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Per Aspera Ad Veritatem n.16
Il processo di risanamento della finanza pubblica: riflessi sulle strutture amministrative

Francesco ZACCARIA




Una delle vicende di maggiore rilievo politico-amministrativo della vita italiana del decennio 1990-1999 è certamente il risanamento dei conti pubblici.
Questo prende l'avvio da situazioni di carattere internazionale e da obblighi esterni assunti dallo Stato italiano. La politica economica e monetaria dei nostri tempi è stata caratterizzata, com'è noto, dalla progettazione e dall'avvio di un sistema europeo di moneta unica. Questo ci ha portato a rendere operativo un sistema di tassi di cambio rigidi ed irrevocabili fra le monete degli stati europei che apre sostanzialmente le porte ad una moneta unica, l'euro. A datare dalla metà del 2002 l'euro sostituirà completamente le diverse monete europee.
Il processo di sostituzione delle monete europee con una moneta unica e la creazione di un sistema monetario unitario costituiscono fatti istituzionali, giuridici ed economici enormemente complessi. Uno dei tratti salienti di questo processo è che esso comporta l'integrazione dei sistemi economici e monetari dei diversi stati: questo significa armonizzazione e convergenza delle economie e l'adozione di politiche dirette a rimettere ordine nei sistemi finanziari dei paesi europei.
Alcuni di questi, ed in particolare l'Italia, presentavano all'inizio di questo decennio situazioni di squilibrio e di disordine che erano sostanzialmente incompatibili con la partecipazione ad un sistema monetario unitario basato sulla stabilità.
In particolare, le esigenze di riequilibrio e armonizzazione erano fissate nel trattato di Maastricht, sottoscritto il 7 febbraio 1992 sulla base di un testo formulato nella conferenza del 7-8 dicembre 1991, ed entrato in vigore nell'ordinamento italiano il 1° novembre 1993 in base alla l. 3 novembre 1992, n. 454. Questo trattato ha condizionato la partecipazione al sistema europeo della moneta unica da parte dei singoli stati europei al rispetto dei principi di convergenza ed ha fissato le regole in modo abbastanza netto. In particolare, per quanto riguarda le grandezze dei conti pubblici, il trattato ha definito nel 3% del pil la misura massima dello squilibrio del bilancio annuale e nel 60% del pil la misura massima dello stock di debito pubblico.
Oltreché dal vincolo da osservare in sede di ingresso iniziale al sistema della moneta unica europea, il principio dell'equilibrio della finanza pubblica è stato rafforzato, a livello dell'Unione europea, dal patto di stabilità e sviluppo, messo a punto nel vertice europeo di Dublino nel dicembre 1996 e definitivamente approvato nel giugno 1997. Questo prevede l'obbligo degli stati che partecipano alla terza fase di attuazione del sistema europeo di moneta unica (quella, appunto, che stiamo realizzando) di perseguire l'obiettivo di medio periodo di bilanci pubblici in pareggio o addirittura in attivo. Nel 1998 Ecofin ha interpretato il patto di stabilità nel senso che il medio periodo deve intendersi fissato al 2002. Ogni stato partecipante al sistema deve sottoporre annualmente al Consiglio e alla Commissione un "programma di stabilità e di sviluppo" nel quadro di un meccanismo di sorveglianza multilaterale. L'inosservanza del vincolo di equilibrio dei bilanci pubblici comporta sanzioni pecuniarie per lo stato deviante.


La necessità di consistenti misure di risanamento della finanza pubblica italiana è emersa dal confronto dei criteri di convergenza fissati dal trattato di Maastricht e le condizioni reali della finanza pubblica stessa degli anni 1991-1992.
Le dimensioni degli squilibri annuali appaiono assai elevate. Nel 1991 il fabbisogno del settore statale è stato di 148.539 miliardi di lire, pari al 10,41% del pil, mentre nel 1992 lo stesso fabbisogno è salito a 162.779 miliardi, pari al 10,86% del pil. Se ci si riferisce all'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche (1) , che è il valore preso in considerazione dall'Unione europea ai fini del rispetto dei requisiti di convergenza fissati dal trattato di Maastricht, questo è stato, nel 1992 di 143.654 miliardi di lire, pari al 9,56% del pil, cioè oltre tre volte il vincolo di convergenza.
Lo stock del debito pubblico, inoltre, era assai elevato: alla fine del 1992 il debito dell'aggregato amministrazioni pubbliche era di 1.630.198 miliardi di lire pari al 108,50% in termini di pil (quasi il doppio del limite di convergenza fissato dal trattato di Maastricht) ed era in fase di incontrollabile espansione.
Un certo grado di disordine della finanza pubblica emergeva anche dal fatto che una gran parte del fabbisogno annuale (29,23%) era finanziata con emissione di titoli a breve termine (bot) e che il Tesoro faceva anche ricorso, seppur in misura non elevata, al finanziamento monetario (realizzato con emissione di nuova base monetaria da parte della Banca d'Italia) del fabbisogno stesso.


