- alla distruzione di documentazione relativa alle notizie che un componente della cellula di Padova, facente capo a Freda e Ventura, stava fornendo a personale del centro SID di tale città. L'acquisizione di tale documentazione avrebbe significativamente aumentato gli elementi raccolti a carico del gruppo veneto. Quanto al gruppo veneto di Ordine Nuovo, dalla documentazione acquisita risulta ormai provato che numerosi suoi elementi erano in stabili contatti con Servizi di sicurezza italiani e stranieri".
La nota conclude comunicando che tutti i fatti indicati in sintesi saranno trattati nella sentenza ordinanza di rinvio, concernente gli episodi circostanti la strage di piazza Fontana. Questa verosimilmente - prosegue la nota - sarà depositata a marzo, mentre sull'episodio della strage l'istruttoria proseguirà fino al 30 giugno 1995. Il fatto che una importante documentazione, negli anni passati, non sia stata messa a disposizione dall'Autorità giudiziaria pone il problema istituzionale delle modalità di controllo sugli archivi. Si tratta di definire criteri certi per la sistemazione dei dati da conservare e per il loro reperimento. Ed occorre che sia sempre individuata una autorità responsabile della conservazione e della integrità dei documenti.
Il Comitato parlamentare considera come una positiva novità rispetto al passato l'atteggiamento di collaborazione che è stato manifestato dal SISMi a partire dal 1992 e che ha consentito più puntuali accertamenti. Gravissima è tuttavia la responsabilità non solo di chi ha posto in essere le deviazioni nei decenni passati, ma anche di chi, all'interno degli apparati di sicurezza, le ha tollerate.
Se la collaborazione dei Servizi con l'Autorità giudiziaria fosse stata tempestiva e non fosse giunta a tanti anni di distanza, la lotta contro il terrorismo e contro i fenomeni eversivi sarebbe stata ben più efficace. Molte impunità si sarebbero spezzate ed è lecito ritenere che alcuni crimini sanguinosi si sarebbero potuti impedire.
Il 24 febbraio 1972 e il 3 marzo successivo, secondo notizie ufficialmente fornite alla stampa, i carabinieri della tenenza di Aurisina (in provincia di Trieste) rinvenivano nella zona un'abbondante quantità di materiale di natura bellica.
Su questo episodio gli accertamenti disposti dal Giudice istruttore di Venezia Felice Casson hanno consentito di stabilire alcuni punti fermi.
Il materiale rinvenuto apparteneva sicuramente alla struttura Gladio. È certo che il SID, in relazione a questo ritrovamento, inviò i propri emissari a Trieste e ad Aurisina, sia presso il proprio Centro CS sia presso i locali comandi dei carabinieri. Occorreva immediatamente intervenire per occultare le finalità del deposito di armi e di esplosivi, ma anche perché non venissero effettuati controlli sulla quantità e sulle caratteristiche dei materiali che là erano conservati. Allo scopo di pilotare le indagini e di far emergere il meno possibile di informazioni sulla vicenda, il SID stabilì contatti con il Capo di stato maggiore dell'Arma dei carabinieri, generale Arnaldo Ferrara, con il Comandante della Divisione Pastrengo di Milano, generale Giovanbattista Palumbo e con il Comandante della Legione carabinieri di Udine, colonnello Dino Mingarelli.
Il rinvenimento dei materiali non sarebbe avvenuto nell'epoca ufficialmente indicata (febbraio-marzo 1972), ma nell'estate precedente. Gli uomini del SID avrebbero indotto i carabinieri di Aurisina a stilare falsi verbali di sopralluogo ed un falso rapporto.
Quanto ritrovato, sia per quantità sia per qualità, non corrispondeva completamente a ciò che figurava essere stato costituito in origine come dotazione del deposito, poiché vi erano dei materiali in più e anche dei materiali in meno. Si trattava, come è stato accertato, del "nasco" (nascondiglio) n. 203. Da rilevare inoltre che i materiali stessi non erano interrati, come invece avrebbero dovuto essere secondo la tecnica di occultamento di simili depositi, ma si trovavano all'aperto. Pertanto questo Nasco è da considerare "aperto". (35) Rimangono oscuri i motivi che avevano portato alla manomissione e quindi evidentemente ad un uso anomalo dei materiali bellici. Resta comunque la persuasione espressa dall'allora tenente colonnello Gerardo Serravalle, giunto in quel periodo al comando di Gladio, secondo cui vi era tra molti appartenenti a tale struttura la tendenza a perseguire, più che un'azione anti invasione, un'azione politica interna contro la sinistra. (36)
Così sull'episodio conclude il Giudice istruttore di Venezia: "Dagli atti acquisiti e sequestrati presso le sedi romana e triestina del SISMi emerge in maniera documentale e pacifica che il SID fece di tutto per depistare l'autorità giudiziaria procedente, fornendo false indicazioni, negando il vero, facendo in modo che i vertici dell'Arma intervenissero al fine di interrompere indagini e rastrellamenti e, addirittura, fornendo ai giudici di Trieste tre possibili piste (che sapevano essere tutte e tre false) quanto alla natura e all'origine del materiale bellico rinvenuto…". (37)
Questo ritrovamento segnò comunque una svolta. Tutti i depositi di materiale bellico furono smantellati. Non vi fu però una smobilitazione della struttura Gladio. L'operazione era anzi volta a garantirne la continuità di azione. Essa, anche sulla base di sollecitazioni che provenivano dal Servizio segreto statunitense, venne a connotarsi non solo come un'organizzazione volta a contrastare eventuali invasioni sul fronte nord-orientale, ma anche come struttura informativa e di sicurezza operante sull'intero territorio nazionale. (38)
Il 31 maggio 1972, a Peteano, venne fatta saltare un'auto piena di esplosivo. Tre morti e un ferito tra i carabinieri che la perquisivano, chiamati da una telefonata anonima. Le indagini sulla strage furono subito assunte proprio dall'Arma dei carabinieri con una determinazione insolita. Si legge nella sentenza di primo grado della Corte di assise di Venezia: "Che la polizia fosse subito stata emarginata dalle indagini è dato pacifico che emerge da tutte le risultanze processuali. Già il 5 giugno 1972, con una 'riservatissima alla persona', il Questore di Gorizia si rivolgeva al Prefetto lamentando che 'il colonnello Mingarelli ha deliberatamente eretto un muro invisibile ma invalicabilissimo, dimostrando di non gradire assolutamente la collaborazione della Questura'…". (39)
Il 1° giugno era giunto a Gorizia il generale Giovanbattista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano, e aveva ordinato al colonnello Dino Mingarelli (già collaboratore del generale De Lorenzo, ed inoltre coinvolto nelle vicende del piano Solo e nelle ipotesi golpistiche del luglio 1964) di assumere la direzione delle indagini. Egli stesso indirizzò poi Mingarelli su un'improbabile pista rossa utilizzando, sembra, il colonnello dei carabinieri Michele Santoro, già coinvolto in un'attività di depistaggio delle indagini su alcuni attentati dinamitardi avvenuti nel 1971 a Trento. (40) Constatata l'impraticabilità della pista rossa, le indagini furono orientate su un gruppo di persone in contatto con la piccola malavita goriziana, poi arrestate e rimaste a lungo in stato di detenzione.
