a. I fatti
Nel settembre 1991, in occasione di attentati perpetrati da un'organizzazione terroristica straniera su obiettivi pertinenti alla relativa nazione e siti sul territorio italiano, il SISDe e la Polizia di Stato effettuarono, per quanto di rispettiva competenza, attività di intelligence e controllo nei confronti di un cittadino di quello Stato.
Nel gennaio 1997, a seguito di acquisizione di documentazione sull'operazione da parte della Procura di Roma, furono sottoposti a procedimento penale per i reati di violazione di domicilio e abusiva intercettazione (artt. 110, 614 e 617 bis c.p.) due funzionari di polizia e un funzionario del SISDe.
Nel corso delle indagini preliminari svolte dalla Procura di Roma fu opposto il segreto di Stato in due distinte occasioni: dal funzionario del SISDe, in sede di interrogatorio, e dal Direttore del SISDe in relazione ad un ordine di esibizione documentale dell'Autorità Giudiziaria.
Conseguentemente, ritualmente interpellato dall'Autorità Giudiziaria, il Presidente del Consiglio dei Ministri confermò entrambe le opposizioni.
In particolare, il segreto di Stato fu confermato al fine di mantenere il riserbo sulle modalità operative del servizio e sull'identità degli agenti, oltre che per difendere la credibilità del servizio stesso nell'ambito internazionale.
In tal senso, in sede di controllo politico, si espresse anche il Comitato Parlamentare per i Servizi di Informazione e Sicurezza, che ritenne pienamente fondata la conferma del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.
A seguito di rilievo di incompetenza territoriale da parte della Procura di Roma, gli atti furono trasmessi alla Procura di Bologna che, benché espressamente informata dell'opposizione e conferma del segreto di Stato, avviò una serie di atti investigativi, primo tra i quali un ordine di esibizione rivolto alla Questura di Bologna. La suddetta Questura trasmise il carteggio richiesto, precisando che gli atti inviati erano coperti dal segreto di Stato.
La Procura di Bologna proseguì nelle indagini, orientandole nei confronti degli agenti che avevano partecipato all'operazione antiterrorismo ed acquisendo ulteriori elementi di conoscenza su specifiche circostanze ugualmente incise da segreto di Stato, tra cui anche il nominativo di altro dipendente del SISDe, rilevato dagli atti trasmessi dalla Questura di Bologna.
A tal punto, il Presidente del Consiglio, previa delibera del Consiglio dei Ministri adottata su proposta del Ministro dell'Interno, dava mandato all'Avvocatura Generale dello Stato di elevare conflitto di attribuzione, dinanzi alla Corte Costituzionale.
b. Il primo conflitto: le due opposte tesi e la sentenza
La difesa dello Stato esponeva nel proprio ricorso introduttivo che le attribuzioni costituzionali del Presidente del Consiglio, esplicantesi nell'esercizio dell'attività pubblica volta alla tutela della sicurezza dello Stato mediante l'opposizione del segreto, erano state lese dall'attività di indagine del pubblico ministero di Bologna, volta ad accertare fatti e ad acquisire notizie segretate al fine di esercitare un'azione penale improcedibile in presenza di un segreto di Stato. In proposito occorre tener presente che nell'ordinamento italiano l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero è considerata attività giurisdizionale.
Opponeva la Procura di Bologna, costituendosi in giudizio, che il segreto di Stato condiziona il potere giurisdizionale soltanto nei limiti in cui preclude una fonte di prova documentale o testimoniale. Il divieto di deporre su notizie coperte da segreto di Stato o di esibire atti o documenti da quello coperti si configurerebbe, quindi, come una prerogativa processuale di sottrarsi ad un obbligo di legge riconosciuta a categorie di soggetti tassativamente elencati (pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio e pubblici dipendenti). Il relativo divieto, essendo soggettivo, opererebbe solo ope exceptionis ed il giudice sarebbe, quindi, libero di utilizzare le notizie comunque acquisite al processo, ancorché coperte da segreto di Stato.