Il Governo ha posto mano al risanamento, con urgenti ma razionali misure, nel 1992. Oltre ad alcuni provvedimenti approvati in estate e diretti a fronteggiare immediate esigenze finanziarie, il Parlamento adottava, su iniziativa governativa, la l. 23 ottobre 1992, n. 421, che disponeva una delega al Governo per quattro decreti legislativi diretti a correggere l'assetto di quattro settori chiave della vita amministrativa e finanziaria della compagine statale.
I quattro settori erano quelli dell'organizzazione amministrativa, della previdenza, della finanza locale e della sanità pubblica. La delega era accompagnata dalla fissazione accurata e minuziosa di criteri, in modo tale da richiedere l'introduzione di normative assai innovative rispetto alla situazione preesistente. Obiettivo era quello di dare inizio alla costruzione di un volto nuovo dell'amministrazione pubblica italiana.
La delega venne utilizzata con molta celerità con l'adozione, fra la fine del 1992 ed il febbraio 1993, di quattro decreti legislativi. In materia di organizzazione amministrativa, il Dpr n. 29 del 1993 ha portato nell'ambito del diritto comune la disciplina del rapporto di impiego con le amministrazioni pubbliche, ha introdotto nuovi criteri di efficienza ed economicità nella gestione pubblica ed infine ha innovato fortemente in tema di posizione della dirigenza pubblica. In materia di sanità pubblica, il Dpr n. 502 del 30 dicembre 1992 ha disposto il riordinamento del servizio sanitario nazionale; in particolare le unità sanitarie locali sono state trasformate in aziende con organizzazione più razionale e maggiore autonomia. In materia previdenziale, il Dpr n. 503 del 30 dicembre 1992 ha introdotto alcuni primi (ancor timidi) correttivi del sistema pensionistico con nuovi limiti per le pensioni di anzianità ed un inizio di applicazione del sistema contributivo. Infine, in materia di finanza locale, il Dpr n. 504 sempre del 30.12.1992, ha rafforzato l'autonomia degli enti territoriali minori ed ha istituito uno speciale tributo, l'ICI, il cui gettito è andato a rafforzare le risorse disponibili per gli enti stessi.
Questi interventi legislativi costituivano un disegno in qualche modo coerente e armonioso e formavano la base normativa di una manovra finanziaria, quella presentata nel DPEF del 1992 per il 1993, che venne definita "la madre di tutte le manovre" in quanto comportava una correzione complessiva del fabbisogno pubblico di 93.000 miliardi di lire.
Altre premesse di risanamento venivano poste con due leggi certamente rilevanti nel panorama della finanza pubblica italiana. Con la legge 26 novembre 1993, n. 483 veniva introdotta una nuova disciplina dei rapporti fra il Tesoro e la Banca d'Italia ed il nucleo di tale disciplina è stato il divieto per la Banca d'Italia di finanziare con la creazione di base monetaria il fabbisogno del Tesoro. Da tale momento esiste, per il Tesoro, il vincolo giuridico di reperire tutto il finanziamento del fabbisogno sul mercato monetario o finanziario mediante emissioni di titoli del debito pubblico. Con altra legge, la 27 ottobre 1993, n. 432, è stato istituito il Fondo di ammortamento dei titoli di Stato cui per legge devono affluire tutte le risorse finanziarie provenienti dalla dismissione dei beni pubblici e dalla privatizzazione di imprese pubbliche. Il fondo è amministrato da una speciale unità operativa presso il Tesoro e deve essere impiegato nell'acquisto e cancellazione di titoli del debito pubblico.
Con la creazione del fondo le autorità di politica economica hanno voluto sancire in termini normativi la regola che i proventi da cessione dei beni capitali non possono essere destinati a coprire oneri di spesa di qualsiasi tipo ma devono essere impiegati per la riduzione dell'indebitamento dell'azienda-stato.
Il triennio 1993-1995 è stato caratterizzato da alcuni primi risultati. Sia il fabbisogno del settore statale che l'indebitamento delle amministrazioni pubbliche hanno subìto una progressiva correzione. Nell'esercizio 1995, il primo si è assestato a 127.767 miliardi pari al 7,21% del pil, mentre il secondo è calato a 123.263 miliardi pari al 6,96% del pil. Nel 1995, inoltre, si è verificata la prima inversione della tendenza alla crescita del rapporto fra il debito pubblico e il pil. Il debito dell'aggregato amministrazioni pubbliche è sceso dal 124,93% del pil al 124,37% del pil.