Sulla strage di Peteano vi è stata una ammissione di responsabilità da parte del terrorista nero Vincenzo Vinciguerra. Egli ha collocato l'ideazione e l'organizzazione del crimine all'interno del circolo di Ordine Nuovo di Udine, con una serie di ammissioni rilevanti, anche se parziali, circa i rapporti tra alcune organizzazioni di estrema destra e settori degli apparati dello Stato. L'azione del gruppo di Udine, che aveva già prima della strage compiuto un attentato all'abitazione del deputato del MSI De Michieli-Vitturi, e inoltre aveva realizzato azioni contro linee ferroviarie, monumenti ed edifici pubblici, fu coperta dalle stesse autorità che avrebbero dovuto indagare. Con il Vinciguerra è stato condannato, anch'egli all'ergastolo, il neofascista Carlo Cicuttini. Questi, resosi latitante dopo i primi sviluppi dell'indagine giudiziaria, durante il lungo periodo della latitanza ha avuto collegamenti con organi statuali di paesi dell'America Latina, con i quali ha trattato il commercio di materiale bellico.
L'inquinamento delle indagini si intensificò quando, il 6 ottobre 1972, durante un tentativo di dirottamento aereo a Ronchi dei Legionari restò ucciso Ivano Boccaccio, componente dello stesso gruppo. Quest'ultimo aveva prestato servizio militare nell'ambito della brigata paracadutisti Folgore. È risultato che, nell'ambito del programma di addestramento, egli era stato, tra l'altro, istruito a collocare congegni esplosivi su autovetture (cosiddetto "trappolamento") nello stesso modo usato per l'autovettura di Peteano. In proposito è da rilevare che il congegno utilizzato per la strage, secondo le dichiarazioni di Vinciguerra, era azionato da un accenditore a strappo. Un certo numero di accenditori a strappo era compreso tra i materiali risultati mancanti dal Nasco di Aurisina. In relazione al tentativo di dirottamento che ebbe per protagonista il Boccaccio, scattarono subito attività di depistaggio volte ad alterare elementi di prove (il bossolo della cartuccia esplosa dal Boccaccio nel conflitto a fuoco con la polizia dell'aeroporto di Ronchi e i bossoli ritrovati sul luogo della strage erano identici). I bossoli repertati a Peteano scomparvero e i verbali di sopralluogo furono sostituiti, perché la sottrazione non venisse scoperta. Ma vi fu inoltre un'attiva protezione a favore dei terroristi. Il Vinciguerra ha dichiarato che nell'ottobre 1972 le coperture nei suoi confronti e nei confronti degli altri ordinovisti friulani in relazione alla strage scattarono automaticamente ed autonomamente. (41)
I depistatori operarono perché non fosse ipotizzabile una matrice di estrema destra nell'attentato. Risulta che il Servizio segreto militare ricercò, proprio nell'autunno 1972, attraverso il capitano Antonio La Bruna ed attraverso Guido Giannettini, contatti con l'ambiente ordinovista padovano, che avevano come scopo un interessamento alle vicende connesse a Peteano. (42)
Ancora, fra la fine del 1978 e gli inizi del 1979, il generale Giuseppe Santovito, direttore del SISMi, essendo venuto in possesso di informative concernenti la strage e gli estremisti di destra che ne erano responsabili, sostenne, all'interno del Servizio, la opportunità di inviare le informazioni in questione, prima che alla magistratura, ai carabinieri, perché fossero comunque loro a svolgere le indagini. (43)
Il giudice istruttore presso il Tribunale di Firenze, dottor Rosario Minna, che indagava su diversi attentati a treni e linee ferroviarie, avvenuti in Toscana tra il 1974 e il 1983, l'8 novembre 1984 chiese al Direttore del SISMi di fornire notizie in ordine a persone, organizzazioni ed attentati terroristici.
Dopo varie risposte interlocutorie, nel gennaio 1985, il SISMI oppose il segreto di Stato e il 28 marzo dello stesso anno il Presidente del Consiglio lo confermò.
In epoca successiva fu possibile acquisire agli atti del processo per le stragi dell'Italicus e della stazione di Bologna, un documento relativo ad un rapporto del centro SISMi di Firenze del 20 dicembre 1977, dal quale risulta che fin dalla primavera del 1974, Augusto Cauchi era diventato collaboratore del locale centro SID.
Il Servizio non risulta perciò in possesso di documentazione contemporanea all'epoca in cui si verificò la collaborazione, ma solo successiva.
Nella recente sentenza istruttoria del giudice istruttore di Bologna Grassi, i rapporti tra Cauchi e il capo del centro SID e poi SISMi di Firenze, Federigo Mannucci Benincasa (di cui va segnalata la lunghissima permanenza come Capocentro e che ora non appartiene più al Servizio), sono ampiamente documentati, così come il legame dello stesso Cauchi con Gelli e con l'entourage piduista.
Cauchi, inserito nella struttura stragista operante negli anni 73-74 in Toscana, aveva ricevuto finanziamenti da Licio Gelli e disponeva di esplosivo in epoca immediatamente precedente la strage compiuta sul treno Italicus; alcuni testimoni lo hanno indicato come autore della stessa.
È stato arrestato nel 1993 in Argentina, ma quel paese, fino ad oggi, non ne ha ancora concesso l'estradizione. (44) Cauchi doveva essere un personaggio rilevante per il Servizio, se sulle attività informative di cui era partecipe è stato posto il segreto di Stato. Il mancato reperimento della documentazione su di lui si deve, ancora una volta, al fatto che gli archivi sono al di fuori di qualsiasi controllo.
Inquietante ed a suo modo emblematica appare la vicenda del colonnello Federigo Mannucci Benincasa, responsabile del centro di controspionaggio di Firenze dal 29 gennaio 1971 al 28 febbraio 1991.
È vicenda singolare per l'inamovibilità di questo funzionario nonostante gli interrogativi che hanno contrassegnato il suo incarico di alta responsabilità; per un ventennio egli è stato capocentro in una città che è delicato e primario punto geografico di incontro di notevolissimi interessi e di interscambi a raggio internazionale, entro un'area tradizionalmente ad altissima densità massonica.