La difesa del Presidente del Consiglio sosteneva invece che l'astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato non è una facoltà ma un "obbligo" e che la segretazione attiene non già alla forma della notizia o alle sue modalità di acquisizione ma alla notizia in sé in quanto contenuto di conoscenza rappresentato da qualunque supporto mnemonico, cartaceo, simbolico o fattuale, così come reso palese anche dalla ridondante locuzione adottata dal legislatore nell'art. 12 della legge 24.10. 1977 n. 801: "sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività ed ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno alla integrità dello Stato democratico...". Locuzione che costituisce chiaro sinonimo di "qualunque fonte di notizia".
Riteneva di trovare conferma dell'assunto nel principio di strumentalità fra ampiezza del segreto e tutela dell'interesse al cui presidio quel segreto è previsto dall'ordinamento.
Sviluppava, in proposito, le seguenti argomentazioni.
"Il processo penale è, naturalmente, il terreno elettivo su cui deve saggiarsi la regola del rapporto trasparenza-segreto: se vi è settore pubblico in cui l'accertamento della verità deve trovare il minor numero di ostacoli possibile questo è proprio il processo penale ed in esso va applicata con il massimo rigore possibile la regola della strumentalità del segreto, cioè la regola secondo la quale il regime di differenziazione rispetto alla generalità dei casi è legittimo nei soli limiti in cui il segreto è necessario per la tutela dell'interesse alla cui protezione è preposto.
Difatti le limitazioni alla prova in funzione di segretezza possono dividersi in varie categorie, a seconda che attengano alle modalità di acquisizione della notizia, alla persona la cui testimonianza è fonte di prova o alla notizia in sé, coma thema probandum.
Un esempio tipico della prima categoria è la normativa sulle intercettazioni telefoniche, un esempio tipico della seconda il segreto professionale o del ministro di culto, un esempio della terza il segreto di Stato.
Inutile, naturalmente, in questa sede soffermarsi sulla problematica del se, come ed in che limiti possano nel processo penale utilizzarsi le notizie acquisite in violazione del segreto con riferimento alle prime due categorie ed alle varie ipotesi prospettabili.
Agli effetti del presente giudizio è, invece, sufficiente chiedersi se siano legittimamente acquisibili aliunde al processo le notizie segretate nelle varie ipotesi.
La risposta appare di evidente semplicità, avuto riguardo ai valori che il segreto mira rispettivamente a tutelare.
Nel primo caso tale valore è un diritto di libertà fondamentale, che non può essere limitato se non con determinate garanzie e modalità. La relativa lesione deriva dal modo di acquisizione della notizia e non dalla acquisizione della notizia in sé: la risposta non può dunque che essere positiva. Si pensi, ad esempio, ad un soggetto illegittimamente intercettato che abbia registrato la conversazione telefonica ed a cui venga legittimamente sequestrata la relativa bobina.
Lo stesso dicasi nel secondo caso, in cui il valore tutelato dal segreto è la confidenzialità di un rapporto: confidenzialità essenziale a consentire lo svolgimento di professioni che costituiscono servizi di pubblica necessità quali quelle del medico e dell'avvocato, ed essenziale per l'esplicazione di una libertà di credo religioso. E' ovvio, come, anche in tal caso, il segreto attenga non alla notizia in sé ma alla sua acquisizione per il tramite di una determinata persona. Nessuna coscienza, ovviamente, si sentirà turbata se sarà utilizzata in un processo la deposizione di un terzo che abbia accidentalmente appreso le notizie confidate al professionista o al confessore, rilevante essendo soltanto, ai fini del segreto, che la notizia non venga acquisita attraverso la deposizione del professionista o del confessore.
Lo stesso certo non può dirsi nel caso del segreto di Stato, caso in cui il valore tutelato dal regime differenziale di separazione è la integrità e la sicurezza dello Stato democratico, integrità e sicurezza che sarebbero messe in pericolo dalla diffusione di certe notizie. E il processo penale comporta ex se tale diffusione.
Oggetto del segreto, in questo caso, non è dunque né la fonte né la modalità di acquisizione ma, come si è detto, la notizia in sé in quanto thema probandum.".