Nell'esercizio 1996 il processo di risanamento, pur così ben impostato, ha subìto una fase di assestamento. Per una serie di motivi complessi, infatti, i risultati sono stati assai inferiori alle previsioni formulate nei documenti programmatici. In particolare, il fabbisogno si è attestato sull'importo 132.033 miliardi di lire, pari al 7,05% del pil. L'indebitamento netto dell'aggregato amministrazioni pubbliche è stato di 123.090 pari al 6,74 % del pil.
La cause del rallentamento del processo di rientro nel 1996 sono complesse. Sono da segnalare, fra le ragioni del fallimento delle previsioni di riequilibrio del bilancio, la caduta del tasso di crescita dell'economia italiana, che ha causato una riduzione delle entrate fiscali, e la lievitazione delle spese per interessi che hanno nettamente superato i limiti previsti dai documenti programmatori. In linea generale, l'azione di risanamento della finanza pubblica è sembrata meno incisiva, soprattutto sul piano delle entrate. Negli esercizi precedenti si era fatto molto per correggere l'andamento delle grandi variabili del bilancio e forse era da scontare una certa attenuazione della spinta al miglioramento dei conti pubblici.


Le prime indicazioni programmatiche per il 1997 non prevedevano l'immediata riduzione del deficit di bilancio. Il DPEF del luglio 1996, infatti, stabiliva l'obiettivo della riduzione dello squilibrio del conto delle amministrazioni pubbliche alla misura del 4,5% del pil. Nell'autunno del 1996, in sede di relazione previsionale e programmatica per ragioni di politica generale oltreché di politica di bilancio, l'orientamento politico veniva mutato e si aggiustava l'obiettivo con la previsione del conseguimento, per il deficit annuale, del limite fissato nel trattato di Maastricht, cioè al 3% del pil. La relazione previsionale e programmatica dell'autunno 1996 prevedeva, infatti, una manovra di riduzione del deficit annuale per 64.000 miliardi, che avrebbe dovuto portare l'indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni a 59.000 miliardi, cioè al di sotto del limite del 3% del pil. Il Governo ha operato la scelta di presentarsi alla data del 1° maggio 1998, fissata per il Consiglio dei Ministri che avrebbe dovuto deliberare sull'ammissione fin dalla fase iniziale al sistema europeo della moneta unica, con i conti in ordine.
La manovra di bilancio per il 1997 è stata assai complessa ed affidata a tre documenti giuridici. Un corposo provvedimento collegato alla legge finanziaria, la legge 23 dicembre 1996, n. 662 (composto di tre articoli per quasi 700 commi) è stato seguito da un provvedimento di urgenza, il d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, anch'esso assai consistente. Rilevati alcuni scostamenti rispetto agli obiettivi, il Governo adottava altro provvedimento di urgenza, il decreto-legge 28 marzo 1997, n. 29, convertito con legge 28 maggio 1997, n. 140.
La manovra si articolava in una serie di interventi sulle entrate e sulle spese di bilancio. Notevole, a questo riguardo, era lo sforzo imposto alla collettività per il pagamento di aggravi fiscali. L'intervento sul bilancio era poi accompagnato da manovre di tesoreria, cioè di azioni dirette ad agire sui soli flussi di cassa dello Stato e di altri enti del settore pubblico. Non mancavano, infine, espedienti che la scienza delle finanze definisce di window dressing cioè di presentazione di dati finanziari in modo più rispondente alle esigenze di dimostrare un risultato. Per fare un esempio negli anni 1995 e 1996 sono stati emessi titoli del debito pubblico a cedola zero e di breve durata (due o tre anni) definiti CTZ. Questi titoli sono emessi ad un valore inferiore alla pari - ad esempio a 90 lire per ogni 100 di valore nominale - e dopo tre anni viene rimborsato al sottoscrittore l'intero valore nominale del titolo, sicché l'interesse complessivo triennale è dato dalla differenza fra il valore di emissione ed il valore nominale. L'intero ammontare dell'interesse biennale o triennale dei CTZ figura nell'anno di scadenza - ad esempio 1999 - mentre il totale degli interessi dovrebbe essere suddiviso negli esercizi compresi nel periodo di durata del titolo.


