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Per Aspera Ad Veritatem n.19
Inquinamento ambientale: aspetti generali.
Allontanamento e smaltimento rifiuti: il rischio ecomafia e la situazione in Italia


Umberto MOSCATO




Questa occasione è per me particolarmente importante perché chi lavora nell'ambito dell'igiene ambientale si scontra ogni giorno con una realtà difficile e complessa in cui non sempre l'approfondimento delle tematiche dal punto di vista chimico, fisico, microbiologico è sufficiente per comprendere il degrado che è possibile vedere intorno a noi. Evidentemente ci devono essere altri fattori che impediscono in qualche modo l'intervento da parte dell'Autorità, della legge, nei confronti di quelle che sono le condizioni che contribuiscono a creare questo degrado.
L'argomento di oggi sarà prevalentemente incentrato sulla connessione che esiste tra i rifiuti e l'ecomafia. Non è un problema nuovo. Già diversi decenni fa si iniziava a prospettare questa ipotesi, in special modo quando ci si è accorti, come vedremo, che l'affare economico dietro lo smaltimento dei rifiuti era notevole. Un affare che ha potuto svilupparsi e proliferare grazie all'esistenza di "buchi neri" nella legislazione vigente e nell'ambito di una pressoché totale assenza di controlli.
L'intervento di oggi è volto ad illustrare ciò che ha finora fatto lo Stato, anche recentemente, per ovviare a questa situazione. Inoltre, vorrei analizzare quali sono le zone d'ombra della legislazione, con particolare riguardo ai poteri che sono posti a disposizione per poter contrastare questo fenomeno.
Osservando il quadro della situazione in Italia nel 1999 (fonti istituzionali) si può rilevare che le infrazioni accertate dai Carabinieri e dalla Guardia di Finanza sono aumentate. Solo il Corpo Forestale ha potuto registrare un decremento notevole delle infrazioni nell'ambito delle illegalità ambientali tra il 1998 e il 1999 (vds. schema n. 1)



Non si riesce tuttavia a comprendere se questa riduzione delle infrazioni accertate in tutta Italia da parte del Corpo Forestale sia dovuta ad una effettiva diminuzione delle infrazioni ovvero siano intervenuti altri fattori a determinarla.
Si può osservare come, a fronte delle infrazioni accertate e delle persone fisiche denunciate o arrestate, il numero dei sequestri eseguiti è esiguo. Vedremo anche poi, dal punto di vista dei beni materiali, quanto poco sia stato possibile sequestrare dei valori effettivamente in gioco.
Esaminando il quadro dell'illegalità ambientale in tutta Italia, possiamo rilevare che la Campania, il Lazio e la Calabria sono le regioni con il maggior numero di infrazioni accertate, che costituiscono una percentuale variabile tra il 18,3% e il 10% delle infrazioni accertate in tutta Italia. Le regioni che presentano il minor numero di infrazioni - almeno apparentemente, in quanto è possibile che il minor numero di infrazioni accertate non sia dovuto ad inferiori condizioni di illegalità ma piuttosto ad una ridotta capacità di osservare questo problema - sono il Molise, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta (vds. schema n. 2).



Se quindi riportiamo l'ambito delle infrazioni accertate ad un discorso prevalentemente regionale, vediamo che l'Italia meridionale copre il 46% di tutte le infrazioni accertate. L'Italia centrale registra un valore percentuale pari al 3%, che è quello minore. Per quanto riguarda l'Italia del Nord - che abbiamo suddiviso in occidentale e orientale per ragioni che, come vedremo, sono spesso collegate alla possibilità di trasmissione transfrontaliera degli illeciti e degli abusi - la percentuale è pari al 31%. L'Italia insulare - in cui rientrano sia la Sardegna che la Sicilia, anche se la Sicilia sembra avere un ruolo predominante - la percentuale è pari al 20% (vds. schema n. 3).



Andando, quindi, ad osservare l'ambito delle regioni che vengono definite tradizionalmente più interessate a problemi legati all'abusivismo, notiamo come la Campania registra una percentuale molto elevata di illecito e, insieme alla Sicilia, alla Puglia e alla Calabria, raggiunge un totale pari al 42,1% di tutti gli illeciti dal punto di vista ambientale.
Una percentuale simile si è verificata per quanto riguarda le persone fisiche denunciate ed arrestate: 41,1%. Abbiamo anche in questo caso un netto predominio (più della metà) da parte della Campania; la Sicilia risulta invece all'ultimo posto, sempre tenendo presente quanto precedentemente riferito circa il fatto che non sempre ciò denota un'effettiva minor presenza di abusi.
Anche i sequestri eseguiti coprono nella medesima area quasi il 50,8% di tutti i sequestri effettuati in Italia. La Campania, anche in questo caso, ha sempre e comunque la maggioranza.