Con
sentenza n. 110 del 26.6.98 la Corte Costituzionale, pur non condividendo in toto la tesi dell'Avvocatura dello Stato (le notizie, anche se segretate sono conoscibili e giudicabili se acquisite autonomamente) accoglieva il ricorso, annullando gli atti di indagine del pubblico ministero e la successiva richiesta di rinvio a giudizio. Confermava inoltre il principio già altre volte enunciato del segreto di Stato come limite alla funzione giurisdizionale.
Si riporta qui di seguito il più rilevante passaggio della motivazione.
"Sulla base di questi principi, e alla luce della disciplina vigente, che non delinea alcuna ipotesi di immunità sostanziale collegata all'attività dei servizi informativi, l'opposizione del segreto di Stato da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri non ha l'effetto di impedire che il pubblico ministero indaghi su fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in suo possesso, ed eserciti se del caso l'azione penale, ma ha l'effetto di inibire all'autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto.
Tale divieto riguarda l'utilizzazione degli atti e documenti coperti da segreto sia in via diretta, ai fini cioè di fondare su di essi l'esercizio dell'azione penale, sia in via indiretta, per trarne spunto ai fini di ulteriori atti di indagine, le cui eventuali risultanze sarebbero a loro volta viziate dall'illegittimità della loro origine".
c. Il secondo conflitto: le due opposte tesi e la sentenza
A seguito della sentenza di cui sopra, il Procuratore della Repubblica di Bologna, a cui gli atti erano stati restituiti dal G.I.P., reiterava la richiesta di rinvio a giudizio tal quale, limitandosi ad eliminare dalla richiesta stessa i riferimenti ai documenti trasmessi dalla Questura di Bologna e coperti da segreto di Stato, allegando però tali documenti alla richiesta di rinvio a giudizio, ed offrendoli alla relativa pubblicità.
Veniva quindi elevato nuovo conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale.
L'Avvocatura dello Stato sosteneva che, in ossequio alla precedente sentenza della Corte, il Procuratore della Repubblica avrebbe dovuto esaminare l'intero complesso degli atti di causa, espungendone materialmente - con restituzione ai legittimi depositari - quelli segretati, stralciando quelli viziati dal fatto di essere stati compiuti sulla base di fonti di prova coperte da segreto di Stato (quali ad esempio gli interrogatori degli imputati, cui erano stati contestati fatti emersi da documenti segreti) ed operando esclusivamente ex novo sulla base di fonti autonome di prova non coperte da segreto. Sempreché, naturalmente tali fonti esistessero e fossero sufficienti a fondare ulteriori indagini.
"Il vero è - così correva testualmente il ricorso - che, nel caso di specie, attesa la natura delle fonti di prova e la segretazione così come opposta, non appare sussistere alcun elemento indiziante autonomo rispetto alle fonti di prova coperte da segreto di Stato: un segreto che, in via diretta o indiretta, comporta, nella specie, per l'autorità giudiziaria l'impossibilità di procedere".
Il Procuratore della Repubblica di Bologna si costituiva in giudizio sostenendo che la produzione di tutta la documentazione rispondeva ad un obbligo di legge e che gli elementi di accusa erano stati acquisiti in base ad autonome indagini, parallele a quella svolta con l'acquisizione dei documenti segretati.
Con
sentenza n. 410 del 16.12.98 la Corte Costituzionale, ritenendo provato che la nuova richiesta di rinvio a giudizio si basava in via diretta o indiretta su fonti di prova acquisite in violazione del segreto di Stato, la annullava.
d. Il terzo conflitto e l'incidente di costituzionalità
A tal punto, il Procuratore della Repubblica di Bologna avanzava al G.I.P. richiesta di non doversi procedere corredata ancora di tutta la documentazione - segreta! - che già accompagnava le due precedenti richieste di rinvio a giudizio.