L'andamento dei dati di finanza pubblica durante l'anno evidenziava la realizzazione dell'obiettivo perseguito dal Governo. Addirittura era evidente, negli ultimi mesi, che i risultati era anche superiori alle previsioni. La tabella n. 1 evidenzia l'andamento del fabbisogno del settore statale dal 1990 al 1998, mentre la tabella n. 2 riporta l'andamento mese per mese del fabbisogno del settore statale nel 1997. Nella prima colonna sono evidenziati i fabbisogni mensili (con il segno – gli squilibri in negativo e con il segno + gli avanzi) mentre nella seconda colonna sono riportati i risultati complessivi. Dai dati riportati emerge che il fabbisogno del settore statale è stato costantemente sotto controllo per tutto l'anno. Dopo il risultato attivo del mese di gennaio, i successivi quattro mesi hanno visto costanti risultati mensili negativi che hanno portato il fabbisogno complessivo (dopo maggio) a 54.800 miliardi. Il saldo attivo di giugno, derivante dagli incassi dell'autotassazione, ha poi corretto il fabbisogno. I saldi mensili negativi hanno poi riportato in negativo il fabbisogno fino ad oltre 78.000 miliardi, mentre il saldo positivo di dicembre (anche questo scaturente dall'accelerazione delle entrate tributarie) ha portato il risultato complessivo del fabbisogno annuale per il 1997 a 52.664 miliardi di lire, pari all'incirca al 2,7% del pil.
Un'attenta considerazione del conto economico delle amministrazioni pubbliche per il 1997, riportato nella tabella n. 3, mette in luce la portata dell'intervento sui conti pubblici per il 1997 ed i principali fattori di successo dell'amministrazione pubblica italiana.
Emerge che tre fattori sono stati fondamentali nella realizzazione del risultato del contenimento dell'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche nel 1997. Il primo è la leva fiscale: l'ammontare delle entrate tributarie (intese in senso lato cioè comprensive delle imposte dirette, delle imposte indirette e dei contributi sociali) è cresciuto dal 1996 al 1997 da 788.603 miliardi a 855.135 miliardi di lire, cioè dell'8,43 %. Il secondo è la riduzione dell'ammontare degli interessi passivi da 202.352 miliardi di lire a 179.358 miliardi, con una riduzione dell'11,36%. L'apparato pubblico, infine, ha realizzato un contenimento delle spese di investimento che sono la categoria più suscettibile di manovra annuale e di rinvio. Le spese in conto capitale sono scese da 74.705 miliardi di lire a 68.025 miliardi con una riduzione dell'8,84%. Il resto della manovra non ha fortemente modificato la situazione del 1996.
Sotto il profilo della consistenza del debito pubblico, l'Italia non si è portata certamente al di sotto del limite di convergenza fissato nel trattato di Maastricht, ma ha evidenziato una costante riduzione del rapporto debito /pil. Questo è infatti passato dal 125,3% nel 1995, al 124,6% del 1996 e al 122,4% nel 1997. Si tratta pur sempre di valori molto alti, che denotano una situazione debitoria ai confini dell'emergenza ed in ogni caso assai pesante. Ma, in ogni caso, si è verificato quello stabile processo di rientro che è valso a giustificare l'entrata dell'Italia nella prima fase del sistema di moneta unica europea. Non pochi passi avanti sono stati fatti, pur in una situazione non del tutto stabilizzata, anche per le modalità di copertura dato che il Tesoro è riuscito a spostare stabilmente gli strumenti di copertura sui titoli a medio-lungo termine. I buoni ordinari del Tesoro, che costituivano ancora nel 1992 il 35% dello stock di debito pubblico esistente, alla fine del 1997 erano pari a poco più del 15% dello stesso debito pubblico.
Con questi risultati, l'Italia, in sede di riunione del Consiglio dei ministri dell'Unione europea del 1° maggio 1998 è stata dichiarata idonea a partecipare fin dall'inizio al sistema europeo di moneta unica.
Nel 1998 l'azione di risanamento è proseguita con caratteristiche simili a quella del 1997. I risultati sono stati abbastanza soddisfacenti anche se il fabbisogno del settore statale è abbastanza cresciuto, fino a 58.523 miliardi di lire pari al 2,9% del pil. L'indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche è cresciuto di meno e si è attestato su 54.330 miliardi di lire pari al 2,64% del pil.
Anche nel 1998 è proseguita la riduzione del peso degli interessi passivi il cui onere è sceso a 152.609 miliardi di lire con una riduzione del 14,91% rispetto all'anno precedente, mentre è rimasta elevata la pressione fiscale complessiva di 867.925 miliardi di lire pari al 42,18% del pil. Nel 1998 il rapporto fra il debito pubblico ed il pil ha subito una riduzione dal 122,4 al 118,7.











Le vicende del risanamento della finanza pubblica costituiscono certamente un fenomeno di carattere economico-finanziario di vasta portata che è destinato a richiamare l'attenzione dei cultori di storia dell'economia del futuro. Ma si tratta anche di un fatto di amministrazione pubblica assai rilevante che si snoda attraverso una serie di aspetti che coinvolgono tutta la pubblica amministrazione compresi i servizi di pubblica sicurezza ed i servizi di intelligence.
Correggere le tendenze ed i flussi della finanza pubblica, infatti, ha comportato decisioni finanziarie di taglio di spese e di maggiori sacrifici dei cittadini in termini di oneri fiscali, di maggiori prestazioni per i servizi pubblici e riduzioni del volume dei servizi stessi. Ma è stato anche necessario apportare sostanziali cambiamenti di alcuni dei principi sui quali si reggono sia la pubblica amministrazione che l'ordinamento amministrativo nel suo complesso. Si è trattato di un processo di riforma e di trasformazione che è ancora in atto in quanto comporta modificazioni non realizzabili nel breve periodo e richiede una serie di aggiustamenti di comportamento e di metodo da completare soltanto nel medio-lungo termine.