Se andiamo, poi, a vedere i valori sequestrati per regione, si scopre che, a fronte di 24 miliardi di beni sequestrati in Campania, è circa un milione il valore dei beni sequestrati nelle Marche e ci sono alcune regioni in cui, benché siano stati osservati degli abusi e degli illeciti, non è stato sequestrato alcun valore.
Si può notare, ad esempio, che nella Basilicata, che pure è stata oggetto di una notevole quantità di abusi ultimamente, non c'è stato nessun valore sequestrato e che la rotta definita nuova, cioè quella dell'Adriatico, che fa capo, come vedremo, prevalentemente all'Abruzzo, presenta una scarsa entità di valori sequestrati nell'ambito dei beni che invece avrebbero dovuto essere oggetto di azione legale.
Come ha scritto la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, non sempre si deve pensare alle componenti relative all'ecomafia e al loro effetto sull'inquinamento ambientale come ad una realtà caratterizzata da una organizzazione strutturata criminale, in quanto, a volte, siamo in presenza di piccole condizioni di illecito che si associano nel tempo e che nell'insieme possono determinare una distorsione del mercato imprenditoriale. Infatti, questo tipo di attività illecite comporta per l'imprenditoria legale l'impossibilità di emergere rispetto al sottobosco di illegalità esistente.
E', inoltre, assai importante notare uno spostamento degli interessi dell'ecomafia dall'attività di smaltimento dei rifiuti, intesa come gestione delle discariche abusive, al controllo degli appalti di smaltimento e all'associazione con le strutture amministrative che governano questo tipo di appalti. In questo senso, siamo, quindi, in presenza di un'evoluzione dell'ecomafia. In Puglia si è invece strutturata un'organizzazione non tanto di carattere mafioso quanto di tipo oligopolista, ossia caratterizzata da pochi soggetti che governano tutto il sistema della gestione dei rifiuti e che chiaramente impediscono la libera concorrenza, il libero mercato, l'abbattimento dei prezzi e il miglioramento del servizio.
Anche nel nord Italia si può osservare che l'imprenditoria deviata ricerca la complicità e il sostegno delle amministrazioni locali e della burocrazia corrotta, secondo quanto afferma la stessa Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti.
Ma quale danno comporta una discarica abusiva? Osserviamo la questione dal punto di vista dell'igiene ambientale. La prima e più importante conseguenza è l'inquinamento dovuto, specialmente se si tratta di discariche a cielo aperto, a composti tossici e nocivi. Il rischio microbiologico derivante, ad esempio, dai rifiuti sanitari pericolosi - che sono quelli più imputati di rischio infettivo sulla base dei controlli eseguiti e anche secondo la letteratura scientifica - non esiste in realtà, in quanto non sussiste per questi un rischio diverso da quello derivante dai rifiuti urbani. I microrganismi quali, ad esempio, il virus dell'epatite B o dell'HIV, il virus dell'AIDS, ovvero altri, non sono diversi, anzi sono addirittura in numero inferiore, rispetto a quelli presenti nei rifiuti solidi urbani in quanto i rifiuti sanitari vengono trattati in maniera più adeguata rispetto a quella dei rifiuti solidi urbani. Non solo, lo stoccaggio di questi ultimi è più prolungato nel tempo e ciò favorisce una maggiore proliferazione di organismi pericolosi rispetto a quello che accade per i rifiuti sanitari che hanno dei tempi di stoccaggio, fissati per legge, che vanno dai 5 ai 30 giorni a seconda del tipo di rifiuto. Accade però purtroppo che molto spesso i rifiuti sanitari possono rappresentare un grave rischio perché al loro interno sono compresi i rifiuti radioattivi. Si tratta di un consistente sottobosco che non viene quasi mai considerato, ma che cercheremo di approfondire oggi.
La componente rifiuti degli ospedali e dei servizi sanitari, spesso misconosciuta o sottoindagata, crea invece notevoli problemi. Per quanto riguarda i composti tossici che sono presenti in ambiente, questi possono andare da sostanze pericolosissime come il mercurio, il cadmio o il cromo - tutte sostanze che possono essere sia di tipo tossico-nocivo che di tipo cancerogeno - agli organoclorurati, ai pesticidi, ai residui di fitofarmaci. Normalmente i contenitori per lo smaltimento di fitofarmaci dovrebbero essere trattati con l'incenerimento finale. Viceversa, si trovano facilmente i fusti dei fitofarmaci, quindi dei pesticidi, all'interno delle normali discariche predisposte per i rifiuti solidi urbani. Questo comporta che spesso, e molte ASL, ad esempio, in Campania lo hanno verificato, le persone residenti nelle zone circostanti le discariche abusive individuate dagli organi dello Stato sono andate incontro a notevoli problemi: incremento della mortalità per tumore del 400%, incremento degli effetti tossici allergici del 250%, incremento dell'attività sanitaria in relazione a danni da specifiche sintomatologie che spesso va dal 150 al 300%. Quindi, evidentemente, dal punto di vista atmosferico il problema si pone.
