D. Signor Procuratore, lo scenario attuale conosce diverse forme di terrorismo. Profondamente diverse appaiono le motivazioni politiche e il background culturale che conduce organizzazioni di vario genere all'uso della violenza indiscriminata ed eversiva. Alcune di queste motivazioni sono tradizionali, come quelle di origine secessionista - nazionalista, di carattere ideologico o insurrezionalista ovvero legate a fondamentalismi religiosi. Altre sono connesse a temi nuovi dell'evoluzione sociale, come l'ecoterrorismo e il cyberterrorismo.
Quali sono a Suo avviso le prospettive e le potenzialità della minaccia terroristica in Italia?
R. E' estremamente difficile formulare previsioni su quanto potrà avvenire in Italia, per quanto concerne una ripresa dell'offensiva terroristica.
Non è una formula di stile, ma una riflessione che nasce proprio dall'analisi della nostra realtà.
Quando, dalla seconda metà degli anni ottanta, le iniziative delittuose dei vari gruppi terroristici conosciuti (in particolare le Brigate rosse) andarono via via scemando, sino ad una sostanziale scomparsa nei primi anni novanta, quasi tutti si convinsero che ormai il pericolo eversivo apparteneva ad un triste ricordo e che il nostro Paese non avrebbe più dovuto fare i conti con azioni armate di gruppi terroristici.
La realtà ha purtroppo smentito tale previsione e quindi occorre essere molto cauti nel formulare previsioni.
Se mi volessi accontentare di una risposta di maniera, potrei dire che un pericolo è sempre incombente: in tali termini sarei sicuro di non poter essere smentito da nessuno.
Ma voglio cercare di svolgere un ragionamento più articolato, pur sapendo che i dati informativi in nostro possesso non ci mettono al riparo da errori di prospettazione.
Io credo che, difficilmente, potrà nuovamente ricrearsi una situazione corrispondente a quella che abbiamo vissuto per oltre un decennio, a partire dalla prima metà degli anni settanta.
Le trasformazioni della realtà economica, sociale e politica sono state tali da rendere oggi molto più difficile per un gruppo eversivo, a forte connotazione ideologica - come sono state le Brigate rosse e gli altri gruppi terroristici, di sinistra e di destra - realizzare un'aggregazione di consensi paragonabile a quella che rese possibile il reclutamento di centinaia di militanti, regolari e non regolari.
Analogamente, non vedo più sussistenti le premesse che portarono alla formazione - come avvenuto nel passato - di un ambito esteso di "neutralità" tra le azioni terroristiche e la difesa della legalità democratica ("né con lo Stato né con le BR").
Non vedo sullo scenario della vita politica italiana movimenti di massa così radicalmente antagonisti rispetto alle scelte e alle strategie del confronto politico democratico, quand'anche aspro, tali da poter alimentare in modo significativo scelte di natura sovversiva, nell'ottica di un rivolgimento violento degli equilibri dati.
Tutto questo premesso, ritengo che un ambito di disponibilità ad azioni terroristiche, o comunque eversive, sia rimasta: certo, in misura assai più marginale che non nel passato, ma pur sempre da non sottovalutare.
Valutazione questa oggettivamente confermata dai recenti episodi di Milano e Roma. Il ritrovamento della valigetta piena di esplosivo, rivendicato da una formazione anarchica, e l'attentato alla redazione del Manifesto, di opposta paternità della destra eversiva, testimoniano il permanere di nuclei terroristici attivi.
Credo che questo pericolo vada individuato, ancor oggi, rispetto a gruppi fortemente ideologizzati, che perseguono lo scopo di un rovesciamento rivoluzionario degli assetti sociali ed economici. Non mi sembra che eguale concretezza di rischio possa esservi nei confronti di formazioni - presenti invece in altri Paesi - che compiono azioni armate nel quadro di una battaglia in difesa dell'ambiente o ponendosi come obiettivo primario la distruzione dei moderni sistemi di comunicazione.
Sempre ragionando sui dati di esperienza della realtà italiana, non ravviso allo stato rischi significativi di organizzazione di gruppi terroristici connotati da fondamentalismo religioso. Certo non è da sottovalutare la prospettiva - già sperimentata in un recente passato in alcune città italiane - della creazione di una rete logistica di appoggio a gruppi eversivi di questo genere: appoggio che consista nel fornire rifugio ad esponenti ricercati dall'Autorità di altri Stati, ovvero nel mettere a disposizione risorse finanziarie, documenti falsi, depositi per armi. Ma l'Italia non mi sembra oggi (e non lo vedo nemmeno nel prossimo futuro) come territorio nel quale gruppi terroristici di tal natura possano individuare obiettivi diretti da conseguire.
Analogamente, non credo - sulla scorta dei dati in nostro possesso - alla concretezza di un pericolo connesso alla formazione di gruppi eversivi a connotazione nazionalistica.