E' stata, in primo luogo, modificata la concezione di fondo della pubblica amministrazione e della sua organizzazione. Fino al 1990 la pubblica amministrazione italiana si reggeva in larga parte sul principio di legalità dell'azione amministrativa. Era, in altri termini, fondamentale la garanzia che gli atti dell'amministrazione fossero conformi ai principi di legge. L'attività della pubblica amministrazione si articolava in una figura tipica del diritto pubblico (l'atto amministrativo); le norme prendevano in considerazione l'atto amministrativo isolatamente considerato; erano previsti una serie di controlli di carattere preventivo, aventi in genere per oggetto i singoli atti amministrativi e per criterio la verifica dell'osservanza del criterio di legittimità. La pubblica amministrazione, inoltre, non disponeva di una dirigenza vera e propria, cioè di un corpo di funzionari indipendenti dal potere politico e autonomamente responsabili della gestione e dei suoi risultati.
Oggi, dopo una serie di norme che hanno inciso fortemente sulle organizzazioni amministrative, la situazione è radicalmente cambiata.
I principi che la legge pone al vertice del sistema giuridico-amministrativo sono quelli dell'efficacia, dell'efficienza, dell'economicità e dello snellimento. L'azione delle pubbliche amministrazioni deve realizzarsi con il massimo risultato nell'impiego di risorse date o comportare il minimo impiego di risorse per risultati definiti; deve inoltre conseguire i risultati con tempestività e riduzione degli adempimenti procedimentali o documentali che rendono farraginosa ed intempestiva l'azione pubblica.
La legislazione di questi ultimi anni, soprattutto con il D.P.R. n. 29/1993, aggiornato e modificato da una serie molto estesa di norme, ha modificato l'approccio all'amministrazione e le stesse concezioni di fondo su cui si reggono le amministrazioni.
Innanzitutto la legge ha iniziato da pochi anni a prendere in considerazione non tanto il singolo atto amministrativo, con le sue problematiche di conformità alle leggi, ma l'attività amministrativa nel suo complesso, fatta non solo di atti giuridici ma anche di operazioni ed altri adempimenti. Tale attività amministrativa viene valutata da una diversa prospettiva in quanto la legge sposta l'attenzione sui risultati da conseguire.
Conseguenza degli sviluppi delineati è che l'attività deve ispirarsi a criteri di rigorosa pianificazione degli obiettivi da conseguire, degli strumenti da utilizzare, dei tempi di realizzazione e delle verifiche in itinere e finali per assicurare l'osservanza di questi parametri.


Altra conseguenza delle riforme in via di progressiva realizzazione è la "riscoperta" dell'organizzazione nell'ambito dei fatti amministrativi. Fino a circa un decennio fa il diritto amministrativo era incentrato nella disciplina degli atti e nella regolamentazione dei rapporti mentre raramente l'organizzazione acquisiva rilevanza. Quest'ultimo fenomeno era studiato, soltanto a livello accademico, dalla scienza dell'amministrazione.
Nel modello di pubblica amministrazione che si va costruendo il fatto organizzativo assume rilevanza specifica ed è preso in considerazione in via autonoma dalle norme. Queste ultime, infatti, conferiscono poteri organizzativi e specificano sia i criteri che devono presiedere alle organizzazioni pubbliche sia gli obiettivi. Ad esempio l'art. 4, primo comma, del D.P.R. n. 29 del 1993 prevede che le pubbliche amministrazioni abbiano il potere-dovere di assumere determinazioni per l'organizzazione degli uffici e che tale potere vada esercitato "al fine di assicurare l'economicità, la speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell'azione amministrativa".
Si tratta dei principi di articolazione degli uffici per funzione; di collegamento degli uffici attraverso metodologie di comunicazione interna; di trasparenza; di armonizzazione degli orari di servizio, di responsabilità e collaborazione di tutto il personale; di flessibilità dell'organizzazione degli uffici.
Molte leggi collegate alla finanziaria contengono altre norme sull'organizzazione e la struttura. E' anche avvenuto che leggi collegate abbiano disposto l'eliminazione di strutture amministrative inutili o superate dai tempi.


Tutto il sistema amministrativo è imperniato sulla figura del dirigente, cui sono affidati compiti di gestione delle risorse e quindi il potere di organizzazione dei complessi elementi che compongono gli apparati amministrativi. Inoltre la legge ha introdotto il principio della separazione fra politica e amministrazione. La politica attiene alla definizione degli indirizzi dell'attività amministrativa e degli obiettivi da conseguire. All'autorità politica spetta, quindi, un potere generale limitato ai grandi criteri dell'azione ed il potere strumentale di controllare se gli obiettivi sono stati conseguiti. Ai dirigenti, invece, è conferito il potere di porre in essere, in piena autonomia, la gestione delle risorse finanziarie, materiali ed umane, a disposizione dell'amministrazione. I dirigenti sono anche competenti in ordine all'adozione degli atti organizzativi dell'amministrazione. Essi sono responsabili principalmente del conseguimento dei risultati con una verifica in base agli obiettivi loro prefissati.
E' significativo, a questo riguardo, il contenuto dell'art. 20 del D.P.R. 29, in forza del quale i dirigenti "sono responsabili del risultato dell'attività svolta dagli uffici ai quali sono preposti, della realizzazione dei programmi e dei progetti loro affidati in relazione agli obiettivi dei rendimenti e dei risultati della gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa". Questa norma stabilisce anche che l'inosservanza delle direttive degli organi politici e soprattutto i risultati negativi della gestione sono sanzionati. Essi possono comportare sia il collocamento a disposizione per la durata massima di un anno che, in casi di responsabilità grave o reiterata, il collocamento a riposo. La nuova disciplina della dirigenza ha, in sostanza, introdotto accanto alle tradizionali responsabilità penale, disciplinare ed amministrativa una nuova responsabilità per non conseguimento dei risultati.