Il più grave dei pericoli derivanti da discariche abusive non controllate è sicuramente poi quello dell'inquinamento del suolo e quello delle acque. L'inquinamento del suolo è determinato dal fatto che per la legge italiana non si può costruire su zone adibite a discarica legale. Molto spesso i materiali di risulta o quelli di smaltimento dei rifiuti vengono, invece, utilizzati come compattamento per le strutture fondiarie o comunque per le fondamenta di strutture edilizie abusive. Il che significa che molte delle strutture abusive vengono costruite su ex discariche abusive. Prima di tutto perché con questo materiale si cementa tutto e ciò non consente di verificare la presenza della discarica e questo, a distanza di tempo, si concretizza in danni per la salute dei cittadini. Se poi si ammette che la maggior parte delle regioni che sono colpite dalla presenza dello smaltimento abusivo dei rifiuti patiscono già grande scarsità di acqua e la maggior parte di quella disponibile deriva da falde freatiche, e quindi da acque superficiali, è evidente come il percolamento delle sostanze tossiche in queste falde faciliti tutti quei danni ecologici gravissimi che si sono osservati. Il più classico dei casi è nel casertano: 80.000 metri quadrati di discarica abusiva a cielo aperto che riversava grossi fusti tossici nel fiume Volturno, che è stato inquinato ed è ecologicamente ormai quasi irrecuperabile.
Il problema è che a fronte di tutto questo, le infrazioni che possono essere accertate sono per lo più veniali. La legislazione, cioè, non pone i presupposti, i mezzi, gli strumenti per poter affrontare in modo definitivo questo problema. Si va, cioè, e queste sono state le imputazioni sin qui riconosciute, dalla ricettazione di rifiuti tossici o pericolosi, al traffico illecito, all'invasione abusiva di terreni, all'istituzione e gestione di discarica abusiva, al falso nell'accettazione di bolle accompagnamento (la classica truffa del giro bolle), alla truffa allo Stato e all'Unione Europea, all'avvelenamento colposo di acque pubbliche. Forse l'ultima è la più interessante da un certo punto di vista, ma non sempre tutto ciò è sufficiente per poter intervenire adeguatamente.
Cerchiamo, quindi, di comprendere perché e come l'ecomafia è intervenuta in questo settore. E' molto semplice: i rifiuti non interessavano nessuno fino a quando non ci si è accorti che costano e, soprattutto, che costa smaltirli. C'è quindi un notevole interesse economico. La criminalità organizzata è dunque intervenuta dapprima nello smaltimento abusivo e, poi, si è allargata al coinvolgimento della pubblica amministrazione, al condizionamento degli appalti per poter ricevere e gestire le strutture di discarica legali nonché al controllo delle società di smaltimento dei rifiuti stessi. Successivamente tali attività sono state utilizzate come strumento di copertura di traffici illeciti e per effettuare riciclaggio di denaro. Quello che è molto importante è che tutto questo si è potuto sviluppare in alcuni casi anche per inefficienze amministrative e grazie ad una legislazione inefficace. Daremo poi un'idea di come la legislazione sui rifiuti sia stata fino ad ora inefficace per alcune parti, ovvero del tutto inattuabile per altre (vds. schema n. 4).



Il vero problema che si è creato, e molte fonti istituzionali lo confermano, è che, mentre da principio la rotta per quanto riguardava lo smaltimento dei rifiuti era quella tirrenica, e quindi dal nord prevalentemente transfrontaliero si arrivava alle regioni della Campania, della Calabria e della Sicilia, nuove condizioni geopolitiche, economiche e di altra natura hanno spostato gli interessi verso la rotta adriatica che, citavo prima l'esempio dell'Abruzzo, sembra essere diventata una delle zone cardine, sebbene sottostimata, per il traffico illecito. Questa zona è diventata strategica, non solo per i rifiuti, ma anche per la presenza di interessi particolari nei paesi dell'est, come è facile immaginare, e in relazione alle rotte provenienti dall'Africa mediorientale, prevalentemente sub-equatoriale. In questo ultimo caso il traffico, in special modo dei rifiuti, non è tanto quello diretto verso l'Italia quanto quello proveniente dall'Italia, nel senso che il nostro Paese viene utilizzato come trampolino di lancio verso distretti che fino ad ora sono stati definiti incontaminati, ma che sicuramente non lo sono, al fine di consentire questo traffico illecito che in un certo senso globalizza il problema dello smaltimento dei rifiuti.
