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Per Aspera Ad Veritatem n.19
Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse

Documento sui traffici illeciti e le ecomafie, approvato nella seduta del 25 ottobre 2000 (stralcio)





(1) Il rapporto sui traffici illeciti di rifiuti e le ecomafie - di cui viene pubblicato uno stralcio preceduto dall'indice dell'intero documento (2) offre un interessante e spesso inquietante quadro della situazione esistente nel nostro Paese sotto il profilo dell'inquinamento ambientale derivante dallo smaltimento dei rifiuti.
Nel senso dell'approfondimento delle tematiche affrontate in questo rapporto e della volontà di rappresentarle ad un pubblico più ampio, considerato il loro consistente impatto sulla qualità della vita e la salute dei cittadini, si è mosso anche il Rapporto sull'Ecomafia 2001, presentato da Legambiente il 5 marzo scorso (3), al quale la stampa ha dato ampio risalto. Nel rapporto, Legambiente fornisce, tra l'altro, accurate statistiche, disaggregate per regione, riguardanti la commissione di reati connessi all'ambiente, quali l'abusivismo edilizio, la gestione illegale dei rifiuti, il traffico di animali protetti, nonché dati relativi ai danni al patrimonio artistico, con particolare riguardo al furto delle opere d'arte. Tutti settori, questi, nei quali sembra registrarsi una progressiva espansione del controllo e della gestione da parte della criminalità organizzata.
A fronte di una simile realtà, emerge con forza la necessità di adeguare la normativa vigente che non sembra essere in grado di fornire agli organi competenti tutti i possibili strumenti idonei al contrasto. Lo stesso procuratore nazionale antimafia, dott. Piero Luigi Vigna, ha avuto modo, proprio in occasione della presentazione del rapporto di Legambiente, di lamentare la disattenzione del Parlamento su questo tema. In effetti, solo sul finire della legislatura, il Parlamento ha approvato una importante legge in materia ambientale - che viene pubblicata nella parte terza del presente numero - che costituisce tuttavia solo un primo passo.
Anche la Commissione parlamentare, nel raccogliere e descrivere puntualmente casi concreti emersi anche attraverso l'audizione di magistrati impegnati in specifiche inchieste, ha denunciato, nel rapporto che pubblichiamo, tale vuoto normativo, non solo per ciò che concerne la mancanza di una specifica previsione di reati in materia ambientale, ma anche in relazione ad altri aspetti normativi, quali ad esempio quelli di carattere fiscale, tributario e amministrativo.
Altro aspetto interessante evidenziato dal rapporto è infine quello che attiene alla dimensione internazionale del traffico illegale di rifiuti, in relazione al quale viene ulteriormente sottolineata l'importanza a livello investigativo di realizzare un elevato coordinamento.


La Commissione, in occasione del forum nazionale «I crimini contro l'ambiente e la lotta alle ecomafie» (1) , evidenziò come fosse necessario - in materia di traffici illeciti di rifiuti - accrescere l'attenzione dedicata al settore dei rifiuti speciali e pericolosi. Esiste infatti una sorta di strabismo nella già scarsa attenzione che i media - e di conseguenza l'opinione pubblica - assegnano a tale fenomeno criminale, invero di grande portata, sia per quanto concerne il giro d'affari che le ricadute in termini di salute dell'ambiente e dei cittadini. Il monitoraggio costante effettuato dalla Commissione sulla stampa nazionale e locale - comprese le agenzie - evidenzia che i rifiuti «fanno notizia» (e dunque «esistono», secondo una nota legge dell'informazione) solo in occasione di difficoltà di smaltimento, pertanto con la prospettiva di strade piene di spazzatura, o di proteste popolari contro impianti di trattamento o di smaltimento, assai di rado invece quando vengono scoperti traffici illeciti o discariche abusive. Un silenzio nel quale si svolgono attività illegali di entità notevole.
È opportuno effettuare una stima di ciò che sfugge al mercato legale dei rifiuti. Secondo la Commissione, circa 35 dei 108 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti ogni anno in Italia vengono smaltiti in maniera non corretta o del tutto illecita. Si tratta di un dato che va evidentemente spiegato nel dettaglio: le indagini ufficiali, condotte dall'Anpa e dall'Osservatorio nazionale sui rifiuti, evidenziano una produzione di rifiuti solidi urbani pari a 26 milioni di tonnellate l'anno e di 60 milioni di tonnellate l'anno di rifiuti speciali. Se, per quanto concerne la prima tipologia, il dato è basato sulle certificazioni di soggetti (comuni, consorzi, comunità) pressoché pari all'universo considerato, la materia si fa assai più complessa considerando i rifiuti speciali (pericolosi e non pericolosi).
Il rapporto sulla produzione e la gestione dei rifiuti speciali (realizzato dall'Anpa e dall'Osservatorio nazionale sui rifiuti nel 1999 su dati relativi al 1997) ha messo in evidenza una serie di problematiche, già affrontate in altre occasioni dalla Commissione (2). Sulla scorta di quelle considerazioni, la situazione è quella elencata di seguito in maniera schematica:
a) la produzione stimata di rifiuti speciali per il 1997 è stata di 60,3 milioni di tonnellate;
b) per 45,7 milioni di tonnellate di questi rifiuti si ha un'informazione ufficiale relativamente alla gestione e/o lo smaltimento;
c) la verifica sul campo più vasta ed approfondita - ad oggi quella della regione Toscana - ha portato a moltiplicare per 2,16 la stima mud per avere un dato più reale della produzione di rifiuti;
d) tale fattore moltiplicativo non è ovviamente applicabile all'intero territorio nazionale, ma questa Commissione ritiene verosimile che la produzione annua di rifiuti speciali in Italia non sia inferiore agli 80 milioni di tonnellate (3);
e) tenendo conto del trend di crescita nella produzione di rifiuti solidi urbani e di rifiuti speciali, almeno 35 milioni di tonnellate sfuggono ogni anno al mercato legale, sottraendogli un valore di oltre 15 mila miliardi e causando un danno all'erario di circa 2 mila miliardi.
Di fronte a tali cifre, è necessario comprendere quali siano le destinazioni che questa enorme massa di rifiuti prende ogni anno, ed è questo l'obiettivo di tale documento, elaborato in seno al gruppo di lavoro sui traffici di rifiuti. Il lavoro di preparazione del documento si è articolato su livelli distinti: una rilettura organica delle attività di indagine svolte ed in corso da parte delle forze di polizia e dell'autorità giudiziaria; lo sviluppo, da parte della Commissione, di informazioni raccolte nel corso della propria attività; la costante attenzione a fatti confinati nelle cronache locali.
Si è venuto così componendo un mosaico, le cui tessere sono costituite da una gran mole di informazioni sparse, ma che ricomposte in una paziente ricostruzione d'insieme consentono di fornire al Parlamento, al Governo ed all'opinione pubblica una lettura aggiornata della situazione dell'illegalità in materia di rifiuti, la sottolineatura delle aree di presenza delle ecomafie e l'indicazione di possibili linee di intervento per arginare sempre più efficacemente i fenomeni illeciti.
Sin dalla sua istituzione la Commissione ha dedicato grande attenzione al tema delle infiltrazioni criminali nel settore dei rifiuti, facendo anche riferimento a quanto rilevato dalla Commissione monocamerale d'inchiesta operante nella passata legislatura presso la Camera dei deputati. Mentre concentrava la sua attenzione sulle varie tipologie di illecito ambientale e sui problemi della lotta alla criminalità organizzata che opera nel ciclo dei rifiuti, in specie nelle regioni di insediamento mafioso tradizionale, la Commissione ha ritenuto opportuno approfondire ed estendere la ricerca a tutto il territorio nazionale, cercando di cogliere i tratti essenziali e comuni di fenomeni apparentemente assai diversificati.
Da molti segnali, infatti, risultavano alla Commissione presenze o collegamenti con associazioni di stampo mafioso anche in zone del centro nord. Ma, soprattutto, sono apparsi sempre più allarmanti i segnali di vere e proprie forme di infiltrazione nel tessuto economico delle zone più evolute e sviluppate. Nelle relazioni territoriali non sono poi mancati gli sforzi di approfondimento in tale direzione, volti a cogliere i tratti essenziali del fenomeno nelle singole aree regionali, nonché i collegamenti evidenziati da alcune indagini giudiziarie. Specifico rilievo sono andate assumendo, altresì, alcune problematiche ambientali di respiro internazionale suscettibili di riflettersi sulla sicurezza del Paese, come quelle relative ai traffici di rifiuti tossici e radioattivi, cui la Commissione ha dedicato grande attenzione, attivando anche i propri poteri di inchiesta.
Il proposito di questo lavoro è dare sistematicità alla ricerca intrapresa, cercando, come si è detto, di cogliere i tratti essenziali e comuni di fenomeni spesso apparentemente assai diversificati. In questo contesto, è stato utilizzato tutto il più aggiornato materiale disponibile dell'autorità giudiziaria e delle forze dell'ordine, nonché quanto è risultato dai sopralluoghi di delegazioni della Commissione nelle varie regioni e dalle iniziative assunte, secondo un programma che via via si è andato ampliando anche in relazione alle numerose segnalazioni pervenute - nel corso delle audizioni e dei seminari svolti - da parte dei soggetti istituzionalmente preposti alla tutela del ciclo dei rifiuti, delle associazioni e dei comitati di cittadini e degli imprenditori che operano nel settore.
In seno alla Commissione è stata costituita anche una banca-dati, in cui sono state raccolte numerose informazioni relative agli operatori privati del settore della raccolta, del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti, la cui analisi ha consentito - come vedremo - di individuare talune gravi distorsioni del mercato.
Si è trattato di un lavoro intenso, che ha condotto alla raccolta ed all'acquisizione di dati, elementi e valutazioni di rilievo, consentendo di formare un quadro dettagliato di conoscenze sulle principali fattispecie di reato che si manifestano nel ciclo dei rifiuti e sulle problematiche di varia natura che esse sollevano; in questa prima parte della relazione si intende, pertanto, fornirne una descrizione, facendo anche riferimento ad alcune inchieste giudiziarie che hanno contribuito ad individuare tali «fattispecie-tipo».