Si è accertato che il colonnello Federigo Mannucci Benincasa è stato, di concerto con un ufficiale del Servizio informativo dell'aeronautica, il colonnello Umberto Nobili, l'autore di una lettera anonima al Procuratore della Repubblica di Roma (preceduta da una telefonata ugualmente anonima del Nobili), con la quale si indicava Licio Gelli quale mandante dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli.
Sempre in collaborazione con il colonnello Nobili egli fece pervenire un'altra lettera anonima al giudice istruttore Gentile, titolare dell'inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna, segnalando il coinvolgimento di Gelli nella strage compiuta sul treno Italicus e in quella del 2 agosto 1980.
Mannucci Benincasa risulta essersi ingerito in varie maniere nel processo relativo a quest'ultima strage, trovandosi a Bologna nei momenti cruciali delle indagini, violando il segreto circa gli accertamenti sugli esplosivi e stabilendo un rapporto diretto con gli inquirenti, al fine di orientarne l'attività.
Deve essere inoltre ricordato il modo del tutto anomalo con cui ha gestito il patrimonio informativo su Licio Gelli agli atti del suo centro di controspionaggio (del quale Gelli è peraltro sospettato di essere un informatore), garantendo una sorta di cordone sanitario intorno alla figura del maestro venerabile della loggia P2. Il Mannucci Benincasa non trasmetteva le informazioni in suo possesso agli altri organi di intelligence o investigativi richiedenti (pregiudicando gravemente, negli anni 70, i tentativi di far luce sull'identità e sulle attività svolte dal capo della loggia P2), ma preferiva farne un uso del tutto personale.
La sentenza istruttoria del dottor Grassi evidenzia i rapporti del colonnello Mannucci con le vicende gelliane e il gruppo di potere che ha operato dal 1970 al 1981 all'interno del Servizio segreto militare.
La ricordata sentenza ordinanza del dottor Grassi ha disposto la trasmissione del provvedimento, nonché degli atti più rilevanti, alla Procura della Repubblica di Roma, affinché proceda nei confronti di Mannucci Benincasa e di altri (trattasi di Maletti, La Bruna, D'Ovidio, Nobili, Musumeci, Belmonte e Gelli) per i delitti di cui agli articoli 283 e 305 c.p. (45)
Si deve inoltre ricordare che, nell'istruttoria relativa alla strage di Ustica, il Mannucci Benincasa ha ricevuto comunicazione giudiziaria per i delitti di cui all'articolo 476 c.p., in relazione agli articoli 490 e 351 c.p. (46). Attorno al colonnello è infine in corso un'investigazione per accertare l'eventuale suo coinvolgimento nella organizzazione e custodia di un deposito d'armi e munizioni da guerra fortuitamente ritrovato nel marzo 1993 in un locale che, a detta del proprietario, è stato per anni nella disponibilità appunto del responsabile del centro SISMi di Firenze.
Concludendo, c'è da chiedersi quali protezioni abbiano consentito, nel lungo arco di venti anni, la permanenza, in un incarico così delicato, di un soggetto che ha operato in modo tanto anomalo e con una visione così personale degli interessi del Servizio. (47)
Il 20 marzo 1979 venne ucciso a Roma il giornalista Carmine Pecorelli, proprietario e direttore della rivista e dell'agenzia Osservatore Politico (OP).
Dopo la sua morte, l'Autorità giudiziaria provvide a sequestrare presso i suoi uffici e la sua abitazione una copiosa documentazione riservata, che il giornalista utilizzava in un giro vorticoso di contatti personali, di rapporti con il mondo politico e con gruppi massonici, di articoli polemici o allusivi e ricattatori pubblicati nella sua rivista ed aventi ad oggetto i retroscena delle vicende politiche, le attività eversive degli ultimi quindici anni e l'inquinamento degli apparati dello Stato.
Numerosi materiali ritrovati allora provenivano dai Servizi di informazione e di sicurezza. Tra questi vi erano anzitutto alcuni documenti originati dal SID riguardanti il complesso degli eventi noti con la definizione corrente di "golpe Borghese": un tentativo di eversione violenta dell'ordine costituzionale che sarebbe stato avviato nel 1970 da Junio Valerio Borghese, già esponente della X Mas durante il periodo della Repubblica sociale italiana, ma la cui realizzazione sarebbe stata bloccata da un non precisato contrordine proveniente dall'alto. Questi documenti si riferivano anche a una nutrita schiera di personaggi coinvolti a vario titolo nei fatti. (48)
Fu inoltre trovata, fra le carte del giornalista ucciso, la cosiddetta informativa Cominform. Si trattava di un rapporto trasmesso il 29 settembre 1950 dal Centro CS di Firenze all'Ufficio D del Servizio segreto militare (all'epoca il SIFAR), riguardante Licio Gelli, con particolare riferimento alle attività di questi a Pistoia ed in Toscana, durante il periodo dell'occupazione nazifascista e negli anni immediatamente successivi.
Il rapporto non era in originale e risultava trasmesso in copia il 9 giugno 1972 al generale Gianadelio Maletti, all'epoca Capo del reparto D, dal capitano Federigo Mannucci Benincasa, in quel momento appartenente al Centro CS di Firenze. (49)
In due articoli comparsi sul settimanale OP il 2 gennaio e il 20 febbraio 1979 dal titolo, rispettivamente, "Due volte partigiano" e "Il professore e la balaustra", Pecorelli aveva lasciato chiaramente intendere di essere a conoscenza dell'esistenza e del contenuto del rapporto riguardante Gelli. (50)
Vi era poi un'ulteriore documentazione, sempre proveniente dal Servizio di informazioni militare ed egualmente relativa a Gelli, costituita da una lettera del Centro CS di Cagliari in data 9 luglio 1945, con un allegato comprendente una serie di nominativi, ed una nota in data 22 agosto 1960, probabilmente anch'essa compilata da un organo del Servizio segreto militare.
L'elenco nominativo allegato alla lettera del Centro CS di Cagliari riguarda un gruppo di una cinquantina di fascisti del pistoiese, indicati da Gelli come collaborazionisti dei tedeschi nel periodo della guerra di liberazione. Questo elenco è sicuramente da individuare nel "lungo elenco di nomi che qualcuno un giorno ha tradito" di cui Pecorelli parla nel suo servizio su OP dal titolo "Il professore e la balaustra", citato in precedenza. (51)
Infine, fu rinvenuto in quella occasione il cosiddetto fascicolo M.Fo.Biali. Questo documento (la spiegazione della sigla di denominazione è probabilmente Mario Foligni-Libia) è stato compilato dal Reparto D del SID (quando ne era responsabile il generale Maletti), tra l'aprile e l'ottobre 1975, in seguito ad indagini sul Nuovo partito popolare, fondato e diretto dal Foligni, su traffici di petrolio con la Libia e su attività illecite della Guardia di finanza. (52)
Si è verificata quindi una situazione del tutto abnorme: una ingente mole di documenti contenenti notizie di speciale delicatezza che avrebbe dovuto essere rigorosamente custodita negli archivi del Servizio segreto militare, ne è stata viceversa sottratta ed è stata posta nella disponibilità di Pecorelli.