Tale richiesta, inoltre, si chiudeva con le seguenti espressioni:
"Purtroppo la Corte Costituzionale non indica esplicitamente quali siano i documenti provenienti dalla Questura di Bologna utilizzati nella seconda richiesta di rinvio a giudizio e ciò rende praticamente impossibile la loro eliminazione ed una nuova richiesta di rinvio a giudizio.
In tale situazione il Pubblico Ministero ritiene di essere obbligato a richiedere l'archiviazione dell'azione penale, pur non riuscendo a comprendere le ragioni di diritto sulle quali si fonda la sentenza della Corte Costituzionale e quindi non potendo condividerle".
Sulla base di tale richiesta il GIP di Bologna fissava l'udienza in camera di consiglio "ai sensi dell'art. 409, II comma c.p.p. a fini di ulteriori indagini o di imputazione coatta".
L'Avvocatura Generale dello Stato, su mandato del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa nuova delibera del Consiglio stesso, elevava due nuovi conflitti dinanzi alla Corte Costituzionale, contro il provvedimento del P.M. e quello del GIP.
Contro il primo si osservava quanto segue.
"Il Procuratore della Repubblica di Bologna, invece di restituire i documenti segretati ai legittimi detentori e di promuovere una richiesta di non doversi procedere motivata in spirito di leale collaborazione, con codesta Corte, con l'Esecutivo e con il G.I.P., ha, in realtà, nuovamente violato il segreto di Stato attentando alle prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri.
In particolare deve sottolinearsi che l'iniziativa della Procura di porre nella disponibilità del giudicante gli atti segretati in argomento, da un lato si è posta in contrasto con quanto ripetutamente statuito da codesta Corte Costituzionale con le decisioni nn. 110 e 410 del 1998, e, dall'altro, ha posto il G.I.P. nella posizione di delibare la citata richiesta di archiviazione sulla base di emergenze documentali di cui il GIP non avrebbe dovuto prendere cognizione.
Inoltre va sottolineato che seppure la Procura, nella richiesta di archiviazione, esprima una valutazione di sostanziale incomprensibilità della decisione n. 410/98 di codesta Corte Costituzionale, per un verso assume la pratica impossibilità di eliminare i documenti inutilizzabili e di richiedere un ulteriore rinvio a giudizio degli indagati, per altro verso del tutto ingiustificatamente versa nel fascicolo del G.I.P. tutta la documentazione comunque in suo possesso per richiedere l'archiviazione per l'esistenza di un segreto di Stato, così ponendo in essere un operato ambiguo e contraddittorio, atto ad ingenerare nel giudicante il convincimento della necessità di ulteriori accertamenti o di una "imputazione coatta".
In ogni caso il Procuratore della Repubblica ha offerto per la terza volta alla pubblicità dell'udienza - ed in particolare alla conoscibilità della parte lesa, che è sospettata, come è noto, di essere un pericoloso terrorista straniero - tutta la documentazione segreta".
Nei confronti del decreto del GIP si osservava che esso violava le prerogative del Governo in materia di segreto di Stato in quanto provvedimento:
- adottato sulla base di documenti coperti da segreto di Stato e quindi non conoscibili dal GIP;
- atto a pubblicizzare tali documenti, offrendoli in particolare alla conoscenza della parte lesa (sospettata di essere un pericolosissimo terrorista straniero);
- prodromico a due ulteriori attività giurisdizionali - ulteriori indagini o imputazione coatta - entrambe precluse da segreto che aveva ormai inficiato di nullità tutta l'indagine precedentemente svolta.
Successivamente il GIP di Bologna, a seguito dell'udienza tenuta, sollevava questione incidentale di costituzionalità dell'art. 256 c.p.p. (norma che esclude dalla testimonianza la notizia coperta da segreto di Stato) "nella parte in cui consente di opporre il segreto di Stato anche in relazione ad atti privi del connotato della segretezza in quanto già acquisiti al fascicolo processuale" per violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza, di indipendenza del giudice e di obbligatorietà dell'azione penale.