A questo punto dobbiamo iniziare a porci un quesito fondamentale: quanti rifiuti speciali o pericolosi vengono prodotti? Partiamo dal presupposto che per poter definire la quantità di rifiuti prodotti dobbiamo basarci sul cosiddetto MUD, cioè sul modello unico di dichiarazione, che è oggetto di intervento sia del produttore che dello smaltitore di rifiuti. E' bene ricordare questo aspetto perché poi si vedrà qualcosa di molto interessante a questo riguardo. La produzione stimata in Italia di rifiuti speciali e pericolosi è di ben 60,9 milioni di tonnellate. Il conferimento conosciuto, legale e certificato è di circa 46 milioni di tonnellate, secondo i dati forniti dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti. Quindi il conferimento disperso è di 15 milioni di tonnellate circa, pari al 25% dei rifiuti speciali e pericolosi attualmente prodotti in Italia. Questi in parte sono rifiuti inerti o assimilabili (fibre minerali, amianto), scarti di lavori edili e di ristrutturazioni oppure rifiuti speciali o pericolosi propriamente definiti (radioattivi, sanitari, chimici, industriali ed agricoli), sulla cui pericolosità non è il caso di soffermarsi.
In Italia risultano prodotti, nel 1999, 3.400.142 tonnellate di rifiuti pericolosi. Questi hanno una loro specifica destinazione finale. Tuttavia, 474.824 tonnellate di rifiuti pericolosi, pari al 13,9% del totale registrato, non sono state individuate in alcuna voce di trattamento, quindi, in pratica, non si ha certificazione del conferimento finale di diverse tonnellate di rifiuti pericolosi. Come può avvenire nel modo più semplice la "perdita" di questi rifiuti? In un modo che è possibile realizzare legalmente, cioè durante lo stoccaggio. L'Italia è praticamente un grosso sistema di stoccaggio di rifiuti pericolosi. Tra le rotte che attraversano il territorio italiano da nord a sud, sono presenti 20.000 depositi di stoccaggio. Ognuno di questi prende una parte di rifiuto, lo conserva per un po' e poi lo trasferisce in un altro centro di stoccaggio, prima che questo arrivi al conferimento finale. Da stoccaggio a stoccaggio si perde una buona quota di rifiuti pericolosi, che non si sa dove va a finire. Questi rifiuti non vengono, cioè, inceneriti. Vedremo tra poco perché ciò non avviene.
A questo punto, dobbiamo ricordare che, secondo quanto indicato dall'art. 11 del decreto legislativo n. 22 del 1997, la cosiddetta legge Ronchi, è tenuto all'obbligo di dichiarazione MUD chiunque esegua attività di raccolta e trasporto di rifiuti speciali, recupero e smaltimento degli stessi, produzione di rifiuti pericolosi e non, nonché produzione di rifiuti derivati da alcuni tipi specifici di lavorazioni industriali e artigianali. Ma il problema è che esistono alcuni soggetti o tipi di rifiuti per i quali è prevista un'esenzione dall'obbligo del MUD, per i quali, quindi, si perde traccia della quantità prodotta e smaltita. Questi sono i rifiuti sanitari, i veicoli a motore rottamati, i rifiuti prodotti da imprese con meno di tre dipendenti e le imprese agricole con un volume di attività inferiore a 15 milioni annui. Considerato che il terziario e anche il primario industriale italiano sono generalmente a bassissima quota di impiegati, è facile comprendere come la maggior parte delle imprese non ha l'obbligo del MUD, non è tenuto a farlo.
La regione Toscana ha pensato, grazie all'ARPA regionale, ora anche nel Lazio, anche se non pienamente attiva - di fare una cosa molto semplice, ossia di verificare attraverso il MUD quanto corrispondesse il reale al dichiarato e ha scoperto che bisogna moltiplicare la quota derivante dall'analisi del modello unico di dichiarazione per un determinato fattore per ottenere la quota di rifiuti realmente smaltiti. In pratica, i rifiuti speciali e i rifiuti totali prodotti in Italia sono 90 milioni di tonnellate circa, ma, in realtà, non si sa assolutamente nulla del conferimento finale di circa 40 milioni di questi. Quindi un bel po' di più delle valutazioni precedenti. Il problema è anche che diversi imprenditori hanno fatto pressione affinché il MUD non fosse più a carico sia dello smaltitore che dell'imprenditore, cioè del produttore, ma solo a carico dello smaltitore. Quindi solo colui che riceve il conferimento finale dovrebbe indicare quale è la quota di rifiuti che deve essere smaltita, senza considerare che tra il produttore e lo smaltitore può accadere di tutto.
Se andiamo a calcolare quanto conviene alla criminalità organizzata gestire i rifiuti, ci accorgiamo di quanto segue. Il valore degli appalti per la gestione dei rifiuti nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa è pari a circa 7,5 milioni di tonnellate, al costo di £100 al chilo, pari cioè a circa 750 miliardi. Se invece andiamo a leggere il valore dei rifiuti pericolosi sanitari abusivamente dismessi scopriamo che sono pari a 1,8 milioni di tonnellate al costo di £1.200 al chilo, cioè pari a 2.168 miliardi. Analoghi valori ricaviamo dai rifiuti speciali non pericolosi, 2.100 miliardi, e infine dai rifiuti inerti, 1.000 miliardi. Il tutto per un totale di 6.018 miliardi annui circa. E' ovviamente una sottostima (vds. schema n. 5).