Il direttore di OP non aveva scrupoli ad usare pesantemente le notizie, i materiali e i documenti di cui veniva in possesso per condurre campagne di intimidazione o di ricatto contro personaggi eminenti delle istituzioni. I rapporti tra il giornalista e Licio Gelli non erano mai stati semplici. Egli conservava documenti relativi al passato del "venerabile", che aveva ottenuto da uomini del Servizio. Appartenente alla loggia P2, Pecorelli aveva partecipato ai contrasti interni alla loggia, e ciò appare nei suoi scritti. In questo quadro, nel 1975 il generale Maletti (allora Capo dell'ufficio D del SID) aveva accusato il generale Vito Miceli (Direttore del SID) di avere finanziato OP, a sostegno di specifiche campagne diffamatorie.
Vi è la prova che Pecorelli ha largamente attinto alle carte provenienti dal Servizio di informazioni militare, per condurre azioni di questo genere. Oltre ai già citati articoli "Due volte partigiano" e "Il professore e la balaustra", la rivista OP ha pubblicato, tra il novembre e il dicembre 1978, uno scritto in sette puntate sotto lo stesso titolo: "Petrolio e manette". Gli elementi di conoscenza impiegati sono tutti tratti dal fascicolo M.Fo.Biali. (53)
L'inchiesta amministrativo-disciplinare disposta a suo tempo dall'autorità di governo e le indagini dell'Autorità giudiziaria non hanno consentito di stabilire l'identità del responsabile della trasmissione dei documenti né, tantomeno, i motivi e gli scopi che lo avevano indotto a ciò.
Ma è evidente che quanto accaduto non è da addebitare a un funzionario infedele della seconda o terza fila del Servizio, né ad una singola mela marcia, bensì a settori di vertice dell'organismo, poiché almeno uno di questi documenti, e precisamente il fascicolo M.Fo.Biali, era sempre rimasto nella esclusiva disponibilità del gruppo dirigente dell'ufficio D del SID. Quei documenti, d'altra parte, riguardavano per vie diverse il sistema di potere della loggia P2, il ruolo di Licio Gelli, le compromissioni di settori degli apparati nella vicenda del golpe Borghese del 1970 (in cui erano intervenuti vari gruppi che si ritroveranno nella loggia P2 e tra questi l'allora Capo del SID, generale Vito Miceli), i rapporti della P2 con la politica, i conflitti interni a quell'ambiente massonico. E non va dimenticato che ufficiali i quali disponevano di quei documenti, come il generale Gianadelio Maletti, il colonnello Antonio Viezer e il capitano Antonio La Bruna facevano tutti parte della loggia P2.
In merito ai rapporti di Pecorelli con i Servizi di informazione e di sicurezza, occorre poi ricordare che, dall'esame delle sue agende, sequestrate dall'Autorità giudiziaria dopo la morte, emerge una serie di significativi e frequenti contatti con persone interne od organicamente legate a quel mondo. Nell'ultimo anno della sua vita, Pecorelli ha avuto contatti telefonici o personali (in tal senso sono esplicite le relative annotazioni nelle agende stesse) con il prefetto Umberto Federico D'Amato (106 annotazioni), con tale "Tonino" (probabilmente da identificare con Antonio La Bruna: 70 annotazioni), con il generale Vito Miceli (56 annotazioni), con il colonnello Nicola Falde (22 annotazioni), con Licio Gelli (46 annotazioni). Nell'ultimo mese figurano anche il colonnello Musumeci (2 annotazioni) e il capitano Giancarlo D'Ovidio (3 annotazioni). (54)
Esponenti dei Servizi di informazione e di sicurezza sono intervenuti a più riprese per depistare le indagini sulla strage avvenuta alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Basta ricordare che il 10 gennaio 1981 il SISMi fece pervenire al Comando generale dell'Arma dei carabinieri e all'UCIGOS notizie riguardanti un presunto piano eversivo, che prevedeva attentati dinamitardi su importanti tronchi ferroviari, che sarebbe stato progettato da Freda, Ventura, Delle Chiaie e cittadini stranieri di estrema destra, insieme con il gruppo tedesco Hoffmann.
Nei giorni successivi il Servizio affermò di aver ricevuto ulteriori informazioni che precisavano l'ora e il luogo della consegna dell'esplosivo. Questo - si affermava - era contenuto in una valigia depositata su un treno proveniente dalla Puglia e diretto a nord.
Dopo una prima perquisizione ad Ancona, la valigia fu effettivamente scoperta alla stazione di Bologna. Oltre ad un mitra e a vari elementi tendenti a indirizzare le indagini in Francia e Germania, vi erano circa cinque chili di esplosivo.
Trasmesse ai giudici, queste notizie fecero perdere mesi preziosi.
Si scoprì poi la totale falsità di tutte le informazioni, anche grazie alla testimonianza di un maresciallo dei carabinieri, Francesco Sanapo, che fece correttamente il proprio dovere. Il finto attentato fu messo in scena da ufficiali appartenenti al gruppo di potere che era allora al vertice del SISMi. (55)
In concomitanza con l'episodio della valigia sul treno Taranto-Milano, il generale Musumeci redasse un appunto depistante per i giudici di Bologna, che faceva seguito ad analoghe notizie, fornite ai carabinieri nel novembre 1980, che si riferivano ad incontri di tali Paul Durand e Maurizio Bragaglia con Stefano Delle Chiaie, tirando in ballo una organizzazione dalla non chiara denominazione, "Squadre popolari rivoluzionarie", ed ancora il gruppo tedesco Hoffmann con altre notizie inventate.
Va sottolineato che Paul Durand è persona realmente esistente, che è stato funzionario dei Renseignements généraux, cioè del corrispondente francese dell'Ufficio affari riservati del Ministero dell'interno, ed è realmente esponente di organizzazioni neonaziste. L'appunto era quindi particolarmente insidioso perché, come già abbiamo visto avvenire in altri depistaggi, intrecciava elementi veri con elementi falsi. (56)
Anche la pista indicata da Elio Ciolini sembra ascrivibile allo stesso quadro dei depistaggi di impronta piduista operati dai Servizi segreti. Ciolini fornì indicazioni che portarono per qualche tempo i magistrati a coltivare l'ipotesi che autore della strage fosse un gruppo internazionale composto da estremisti di destra francesi, tedeschi ed italiani, fra i quali Stefano Delle Chiaie. Ciolini, del resto, viene indicato dai giudici di Bologna come probabilmente legato sia ai Servizi francesi che a quelli italiani.