La Commissione ha raccolto dati preoccupanti in ordine al rapporto intercorrente fra traffico illegale di rifiuti e criminalità organizzata inizialmente dalla testimonianza di vari magistrati, che hanno avuto modo di occuparsi della questione nel corso delle inchieste attinenti alle società criminali operanti in Campania, Lazio, Calabria e Sicilia.
Il classico modus operandi di tali associazioni criminali per realizzare questi traffici riguarda il sistema del cosiddetto «giro bolla», grazie al quale i rifiuti pericolosi vengono spediti da un soggetto ad un altro, il quale emette una ricevuta; tale ricevuta però è falsa, poiché quei rifiuti non vengono né ricevuti né inertizzati. In realtà, i rifiuti sono stati spediti altrove illecitamente, per lo più presso cave abbandonate o discariche non autorizzate a ricevere rifiuti di provenienza extra-regionale, se non addirittura mescolati al terriccio ed interrati per essere utilizzati nella pavimentazione di strade o nella costruzione di abitazioni civili. Eppure, formalmente la documentazione è regolare: vi è un mittente di rifiuti pericolosi e vi è un ricevente che dichiara sia la ricezione che il declassamento.
Esemplificativa di tale attività è l'indagine condotta dal nucleo operativo ecologico dell'Arma dei carabinieri su delega della direzione distrettuale antimafia di Napoli, su traffici illeciti di rifiuti pericolosi provenienti da industrie del nord Italia, in specie dell'Emilia Romagna, e trasportati lungo le dorsali tirrenica ed adriatica, per essere abbandonati in aree del meridione controllate dalla criminalità organizzata (4).
L'indagine mostra chiaramente la penetrazione delle organizzazioni camorristiche nei traffici di rifiuti, situazione più volte denunciata dalla Commissione e da quella operante nella passata legislatura; la varietà di siti destinati allo smaltimento illegale come la pronta individuazione da parte dell'organizzazione di altri siti, a fronte di sequestri, è indice di un controllo del settore che va ben oltre il territorio in cui esse operano direttamente - come mostrano le connessioni fra traffici abusivi di rifiuti e criminalità organizzata emersi in Abruzzo e Lazio, nonché in Piemonte, Lombardia e Liguria - e della penetrazione che tali organizzazioni stanno attuando nelle cosiddette aree non tradizionali.
Altro elemento da sottolineare - e che la Commissione aveva già evidenziato nel forum di Napoli - riguarda l'estensione delle attività delle organizzazioni criminali: risulta infatti dalle indagini che i clan hanno ormai ampliato le loro attività specifiche nel settore dal semplice controllo dei siti finali di smaltimento ai momenti del trasporto e della commercializzazione, gestendo, quindi, tali attività illecite dal produttore di rifiuti sino al sito di smaltimento illegale. Con alcune peculiarità «regionali»: come ricordato dal prefetto di Napoli in sede di audizione e nell'ambito del seminario sull'istituto del commissariamento svoltosi nel capoluogo campano, i siti di smaltimento sono ora tutti gestiti dallo Stato, ma la quasi totalità delle imprese che organizzano il trasporto dei rifiuti appare in varia forma contigua alla criminalità organizzata.
Ma va aggiunto da subito - altrimenti si fornirebbe una chiave di lettura della realtà distorta - che sarebbe quanto mai errato ricondurre tutte le attività illecite nel settore dei rifiuti all'azione delle cosiddette «ecomafie», come dimostrano in maniera univoca i dati che la Commissione ha raccolto nel corso dei lavori. Esistono infatti, come vedremo più avanti, aziende non riconducibili alla criminalità organizzata che tuttavia paiono basare la loro attività proprio su una non corretta gestione dei rifiuti. Si registrano inoltre fatti di microcriminalità assai diffusa sull'intero territorio nazionale. Ricondurre tutta l'illegalità alle «ecomafie» significherebbe quindi dimenticare una gran parte di attività illecite.
È tuttavia evidente la rilevanza che l'azione della criminalità organizzata assume anche in questo contesto per via dei condizionamenti - sociali ed economici - che mafia, camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita riescono a porre in essere; inoltre deve essere denunciato da subito quanto si vedrà meglio in seguito, cioè che proprio il ciclo dei rifiuti è uno dei «motori» utilizzati dalla criminalità organizzata per penetrare nelle aree del centro e del nord del Paese.

(...)