Conseguenza strettissima delle trasformazioni finora descritte è il nuovo regime dei controlli, introdotto con la normativa sulle attività e competenza della Corte dei conti, sviluppatosi con la normativa sui controlli sugli enti periferici ed infine completato nel quadro generale dal recente D.P.R. 30 luglio 1999, n. 286 che reca l'intestazione "Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell'attività svolta dalle amministrazioni pubbliche". Quest'ultima fonte ha introdotto alcuni principi generali in materia di controlli.
Sono superati e rimangono limitati ad un esiguo numero di atti amministrativi generali e di massimo rilievo i controlli preventivi di legittimità. La legge sposta l'accento sui controlli successivi aventi per fine quello di valutare efficienza e tempestività dell'azione amministrativa, contenimento dei costi e razionale utilizzo delle risorse.
In particolare la l. 14 gennaio 1994, n. 20 prevede all'art. 3 che la Corte dei conti svolga, anche in corso di esercizio, il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche verificando non soltanto la legittimità e regolarità della gestione, ma anche la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dell'azione amministrativa. Entra nel nostro ordinamento amministrativo il controllo di gestione come sistema di processi che realizzano una valutazione continua del grado di conseguimento degli obiettivi posti all'amministrazione in modo tempestivo ed efficiente al fine di consentire interventi concomitanti diretti a correggere l'azione amministrativa al fine di evitare deviazioni, sprechi e disfunzioni. Il controllo di gestione è regolamentato dal recentissimo DPR, n. 286/1999 sui controlli che stabilisce l'obbligo di tutte le amministrazioni pubbliche di dotarsi delle adeguate strutture per espletare queste nuove metodologie di valutazione dell'attività amministrativa.


Ultima conseguenza della profonda trasformazione organizzativa e giuridica delle nostre pubbliche amministrazioni è la nuova normativa sul bilancio dello Stato, normativa che dovrà ispirare anche l'ordinamento contabile degli altri enti pubblici di carattere centrale e periferico. Con l'entrata in vigore della legge 3 aprile 1997, n. 94, integrata dal D.P.R. 7 agosto 1997 n. 279, il bilancio dello Stato dovrebbe essere trasformato, per quanto riguarda la sua struttura, in uno strumento manageriale. Ai vecchi strumenti di classificazione delle entrate e delle spese, basi della concezione della macroeconomia keynesiana, sono state sostituite voci di classificazione impostate sulla base dei centri amministrativi dell'entrata e della spesa e sugli obiettivi perseguiti dall'amministrazione. L'unità fondamentale del bilancio statale presentato al Parlamento ed approvato da quest'ultimo non è più il capitolo ma l'unità previsionale di base articolata sulle strutture dirigenziali competenti a decidere sulle entrate e sulle spese e responsabili dei risultati della gestione. Spetta, poi, al Ministro per il Tesoro il potere-dovere di suddividere le unità previsionali di base in capitoli secondo una classificazione interna amministrativa che non assume forza di legge.
Assumono, infine, una precipua rilevanza nella classificazione del bilancio dello Stato le funzioni - obiettivo che sono voci caratterizzate dall'elemento funzionale degli interventi di spesa.