Oltre allo smaltimento dei rifiuti, dobbiamo indicare anche quanto convenga gestire direttamente sia gli appalti sia le componenti legali dello smaltimento dei rifiuti. Perché ovviamente il riciclaggio di denaro ha fatto sì che grazie alla discarica abusiva si siano potute acquistare discariche legali. Questo ha comportato la somma di guadagno annua, stimata per difetto, di 18.767 miliardi di lire. I dati derivano dall'ANPA, dall'osservatorio nazionale regionale e anche, ma ristimati in eccesso rispetto a questi, da Legambiente.
Quali sono quindi le conseguenze di ecomafia? Le connessioni possibili con la pubblica amministrazione, certificato dal fatto che molti comuni sono stati sciolti per legami con la mafia, comporta la necessità di consistenti programmi di intervento da parte di strutture commissariali e di incentivi economici. L'Unione Europea investirà, come già stabilito, tra il 2000 e il 2006, molti fondi in questo settore in quanto l'Italia viene considerata, da questo punto di vista, una zona arretrata. Si tratta, quindi, di un grosso business da gestire. Il controllo delle società compiacenti consente non solo di promuovere l'impiego di materiali scadenti e di favorire l'assenza di misure di sicurezza, di nuocere all'igiene ambientale e non rispettare i capitolati d'appalto di qualunque tipo, ma impedisce anche all'imprenditoria legale di emergere (vds. schema n. 6).



Guardiamo ora, ad esempio, la realtà dei comuni sciolti dal Ministro dell'Interno per cause ambientali. Alcuni esempi per il 1999: scarico di acque meteoriche di un'industria di una società mafiosa a S. Maria Le Fosse, vicino Caserta; discarica abusiva su territorio vulcanico a Tersigno, in cui, in pratica, la discarica abusiva è stata costruita in modo che qualora si verificasse un sisma di secondo grado, l'intero paese verrebbe ad essere sommerso dai rifiuti. E un simile evento in una regione vulcanica è facilissimo a verificarsi.
In Sicilia abbiamo l'esempio di una discarica abusiva che era già sotto sequestro. La società che gestiva la discarica abusiva ha chiesto e ottenuto dal sindaco l'autorizzazione temporanea a utilizzare una discarica rappresentata da un terreno dove doveva essere fatto il rimboschimento perché era un terreno franoso; anche in questo caso il paese è sotto la discarica. Il comune è stato ovviamente sciolto. Sono state, inoltre, accertate gravi irregolarità nell'ambito degli appalti e alcuni comuni sono stati sciolti per attività illegali connesse allo smaltimento dei rifiuti. I comuni sciolti per abusivismo edilizio o altre forme di ecomafia sono chiaramente molti di più.
Un'altra grossa questione da affrontare è quella relativa ai rifiuti radioattivi. Si tratta di un problema grave perché le vie di comunicazione che permettono il passaggio di rifiuti radioattivi possono andare da una nave a un treno, a un autocarro ma anche a una automobile; forse la via aerea è quella meno seguita ma non impossibile. Le regioni da cui derivano sono principalmente l'Africa e i paesi dell'est, ma ci sono stati casi di rifiuti provenienti dagli Stati Uniti e dal Medio Oriente. Per la maggior parte consistono in uranio 235, uranio 238 arricchito e plutonio, che vengono nascosti all'interno di rottami metallici piombati o nelle sabbie. Ancora più pericoloso è il fatto che è stata verificata la contaminazione di partite di cereali importate dall'Italia. Ciò probabilmente in relazione al fatto che importiamo gran parte dei cereali dai paesi dell'est, nei quali la situazione, ad esempio, delle centrali nucleari non è affatto migliorata, anzi per alcuni versi sta peggiorando.