Già la Commissione d'inchiesta operante nella XII legislatura aveva indicato la provincia di Caserta come «il territorio dell'ecomafia». È noto come su tale area esista il dominio criminale del clan "dei casalesi", guidato fino al momento del suo arresto da Francesco Schiavone, detto «Sandokan». Il clan, che ha la sua base a Casal di Principe, estende le sue attività a tutta la provincia di Caserta, ad alcune aree del beneventano e dell'avellinese, nonché alla provincia di Latina; secondo quanto riferito alla Commissione, il clan conterebbe su un numero di affiliati intorno alle diecimila unità. Dal punto di vista dell'organizzazione criminale, il clan dei casalesi presenta caratteristiche affini a quelle della mafia siciliana più che a quella della camorra campana; per ciò che più direttamente riguarda questa relazione, invece, si deve da subito rilevare che le attività economiche sulle quali il clan maggiormente si concentra lo fanno in qualche maniera assurgere a «paradigma» dell'ecomafia. I due cicli economici tipici dell'ecomafia - cemento e rifiuti - sono infatti sfruttati a fondo e in tutte le direzioni dal clan dei casalesi: l'attività estrattiva, l'edilizia abusiva, lo smaltimento dei rifiuti, sia esso illecito o gestito da imprese in qualche modo comunque riconducibili all'organizzazione criminale.
Il ciclo economico ecomafioso nasce e finisce nell'elemento cava: da qui vengono estratti - direttamente in maniera illecita o comunque da imprese del clan - i materiali inerti per le costruzioni (in gran parte abusive); una volta esaurita l'attività estrattiva nella cava, vengono sepolti in maniera illecita i rifiuti provenienti da tutta Italia. Da questo punto di vista l'emblema dell'attività ecomafiosa è senz'altro l'area di Sant'Angelo in Formis - sequestrata dalla procura di Santa Maria Capua Vetere - dove erano presenti sia i macchinari per l'attività estrattiva (che nel frattempo aveva rotto la falda creando uno dei noti «laghetti»), sia migliaia di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia smaltiti ovviamente in maniera illecita.
Una delle costanti dell'azione del clan dei casalesi è quindi l'aggressione e il depauperamento, fino al degrado più estremo, dell'ambiente. Ma se questa è una caratteristica di diversi clan criminali, ciò che rende «paradigmatica» l'azione di questa organizzazione è la sua imprenditorialità. È stato infatti evidenziato alla Commissione che - ad esempio - il mercato del calcestruzzo è sotto il controllo del clan che, con la realizzazione di un consorzio ad hoc, ha di fatto imposto a chiunque volesse operare in tale settore economico l'adesione all'economia criminale.
Per quanto riguarda invece la gestione dei rifiuti, il discorso è in parte più complesso: il controllo sulle attività di illecito smaltimento è purtroppo fuori discussione, dato il capillare controllo del territorio operato dal clan. L'aspetto legale va invece considerato da diverse angolazioni: la fase dello smaltimento è gestita direttamente dal commissario di governo (il prefetto di Napoli) e dunque sono da escludere infiltrazioni della criminalità organizzata, come peraltro confermato dallo stesso prefetto di Napoli in sede di audizione davanti alla Commissione. Le fasi della raccolta e del trasporto sono invece fortemente a rischio, come evidenziato, sempre nella stessa audizione, dal prefetto di Napoli, che ha precisato alla Commissione come circa il 90 per cento delle aziende che operano in questo settore hanno collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata.
Come si esplica tale controllo, e come tale controllo abbia in buona misura determinato l'attuale fase emergenziale per il ciclo dei rifiuti in Campania, emerge in maniera evidente dalle vicende relative all'appalto per la raccolta e lo smaltimento a Mondragone (Caserta). Si tratta di un episodio emblematico, che è opportuno ripercorrere seguendo la ricostruzione cronologica eseguita dalla direzione investigativa antimafia di Firenze:
«4 marzo 1991: il consiglio comunale, con verbale n. 17, a prosieguo della seduta del 18 febbraio 1991 ed a chiarimento della delibera n. 1253 del 19 settembre 1990, delibera l'approvazione del capitolato stanziato per lo smaltimento dei rsu. Nella delibera viene specificato l'ammontare della spesa di gestione pari a lire 2.952.936.000;
20 dicembre 1991: viene deliberata l'aggiudicazione dell'appalto per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti alla ditta Covim, che si aggiudicava l'asta per la somma di lire 2.923.000.640 al netto del ribasso dell'1 per cento sul prezzo a base d'asta. Si rappresenta che dagli atti risulta che delle ditte invitate alla gara d'appalto solo tre, tra cui la Covim, si presentarono; una, la ditta Fungaia Monte Somma di Ottaviano, non veniva ammessa perché facente parte di un raggruppamento di imprese, mentre la gara era per ditte individuali; l'altra, la Ciccarelli G. Battista di Giugliano, offriva un ribasso dello 0,6 per cento, quindi non veniva accettata. Altre due ditte inviavano una raccomandata nella quale specificavano di non poter partecipare alla gara;
10 febbraio 1992: la commissione straordinaria delibera di fornire chiarimenti al Coreco della provincia di Caserta in merito all'esclusione della ditta Fungaia Monte Somma. Detta ditta veniva esclusa in quanto invitata come ditta individuale e non come capogruppo di imprese riunite e che la ditta facente parte del gruppo non era stata invitata a partecipare alle gare;
15 maggio 1992: la commissione straordinaria deliberava che doveva essere revocata la delibera del 20 dicembre 1991, con la quale veniva conferita l'aggiudicazione della gara di appalto alla ditta Covim e che la cessazione entrava in vigore dall'1 giugno 1992, in quanto il decreto regionale di autorizzazione per il predetto servizio presentato all'atto della gara era illegibile;
19 maggio 1992: la commissione straordinaria, in merito alla revoca dell'appalto alla Covim, bandiva una nuova gara di appalto. Delle sette ditte invitate, a rispondere alla gara furono la Fungaia Monte Somma, la Ciccarelli G. Battista, la Tedesco Antonio, che rese edotte del problema furono invitate a far pervenire, in busta chiusa, l'offerta per l'aggiudicazione entro le ore 12 del 22 maggio 1992. Ma nessuna delle tre ditte fece pervenire l'offerta. A questo punto, la commissione straordinaria provvedeva ad invitare altre otto ditte, delle quali solo la Capasso Ciro di Grumo Nevano si presentava e, resa edotta del problema, veniva invitata a far pervenire l'offerta per l'aggiudicazione entro le ore 11 del 29 maggio 1992. Anche questa ditta non faceva pervenire alcuna offerta e, con fax del 28 maggio 1992, manifestava la propria indisponibilità. Quindi, in considerazione dell'urgenza e non essendoci altre ditte specializzate nel settore per svolgere detto servizio, risultando indispensabile assicurare il servizio per i rsu, veniva deliberato di continuare ad affidare alla Covim le operazioni con decorrenza dall'1 giugno 1992, con le stesse condizioni dell'appalto revocato in precedenza;
3 luglio 1992: la commissione straordinaria per i chiarimenti richiesti dal Coreco delibera che la Covim è autorizzata a smaltire i rsu presso l'impianto della società Alma, sita in Villaricca;
18 marzo 1993: a seguito della delibera n. 169 del 20 dicembre 1991 viene ratificato il contratto di appalto per la raccolta e lo smaltimento dei rsu tra il comune di Mondragone e la Covim. Dal contratto si evince che l'importo mensile per le operazioni di cui sopra è di lire 243.617.220; l'appalto sarebbe terminato al momento del conferimento dell'incarico alla ditta vincitrice della gara in quel momento in corso di espletamento;
18 dicembre 1995: il consiglio comunale, in merito all'indizione della gara di appalto per la raccolta dei rsu, delibera l'approvazione del nuovo capitolato speciale d'appalto, pari a lire 10.426.200.000 con affidamento triennale per il periodo 1996-1998;
23 settembre 1996: il consiglio comunale chiarisce al Coreco della provincia di Caserta quanto deliberato in data 18 dicembre 1995, in merito all'indizione della gara d'appalto per la raccolta dei rsu e dell'approvazione del capitolato speciale di appalto stanziato per tale scopo;
14 febbraio 1997: il consiglio comunale, in merito alla gara d'appalto per l'affidamento del servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, delibera di indire una gara di appalto a mezzo di licitazione privata con procedura accelerata;
30 maggio 1997: il consiglio comunale delibera l'approvazione dell'elenco delle ditte per la gara di appalto. Le ditte in argomento risultano essere: Covim, Ecocampania, Risan, Solapuma, Italo-Australiana, Consorzio Nazionale Servizi, mentre veniva esclusa Il Triangolo;
29 novembre 1997: la giunta comunale delibera l'approvazione di gara infruttuosa per il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu. Nel verbale viene fatto riferimento alla delibera dell'11 novembre 1996, vistata favorevolmente dal Coreco di Caserta, nella quale si provvedeva alla riapprovazione del capitolato speciale d'appalto per il servizio in argomento. Inoltre, viene specificato che alla gara avevano partecipato due ditte: la Covim e l'Ecocampania, ma veniva altresì specificato che in data 18 luglio 1997 l'aggiudicataria della gara era stata l'Ecocampania. In data 31 luglio 1997, la Covim chiedeva che fosse sospesa la gara e che, in data 6 novembre 1997, venisse redatto verbale di gara infruttuosa per vizi formali. Nel contempo, a causa della necessità di dover proseguire il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, veniva confermata alla Covim la proroga a continuare a svolgere le operazioni in argomento, con le stesse modalità, patti, prezzo e condizioni stabiliti nel contratto del 10 marzo 1993;
23 dicembre 1997: il responsabile del servizio per la ripartizione tecnica urbanistica, in merito alla gara di appalto per il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, determina di indire una gara a licitazione privata, la riapprovazione del bando di gara e la lettera di invito per il servizio».
L'appunto è del 6 maggio 1998 e a quella data l'appalto per il servizio di raccolta dei rsu a Mondragone non era ancora stato aggiudicato! Per la camorra che si fa impresa, com'è il caso del clan dei casalesi, quello dei rifiuti è un settore economico nel quale intervenire come in qualsiasi altro dove esista la possibilità di aggiudicarsi pubblici appalti. Dall'intervento nel ciclo dei rifiuti conseguono guadagni illeciti poi reinvestiti - ad esempio - in attività turistiche, com'è il caso di un centro residenziale a Montecatini Terme (PT) che, secondo la ricostruzione della direzione distrettuale antimafia di Napoli, è stato acquisito proprio con capitale derivante dall'attività ecomafiosa. Se l'ecomafia ha l'intuizione imprenditoriale dei settori economici di maggior rendimento, è - almeno allo stato attuale - carente dal punto di vista delle capacità tecnologiche. L'intervento diretto si riscontra pertanto nei settori della raccolta e del trasporto dei rifiuti, il che non equivale a sminuire la gravità della situazione, ma a sottolineare che la realizzazione di cicli integrati ad alto contenuto tecnologico potrà contribuire a risanare questa fetta di mercato.
L'attività del clan dei casalesi, tuttavia, conferma l'allarme che la Commissione aveva lanciato in occasione del già richiamato forum di Napoli, relativo al salto di qualità che le ecomafie stavano compiendo. I clan criminali non si limitano più al solo smaltimento illecito, ma si trasformano essi stessi in impresa anche nel ciclo dei rifiuti. Non si accontentano più di imporre la «tassa camorra» - cioè una quota percentuale fissa su ogni lira guadagnata dalle aziende nel territorio controllato dall'organizzazione - ma si fanno impresa. Nel settore del calcestruzzo la creazione dei consorzi controllati dalla camorra - come è stato ben delineato alla Commissione - ha portato all'eliminazione della «tassa camorra» ed alla conseguente riduzione del prezzo di questo materiale. Una soluzione del genere non si è ancora registrata nel settore rifiuti; infatti, dalla documentazione esistente in Commissione, emerge con chiarezza come il clan dei casalesi imponga una sorta di tariffario a seconda dell'importo dell'appalto, per cui se dal comune di Mondragone, con un'azienda ad essi direttamente collegata, pretendevano di guadagnare sessanta milioni al mese imponendo loro l'importo dell'appalto, per quanto riguarda il comune di Sessa Aurunca (di dimensioni pari a Mondragone), la tangente richiesta alla ditta aggiudicataria dell'appalto (non collegata al clan) era assai simile.
Non è più quindi la realizzazione della «semplice» discarica abusiva, o il «solo» condizionamento degli appalti, ma è tutto ciò più l'intervento diretto nel ciclo dei rifiuti che rende paradigmatica l'azione del clan dei casalesi: è la criminalità organizzata che prima impone la «tassa camorra», poi crea i consorzi, esclude dal mercato le aziende che non aderiscono ai consorzi, crea le sue imprese e - grazie ai consorzi - controlla le altre; in questa maniera (particolare non secondario) controlla anche la distribuzione dei posti di lavoro, creando consenso e quindi un clima quanto meno di non ostilità al giogo criminale. Un intervento diretto in questo settore economico al quale, secondo la Commissione, si debbono opporre strumenti investigativi ed amministrativi sofisticati, quali un effettivo controllo della titolarità delle aziende, una trasparenza piena degli appalti pubblici, il coordinamento anche telematico e la condivisione di tutte le informazioni a disposizione dei singoli apparati dello Stato. La mano pubblica destra deve sapere ciò che fa (e sa) la mano pubblica sinistra: la sinergia e la collaborazione possono solo moltiplicare le forze e le conoscenze, come questa Commissione ha avuto modo di constatare direttamente, purtroppo in non molte occasioni.
È opportuno ricordare come il numero degli affiliati al solo clan dei casalesi sia stimato intorno alle diecimila unità (superiore di alcune migliaia all'intero organico del Corpo forestale dello Stato). Negli ultimi anni, comunque, i presidi dello Stato sono aumentati: nella provincia di Caserta è stato aperto un comando del nucleo operativo ecologico dell'Arma dei carabinieri, è attiva - presso la prefettura - un'unità di crisi dedicata proprio al ciclo dei rifiuti. Un'attenzione che ha indotto il clan dei casalesi a modificare la sua attività nel campo degli sversamenti illeciti: come collaboratori di giustizia hanno rivelato alla Commissione, la criminalità organizzata ha infatti ritenuto di non usare enormi cave abusive come discariche, ma di procedere con il meccanismo dello «sversa e fuggi». Non solo, dalla provincia di Caserta il clan ha cominciato a «esportare» questa illecità attività al matese e alla marsica.

(...)