Secondo il giudice istruttore di Bologna, la sua iniziativa non era dettata da motivazioni individuali. Essa "anzi, ha rappresentato il momento terminale di un ben coordinato disegno di sviamento delle indagini, ordito certamente da persone interne a quel gruppo individuato come ‘Supersismi'". (57) Ed il generale Lugaresi, direttore del SISMi dopo Santovito e dopo l'allontanamento del gruppo piduista, ha definito Ciolini come esecutore di ordini altrui e uomo legato a Gelli (58).
D'altro canto, già all'indomani della strage del 2 agosto, il funzionario del SISDe Elio Cioppa (risultato successivamente iscritto alla loggia P2) si recò a colloquio con Gelli al fine di acquisire notizie in ordine a quella impresa terroristica. (59)
La circostanza sembrerebbe, per se stessa, incomprensibile. Non si ravvisa a quale titolo Gelli avrebbe dovuto essere considerato dal Servizio segreto interno un soggetto in grado di fornire informazioni sulla strage. Ma poiché stiamo parlando di un Servizio segreto diretto da un iscritto alla loggia P2, frequentatore di Gelli, come il generale Giulio Grassini, l'episodio diventa più chiaro.
Apprendiamo infatti dallo stesso Cioppa che egli, al momento di entrare nel SISDe, nel settembre 1978, era stato informato che il Gelli ne era una fonte. Quest'ultimo suggerì al dottor Cioppa di imboccare la pista internazionale. Le varie azioni di sviamento delle indagini erano dunque convergenti: da un lato il generale Musumeci ed il gruppo di comando del SISMi, dall'altro Ciolini, dall'altro ancora direttamente Gelli. La loggia P2 mosse contemporaneamente diverse pedine nell'ambito dei Servizi segreti.
Il 7 gennaio 1977, un articolo pubblicato dal quotidiano L'Unità segnalava il reclutamento recente di 400 ufficiali nelle file della massoneria. I nominativi di questi ufficiali, secondo l'articolo, sarebbero stati inclusi in un elenco inviato a Licio Gelli dal Gran maestro Giordano Gamberini. (60)
Dal Ministero della difesa (Gabinetto del Ministro) furono richieste al SID (diretto allora dall'ammiraglio Mario Casardi) notizie circa quanto rivelato da L'Unità.
Fu inviato al Ministro un appunto nel quale si forniva anzitutto una risposta negativa circa l'esito degli accertamenti svolti. Subito dopo si affermava che l'articolo avrebbe avuto uno scopo puramente strumentale. Per spiegare quale fosse l'intento perseguito attraverso le false informazioni, la nota del Servizio così proseguiva: "risulta che la direzione del PCI ha recentemente deciso di ridimensionare la forza e l'influenza delle logge massoniche italiane, ritenute 'centri di potere' capaci di intralciare le attività politiche ed economiche del partito". A tal fine il partito aveva quindi intrapreso "una campagna di stampa che, accusando la massoneria di inquinamento fascista, tende a screditarla e a indurre a defezione i numerosi affiliati non attestati su posizioni di destra".
A chiusura dell'appunto il SISMi assumeva l'impegno "vista l'attualità della questione" di trasmettere uno "studio sulla massoneria" che era "in corso di compilazione". (61)
La trasmissione dello "studio" avvenne il 15 maggio 1978. Nel frattempo era stata presentata, il 21 luglio 1977, una interrogazione parlamentare da parte dei deputati Natta, D'Alessio e Pochetti circa l'asserita "appartenenza di alti ufficiali ad associazioni segrete, la cui presenza ed attività profondamente contrastano con la Costituzione". (62)
Perciò il Servizio di informazioni militare (ora divenuto SISMi e la cui direzione era stata assunta dal generale Giuseppe Santovito) inviò, oltre allo studio, anche un secondo breve appunto sul tema. Ripetendo in sostanza gli elementi già esposti nell'analoga nota dell'anno precedente, il SISMi assicurava: "circa l'appartenenza di alti ufficiali ad associazioni segrete, contrastante con il dettato costituzionale, nulla risulta a conferma dell'assunto". Inoltre, perentoriamente affermava: "qualora gli interroganti si riferiscano a notizie stampa sull'argomento e in particolare a quelle apparse sul quotidiano L'Unità del 7 e 16 gennaio 1977, è da rilevare che gli articoli in questione non riportano alcunché di nuovo rispetto alle notizie già altre volte pubblicate in senso generico e presuntivo e per lo più a soli fini diffamatori". (63)
Vale la pena di osservare quanto paradossali fossero queste enunciazioni rassicuranti. Il generale Santovito era saldamente inserito nella loggia P2, come alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Tuttavia definiva diffamatorie le segnalazioni circa la presenza di ufficiali superiori nella massoneria.
Lo studio prodotto dal Servizio, con il titolo "La massoneria in Italia", aveva un contenuto diseguale. Procedeva inizialmente ad una interessante disamina di carattere storico e poi alla illustrazione di situazioni recenti. In più punti riferiva elementi veri e comprovati, mentre, per altri aspetti, più attuali, finiva con l'essere fuorviante. (64)
Ciò vale in particolare per la parte finale dove, dopo aver ripetuto alcuni concetti già riportati nei precedenti "appunti", con un taglio chiaramente diretto a sminuire l'incidenza e il potere di condizionamento della massoneria, si riprendeva con decisione l'ipotesi di una provocazione strumentale da parte del PCI.
Va inoltre ricordato che nell'estate del 1977 l'ammiraglio Casardi, capo del SID, rispondendo ad una richiesta di informazioni inviatagli dall'Autorità giudiziaria, con riferimento alle indagini sulla strage dell'Italicus, aveva affermato: "Il SID non dispone di notizie particolari sulla loggia P2 della massoneria di Palazzo Giustiniani. Infine non si dispone di notizie sul conto di Licio Gelli per quanto concerne la sua appartenenza alla loggia P2". (65) La lettera era di pochi mesi successiva alla ricostituzione della loggia, con dimensioni più ampie e con la presenza al suo interno di molti dirigenti del SID. Inoltre, secondo quanto contenuto nella Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, il Gelli avrebbe affermato in data antecedente al giugno 1971, di essere un agente del SID con il nome di copertura di "Filippo". (66)
Dopo la scoperta delle liste della loggia P2, uscirono dagli archivi del SISMi alcuni documenti su Gelli, che in precedenza non erano stati prodotti, ma continuò ad esservi all'interno del Servizio un atteggiamento contraddittorio riguardo a tali notizie.
È emblematica la comunicazione trasmessa alla I Divisione del SISMi il 1° settembre 1981 dal raggruppamento Centri CS di Roma. Si avvertiva che "nel corso di una più approfondita ricerca in archivio è stato rintracciato l'unito appunto, compendio di accertamenti sul conto del noto Licio Gelli, espletati nel marzo 1974 da ufficiali di questo reparto, su incarico dell'allora Comandante del Raggruppamento centri".