A proposito della questione dei cereali e degli alimenti più in generale, vorrei rammentare che abbiamo recepito da poco in Italia una direttiva della UE che prevede un sistema di controllo sugli alimenti che si chiama "sistema di controllo HACCP" (hazard analysis critical control point) che permette di analizzare, durante la produzione fino al prodotto finale, ciò che può comportare un rischio per gli alimenti. Il problema di questo sistema è che consente di analizzare solo il rischio microbiologico e non anche quello chimico-fisico, che invece non viene mai verificato. Ciò significa che, ad esempio, non viene valutato il rischio per la salute derivante dalle aflatossine, che sono delle muffe che possono formarsi in alimenti conservati quali il caffè, il cioccolato, le arachidi, i cereali e che possono avere effetti tossici, per il fegato nel migliore dei casi, o provocare, nell'ipotesi peggiore, vari tipi di tumore. I controlli eseguiti a livello frontaliero sugli alimenti avvengono inoltre per campione e non è possibile ampliare la base di verifica per mancanza di mezzi. L'unica organizzazione preposta a questi controlli e che rilascia un apposito certificato è l'Istituto Superiore di Sanità. Quando scoppiò lo scandalo della diossina presente nelle carni provenienti dal Belgio i controlli furono effettuati su un campione minimo proprio per mancanza di laboratori autorizzati e attrezzati a farlo. La stessa situazione esiste per i controlli sui cereali. In sostanza, una volta che gli alimenti provenienti dall'estero superano la frontiera, di fatto, è quasi impossibile che vengano controllati adeguatamente e che vengano bloccate le partite, a meno che non si verifichino casi eclatanti e dichiarati. Le stesse ASL non sono in grado di far fronte a questi compiti. Si controllano, ad esempio, la temperatura e la componente di acqua presente all'interno dell'alimento, ma non la presenza di radionuclidi, ossia non vengono testate caratteristiche attinenti alla composizione chimico-fisica dell'alimento che pure sono fondamentali per dichiarare la loro non tossicità. La presenza di radionuclidi viene quindi sottovalutata. Questo significa che è estremamente difficile individuare nel tempo gli effetti di questi fattori sulla salute dei cittadini, in quanto siamo in presenza di elementi nocivi che operano nel tempo ma che non vengono adeguatamente individuati e quantificati. Effettuare tali verifiche potrebbe forse consentire di spiegare, ad esempio, l'aumento di cirrosi epatica non derivante da alcolismo o epatite B o l'incremento di tumori dovuto alla formaldeide, che è un noto elemento cancerogeno spesso contenuto nel cellophane con il quale vengono avvolti molti alimenti. Il problema è che, con riferimento agli alimenti provenienti dall'UE, per l'Italia non è possibile effettuare i controlli alla fonte. E' stato verificato, ad esempio, un aumento dei tumori alla prostata in relazione all'aumento della presenza di estrogeni nelle carni provenienti dall'estero. In Italia l'uso di estrogeni per l'allevamento del bestiame è assolutamente vietato, mentre è consentito in altri paesi europei, come il Belgio. Pertanto, la carne importata da questi paesi, che non può essere né controllata né bloccata alla frontiera, produce in Italia tutti gli effetti negativi che la normativa italiana sarebbe diretta ad evitare. In questo caso il processo d'intelligence dovrebbe essere assolutamente coordinato a livello internazionale e, in particolare, europeo. Lo stesso problema vale per l'acqua che può essere commercializzata con una semplice autorizzazione della ASL senza che i paesi in cui viene esportata possano controllarla in qualche modo.
Per quanto riguarda i rifiuti sanitari, l'Italia, oltre a quelli che produce, importa dall'estero rifiuti sanitari. Ricordo che il rifiuto sanitario radioattivo è estremamente diffuso. Basti pensare alle attività dei laboratori di radiologia, ai liquidi di scintillazione, ai componenti di isotopi radioattivi, alle strutture ospedaliere, alle strutture aziendali, ai poliambulatori, agli ambulatori specifici e, addirittura, agli ambulatori odontoiatrici. La dispersione sul territorio impedisce un controllo capillare di gran parte dei rifiuti radioattivi da smaltire. Infatti rinvenire una barra di uranio arricchito del peso di 70 chili non è difficile. Averne notizia non è difficile. Ma riuscire a definire quale è il grado di contaminazione ambientale derivante dagli isotopi radioattivi del trizio, dallo iodio 131, dal bario, che sono pericolosissimi, dispersi nel territorio, ad esempio nell'acqua che beviamo, è impossibile se non si va alla fonte. Un caso classico di contaminazione derivante da rifiuti radioattivi in fiume è stato riscontrato in Trentino Alto Adige e un altro nel Lazio. Il problema è che purtroppo spesso i controlli sono inefficaci perché, ritornando a quella che è stata definita la rotta adriatica, la maggior parte dei casi non interessa il nord Italia, dove le ASL e i sistemi delle ARPA, ossia degli ex presidi multizona di prevenzione, sono attivi nei controlli sui rifiuti radioattivi, ma prevalentemente il meridione, dove questi controlli sono stati finora inefficaci e non organizzati. Purtroppo costa molto intervenire in questo senso e il ritardo nell'organizzazione delle agenzie regionali per la prevenzione dell'ambiente, cioè le strutture che dovrebbero intervenire ad effettuare queste ispezioni, è molto consistente.