Il complesso di tutte le vicende esposte nei diversi capitoli di questa relazione conducono la Commissione al convincimento dell'esistenza di una vastissima ramificazione di forme varie di criminalità comune ed organizzata, anche di tipo mafioso, praticamente in tutte le regioni d'Italia o almeno in quelle che hanno formato oggetto di analisi da parte della Commissione. Nel corso degli ultimi anni i traffici illeciti nel ciclo dei rifiuti non hanno fatto segnare alcun calo. È senz'altro aumentata l'attività d'indagine da parte dell'autorità giudiziaria e delle forze di polizia, ma con ciò - anche per i limiti che l'azione delle stesse incontra a livello normativo - aumenta la statistica dei reati contestati e delle attività illecite perseguite senza però riuscire ad avere un impatto adeguato alla gravità della situazione. Anzi, dal lavoro di ricognizione effettuato risulta un elemento di novità nelle tipologie dell'illecito: non sono più all'ordine del giorno tanto le mega-discariche abusive, quanto piuttosto interramenti e sversamenti di minore entità quantitativa, o abbandoni incontrollati di rifiuti in aree chiuse (quali i capannoni industriali dismessi) che comunque creano rilevanti problemi in termini di bonifica e di ripristino. Al fenomeno corrisponde una maggiore «raffinatezza» dei traffici, che hanno abbandonato - come abbiamo visto - le caratteristiche originarie del trasporto e dello scarico selvaggio, per approdare a forme di illecito complesse, centrate sul meccanismo della truffa e della falsificazione dei documenti, che si giovano anche della scarsa capacità di controllo (quando non della collusione) degli organi amministrativi.
In sostanza, l'imprenditoria deviata e le organizzazioni criminali si sono evolute, hanno esteso il loro raggio d'azione ben oltre il loro territorio naturale, presentandosi sul mercato come aziende titolari di regolare autorizzazione, pronte a sfruttare qualsiasi spiraglio offerto dalle lacune normative.
Né vi sono più aree esenti da fenomeni di infiltrazioni di tipo mafioso nel ciclo dei rifiuti, pur con le forti differenze nell'entità del fenomeno nei diversi territori. Molti episodi mostrano che non esiste, per fortuna, in vaste aree del Paese una criminalità organizzata e radicata nel territorio: esistono però presenze ed attività di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti che non consentono più di parlare di «isole felici». Valga per tutte quanto esposto, ad esempio, nel capitolo dedicato alle infiltrazioni nelle aree non tradizionalmente mafiose. Nella preoccupazione generale occorre però prendere atto di un dato che è assai importante, e precisamente che questa presenza diffusa non si esprime - se non nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa - nella forma di controllo del territorio e del ciclo economico che qui interessa. Infatti, nelle regioni del centro-nord, anche in presenza di collegamenti con gruppi criminali che operano stabilmente in altre aree del Paese, la mancanza di un consenso diffuso, la resistenza di un tessuto economico-sociale complessivamente sano e consapevole, nonché l'attività svolta dai soggetti istituzionali che, specie negli ultimi anni, si è dimostrata sensibile al problema, funzionano da deterrente ed impediscono la riproduzione delle condizioni ambientali tipiche delle zone di origine delle organizzazioni di tipo mafioso.
Si tratta di un dato registrato dalla Commissione nel corso della sua indagine ed evidenziato dalle vicende che si sono analizzate. Questo dato, che può recare qualche elemento di conforto, non deve far dimenticare che quelle condizioni possono sempre realizzarsi se non si interviene a bloccare la crescita dell'insediamento di tipo mafioso, e soprattutto che in molti casi ci si comincia ad avvicinare troppo ad una situazione del genere: ciò avviene ogni volta che - come si è visto - gli insediamenti criminali diventano corposi e robusti, l'organizzazione si stabilizza ed i collegamenti all'interno e fuori dell'area sono consistenti.
In questo contesto si collocano alcune zone della Liguria, del triangolo Piemonte, Lombardia ed Emilia, alcune aree del Lazio e dell'Abruzzo. E non è davvero poco, se si riflette sulle caratteristiche di queste regioni e sulle progressive interferenze della criminalità organizzata che si sono registrate e che appaiono in espansione, con modalità operative sempre più subdole e raffinate (si pensi al meccanismo del «giro bolla» o al sistema di alterazione del mercato degli appalti) che significano disponibilità, strumenti e mezzi.
Questa situazione dà l'idea dell'entità del fenomeno, della sua complessità e delle diverse ragioni - tra cui il deficit del sistema dei controlli e l'assoluta inadeguatezza della normativa repressiva delle condotte illecite - per cui con tanta facilità esso ha potuto e può presentarsi anche in zone certamente ricche ed evolute, come la Lombardia, il Piemonte e l'Emilia Romagna; ma di infiltrazioni nelle aree non tradizionali si sono trovate significative e consistenti conferme anche in regioni come l'Abruzzo e la Basilicata, perché i gruppi criminali sanno percepire le possibilità di sfruttamento che derivano dall'essere zone ancora quasi vergini e poco presidiate.
Se si facesse una mappa della presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso nelle aree esaminate, il risultato sarebbe impressionante, perché questa sarebbe presente pressoché ovunque, sia pur con connotati, intensità e pericolosità di diverso livello. E se un'altra mappa si dovesse predisporre con specifico riferimento alle metodologie, agli strumenti e alle modalità operative, il quadro sarebbe altrettanto allarmante per la sua varietà e per il livello spesso sofisticato delle infiltrazioni e delle operazioni di inserimento, per la stessa capacità dei criminali di cogliere spazi di manovra anche nelle maglie della normativa, al fine di realizzare nuovi profitti e riciclare le enormi quantità di denaro illegalmente acquisito e che occorre, in qualunque modo, reimpiegare sia in operazioni lecite che illecite.
Si constata cioè, in questo settore, quanto si è verificato per il fenomeno del riciclaggio e/o l'impiego di denaro proveniente da attività illecite da parte delle consorterie mafiose: una vera e propria assistenza tecnica di agenzie criminali specializzate. La procedura del cosiddetto «giro bolla» e la centralità delle società di intermediazione commerciale e dei centri di stoccaggio temporaneo nelle operazioni illecite richiama, infatti, il concetto del riciclaggio: i rifiuti vengono fittiziamente declassificati, perdono cioè le loro caratteristiche originarie esclusivamente sulla carta, grazie alla falsificazione dei documenti di trasporto che avviene all'origine presso i produttori o lungo il percorso verso i luoghi di smaltimento finale, quindi sono immessi nel legale circuito dei residui riutilizzabili o inviati in impianti non idonei a riceverli. Per ridurre ulteriormente i costi, gli stessi vengono, infine, smaltiti in discariche abusive, costituite essenzialmente da semplici buche nel terreno o miscelati ai materiali impiegati per la realizzazione di opere varie, comprese le abitazioni civili.
In questo contesto - come la Commissione ha più volte evidenziato, raccogliendo l'esperienza dei magistrati impegnati nel settore - le società di intermediazione commerciale ed i centri di stoccaggio temporaneo costituiscono veri e propri motori dell'intera attività illecita relativa allo smaltimento dei rifiuti. Le prime, infatti, rappresentano il tramite tra il soggetto produttore, che deve disfarsi del rifiuto, e le aziende di trasporto, stoccaggio intermedio, trattamento e smaltimento finale del rifiuto stesso. Le società di stoccaggio intermedio, autorizzate per il deposito temporaneo dei rifiuti, hanno la precipua funzione di regolare il flusso dei rifiuti destinati ad impianti di trattamento (quando l'autorizzazione non sia estesa anche all'attività di trattamento), riciclaggio e/o smaltimento finale. Infine, i trasportatori movimentano i rifiuti sul territorio, dietro segnalazione delle società di intermediazione commerciale, e certamente rappresentano un ganglio essenziale dell'operazione illecita descritta, in quanto materialmente trasferiscono i rifiuti dal produttore al centro di stoccaggio o all'impianto di smaltimento finale. Qualora, poi, il rifiuto debba essere fittiziamente inviato ad impianti di recupero, è necessaria l'esistenza, almeno sulla carta, di uno di tali centri. A tale scopo l'imprenditoria deviata e le organizzazioni criminali hanno individuato la «scappatoia» nelle procedure semplificate previste dagli articoli 32 e 33 del «decreto Ronchi», che consentono l'apertura di impianti di recupero dietro la mera comunicazione di inizio attività, cui deve seguire - entro novanta giorni - la verifica da parte dell'organo amministrativo, in tal caso la provincia. Da un'apposita indagine della Commissione - nonché da alcune delle inchieste giudiziarie citate - è emerso che tale verifica spesso non avviene nei tempi previsti, e comunque sono sufficienti assai meno di novanta giorni per trasformare un impianto industriale dismesso in un'autentica discarica abusiva colma di decine di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia. A questo punto le società falliscono, ma non sono mancati casi di comunicazione di inizio attività addirittura da parte di società inesistenti.
Basti citare, a titolo di esempio, quanto verificatosi a Pontinia, dove la stessa Commissione ha individuato un sito in cui erano stati stoccati oltre undicimila fusti per il trasporto di rifiuti pericolosi che dovevano essere recuperati, ma mancavano i macchinari per le diverse fasi di lavorazione; la società aveva presentato una semplice comunicazione di inizio attività, che non era palesemente in grado di svolgere. Per questi motivi la Commissione ha convocato sul posto l'autorità giudiziaria di Latina, che ha provveduto al sequestro dei fusti e dell'area.
Tale meccanismo viene utilizzato anche per la gestione illecita della frazione secca dei rifiuti solidi urbani: in pratica tale materiale, anziché essere riciclato, viene inviato allo smaltimento abusivo, con ciò truffando in primo luogo il cittadino che aderisce alla raccolta differenziata e paga per tale servizio.
Da ultimo, è bene porre nel dovuto risalto come si registrano, in questo specifico settore, nuove forme di azione da parte della criminalità organizzata che - tradizionalmente - si avvicina in maniera parassitaria e violenta al soggetto imprenditore, cercando di trarre un lucro dalla protezione che gli assicura, sottraendo in tal modo risorse guadagnate dalle imprese e riversandole nelle sue casse. Nel caso dei rifiuti il rapporto si presenta in forme diverse. Le industrie produttrici di rifiuti devono farsi carico di costi spesso elevati per lo smaltimento del materiale di scarto prodotto, cui si lega il sostanziale deficit di impianti di smaltimento esistenti sul territorio nazionale. L'organizzazione criminale, in siffatto contesto, offre un efficiente servizio alternativo che abbatte i costi e garantisce la continuità nello smaltimento dei rifiuti, poiché assicura il superamento di qualunque ostacolo di tipo burocratico e consente l'immediato deflusso degli scarti di produzione senza andare troppo per il sottile nel rispetto della normativa vigente. Si determina, quindi, uno stretto rapporto tra produttore dei rifiuti ed organizzazione criminale, in cui il primo è perfettamente consapevole di rivolgersi a soggetti che scientemente e per proprio tornaconto mettono in atto un micidiale ciclo.
Né si può tacere il fatto che tale offensiva criminale - in grado di stravolgere le regole del mercato - è agevolata dall'atteggiamento dei produttori di rifiuti, che generalmente si disinteressano della destinazione finale degli stessi, grazie anche alla sostanziale irresponsabilità di cui godono di fronte alla legge in caso di smaltimento illecito. Forme di collusione - purtroppo, come abbiamo visto, non infrequenti - tra il produttore dei rifiuti e lo smaltitore illegale sono d'altra parte difficilmente accertabili, a causa dell'inadeguatezza degli strumenti normativi a disposizione della magistratura e delle forze di polizia. Allo stesso modo sono di difficile accertamento i casi di collusione con organi della pubblica amministrazione nei casi di omesso controllo.