E' da rilevare che, all'epoca della lettera, la vicenda della loggia P2 era già da alcuni mesi al centro dell'attenzione e delle ricerche, tanto che la lettera medesima faceva riferimento ad un foglio della I Divisione dell'8 giugno 1981, con il quale si chiedeva agli "organi in indirizzo" di sviluppare "al massimo l'attività di interesse".
Perciò è inverosimile che l'appunto sia emerso nel corso di più approfondite ricerche di archivio. Il disordine degli archivi, che in questo caso avrebbe dovuto essere davvero straordinario, è in realtà un alibi di cui i Servizi, o settori di essi, si sono serviti, nelle situazioni in cui vi erano stati comportamenti devianti o vi erano motivi di reticenza, per non rispondere o per rispondere in modo elusivo alle richieste di informazioni provenienti da altre autorità. Qui la reticenza era propria del Raggruppamento centri di Roma che rispondeva tardi e lacunosamente alla I Divisione del Servizio. Era questa la fase in cui si stava tentando una bonifica, dopo le degenerazioni del cosiddetto Supersismi. Quanto sopra costituisce la riprova della continuazione, malgrado tutto, delle attività già in passato attuate dai Servizi per assicurare ogni possibile copertura alla persona e alle iniziative di Licio Gelli.
I rapporti intercorsi tra la loggia massonica P2 ed i Servizi d'informazione e di sicurezza sono documentati da un altro significativo episodio.
Nella seconda metà del 1981, pervenne al SISMi, da un Servizio collegato, la notizia della esistenza a Montevideo di un archivio privato, che era nella disponibilità di Licio Gelli. Si apprese allora che il 4 giugno dello stesso anno, l'intero carteggio era stato sequestrato e fotocopiato dalla polizia uruguaiana. Questa aveva provveduto successivamente a restituire gli originali allo stesso Gelli.
La documentazione, assai vasta, comprendeva i fascicoli intestati ai presunti iscritti alla loggia P2 (contenenti documentazione massonica) ed un'altra serie di fascicoli, intestati a personalità politiche, esponenti del mondo finanziario ed imprenditoriale, enti ed associazioni varie (sono più di 500), che trovano riscontro nella titolazione, in un elenco-indice rinvenuto a Castiglion Fibocchi (vedi reperto 8/C del sequestro).
Il materiale fu, per una parte piuttosto limitata, acquisito dal SISMi che provvide poi ad inviarne copia alla Commissione parlamentare sulla loggia P2. In prosieguo di tempo, anche per la mancata disponibilità del governo uruguaiano, l'acquisizione dell'archivio da parte del SISMi fu interrotta.
Funzionari del SISMi sottoposero ad attento esame i documenti pervenuti, al fine di valutarne le provenienze e, al termine delle ricerche, essi conclusero che una parte era sicuramente da identificare con copie di documenti SID presenti negli archivi del SISMi. Altri documenti furono ritenuti, per tecnica espositiva, contenuto e data, di possibile provenienza dai fascicoli del SIFAR distrutti nell'agosto del 1974, poiché ritenuti dalla Commissione parlamentare sugli eventi del giugno-luglio 1964 frutto di attività informativa illegittima. Non fu possibile raggiungere la certezza, proprio perché i fascicoli corrispondenti negli archivi del Servizio erano stati bruciati nell'agosto 1974.
Una rimanente parte dell'archivio fu ritenuta, dagli analisti del SISMi, di produzione diretta di Gelli.
Proprio la accertata provenienza di alcuni fascicoli dal materiale illegittimamente raccolto dal SIFAR spinse la Commissione parlamentare sulla loggia P2 a non pubblicare parte della documentazione, poiché altrimenti sarebbe stata disattesa una precisa delibera parlamentare. (67)
Questa vicenda conferma lo stretto legame tra Gelli e i Servizi segreti militari. Appare credibile quanto affermato a suo tempo dall'ingegnere Francesco Siniscalchi e dai dottori Ermenegildo Benedetti e Giovanni Bricchi circa una possibile donazione di fascicoli che l'ex capo del SIFAR Giovanni Allavena avrebbe effettuato a Gelli al momento di aderire alla loggia P2 nel 1967. (68)
Negli anni successivi, inoltre, l'adesione alla loggia di pressoché tutti i principali dirigenti del SID rende più che plausibile un travaso informativo da questi ultimi a Gelli.
Al di là dei problemi che solleva la sicura provenienza SID di una parte del materiale, va rilevato come ancora oggi Licio Gelli abbia la disponibilità dell'intero archivio. È da credere che in esso siano comprese informazioni tuttora utilizzabili per esercitare un potere di condizionamento o di ricatto su esponenti della vita pubblica, con tutte le conseguenze politiche che ciò comporta. (69)
Con la legge n. 801 del 1977 sono stati creati due distinti Servizi segreti.
La riforma avrebbe dovuto garantire quella limpidezza di comportamento che era mancata nei decenni precedenti.
Al contrario, si scoprì più tardi che ai vertici del Servizio segreto militare si era costituito un centro di potere anomalo che faceva capo allo stesso direttore del Servizio, generale Giuseppe Santovito, e che aveva come principali componenti il capo dell'Ufficio Controllo e Sicurezza, generale Pietro Musumeci, e il suo stretto collaboratore, colonnello Giuseppe Belmonte.
Oltre a questi personaggi, un privato cittadino, il faccendiere Francesco Pazienza, aveva acquisito un potere tale da condizionare il comportamento dello stesso direttore Santovito. Ciò mal si accordava con la veste di "collaboratore" che formalmente era propria di Pazienza.
È da notare che alcuni componenti del gruppo risultarono poi compresi negli elenchi degli iscritti alla loggia P2 sequestrati a Castiglion Fibocchi, mentre Belmonte e Pa-zienza, risultarono essere affiliati coperti del Grande oriente d'Italia.
Musumeci e Belmonte orchestrarono, come già si è detto, una grave forma di depistaggio ai danni dei giudici che indagavano sulla strage di Bologna, facendo trovare esplosivo e altro materiale in una valigia sul treno Taranto-Milano.
Il gruppo gestì inoltre le trattative per il sequestro Cirillo, entrando in contatto con i clan camorristici e procurando un cospicuo finanziamento all'ala militarista delle Brigate Rosse. (70)
Organizzò un'operazione volta a danneggiare il Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, all'epoca impegnato nella campagna elettorale per la rielezione, mediante la rivelazione pubblica dei rapporti che il fratello del presidente, Billy, intratteneva con uomini d'affari ed esponenti libici. L'operazione, che si configurò come una illecita interferenza negli affari interni di uno Stato amico, contribuì alla mancata rielezione di Jimmy Carter.