Ovvie ragioni di riserbo mi impongono di non commentare in alcun modo i tre ulteriori giudizi di costituzionalità attualmente pendenti a seguito delle più recenti iniziative della magistratura bolognese. Credo mi sia consentito però cercare di individuare la ragione di fondo di questa singolare querelle fra Potere giudiziario e Potere politico che tocca evidentemente un "nervo scoperto" del primo. Questa ragione risiede, a mio avviso, nella contestazione del principio che l'opposizione del segreto possa costituire un limite all'esercizio della funzione giurisdizionale, contestazione che emerge con estrema chiarezza dalle allegazioni del Procuratore della Repubblica di Bologna.
Sembra di poter scorgere in filigrana, in tale presa di posizione, le tracce di remote polemiche corse fra Esecutivo e Giudiziario, quando, da poco tempo emersi dall'indistinto potere del Sovrano assoluto, ne erano ancora incerti i reciproci confini.
Come è noto, furono necessari parecchi decenni al potere giudiziario per conquistare il diritto di sindacare l'Esecutivo e non poche scorie dell'antica supremazia di quello hanno continuato a turbare l'equilibrio di molti sistemi, pur in tempi di avanzata democrazia, soprattutto in tema di segreto. Terreno, questo, sul quale le tradizionali esigenze della "ragion di Stato" sono state le più dure a morire.
Si pensi al "Crown Privilege" nel Regno Unito, fino al 1968
(3) , esempio al quale possono aggiungersi gli "acts of State" e le "political questions" nordamericane
(4) .
Nel sistema italiano, indubbiamente, il segreto di Stato (allora politico-militare) fu, fino alla sentenza della Corte Costituzionale 24.5.77 n. 86, uno strumento idoneo a fermare il Potere giudiziario affidato alla completa disponibilità del Potere esecutivo. Il che non era, ovviamente, conforme all'assetto costituzionale repubblicano.
Dopo la sentenza ora ricordata, dopo la
legge di riforma dei servizi del 1977 (che di tale sentenza è la diligente applicazione) e dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, che tale legge recepisce, le preoccupazioni dei rappresentanti del Giudiziario di doversi difendere da possibili prevaricazioni dell'Esecutivo non hanno, però, più ragion d'essere.
L'interesse a tutela del quale il segreto di Stato viene opposto nel quadro normativo oggi vigente - l'integrità e la sicurezza dello Stato democratico - non è, infatti, proprio dello Stato soggetto, ma attiene allo Stato-comunità e rimane quindi nettamente distinto da quello del Governo e dei partiti che lo sostengono.
Analogamente, la competenza a confermare definitivamente l'opposizione del segreto di Stato spetta al Presidente del Consiglio quale supremo vertice politico del Paese, che tale competenza esercita con un atto tipicamente politico, libero, quindi, nei fini, equiordinato alla legge nella scala dei valori ed assoggettato al controllo di responsabilità politica del Parlamento. Un Parlamento che tale controllo esercita sulla base di una motivazione cui il Presidente è tenuto (art. 16 L. 801/77 cit.) e da cui si desume così l'oggetto della segretazione come le ragioni essenziali per le quali il segreto viene opposto.
Non è dunque strano né, tantomeno, scandaloso che l'opposizione del segreto di Stato costituisca "sbarramento all'esercizio del potere giurisdizionale" (così testualmente la Corte Costituzionale nella già citata sentenza 86/77, punto 8) in quanto tale "sbarramento" proviene da fonte equiordinata alla legge, che legittimamente fa prevalere il supremo valore dell'integrità e sicurezza dello Stato democratico rispetto ad altri valori, pur costituzionalmente garantiti, quali l'esercizio della giurisdizione, il diritto di difesa, la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto all'informazione.
D'altronde che l'atto politico (nel senso rigoroso del termine), in quanto atto equiordinato alla legge, costituisca limite al potere giudiziario è nozione da tempo metabolizzata in sede di giustizia amministrativa (art. 31 T.U. sul consiglio di Stato 26.6.24 n. 1054). Un tipo di giustizia in cui, per ovvie ragioni, la sensibilità al problema del regolamento di confini fra poteri è particolarmente affinata.