Le vicende che si sono illustrate nella prima parte di questo lavoro denunciano una serie di carenze a livello normativo. Il «decreto Ronchi» - che pure ha rappresentato un drastico cambiamento di rotta rispetto al quadro delineato dalla vecchia normativa sui rifiuti, in armonia, del resto, con le nuove direttive comunitarie - presenta molto spesso il metodo di enunciare una regola cui seguono numerose eccezioni, subeccezioni ed eccezioni alle eccezioni, a volte disperse in più articoli (il tutto nell'ambito di un testo che si compone di 58 articoli, quasi tutti divisi in numerosi commi e sei allegati), dal che discendono inevitabilmente difficoltà di comprensione e, quindi, di concreta applicazione da parte degli operatori del settore, senza contare che in alcuni casi la determinazione concreta della fattispecie e, quindi, la reale operatività del testo normativo, è rinviata a norme tecniche ancora, in parte, da emanare.
Sono stati eliminati alcuni strumenti fondamentali per il controllo sui movimenti dei rifiuti «dalla culla alla tomba», come è necessario per contrastare l'ecomafia: ad esempio, la violazione dell'obbligo della corretta tenuta del registro di carico e scarico è mero illecito amministrativo anche per i rifiuti pericolosi; l'obbligo delle annotazioni sui libri ha cadenza settimanale, non già immediata, di modo che è facile, in caso di controllo, dire che quei rifiuti, rinvenuti nello stabilimento e non registrati, stavano per essere inseriti nel registro; ancora, il trasportatore professionale di rifiuti ha l'obbligo di inserire nel registro le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti e non anche quelle sulla loro origine e destinazione, laddove invece, secondo le direttive comunitarie, l'articolo 20 del «decreto Ronchi» impone alle province che i controlli sulla raccolta e il trasporto dei rifiuti pericolosi riguardino, in primo luogo, l'origine e la destinazione dei rifiuti. Tale insufficienza del formulario di identificazione favorisce i traffici illeciti di rifiuti e rende, invece, necessaria l'introduzione di un sistema di identificazione del singolo rifiuto che ne segua l'intera vita dal luogo di produzione a quello di destinazione finale (sia esso di recupero e/o di smaltimento).
Si tratta, per la verità, di profili cui si potrebbe rimediare attraverso uno sforzo di integrazione, di correzione e di riordino sistematico della normativa, ed un deciso adeguamento delle strutture pubbliche di applicazione. A tutto ciò devono aggiungersi i numerosi compiti ed adempimenti di cui il decreto carica regioni, province e comuni, già oggi rivelatisi inadeguati, anche a causa dell'insufficienza delle attuali strutture e di personale qualificato.
Altro aspetto negativo generale attiene ad una «semplificazione» che rischia di risolversi, in taluni casi, in una libertà di inquinamento. Le vicende riguardanti le attività di recupero, come detto, hanno messo in evidenza il pericolo insito nel regime della sola comunicazione di inizio attività da parte di coloro che svolgono attività di recupero, cui dovrebbe seguire un sopralluogo da parte dell'organo provinciale entro novanta giorni dalla comunicazione.
Anche la raccolta differenziata si è prestata all'attività dei trafficanti di rifiuti, come dimostrano i numerosi capannoni dismessi riempiti di frazione secca che la Commissione ha avuto modo di vedere in diverse regioni (Lombardia, Abruzzo, Toscana, Friuli, Lazio), tutti accomunati dall'avvenuta comunicazione agli organi preposti dell'inizio attività di stoccaggio o recupero, senza dimenticare che anche dall'estero è arrivato materiale raccolto in maniera differenziata, come dimostrano le migliaia di tonnellate di plastica stoccate abusivamente ad Asti, che la Commissione ha constatato direttamente.
Del ruolo decisivo dei centri di stoccaggio provvisorio nei casi di traffici illeciti si è già ampiamente detto: ebbene, anche in questo caso il «decreto Ronchi» richiede la sola comunicazione alla regione e il successivo controllo della provincia, consentendo nelle maglie di questa doppia competenza l'utilizzo del centro di stoccaggio, regolarmente denunciato, come centro di smistamento del materiale da smaltire illecitamente o addirittura come sito finale dello smaltimento.
Va inoltre sottolineato che la mancata imposizione della prestazione di garanzia fideiussoria per le imprese sottoposte al regime della sola comunicazione favorisce la creazione di numerose società nullatenenti (20).
In alcuni casi anche il comportamento della pubblica amministrazione rischia addirittura di compromettere l'operato della magistratura. È quanto rappresentato alla Commissione dal sostituto procuratore della Repubblica di Milano: la scarsità dei provvedimenti di divieto di iniziare e/o proseguire l'attività ed, invece, la frequenza con cui la provincia emette provvedimenti di diffida, infatti, finisce implicitamente col legittimare la mera comunicazione dell'attività anche quando la procura contesta proprio l'assenza dei requisiti prescritti all'articolo 33 del «decreto Ronchi» per lo svolgimento di quell'attività in regime di comunicazione. In tal modo, di fatto le attività di gestione dei rifiuti sono di regola effettuate in regime di comunicazione, come è facile riscontrare nella proliferazione di numerosissime società - delle quali, spesso, legali rappresentanti sono delle «teste di legno» - che formalmente esercitano attività di recupero rifiuti, ma sostanzialmente sono dedite solo ad un illecito smaltimento degli stessi e per lo più gestite da soggetti noti alla magistratura e alle forze dell'ordine perché operano da anni illegalmente in questo settore.
L'intento del legislatore di semplificare le procedure amministrative ha finito, in buona sostanza, per essere sfruttato da operatori spregiudicati. È evidente allora che occorre una diversa attivazione da parte degli enti locali, abolendo il meccanismo della semplice comunicazione e prevedendo un controllo della regione o dell'Arpa, prima di rilasciare il nullaosta, e successivi controlli periodici da parte delle province - previo potenziamento delle loro strutture - per verificare il corretto esercizio dell'attività dichiarata.


Non va sottaciuta la scarsa efficacia del sistema dell'anagrafe provinciale nel settore dei rifiuti. Questa, infatti, risponde a finalità prettamente sociali che mal si conciliano con le necessità di controllo delle società che operano nel ciclo: è possibile che le stesse persone compaiano in più società, che non offrono alcuna garanzia fideiussoria. Ciò spiega la ricorrente presenza nelle attività illecite nel ciclo dei rifiuti degli stessi soggetti, che operano da svariati anni.
Si tratta di un fenomeno che tocca l'intero paese, comprese le grosse aree industriali del nord: ad esempio, a Milano e nelle province vicine (come Pavia, Novara, Vercelli), gli stessi soggetti usano presentare più comunicazioni nelle singole province ed esercitano la loro attività nello stesso territorio. A favorire il fenomeno contribuisce l'interpretazione dominante delle pubbliche amministrazioni del nord Italia, secondo cui non solo le operazioni di recupero, ma anche la realizzazione degli impianti di recupero, sono soggetti al regime della comunicazione e non già a quello dell'autorizzazione, in contrasto con l'interpretazione restrittiva del dettato normativo che sembra per verità imposta dal riferimento degli articoli 27 e 28 del decreto alla realizzazione dell'impianto di recupero, mentre l'articolo 33 contempla le sole operazioni di recupero per sottoporle al regime della comunicazione. L'interpretazione restrittiva è peraltro in armonia anche col dettato dell'articolo 31 del citato decreto, relativo alla costruzione dell'impianto, ché altrimenti si arriverebbe a sostenere che per la costruzione dell'impianto è sufficiente la comunicazione, mentre per l'esercizio delle operazioni di recupero, qualora non si rispettino le norme tecniche, necessita l'autorizzazione.
Addirittura, secondo quanto riferito alla Commissione, la regione Lombardia con la delibera n. 40410 del 1998, in contrasto con la ratio del legislatore nazionale, ha ritenuto che gli inerti non sono rifiuti e in taluni casi possono addirittura non essere soggetti neppure al regime della comunicazione.