Il gruppo di potere aveva inoltre stabilito illeciti rapporti con ambienti finanziari non limpidi e con il mondo della malavita e dell'estremismo di destra. Si era giunti, ad esempio, a consentire l'uso degli aerei del Servizio al pregiudicato Domenico Balducci che fu anche "assistito da agenti del SISMi in occasione del transito attraverso gli uffici di frontiera degli aeroporti di Roma". (71)
Francesco Pazienza era tra l'altro legato alle famiglie mafiose italo-americane ed in particolare a John Gambino. (72)
Era in contatto con il noto esponente della mafia Pippo Calò e intermediario fra i due era stato il costruttore siciliano Luigi Faldetta, anch'egli uomo di Cosa nostra, legato alla banda della Magliana di Roma. (73)
Francesco Pazienza era inoltre direttamente interessato ad un giro di attività imprenditoriali e di speculazioni cui partecipavano l'affarista Flavio Carboni ed elementi della banda della Magliana. (74)
I rapporti citati sono solo alcuni degli esempi di commistione tra gli uomini del cosiddetto Supersismi, ambienti finanziari a rischio ed alta criminalità.
Né, d'altro canto, i rapporti con ambienti criminali e con spregiudicati finanzieri esauriscono la gamma di attività devianti del gruppo di potere. Si possono citare, ad esempio, attività poste in essere al fine di danneggiare elementi del Servizio che avevano tentato di contrastare lo strapotere del gruppo. (75)
In conclusione, il ruolo svolto dal gruppo di potere costituitosi all'interno del SISMi tra il 1978 e il 1981 si differenzia da altri precedenti episodi di deviazione per la molteplicità delle attività esplicate, tutte in palese contrasto con i compiti d'istituto e direttamente o indirettamente finalizzate ad intervenire sulla sfera politica.
Una distorsione così profonda dell'attività del Servizio, che è da riconnettersi ad un complesso di iniziative dei gruppi piduisti, avrebbe potuto essere individuata e bloccata, se vi fosse stato un vero controllo parlamentare. dunque, se la legge riconoscesse al Comitato il diritto di prendere in esame costi e risultati delle singoli operazioni compiute dai Servizi in epoca successiva alla loro conclusione, ciò costituirebbe un antidoto ed un serio sbarramento alle attività illegittime.
Riguardo ad aspetti di attività sulla organizzazione interna della Gladio, sono emersi vari elementi tali da legittimare sospetti di manipolazioni od altre iniziative, comunque diretti a mascherare o ad occultare la verità. Indicativi, al riguardo, soprattutto due documenti costituiti da una perizia eseguita per conto del giudice istruttore di Bologna Grassi e da un elaborato compilato dai giudici Benedetto Roberti e Sergio Dini, rispettivamente Procuratore militare in sede vacante e Sostituto procuratore militare della Procura militare della Repubblica presso il Tribunale militare di Padova.
Nella perizia si evidenzia che la documentazione di Gladio resa disponibile si presenta in estremo disordine, precisando che esiste una alterazione di documenti segretissimi con documenti senza alcuna classifica, relazioni che si riferiscono ad attività molto recenti (1990) con altre risalenti agli anni 50 e così via. Il perito puntualizza a questo proposito: "Si può affermare che eventi esterni sono intervenuti, casualmente o dolosamente, per mettere in accurato disordine i documenti".(76)
Il perito, inoltre, ha avuto modo di rilevare che nel periodo compreso tra il 29 luglio e l'8 agosto 1990, e cioè subito dopo l'accesso all'archivio della Gladio da parte del giudice istruttore di Venezia Casson e pressoché in concomitanza con le note dichiarazioni in Parlamento del presidente del Consiglio Andreotti sulla struttura, una notevole quantità di documenti, come risulta dalle annotazioni apposte nei registri di protocollo, è stata distrutta.
Vi è da chiedersi quale sia stato il motivo della situazione riscontrata. Secondo logica, si prospettano solo due alternative: o l'esistenza di una condizione di disordine, per così dire congenita e stratificata, dovuta all'incuria, all'insipienza e alla sciatteria del personale addetto, oppure una ben determinata volontà di creare lo stato di confusione per nascondere, annebbiare, depistare. Pur in un doveroso spirito garantista, occorre convenire che la seconda ipotesi appare la più fondata, anche per i motivi che saranno in seguito meglio specificati.
Numerosi altri risvolti sono stati poi evidenziati dal perito. Limitando l'elencazione ad alcuni episodi significativi, sarà sufficiente ricordare il "saccheggio" della documentazione contenuta nel fascicolo del noto estremista di destra Enzo Dantini che, a dire del SISMi, sarebbe stato solo preso in considerazione per l'inserimento nella struttura ma non reclutato per i suoi accertati precedenti. Vi è poi la vicenda del fascicolo intestato a Gianfranco Bertoli, sul quale vengono richieste informazioni nel 1965, che risultano favorevoli, ma il soggetto non risulta avvicinato perché "non conosciuto personalmente dal segnalatore". (77) Il perito evidenzia questa incongruenza, anche perché l'annotazione, apposta a mano, arreca la data del 20 gennaio 1971; il Bertoli sarebbe dunque rimasto in sospeso per ben sei anni.
La vicenda è resa ancora più inquietante alla luce del pesante sospetto che la persona possa identificarsi nell'autore della strage dinanzi alla Questura di Milano del 17 maggio 1971 e non, come affermato dal SISMi, di un uomo di tale nome nato a Portogruaro, il quale ha negato di aver mai fatto parte della struttura.
Sempre per quanto riguarda la vicenda Bertoli, il giudice istruttore di Padova, Casson, dopo aver anch'egli sottolineato l'incongruità di una annotazione posta dopo sei anni, rileva che presso il SISMi è stato trovato un numero di telefono, successivo al settembre 1984, relativo al Bertoli di Portogruaro, persona con cui il Servizio - secondo le stesse dichiarazioni dei suoi dirigenti - avrebbe interrotto ogni contatto fin dal 1971. "Unica spiegazione - annota il giudice - è quella che 'qualcuno' in epoca recente abbia avuto bisogno di trovare i dati del Bertoli di Portogruaro o di contattarlo". (78)
Sempre riguardo a quanto accertato dai magistrati padovani, è da rilevare che essi hanno posto in evidenza una abbastanza nutrita serie di incongruenze e contraddizioni alcune delle quali, per semplicità e brevità di esposizione, sono di seguito menzionate.