Il dibattito politico sui temi del riconoscimento di autonomie, amministrative e finanziarie, delle regioni ha dimostrato sin ora come queste tematiche siano rimaste al centro di un confronto democratico, che ha saputo esprimere attraverso linee di legittima azione politica rivendicazioni anche forti di delimitazione delle competenze dello Stato centrale a favore di una maggiore autonomia delle articolazioni territoriali periferiche.
Per concludere, sempre rimanendo sul terreno delle previsioni, dobbiamo - invece - prepararci all'eventualità di un terrorismo "individualista".
Per intenderci, è il modello di Unabomber, che già abbiamo conosciuto in Italia senza essere ancora riusciti a dare un'identità al responsabile.
Mi vengono in mente, pur nel contesto di motivazioni legate ad una specifica realtà locale, anche gli incendi nell'Ospedale di Ancona.
Le profonde trasformazioni della realtà sociale e dei mezzi di comunicazione aumentano, da un lato, le occasioni di acquisire conoscenze ed informazioni di ogni genere e favoriscono, dall'altro lato, processi di estraniazione del singolo rispetto ai normali meccanismi di aggregazione e di relazione interpersonale.
Tutto ciò può incentivare, in soggetti caratterizzati da personalità border-line, la propensione ad azioni violente, capaci di colpire un numero indeterminato di vittime, in nome di obiettivi che non presentano una precisa connotazione politico-ideologica.
Se questa previsione è fondata, i dirigenti degli apparati informativi ed investigativi dovranno nel prossimo futuro curare che l'analisi operativa di atti eversivi si muova non solo nella direzione di una sicura attribuibilità ad un gruppo, ma anche ad un unico colpevole. E ciò comporta - di evidenza - la necessità di metodi di intelligence e di indagine molto diversi da quelli che rappresentano il consolidato bagaglio di esperienze acquisite sul fronte antiterrorismo nel nostro Paese.
D. Il versante del terrorismo ideologico è certamente quello che ha maggiormente interessato il nostro Paese negli ultimi trent'anni. Qual è il punto della situazione, ad oltre un anno dall'omicidio D'Antona e alla luce della sostanziale stasi operativa che ne è seguita da parte delle Brigate Rosse e delle formazioni che ad esse fanno riferimento?
R. La mia opinione è nel senso di una situazione non certo confortante.
Il dato oggettivo è, oggi, negativo proprio perché gli organi dello Stato non sono riusciti sino ad ora a dare un'identità alle persone che nel maggio 1999 uccisero a Roma il prof. Massimo D'Antona. Non sono ovviamente in discussione né la capacità né la buona volontà di tutti coloro che, nell'ambito dei diversi uffici, si sono occupati delle investigazioni relative. Anzi, in tale opera sono impegnati uomini di grande competenza, di grande esperienza e capacità professionale, che non hanno lesinato gli sforzi per giungere ad una positiva conclusione delle indagini. Ma proprio questo elemento corrobora il giudizio di forte preoccupazione: perché significa che i "nuovi" terroristi sono riusciti sino ad oggi ad eludere i tentativi volti a scoprire gli esecutori ed i mandanti di quell'omicidio. Ed allora ciò significa anche che l'organizzazione terroristica delle Brigate rosse ha saputo creare attorno a sé un sistema di difesa che la rende difficilmente permeabile alle investigazioni.
So di esprimere un concetto ovvio, ma non sempre le cose ovvie sono anche banali od errate: sino a quando non si riuscirà a dare un volto ai terroristi che uccisero il prof. D'Antona, e quindi a ricostruire la loro storia politica e personale, sarà impossibile avere un quadro attendibile della realtà attuale. Possiamo certo formulare previsioni, come ho cercato di fare poc'anzi. Possiamo anche prospettare ipotesi non peregrine, come quella secondo la quale il numero di terroristi attualmente non dev'essere particolarmente elevato, perché altrimenti le azioni delittuose delle Brigate rosse, in particolare, non avrebbero conosciuto la stasi operativa che si è verificata dal maggio 1999 ad oggi.
Possiamo ovviamente (e, anzi, dobbiamo su questo terreno molto riflettere) sottolineare il significato dei documenti "ideologici" diffusi di recente nel Nord Italia, da sigle che in qualche misura indicano un programma ed un percorso di riaggregazione attorno al nucleo delle nuove Brigate rosse.
Ma il quadro rimane ancora nebuloso, perché tutte le precedenti considerazioni finiscono con il rimanere astratte se non trovano un loro materiale riscontro nell'avvenuta identificazione di soggetti direttamente coinvolti nelle azioni eversive.