Conseguenze negative ha sul sistema di gestione del ciclo dei rifiuti l'assenza di previsione di qualsiasi tipo di analisi per la classificazione del rifiuto (prevista solo in funzione del codice CER) e/o di un'omologa di qualsiasi tipo che possa attestare la vera natura del rifiuto. Intanto il rifiuto può classificarsi come pericoloso, in quanto rientra nell'elenco dell'allegato D del «decreto Ronchi», senza dare alcun rilievo alla sua vera natura, il che porta spesso a situazioni inaccettabili.
Vale ricordare l'esempio della miscela di ebanite nella vicenda Ecobat, di cui si occupa la procura di Monza (vedi sopra), e quello addotto dal sostituto procuratore di Milano delle polveri di abbattimento dei fumi dell'industria siderurgica, prodotte in quantità considerevoli nel nord Italia, con una forte concentrazione nel territorio del Piemonte. Queste ultime contengono piombo, cromo esavalente e cadmio in concentrazioni massicce, ma nonostante ciò, non essendo il loro codice incluso nell'elenco di cui all'allegato D, sono soggette alla procedura del riutilizzo perché non pericolose. Ne discende che, se questo rifiuto è smaltito in discarica, si applicano le procedure previgenti e la delibera del Comitato interministeriale del 1984; invece, se esso viene destinato al recupero, non è previsto alcun trattamento.
Sotto questo profilo basterebbe una semplice rettifica del dettato normativo dell'articolo 7 - che, peraltro, era sicuramente nelle intenzioni del legislatore, altrimenti non avrebbe avuto senso la modifica del «Ronchi-bis» - ed un'integrazione dell'articolo 57, nella parte in cui non fa menzione dell'attività di recupero.
Ai problemi di diritto interno della catalogazione dei rifiuti cui si è accennato, vanno aggiunti quelli determinati dalla mancanza di una definizione e classificazione omogenee dei rifiuti sul piano europeo, sempre più avvertiti dagli operatori del settore e per la cui risoluzione è impegnato, in particolare, il comitato per l'adeguamento tecnico-scientifico delle legislazioni sui rifiuti previsto dalla direttiva CEE n. 91-156. Ad essi si aggiungono le difficoltà dipendenti dalla non corrispondenza tra codici europei e codici di identificazione doganali dei rifiuti che, determinando ulteriori sovrapposizioni e confusione, certamente agevolano lo svolgimento di traffici illeciti di rifiuti tra i vari Paesi, secondo quanto la Commissione ha rilevato nella relazione avente ad oggetto i traffici transfrontalieri di rifiuti, alla cui ampia trattazione si fa rinvio.


Venendo ora al profilo sanzionatorio delle violazioni relative al settore dei rifiuti, la realtà emergente dalle indagini svolte dalla Commissione, in particolare nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa (come la Sicilia), rende evidente che, a fronte di attività illecite nel contesto delle quali si è inserita, con un lucroso profitto, la criminalità organizzata, l'effetto della normativa ambientale vigente è praticamente nullo, giacché le modeste sanzioni previste sono del tutto inadeguate a fronteggiare e scoraggiare i vantaggi economici miliardari che determinano.
Vale ricordare che manca la previsione del delitto ambientale e che il traffico illecito di rifiuti è punito come contravvenzione, che alcuni obblighi sono sprovvisti di sanzione, che in alcuni casi i soggetti attivi del reato risultano non coincidenti con i soggetti indicati nel precetto come destinatari dell'obbligo da sanzionare e, purtroppo, l'elenco potrebbe continuare.
In particolare, lo strumento della contravvenzione, anziché quello del delitto, a sanzione della maggior parte delle condotte illecite del settore, espone al forte rischio di una prescrizione in tempi assai brevi, non compatibili con la durata del processo, e non consente alla magistratura e alle forze dell'ordine di adoperare tutto lo strumentario investigativo conseguente alla sussistenza dei delitti (intercettazioni telefoniche e ambientali), che sarebbe particolarmente utile. Lo stesso discorso va fatto circa l'impossibilità di chiedere misure cautelari interdittive e personali che pure sarebbero certamente giustificate, quantomeno nei casi più gravi in cui il danno recato alla collettività e, a volte, anche ai singoli individui, è di gran lunga maggiore di quello cagionato da molti dei reati contro il patrimonio, per i quali pure si prevede la possibilità o addirittura l'obbligo di adottare, ad esempio, misure cautelari personali.
Paradossalmente, in alcune situazioni l'azione di contrasto è resa possibile non perché l'oggetto dell'indagine è il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti, ma le operazioni finanziarie illecite che stanno a monte e che configurano fattispecie di delitti (si pensi al reato fiscale, al falso in bilancio); fuori dei casi, poi, in cui da subito emergono elementi che facciano ipotizzare i reati di falso, truffa, ovvero dei casi - ancora più rari - di un disastro ambientale o dell'avvelenamento di acque, la Commissione ha dovuto registrare lo sforzo di alcuni operatori di giustizia di ricerca di ipotesi di reato «collaterali», che consentano di colpire la gestione illecita dei rifiuti. Ciò vale ancor più quando ricorrono gli estremi dell'associazione per delinquere, che - per la sua natura di delitto - non può essere contestata rispetto a sanzioni amministrative o reati contravvenzionali, nonostante che la complessità del fenomeno criminale descritto richieda di essere posto prevalentemente in relazione all'esistenza di strutture criminali create allo scopo.
Lo sforzo effettuato nell'utilizzazione normativa non può, tuttavia, surrogare l'esigenza di una norma precisa per ciò che attiene alle prassi applicative ed investigative; la semplificazione normativa e l'individuazione di meccanismi sanzionatori semplici, chiari ed efficaci, farebbero accrescere, invece, sia i livelli di deterrenza nei confronti dei soggetti destinatari delle norme che i livelli di efficacia dell'azione degli uffici requirenti e di polizia.
Le audizioni dei magistrati impegnati in inchieste attinenti al ciclo dei rifiuti hanno inoltre fatto emergere la crisi di razionalità delle misure di prevenzione. La natura contravvenzionale delle fattispecie normative nel settore dei rifiuti - anche quando siano stati individuati precisi interessi economici e patrimoniali direttamente riconducibili alle organizzazioni criminali di tipo mafioso - non consente nella gran parte dei casi di aggredire l'impresa camorristica o mafiosa nel suo patrimonio complessivo, privandola delle capacità economiche di reinvestimento. In questo modo gli enormi patrimoni mafiosi che si formano grazie al traffico illecito dei rifiuti vengono sostanzialmente sottratti ad un'efficace azione giudiziaria.