Esiste un documento, datato 14 marzo 1967, costituito da una informativa redatta dall'allora capo ufficio R, colonnello Pasquale De Marco, per il Capo del Servizio Eugenio Henke, concernente una esercitazione denominata LAZIO 1\67, svolta da alcuni elementi esterni della struttura. Secondo quanto riferito nell'informativa, all'esercitazione presero parte sette soggetti, "tutti di Roma, che da tempo sono nell'organizzazione". I nomi di questi elementi sono indicati come "Armando", "Sandro", "Maurizio", "Filippo", "Vincenzo", "Gianni", "Giulio". Di fianco a ciascun nominativo è indicata l'attività lavorativa svolta dagli stessi. Peraltro, dall'esame dei nominativi della cosiddetta lista dei 622, che è stata ripetutamente definita dai responsabili della struttura come sicura ed immune da manipolazioni, risultano venticinque "gladiatori" laziali nessuno dei quali si chiama Maurizio e Sandro, ed egualmente non risultano le professioni attribuite a questi. Gli altri elementi partecipanti all'esercitazione sono stati invece positivamente identificati. (79)
Nel tabulato denominato "stampa matricolare generale", fornito dal SISMi con i nominativi di tutti i soggetti reclutati nell'Organizzazione o anche solo segnalati a tal fine, mancano le indicazioni nominative relative ai soggetti contrassegnati dalle seguenti sigle numeriche: 0550; 0551; 0553; 0554; 0556; 0557; 0591; 0596; 0755; 0895; 1046 e 1314. Nell'elenco fornito dal SISMi mancano quindi almeno dodici nominativi. Una ricerca diretta effettuata negli archivi ha permesso di constatare la mancanza dei fascicoli personali contrassegnati dalle relative sigle numeriche. Non sono peraltro ipotizzabili sviste o fortuite omissioni, poiché esiste la prova che alle sigle numeriche corrispondono soggetti in carne ed ossa. Esiste infatti un documento che riporta l'indicazione delle sigle numeriche di sei "gladiatori" che dal 10 al 22 luglio 1972 effettuarono un corso al Centro di Alghero. Tra essi vi erano il "gladiatore" 0553 e quello 0556. Da altro documento emerge che esisteva in Friuli Venezia Giulia un "settore di esfiltrazione" i cui addetti erano, tra gli altri, i "gladiatori" 0554, 0553, 0550, 0557, 0591. (80)
Da un esame incrociato dei diversi elenchi di personale segnalato per l'arruolamento, nonché dal riscontro del contenuto dei fascicoli personali, è stato poi possibile accertare che almeno dieci persone sono state inserite, nel corso degli anni, in Gladio, pur non risultando nell'elenco dei 622 "gladiatori" ufficiali. Più precisamente, sono stati individuati sedici soggetti, tutti sentiti a verbale sul punto. Dieci di essi hanno confermato la loro appartenenza all'organizzazione, mentre i rimanenti sei hanno negato di essere stati reclutati.
I magistrati della Procura militare di Padova hanno sentito, in qualità di testimoni, un centinaio degli appartenenti a Gladio, i cui nominativi erano compresi nell'elenco dei 622. Di questi, circa il dieci per cento ha negato di aver mai fatto parte dell'Organizzazione e alcuni di loro hanno fornito spiegazioni convincenti, come, ad esempio, il mancato ricevimento della "lettera di congedo e ringraziamento" inviata a tutti gli appartenenti al momento dello scioglimento di Gladio.
Nell'elenco dei 622 componenti di Gladio figurano 45 elementi in realtà deceduti da tempo, come annotato sul registro e sui fascicoli relativi. I giudici, peraltro, hanno accertato che altri 25 soggetti erano deceduti senza che di ciò figurasse alcuna annotazione o memorizzazione sulla documentazione, di modo che in buona sostanza, secondo il SISMi, essi erano in vita e pronti ad essere utilizzati.
Può quindi essere ritenuto pacifico il verificarsi di un'attività, probabilmente anche assai complessa ed articolata, mirata a sottrarre alla conoscenza dell'Autorità giudiziaria e degli Organismi parlamentari di inchiesta e di controllo, dati, notizie o altri elementi che evidentemente non potevano essere rivelati.
Ciò costituisce un aspetto inquietante. Non vi è stata da parte dei dirigenti del SISMi la collaborazione che ci si sarebbe dovuti attendere. Recentemente, in data 11 febbraio 1995, l'Autorità giudiziaria di Roma, nell'ambito dei procedimenti penali a carico di Invernizi Gianantonio ed altri, per delitti relativi a soppressione continuata di documenti attinenti alla sicurezza dello Stato, e a carico di Inzerilli Paolo e altri per i delitti di cospirazione politica mediante associazione, banda armata e altro, tutti fatti connessi con la vicenda Gladio, ha disposto gli arresti domiciliari nei confronti dell'ex direttore della I Divisione del SISMi, colonnello Bartolomeo Lombardo, attualmente in servizio presso lo stesso organismo.
A quanto è dato finora sapere (le indagini sono attualmente in corso e l'Autorità giudiziaria procedente ha fatto riserva di comunicare eventuali informazioni utili) il colonnello Lombardo era stato sentito dall'Autorità giudiziaria in qualità di "persona informata sui fatti". L'esame concerneva la corrispondenza intercorsa tra la I e la VII Divisione del SISMi nel novembre 1990 circa le informazioni sulla struttura Stay behind Gladio da trasmettersi al CESIS e quindi alla Presidenza del Consiglio.
Come ha segnalato al Comitato la Procura della Repubblica di Roma, "poiché dall'esame emergevano contrasti con fatti accertati, in un quadro di generale reticenza, si chiedeva misura cautelare; lo stesso giorno il giudice per le indagini preliminari disponeva gli arresti domiciliari del Lombardo, con divieto assoluto di comunicare con persone non conviventi".
Il provvedimento è da porre in relazione ad un insieme di accertamenti condotti dal magistrato su atti richiesti in esibizione al SISMi e riguardanti la soppressione, avvenuta alla fine del luglio 1990, di documenti concernenti l'addestramento ricevuto da personale civile e militare, nella base di Gladio di Alghero, nonché di altri atti inerenti ad interrogazioni, effettuate dal SISMi, sul CED del Ministero dell'interno relative a nominativi collegati alla struttura Gladio ma non indicati nell'elenco comunicato al CESIS, alla Presidenza del Consiglio e all'Autorità giudiziaria.
Il 21 febbraio scorso il Direttore del SISMi ha riferito, in esito a specifica richiesta del Comitato, che nei confronti del colonnello Lombardo è stata adottata la "sospensione cautelare obbligatoria dal servizio" ai sensi delle disposizioni vigenti.
Quest'ultimo episodio fornisce anche ulteriori elementi a sostegno dell'ipotesi che i nomi dei "gladiatori" ufficialmente comunicati siano solo una parte, e presumibilmente la meno importante e significativa, dell'aliquota del personale inserito nella struttura Gladio.
Inoltre, esso solleva interrogativi seri, perché mostra ancora oggi una continuità di atteggiamenti e, all'interno del SISMi, tuttora uno scarso impegno a favorire l'accertamento della verità.
(...continua)
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