Altra ovvia considerazione, che mi viene sollecitata dalla domanda, riguarda l'assoluta essenzialità, in questa fase, di un costante e capillare lavoro di ricerca informativa. Laddove si tratta di risalire all'identità dei componenti di un gruppo clandestino, in un momento nel quale di questo gruppo si sa ancora troppo poco, va incrementata al massimo la strategia investigativa che sfrutti ogni circostanza, anche quella apparentemente lontana dall'ambito di indagine di polizia giudiziaria, utile ad aprire una finestra su quelle realtà all'interno delle quali il gruppo eversivo può cercare e trovare sostegno ed alimento.
D. È possibile ipotizzare, sulla base delle sue competenze e delle esperienze investigative più recenti, un quadro di evoluzione del fenomeno eversivo, con particolare riferimento alle possibili saldature tra "vecchio" e "nuovo" terrorismo?
R. Il tema è, di evidenza, connesso agli aspetti che ho già affrontato. Pur in assenza di dati di oggettivo riscontro, io credo che il fenomeno delle "nuove" Brigate rosse abbia incontestabili punti di saldatura con la precedente esperienza terroristica.
L'omicidio del prof. D'Antona è stato, con prontezza quasi immediata, rivendicato da alcuni esponenti delle vecchie Brigate rosse, detenuti in carceri di massima sicurezza.
Il linguaggio usato e la metodologia di analisi contenuta nei documenti di rivendicazione richiamano in maniera molto precisa l'approccio ideologico ed operativo delle vecchie Brigate rosse.
Non pochi sono gli appartenenti, anche con posizioni di rilievo, dell'ultima struttura militare delle Brigate rosse ancora in libertà: probabilmente rifugiati all'estero, taluni; probabilmente mai identificati nel corso delle vecchie indagini giudiziarie, taluni altri.
Dobbiamo sempre ricordarci che il vincolo associativo di un nucleo eversivo clandestino è assai forte, e permane nel tempo, a meno che sia stato definitivamente e traumaticamente interrotto da scelte come quelle di una collaborazione processuale. E' un vincolo quindi che crea una sorta di tessuto connettivo tra il passato ed il presente: un tessuto che si può infittire grazie all'adesione di nuovi soggetti, ma che garantisce una continuità nel tempo.
Per queste ragioni io penso che possa essere in qualche modo fuorviante il domandarci, di fronte alla ricomparsa delle Brigate rosse, se esse siano le vecchie Brigate rosse tornate alla ribalta oppure un gruppo completamente nuovo.
A mio parere, l'analisi più plausibile è quella che individua il gruppo responsabile dell'assassinio del prof. D'Antona in una realtà organizzativa che, partendo dalle forze militari ormai sparse all'inizio degli anni novanta, è riuscita nuovamente a dar vita ad una realtà operativa pericolosa.
D. Quali sono oggi i confini, secondo il suo punto di vista, dell'uditorio di riferimento del messaggio terroristico? Più in particolare, quale influenza determina il mutato panorama sociale, la trasformazione dell'organizzazione del lavoro e l'affermarsi di nuovi ambiti di emarginazione e di antagonismo?
R. Ho già espresso la mia opinione circa le diversità che ravviso tra i potenziali ambiti di interlocuzione attuale con gruppi eversivi e quelli che sussistevano negli anni settanta ed ottanta, all'indomani - non lo dimentichiamo - di grandi fenomeni di antagonismo politico e sociale. Ma anche oggi - è evidente - le Brigate rosse e qualsiasi altro gruppo di terrorismo politico devono individuare un'area di soggetti verso i quali mirare i loro messaggi di propaganda ideologica, attraverso il compimento di azioni armate. Per quanto comporti sempre un certo fastidio utilizzare questa parola con riferimento ai terroristi, non dobbiamo dimenticare che essi si muovono come soggetti politici e perseguono una strategia politica, sia pure con metodi delittuosi.
Ciò significa che fondamentale è la ricerca di un consenso, senza del quale l'iniziativa militare è destinata a fallire.
Se si dovesse dare credito (e io personalmente, sulla base della passata esperienza professionale, sono portato a farlo) agli spunti contenuti nei documenti di rivendicazione, si dovrebbe individuare nelle tematiche legate al lavoro precario e alle forme di sotto occupazione i filoni sui quali i nuovi gruppi armati convogliano la loro attenzione e ricercano il conseguente consenso.
Posso ovviamente sbagliare, ma mi sembra che la grande fabbrica, i grandi centri di produzione industriale e quindi anche le maggiori realtà di organizzazione e lotta sindacale rimangano estranei all'ambito verso il quale si rivolgono le attenzioni delle nuove Brigate rosse. Al di là di formule rituali, anche il linguaggio usato mi sembra più congeniale alla ricerca di interlocutori che non sono inseriti nella realtà dei grossi complessi industriali ma piuttosto che vivono in ambiti marginali rispetto a questi.
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