L'azione di correzione degli squilibri finanziari pubblici ha poi comportato il ripensamento dei confini fra pubblico e privato nell'economia e nel diritto pubblico. Fino agli anni '80 nel sistema economico italiano sono state progettate e realizzate una serie di nazionalizzazioni di imprese che hanno spostato verso l'area pubblica la proprietà di oltre il 50% delle imprese operanti nel paese. Inoltre, sulla base delle concezioni politiche prevalenti, altre vaste aree della vita sociale sono state sottoposte a poteri di decisione diretta dell'apparato pubblico, in gran parte centrale. L'estensione dell'area della proprietà pubblica delle imprese ha comportato forti oneri finanziari per i bilanci pubblici sia in termini di spese di capitale che di spese correnti per il ripianamento delle perdite annuali di gestione, spesso assai consistenti.
Il risanamento ha richiesto la cessione sul mercato di molte imprese pubbliche attraverso procedure di privatizzazione. E' anche entrato nel nostro ordinamento positivo il principio di sussidiarietà (operante anche nei rapporti fra amministrazioni centrali ed enti periferici) che vieta all'operatore pubblico di agire in settori dove il privato è in grado di svolgere con adeguato livello di efficienza l'attività di produzione di beni o servizi.
In sostanza, ad un modello di Stato in cui la proprietà pubblica è dominante ed in cui l'amministrazione pubblica opera prevalentemente come titolare di poteri di proprietà o di gestione diretta si va sostituendo un modello in cui l'amministrazione pubblica opera prevalentemente come titolare di poteri di controllo o di coordinamento.
In questa prospettiva, gli strumenti di politica economica stanno divenendo sempre più sofisticati e complessi. Fino a qualche decennio fa le autorità di politica economica potevano manovrare le leve della proprietà di grandi imprese pubbliche o in ogni caso potevano giovarsi di poteri coattivi di decisione su fatti economici fondamentali. Oggi l'azione di politica economica si avvale di poteri di controllo o di coordinamento che raramente si estrinsecano in atti cogenti e deve utilizzare strumenti di intervento indiretto sulle vicende economiche. Si stanno, infatti, inserendo nel sistema del diritto amministrativo non poche autorità indipendenti che sono organi statali autonomi cui è affidata la cura di interessi pubblici di governo di settori economici prevalentemente attraverso interventi indiretti e di carattere non cogente.


Ultimo punto da rilevare, seppur con un breve cenno, è il processo, ancora in atto, di profonda correzione delle strutture e delle regole giuridiche che presiedono, nel nostro paese, a quello che è stato sinteticamente definito "stato sociale".
Queste si riconducono alla teoria politico-economica dell'Economia del benessere. Secondo questa metodologia, che ha preso le mosse con opere scientifiche dei primi anni '20, fine primario degli interventi di politica economica è quello di accrescere il benessere della collettività, benessere composto dalla sommatoria del benessere di tutti i componenti della collettività stessa. L'economia del benessere ha sostenuto l'opportunità di vaste politiche di redistribuzione delle risorse con elevata imposizione fiscale ed alte spese di carattere sociale, nel presupposto che la soddisfazione derivante dall'uso delle risorse economiche trasferite fosse più elevata nei destinatari più poveri rispetto alla soddisfazione sottratta, con l'imposizione fiscale, ai più abbienti.
L'economia del benessere ha fortemente influito sulla prima parte della Costituzione del 1948 che conferisce una serie di diritti economico-sociali a tutti i cittadini. Dopo alcuni decenni di rigore finanziario e di rinvii nell'attuazione delle riforme sociali, dall'inizio degli anni '70 la classe politica italiana ha realizzato una serie di riforme per realizzare appieno la Costituzione e costruire un sistema economico e finanziario diretto a far conseguire parità sostanziale di diritti fra i cittadini ed a rendere tutti i beni pubblici accessibili ad aree sempre più vaste della popolazione.
Purtroppo questo sistema ha avuto il difetto di essere costoso in termini di risorse finanziarie pubbliche, anche perché, edificato con molta ideologia e con una certa dose di idee utopiche, non si è basato su solidi presupposti di strutture amministrative e finanziarie adeguate. Proprio questo tipo di Welfare state degli anni '70 e '80, un po' frettoloso ed approssimativo, ha contribuito notevolmente a mettere in crisi la finanza pubblica italiana. Per questi motivi, oltre che razionalizzare e rendere efficiente l'amministrazione, è necessario adottare una serie di correttivi al sistema di protezione sociale. I correttivi toccano l'assetto dell'apparato pensionistico e di quello della sanità pubblica. Per la previdenza in particolare, è importante ricordare che la spesa pubblica pensionistica nel sistema economico italiano è pari al 15% del pil, mentre dovrebbe essere portata all'11-11,5%. Si tratta, peraltro, di riforme ancora in atto per le quali non sono state adottate decisioni definitive.