La Commissione, recependo le univoche segnalazioni provenienti dalla magistratura e dalle forze dell'ordine, con l'approvazione del doc. XXIII, n. 5, ha formulato una proposta d'inserimento nel codice penale di alcune figure di reato previste come delitti, dalla cornice edittale non indifferente e concernenti condotte di danneggiamento dell'ambiente, redatte in modo tale da ricomprendere anche quelle che possono derivare da un'illecita gestione dei rifiuti.
Viene previsto, infatti, l'inserimento nel titolo VI del libro II del codice penale di un capo relativo ai delitti ambientali, con ciò riconoscendo alle aggressioni all'ambiente lo stesso disvalore giuridico che connota le condotte lesive dell'incolumità pubblica e della salute pubblica.
Di particolare rilievo è la previsione del delitto di traffico illecito di sostanze dannose per l'ambiente e la salute, in cui s'incrimina la produzione, il trasporto, l'acquisto e la cessione non autorizzati di sostanze tossiche e dannose per l'ambiente; nonché la previsione di un'aggravante speciale rispettivamente per il delitto di associazione per delinquere (quando i delitti-scopo siano delitti contro l'ambiente) e di associazione mafiosa di cui all'articolo 416-bis (quando le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo siano finanziate con i proventi di attività illecite contro l'ambiente).
L'impostazione che la Commissione auspica che sia assunta a livello legislativo è pertanto quella di unificare, sotto il profilo della tutela penale, il concetto di aggressione all'ambiente, contemporaneamente abrogando tutte le norme sanzionatorie di minor rilievo sparse nella legislazione e prevalentemente ispirate a controlli formali.
Purtroppo, si deve rilevare con rammarico che, a fronte delle spinte in questa direzione che vengono da formazioni sociali ed organi istituzionali, gran parte della classe politica non ha finora mostrato particolare zelo ed interesse: i disegni di legge per l'introduzione dei delitti ambientali nel codice penale (sia quello governativo, sia quelli d'iniziativa parlamentare, frutto del lavoro della Commissione) giacciono ormai da un anno all'esame del Senato. Queste incertezze del legislatore, questa eccessiva dilatazione dei tempi di approvazione dei nuovi strumenti di prevenzione e di contrasto, non soltanto sono produttivi di effetti disastrosi rispetto alle situazioni già in atto, ma - è bene dirlo - a causa del forte impatto che esse hanno sulla società civile, ad ogni livello, rischiano di minare anche l'azione tenace e caparbia di coloro che sono impegnati da anni nella difesa di un bene prezioso per tutti e che richiede uno sforzo comune, la cui tutela, invece, rimane ancora in larga parte affidata all'iniziativa volenterosa del singolo magistrato o del singolo rappresentante delle forze dell'ordine, oppure alla denuncia di un'associazione ambientalista.
Non si vuol negare che negli ultimi anni la società civile si sia mostrata più attenta alla tutela dell'ambiente e che vi sia stata una progressiva presa di coscienza della stessa autorità giudiziaria delle problematiche connesse al ciclo dei rifiuti, la qual cosa spiega perché solo di recente sono stati accertati fatti «di vecchia data» che hanno portato ad una maggiore attenzione ed approfondimento delle tecniche di accertamento delle attività illegali. Ma l'impegno deve essere massimo verso un processo di sensibilizzazione culturale, che ancora non è stato completato, ed una valorizzazione delle professionalità nel settore dell'ambiente, e specificamente in quello attinente al ciclo dei rifiuti.
E in quest'ottica deve essere nuovamente ribadito che l'asse della lotta alla criminalità ambientale va spostato sull'osservazione di parametri diversi da quelli meramente giudiziari, ponendo al centro dell'attività di contrasto i controlli amministrativi, gli accertamenti fiscali e la corretta lettura dei fenomeni economici, ivi comprese le condizioni della libertà del mercato degli appalti; in sintesi, spostare l'osservazione prioritaria dal campo penale a quello economico ed uscire finalmente dall'equivoco che il giudice penale sia titolare e vicario di una funzione di controlli anche di natura amministrativa. Ciò a prescindere dalla necessità di affidare al magistrato penale strumenti più idonei di quelli di cui al momento dispone.
Ma va sempre sottolineato che lo strumento processuale è sì importante, ma non decisivo, perché ciò su cui fare affidamento è soprattutto l'effettività dei controlli amministrativi. La vicenda di Pitelli rappresenta solo la punta dell'iceberg di un sistema - quello dei controlli amministrativi - che in generale si è rivelato inadeguato ed inefficiente, anche a causa della proliferazione legislativa, spesso convulsa, degli ultimi anni, che ha determinato nel settore un eccessivo frazionamento ed intreccio di competenze e di adempimenti, rispetto ai quali diventa difficile sia una verifica del raggiungimento degli obiettivi dell'attività, sia una ricerca ed individuazione delle responsabilità.
Assai debole è anche il coordinamento tra le varie forze di polizia, come (fatto ancora più grave, attesa l'esistenza dello strumento processuale di cui all'articolo 117 del codice di procedura penale) tra gli uffici giudiziari inquirenti, spesso costretti ad operare su stralci di inchieste trasmessi una volta effettuati gli accertamenti. Se va preso atto della sollecitudine con la quale alcuni organi di polizia giudiziaria (quelli specializzati, in particolare i carabinieri del Noe ed il comando del Corpo forestale dello Stato) hanno seguìto i procedimenti aventi ad oggetto la questione rifiuti, d'altra parte occorre anche porre in evidenza che la gran parte delle indagini è scaturita da fatti accidentali. Mancano, cioè, referenti istituzionali capaci di letture dei fenomeni che possano portare a denunzie motivate, ad opera delle strutture amministrative di controllo preposte alla verifica della regolarità nelle modalità di conduzione dei traffici. Sembra debole il controllo delle forze di polizia diffuse nel territorio ed aventi anche compiti di carattere amministrativo (vigili urbani, polizia stradale, guardie ecologiche, eccetera), al fine di individuare ed interpretare i traffici e le connesse mistificazioni gestionali. In particolare, come detto, sembra mancare una conoscenza approfondita del fenomeno di infiltrazione da parte degli organi di investigazione specifica, che non sempre hanno saputo mettere a punto e focalizzare le pur copiose informazioni emergenti da più parti.
Nella direzione di una progressiva presa di coscienza del valore da annettere alle indagini in materia ambientale ed all'acquisizione di un patrimonio di conoscenze capace di letture più approfondite e complessive dell'intero fenomeno, va senz'altro segnalata la recentissima iniziativa (1999) con cui il comando generale del nucleo di polizia tributaria, recependo una direttiva del Ministero delle finanze, ha imposto a tutti i comandi che operano sul territorio nazionale di inserire nella programmazione delle attività di verifica i soggetti che operano nel settore rifiuti (imprese di smaltimento e di trasporto, movimento terra e altro). Si auspica, quindi, che tra qualche anno nel contenzioso tributario comparirà anche questo tipo d'impresa.
Conclusivamente, appare del tutto condivisibile il monito del procuratore generale presso la corte d'appello di Bari, dottor Riccardo Di Bitonto, secondo il quale: «se vogliamo condurre una guerra ad armi pari, dobbiamo farlo attraverso le più alte tecnologie ed utilizzando le persone più qualificate dal punto di vista professionale (...) Se vi fosse un coordinamento tra gli istituti assicuratori, le forze di polizia ed il Noe, potremmo raggiungere risultati apprezzabili (...) Se non creiamo dei soggetti istituzionali con specifiche responsabilità tecniche, giuridiche, politiche ed amministrative e che dispongano degli strumenti per poter attingere alle varie informazioni, non riusciremo a portare avanti in maniera adeguata la nostra battaglia (...), non riusciremo a dare una risposta alla criminalità organizzata, adeguata all'azione condotta da tali criminali».
Il procuratore ha anche avanzato la proposta di consentire anche alla magistratura ed alle altre forze dell'ordine l'accesso al sistema informatico Schengen (SIS), attualmente riservato solo al Ministero dell'interno ed alla polizia di Stato. Ciò consentirebbe, anche per quanto riguarda i rifiuti, di poter valutare i riflessi internazionali di questi traffici.
Tale libertà di accesso richiederebbe una modifica sul punto della convenzione (da adottare, quindi, in altra sede), ma che a questa Commissione non sembra inutile proporre alle valutazioni del Parlamento e del Governo, anche perché appare paradossale che le informazioni siano accessibili alle forze di polizia giudiziaria e non alla magistratura.
Per quanto concerne le innovazioni tecnologiche in materia è opportuno segnalare, sul fronte della prevenzione, il sistema ideato dall'Anpa ed attualmente in fase di sperimentazione, per il controllo amministrativo in tempo reale delle movimentazioni dei rifiuti; il sistema prevede la dotazione ai trasportatori di strumenti che (collegati via satellite ad un elaboratore centrale) segnalano l'avvenuta presa in consegna e l'avvenuto conferimento dei rifiuti. Sempre tramite il medesimo strumento, con dei badges, il produttore e il ricettore dei rifiuti danno comunicazione delle quantità consegnate o prese in carico. Un sistema che potrà da un lato semplificare l'intera procedura e dall'altro consentirà di avere costantemente sotto controllo i flussi di rifiuti, e quindi potrà agire in maniera molto efficace sul versante della prevenzione degli illeciti.
Tornando invece al settore della repressione, la Commissione ha rilevato che negli ultimi anni anche la magistratura ha mostrato un interesse ed una capacità culturale in grado di andare al di là dei singoli fatti, di particolare rilievo, di cui questo o quel sostituto si stesse occupando, per acquisire finalmente una maggiore consapevolezza della gravità e delle dimensioni del problema ed impegnarsi in attività di formazione e specializzazione nel settore, che devono, però, essere intensificate e garantite sin dall'inizio a coloro che andranno ad occuparsi di tematiche ambientali nelle sedi giurisdizionali di destinazione e vanno completate con la realizzazione di forme stabili di coordinamento tra uffici giudiziari.
Al riguardo, i magistrati impegnati sul fronte delle ecomafie hanno sottolineato che le possibilità di collaborazione tra organi inquirenti sono maggiori quando l'illecito ricade nella competenza degli uffici della dda che, attraverso la dna e la banca dati ivi disponibile, assicura il coordinamento a tutte le ventisei procure distrettuali dislocate sul territorio nazionale, in tal modo assicurando una sinergia di azione e, soprattutto, l'assenza di duplicazioni di interventi, analogamente a quanto è avvenuto nel settore del contrabbando con la creazione di una task force permanente tra le procure distrettuali di Napoli, Bari e Lecce, sotto l'egida della dna, azzerando il pericolo di duplicazioni ed interferenze (21).
Le procure ordinarie non sono, invece, attualmente dotate di un sistema elaborato di archivio dati come quello disponibile presso la dna. In qualche modo suppliscono a questa carenza i protocolli d'intesa con cui procure ordinarie e distrettuali antimafia, sotto il coordinamento dei procuratori generali, si impegnano allo scambio di notizie e all'invio immediato del fascicolo per competenza (22).
Una «promessa» in questa direzione è rappresentata dalla recente riforma del giudice unico, che ha comportato una riorganizzazione di tutti gli uffici giudiziari. In particolare, l'unificazione tra uffici della ex procura presso la pretura e quelli della procura presso il tribunale è certamente favorevole alla fusione di esperienze professionali diverse e complementari specie rispetto alla lotta alle ecomafie: quelle dei magistrati impegnati da anni nel settore ambiente e di coloro che hanno maturato esperienza del fenomeno mafioso.
Tutti i magistrati ascoltati dalla commissione hanno espresso la seria convinzione - che è propria anche di questa commissione - di poter realizzare concretamente con questo nuovo modello organizzativo anche quei collegamenti necessari tra le attività degli operatori del ciclo dei rifiuti e le attività illecite conseguenti all'accertato interesse della mafia per tale settore, grazie alla fluidità delle informazioni e alla sinergia di professionalità diverse.