Sono stati accertati 173 casi di traffico illecito di materiale nucleare dal 1992 al 1998. Su due milioni e 260 mila tonnellate di rottami ferrosi che passano attraverso i valichi doganali, sono stati rispediti al mittente, in quanto risultate contaminate, 15.000 tonnellate. Sono stati accertati e denunciati 66 responsabili di laboratorio, accertati 113 reati penali ed eseguiti 17 sequestri, tra il 1997 e il 1999, per un valore pari a 2.200 milioni. Questo solo per quanto riguarda i laboratori di ricerca o gli ospedali. I rifiuti radioattivi per la maggior parte vengono stoccati all'interno di cave. Quindi, laddove erano state aperte delle cave ed erano state realizzate zone di smaltimento abusivo, molto spesso potrebbero essere presenti rifiuti radioattivi. Ultimamente si è ipotizzato che alcune navi che trasportano rifiuti radioattivi vengano appositamente affondate vicino alle coste italiane per essere recuperate solo successivamente.
Un altro grosso problema è rappresentato dalla cosiddetta biosanitizzazione agricola dei terreni. E' possibile, ad esempio, ottenere delle autorizzazioni per impiantare colture lombricali e al di sotto di questi terreni stivare o stoccare fusti di tipo tossico o radioattivo. I lombrichi riescono, infatti, a produrre alcune sostanze, specialmente a base piombata, che possono ridurre la capacità, durante l'ispezione, di rinvenire questi rifiuti. Ne è stato scoperto un caso in Campania.
Altro problema è quello dei rifiuti sanitari pericolosi, che non possono essere smaltiti come rifiuti sanitari urbani. Ciò ha favorito lo sviluppo di un altro notevole giro di affari. Un esempio: lo smaltimento dei rifiuti sanitari pericolosi dello scorso anno da parte del Policlinico Gemelli di Roma. Questo ospedale ha sostenuto una spesa di circa 2.450 milioni di lire. Questo significa che se moltiplichiamo gli ospedali, di grandezza più o meno assimilabile a quella del Gemelli presenti in Roma, abbiamo idea di quanto costi smaltire questi rifiuti.
Ma perché i rifiuti sanitari pericolosi sono ancora definiti tali visto che la loro componente di infettività microbiologica è ridotta rispetto ai rifiuti solidi urbani? Si tratta di una questione che va spiegata in relazione all'esistenza di leggi contrastanti tra loro. Si parte da una legge del 1941 che prevedeva l'installazione di inceneritori all'interno degli ospedali: si produceva il rifiuto e si inceneriva subito. Ovviamente ciò è oggi inammissibile, visto il livello di inquinamento ambientale, gli effluvi che ne derivano e le problematiche che questi possono determinare. Con la legge n. 915 del 1982 si è stabilito, allora, che il rifiuto sanitario pericoloso fosse trattato con un disinfettante prima di essere smaltito. E' del tutto intuitivo pensare quanto sia arduo disinfettare un fusto di circa 100 chili di peso, aggiungendo al liquido disinfettante 100 centilitri, praticamente un terzo di un bicchiere, di varechina. La cosa importante è che per un ispettore d'igiene era sufficiente che fosse seguita questa procedura. Dopodiché, se il rifiuto fosse disinfettato veramente o meno non aveva importanza. Ciò differenziava il rifiuto sanitario pericoloso da quello solido urbano.
La differenza di costo è di circa £1.000 al chilo. £112 per un rifiuto solido urbano, £1.200 per un rifiuto sanitario pericoloso. Si è allora pensato di ovviare a queste incongruenze approvando la legge n. 475 del 1988, in cui il famigerato art. 9 decies stabiliva che tutti i rifiuti derivanti da un ospedale andavano considerati rifiuti sanitari pericolosi, fatta eccezione per la carta delle segreterie e compresa la ricetta del medico o la terra dell'eventuale giardino. Potete ben immaginare quanto ciò abbia fatto aumentare i costi di smaltimento dei rifiuti di un ospedale. Si è pensato allora di introdurre un nuovo criterio. E' stata apportata subito una correzione normativa con la legge n. 527 del 1988 con la quale è stato introdotto il concetto di sterilizzazione. Un rifiuto sanitario è pericoloso, ma se viene sterilizzato prima di uscire dall'ospedale, diventa un rifiuto solido urbano.
Ma sterilizzare un rifiuto sanitario pericoloso in un ospedale significa ristrutturare un edificio che è molto simile a quello dei vecchi inceneritori. Allora a questo punto si poteva incenerirli direttamente all'interno dell'ospedale. Oggi, tra l'altro, sarebbe più facile farlo con tutti i mezzi di abbattimento dell'inquinamento di cui disponiamo e si ridurrebbero i costi per i mezzi di trasporto, che sono veramente molto consistenti e comportano molte problematiche. In realtà il decreto Ronchi e l'ultimo decreto attuativo, recentissimo, del 26 giugno 2000 finalmente definiscono tutta la classificazione dei rifiuti sanitari. Ed è finalmente cancellata la pratica assurda della disinfezione finta dei rifiuti sanitari per assimilarli ai rifiuti solidi urbani.