Il risanamento della finanza pubblica italiana non è soltanto un fatto economico-finanziario e non è un processo del tutto compiuto. Esso ha comportato l'adozione di misure destinate ad incidere notevolmente sulle strutture amministrative, sulle norme, e sulla stessa concezione di fondo della pubblica amministrazione. Si tratta di una trasformazione che è stata impostata ma che richiederà una stabilizzazione di effetti sul medio-lungo periodo.
Sotto il profilo finanziario, va operato un serio consolidamento. La correzione dei conti pubblici del 1997-98 si basa ancora su una pressione tributaria molto elevata, sulla riduzione delle spese per interessi passivi e sul dosaggio delle spese per investimenti. Si tratta di fatti per molti versi contingenti in quanto le future dinamiche dei tassi in Europa potrebbero di nuovo elevare l'onere degli interessi, la pressione tributaria è pervenuta a limiti non sostenibili a lungo ed infine la nostra economia richiede una ripresa di investimenti pubblici essenziali per lo sviluppo dei servizi pubblici. Occorrerà, invece, procedere ad azioni di controllo sostanziale sulla spesa. V'è anche il problema dell'ammontare dello stock di debito pubblico che, nonostante le recenti riduzioni, è ancora assai elevato in termini assoluti ed in termini di rapporto al pil. Esistono piani del Ministero del Tesoro del bilancio e della programmazione economica per una riduzione al limite di convergenza del 60% del pil in un numero definito di anni ma trattasi di documenti molto ottimisti e da valutare con molta cautela.
Il cambiamento disposto con le tante leggi adottate in questi ultimi tre-quattro anni è in molti casi soltanto estrinseco e formale, fatto di solenni affermazioni normative e di proposizioni ripetute nei convegni scientifici, nelle tavole rotonde e nei programmi pubblici. Far entrare definitivamente nel concreto le nuove idee richiede il superamento di molte resistenze inerziali che ancora toccano le basi del paese.
Le riforme normative, inoltre, non sono agevoli. Il nostro sistema è basato su migliaia di testi normativi. Questi hanno formato oggetto, negli ultimi anni, di molti interventi di riforma dettati da esigenze contingenti di correzione finanziaria e troppo spesso caratterizzati dall'episodico e dal contingente. Manca troppo spesso una visione strategica dei fini e degli strumenti e quindi si rileva una carenza di fondo di chiare idee. Il contenuto di norme che si susseguono anche vicine nel tempo, è talora contraddittorio ed incerto.
Tutto questo si è verificato perché il legislatore e l'autorità politica sono stati mossi dall'esigenza di correggere i flussi finanziari rapidamente ed incisivamente. Certo è che l'amministrazione pubblica si trova ancora in un difficile guado in cui v'è incertezza giuridica. La sfida del nuovo secolo e del nuovo millennio sarà proprio un passaggio stabile e definitivo ad un'amministrazione ordinata ed efficiente.


Arcelli M., Il rientro del debito pubblico (Economia italiana, 1998, gennaio-aprile, 11-43).
Banca d'Italia, La manovra di bilancio per il 1997 (Bollettino economico, 1996, n. 28, feb. 1997, 78-79).
Barucci P., L 'isola italiana del Tesoro - Ricordi di un naufragio evitato, 1992-94, Rizzoli, Milano, 1995.
Bernardi L. (a cura di), La finanza pubblica italiana, rapporto 1977, Il Mulino, Bologna, 1997.
Bernardi L. (a cura di), La finanza pubblica in Italia, rapporto 1998, Il Mulino, Bologna, 1998.
Kenen P, Economic and Monetary Union in Europe, Moving Beyond Maastricht, Cambridge U.P., Cambridge, 1995.
Giannini S., Osculati F. (a cura di), La finanza pubblica dall'aggiustamento degli anni '90 alle riforme per l'unione monetaria, Franco Angeli, Milano, 1998.
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Salvemini M.T., Riforma dell'amministrazione e riduzione del disavanzo nella politica di bilancio del governo Ciampi (Politica economica, 1995, 1, 3-12).
Zaccaria F., Conti pubblici: analisi di un risanamento difficile, Il Mulino, Bologna, 1998.


(1) E' utile ricordare il significato di alcuni concetti di finanza pubblica che vengono utilizzati nel testo.
E' settore statale l'aggregato più ristretto composto dallo Stato (gestione di bilancio e gestione di tesoreria), dalla Cassa Depositi e Prestiti e dalle due aziende autonome ancora in funzione, quella delle foreste demaniali e quella delle strade. Il settore statale è caratterizzato dalla circostanza che gli organismi pubblici ad esso appartenenti si servono direttamente dei servizi del Tesoro per la loro gestione di cassa. Per il settore statale rileva il fabbisogno che è un semplice saldo fra flussi di cassa in entrata e flussi di cassa in uscita. Se questi ultimi superano le entrate, si forma un vuoto che va colmato con il ricorso al mercato monetario e finanziario. E questo vuoto è appunto il fabbisogno. Il fabbisogno è rilevato dal Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica.
L'aggregato delle amministrazioni pubbliche è caratterizzato da un fatto finanziario e politico economico. Ad esso appartengono, infatti, tutti gli organismi pubblici che non vendono i loro prodotti sul mercato ma che si finanziano con entrate di diritto pubblico o provenienti dalla finanza statale complessiva. Appartiene, ad esempio, all'aggregato amministrazioni pubbliche una provincia che è finanziata prevalentemente con il gettito di tributi propri e con trasferimenti statali; non vi appartiene, ancorché possa essere giuridicamente definito pubblico, un ente idroviario che riesce a finanziarsi con i proventi dei canoni e di altri corrispettivi dei servizi pagati dagli utenti.
Per le amministrazioni pubbliche rileva l'indebitamento netto, che è un saldo scaturente dalla contrapposizione di voci di carattere economico (si veda il conto economico alla tab. 3). L'indebitamento netto è rilevato dall'ISTAT sulla base di calcoli assai elaborati che prendono le mosse dal fabbisogno del settore statale e, attraverso successive integrazioni, pervengono ad un valore complessivo riferito ad un aggregato assai vasto.

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