La Commissione ha cercato, con questo documento, di mettere in evidenza e di illustrare in maniera organica i principali fenomeni criminali connessi al ciclo dei rifiuti. Dal lavoro svolto, dalle informazioni acquisite nonché dalle audizioni tenute è emersa in maniera chiara una serie di elementi che - in sede di conclusioni - è opportuno riportare in forma schematica e sintetica.
La gestione illecita riguarda una quota considerevole dei rifiuti prodotti ogni anno in Italia: in base alle informazioni assunte e alle elaborazioni svolte, si tratta di una quota superiore al 30 per cento che - tradotto in termini numerici - equivale a oltre 35 milioni di tonnellate di rifiuti (soprattutto speciali) smaltite in maniera illecita o criminale ogni anno.
Il ciclo dei rifiuti solidi urbani è interessato, specie nelle regioni meridionali, da evidenti fenomeni di controllo criminale, soprattutto nelle fasi di raccolta e trasporto. Esistono infatti segnali univoci ad indicare l'interesse della criminalità organizzata per gli appalti in questo settore.
Il settore dei rifiuti sembra rappresentare - per le varie forme di criminalità organizzata - un fattore di penetrazione in aree del Paese, specie nel settentrione, dove ancora non si registrano insediamenti stabili dei clan criminali.
Non è la sola criminalità organizzata ad operare in modo illegale. Esistono infatti società commerciali o imprese non legate ad essa, ma che hanno come «ragione sociale» la gestione illecita dei rifiuti, soprattutto di origine industriale.
Nella gestione illecita del ciclo dei rifiuti non si registrano forme di concorrenza o scontri come invece accade in altri settori criminali (traffico degli stupefacenti o controllo del racket): il business è evidentemente talmente consistente da rendere preferibile la collaborazione alla concorrenza spietata.
La criminalità organizzata non si accontenta quindi più del semplice servizio di smaltimento, ma sta estendendo il suo intervento anche alle altre fasi del ciclo, avvantaggiata in questo dall'ancora insufficiente livello di modernità e tecnologia che il settore fa registrare tuttora in Italia. Come dimostra in particolare l'evoluzione dell'attività del clan dei casalesi, la criminalità organizzata sta assumendo direttamente iniziative imprenditoriali anche in questo settore, mirate all'acquisizione e al condizionamento degli appalti pubblici.
Se è vero che solo una parte del traffico illecito è riconducibile alla criminalità organizzata, risulta altresì evidente l'attività di personaggi non appartenenti alle consorterie mafiose che hanno collegamenti più o meno occasionali con esponenti delle stesse per dare vita a questi traffici.
Il fenomeno degli smaltimenti illeciti non riguarda più il solo Mezzogiorno; la Commissione aveva già avuto modo di segnalare l'esistenza di una «rotta adriatica» per i traffici illeciti che colpiva in special modo l'Abruzzo. Emerge ora con forza anche una direttrice nord-nord, con smaltimenti illeciti soprattutto nell'area del nord-est (Veneto e Friuli-Venezia Giulia).
I meccanismi del «giro bolla» e quello degli «impianti fantasma» sono i più frequenti casi di illecito che si registrano nel ciclo dei rifiuti: il primo riguarda essenzialmente i rifiuti industriali, che vengono declassificati o miscelati e smaltiti in maniera non corretta; il secondo tocca più da vicino i rifiuti solidi urbani ed in particolare la frazione recuperabile, con la presunta apertura di impianti di recupero dei quali - in realtà - esistono solo i muri perimetrali.
Ad alimentare il mercato illecito sono anche industrie a rilevanza nazionale ed internazionale, comprese aziende a rilevante partecipazione di capitale pubblico. Per tutte il minimo denominatore comune è la ricerca dello smaltimento al minor costo, senza alcun controllo sulla destinazione finale del rifiuto.
Contribuisce a favorire i meccanismi illeciti anche l'inadeguatezza del sistema conoscitivo, basato sui mud. A questo proposito è opportuno segnalare positivamente l'avvio della fase di sperimentazione del sistema di controllo telematico studiato dall'Anpa, che dovrebbe consentire una conoscenza esatta ed in «tempo reale» di ogni fase di movimentazione del singolo rifiuto.
Sono numerosi i segnali di esportazioni illecite di rifiuti verso i Paesi in via di sviluppo. Il sistema dei controlli doganali in fase di partenza, nonché la grande difficoltà a svolgere accertamenti e la frequente assenza di governi riconosciuti con i quali collaborare rendono però impossibile l'accertamento degli smaltimenti illeciti.
La documentazione acquisita e le informazioni assunte rendono comunque più che verosimile l'ipotesi che tali traffici avvengano tuttora, e che si svolgano con modalità e percorsi sovrapponibili a quelli del traffico delle armi e degli stupefacenti. In particolare, le armi vengono pagate con la concessione delle aree per smaltire i rifiuti.
Dal punto di vista normativo e preventivo, si riscontra anzitutto l'inadeguatezza del sistema sanzionatorio (non è tuttora intervenuta la riforma del codice penale con l'introduzione delle fattispecie di delitti contro l'ambiente) nonché l'insufficienza del sistema dei controlli, ancora non a regime. Ancora: alcune semplificazioni normative sono state individuate come «scappatoia» per compiere illeciti, imponendo di fatto una rivisitazione delle norme, opportuna ove si consideri che la prevenzione di tali fenomeni è comunque da preferire alla repressione che interviene una volta che il danno all'ambiente e alla salute sono stati già compiuti (a volte in modo non recuperabile).
Si pone quindi la necessità di un salto di qualità nell'approccio ai problemi sopra descritti, utilizzando forme e strumenti di contrasto capaci di cogliere la complessità del fenomeno e di rispondervi in tempo reale. Una risposta che per essere efficace non può essere limitata ai confini nazionali, ma deve essere oggetto di forme avanzate di cooperazione internazionale.
Conclusivamente, dati gli elementi qui richiamati in forma schematica e l'oggetto del documento, la Commissione non può non rimarcare nuovamente la necessità di una serie di interventi a più livelli. In particolare, deve ritornare sul tema delle riforme penali: nel marzo 1998 questa Commissione ha approvato il documento che propone l'introduzione delle fattispecie di delitto ambientale nel codice penale; un anno dopo è intervenuto il disegno di legge del Governo, che non ha tuttavia compiuto alcun passo presso le competenti Commissioni del Senato.
Nonostante le difficoltà più volte richiamate, la Commissione ha registrato l'attività e la volontà di alcuni operatori di giustizia che hanno potuto perseguire i traffici illeciti di rifiuti contestando fattispecie di natura penale, come la truffa aggravata o la frode fiscale. In sede di conclusioni è necessario ribadire che la Commissione ha rilevato come alcuni operatori di giustizia, per poter colpire in maniera più incisiva il traffico di rifiuti, abbiano dovuto considerare questo reato come collaterale alla loro indagine e non già l'obiettivo della stessa. Il danno all'ambiente non può quindi essere perseguito in maniera diretta se non in casi di macro-inquinamento: ed anche in tali casi - come dimostrano i procedimenti relativi a Pitelli e a Porto Marghera - la contestazione del danno ambientale presenta rilevanti complessità. Così, oggetto dell'inchiesta sono la truffa aggravata o le operazioni finanziarie illecite, che stanno a monte dei traffici di rifiuti e che configurano fattispecie di delitti; discorso che vale ancor più quando ricorrono gli estremi dell'associazione per delinquere, che - per la sua natura di delitto - non può essere contestata rispetto a sanzioni amministrative o reati contravvenzionali, che sono quelli che attualmente colpiscono gli illeciti in questo settore.
Si tratta tuttavia di interventi non generalizzati (e a volte non possibili). A questo proposito, la Commissione comunque coglie il segnale positivo dell'introduzione - da parte del Senato - del delitto di traffico illecito di rifiuti nell'ambito del disegno di legge n. 3833 approvato il 26 luglio 2000. Non si è tuttavia ancora di fronte alla necessaria organicità della riforma, che solo l'introduzione delle fattispecie di delitto ambientale nel codice penale potrà dare. Interventi e innovazioni richiesti peraltro anche da organismi sovranazionali: in quest'ambito la Commissione intende sollecitare il Governo ad una pronta sottoscrizione della «Convenzione sulla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale», varata dal Consiglio d'Europa il 4 novembre 1998.
È inoltre necessaria, per quanto riguarda le forze di contrasto, una maggiore specialità nel settore unita ad un rafforzamento dei nuclei e dei corpi impegnati sul versante dell'illegalità ambientale; infine appare opportuna l'istituzione di forme di coordinamento tra gli uffici giudiziari, che consentano a tutti gli operatori giudiziari di avvalersi di banche-dati aggiornate e comprensive di tutti gli elementi di conoscenza utili, assicurando sinergia di azione e, soprattutto, l'assenza di duplicazioni di interventi. Nell'attività di contrasto è poi indispensabile tenere conto del nuovo volto imprenditoriale assunto anche dai clan della criminalità organizzata: non è insomma più il «solo» smaltimento illecito, ma l'aggressione ad un settore economico il fenomeno da combattere. A forme di aggressione così rilevanti e sempre più sofisticate si deve infatti rispondere con strumenti avanzati, quali le indagini patrimoniali e le attività di intelligence in campo economico, e con previsioni di legge effettivamente dissuasive.
Si è più volte ribadito che la sola via repressiva non è la panacea per gli illeciti nel ciclo dei rifiuti, essendo naturalmente prioritario un adeguamento e rafforzamento del sistema amministrativo dei controlli e delle altre forme di intervento preventive. Da questo punto di vista va detto che la situazione è nel corso degli anni senz'altro migliorata, restando però ancora ad un livello insufficiente; del resto, la migliore garanzia contro l'incidenza degli illeciti è in realtà proprio il buon funzionamento di tutto il ciclo dei rifiuti, centrato su un sistema di gestione integrata, con elevati standard di qualità, sia rispetto alle tecnologie impiegate che ai servizi offerti. Là dove si afferma l'esercizio corretto di un sistema integrato a servizio di tutta un'area, gli spazi per comportamenti illeciti se non si annullano si riducono drasticamente, come la Commissione ha potuto direttamente osservare. Né vanno sottaciute le positive ricadute in termini occupazionali derivanti da una gestione integrata e tecnologicamente avanzata del ciclo dei rifiuti (23). Non è questa però, purtroppo, la situazione generale del Paese. A maggior ragione, pertanto, la modifica del codice penale rappresenterebbe un rilevante segnale di volontà politica. L'auspicio è che l'unanimità di consensi registrata in Commissione, nonché la grande tensione nella direzione dell'introduzione del delitto ambientale rilevata tra gli operatori del settore, non venga ulteriormente delusa.


(1) A cura della Redazione.
(2) Il testo integrale del documento è visibile presso il sito Internet www.camera.it/dati/leg13/lavori/doc/xxiii/047/d000.htm.
Sullo stesso tema, v.si anche la Relazione finale presentata al Parlamento, approvata in data 28.3.2001, dalla medesima Commissione sul ciclo dei rifiuti, nonché l'articolo del dott. Umberto Moscato, "l'inquinamento ambientale: aspetti generali. Allontanamento e smaltimento dei rifiuti: il rischio dell'ecomafia e la situazione in Italia", pubblicato nella Parte I del presente numero.
(3) Il Rapporto di Legambiente è visibile presso il sito Internet www.legambiente.it.

(1) Organizzato dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse il 26 febbraio 1999 a Napoli.
(2) V. doc. XXIII, n. 41.
(3) Anche sulla base di un'estrapolazione dei dati e dei trends rilevati nel doc. XXIII, n. 41.
(4) V. doc. XXIII, n. 12 (relazione sulla Campania), doc. XXIII, n. 23 (relazione sull'Abruzzo) e doc. XXIII, n. 32 (relazione sull'Emilia Romagna).
(20) V. al riguardo audizione del sostituto procuratore della Repubblica di Milano, dottoressa Paola Pirotta, del 27 giugno 2000.
(21) V. audizione del sostituto procuratore distrettuale di Napoli, dottor Giovanni Russo, del 6 luglio 2000; audizione del sostituto procuratore della Repubblica di Asti, dottor Luciano Tarditi, del 22 marzo 2000; intervento del sostituto procuratore distrettuale di Bari, dottor Giorgio Giovanni, nel corso del seminario, svoltosi a Bari il 7 marzo 2000, sull'istituto del commissariamento per l'emergenza rifiuti.
(22) V. sul punto audizione del sostituto procuratore della Repubblica presso la dda di Napoli, dottor Giovanni Russo, del 6 luglio 2000.
(23) V. doc.XXIII n. 9.

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