Dobbiamo dire che è molto importante parlare anche di impianti autorizzati e di impianti di incenerimento. L'incenerimento in Italia copre solo l'11,8% del trattamento di tutti i rifiuti. L'88,2% finisce in discarica, a fronte del 75% dell'incenerimento in Giappone, del 65% in Danimarca, del 50% in Svezia, del 40% in Francia e in Germania, del 25% in Belgio, del 25% in Olanda, del 18% in Gran Bretagna, che sfrutta le miniere abbandonate per lo smaltimento. Poi ci sono gli Stati Uniti che utilizzano altri mezzi oltre l'incenerimento. Quindi l'Italia è, in Europa e tra i paesi occidentali, lo Stato che ricorre al metodo dell'incenerimento in minima parte. La ragione di questa tendenza va rintracciata nella distribuzione sul territorio nazionale degli impianti di incenerimento. Chi vive nelle regioni meridionali sarebbe costretto a inviare i propri rifiuti negli impianti del nord per essere inceneriti, in quanto al sud non ci sono inceneritori. E ciò accade proprio dove si verifica la maggiore presenza dell'ecomafia. Addirittura non ne esiste nessuno in Campania. L'inceneritore della regione Lazio è stato istituito quest'anno, ma non è ancora pienamente attivo. Nel 1997 il Ministero dell'Ambiente ha chiarito che, dei quaranta inceneritori originari, ne sono attivi solo diciannove. Ne sono spariti molti in Emilia Romagna, in Toscana, in Lombardia e in Piemonte.
In conclusione, vorrei dire che, a mio avviso, la difficoltà di affrontare queste problematiche deriva dal fatto che in quest'ambito si intrecciano numerose e diverse componenti: quella politica, quella economica e quella legata all'orientamento dell'opinione pubblica, che è fortemente influenzato dai mass media. Si parla tanto, ad esempio, di campi elettromagnetici. Se osserviamo come la stampa, e in generale i mass media, hanno trattato questo tema, possiamo verificare che in realtà c'è molta disinformazione e imprecisione. Non si capisce se sono veramente dannosi per la salute. Non si sa, ma di fatto abbiamo assistito ad un proliferare di strumenti che presumibilmente dovrebbero ridurre gli effetti nocivi dei telefonini e che garantiscono a chi li produce un business di svariati miliardi. C'è quindi una carenza di base del sistema educativo e informativo che, in qualche modo, impedisce alla popolazione di valutare adeguatamente le informazioni diffuse su questi temi e di distinguere, non dico la verità, ma almeno ciò che più gli si avvicina. L'approccio all'igiene ambientale a livello informativo è molto carente. Non solo nel senso che manca l'informazione, ma anche nel senso che viene mal gestita. E' anche importante in quest'ambito non creare paure inutili e facili allarmismi.
Ci sono poi problemi di costo. Le famose carni alla diossina provenienti dal Belgio sono state dissequestrate prima di verificare la loro effettiva non pericolosità e ciò in quanto nessuno poteva prendersi la responsabilità di adottare un provvedimento che avrebbe comportato un consistente deficit per la bilancia economica. Lo stesso accade per i cereali.
Tanto per fare un altro esempio, quando si verificò il disastro di Chernobyl, la notizia si è avuta solo alcuni giorni dopo l'avvenimento e grazie al governo svedese. Quindi è stato molto difficile effettuare i controlli anche perché non si sapeva bene cosa era accaduto e quindi su quale tipo di componenti questi andavano effettuati. Ricordiamo, poi, che si tratta di elementi che decadono in tempi lunghissimi e, infatti, ancora oggi, se ne riscontra la presenza nel latte, come accade, ad esempio, con il noto DDT, di cui ancora oggi, sebbene non sia più usato praticamente da quaranta anni, se ne verifica la presenza, in residui, nel latte materno. Un caso è stato riscontrato a Roma nel 1996.
Il problema è infine quello del consenso. Spesso si ha l'impressione che l'unico aspetto veramente rilevante sia esclusivamente quello di tranquillizzare la popolazione, a qualunque costo. Come accade, ad esempio, nel caso dell'inquinamento atmosferico nelle grandi città, come Roma o Milano. A Roma sono installate solo tre centraline per rilevare la presenza di benzene nell'aria, di cui una posizionata a Villa Ada, che, ovviamente, trovandosi in un parco, registra sempre assenza di benzene. E' evidente che in una città grande come Roma il numero delle centraline è insufficiente e assolutamente non indicativo. Ma l'importante, ripeto e concludo, sembra essere, solo e comunque, tranquillizzare i cittadini.


(*) Testo tratto dalla Conferenza tenuta presso il SISDE in data 12 ottobre 2000.

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