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Per Aspera Ad Veritatem n.14
Intervista a Marcello MADDALENA

Modalità operative dei Servizi tra legittimità e legalità



D. Signor Procuratore, in una recente conferenza da Lei tenuta presso la Scuola di Addestramento del SISDe, si è ampiamente soffermato sullo scarto, per ciò che concerne gli organismi di intelligence, tra i compiti istituzionali e i mezzi posti a disposizione dalla vigente legislazione. Qual è, in questo senso, dal punto di osservazione di un Magistrato, la difficoltà del lavoro dei Servizi?

R. È una domanda certamente ampia e complessa, sullo sfondo di temi sui quali, purtroppo, si hanno molti dubbi e poche certezze. Vorrei comunque preliminarmente considerare, con riserva di fornire più avanti qualche spunto di approfondimento, che mi pare in generale molto importante che i Servizi adottino come prima regola la rigorosa osservanza di principi base di ordine deontologico, quali il rispetto assoluto degli interessi nazionali e il rifiuto di ogni forma di politicizzazione o di ideologia, con piena accettazione delle regole del segreto e delle loro conseguenze. Sono ben consapevole, d'altro canto, che l'attività dei Servizi si svolge in un contesto nel quale i successi sono destinati a restare nell'ombra e gli insuccessi viceversa ad essere propagati in piazza. Ma tale circostanza costituisce la specificità della professione, che forse proprio per questo deve avere come guida sicura gli obiettivi indicati nella legge, quelli che spesso sento definire "fini istituzionali". Io credo, di conseguenza, che uno dei nodi fondamentali sia la piena assunzione di responsabilità, da parte delle autorità competenti e, vorrei dire, dello Stato nel suo complesso, delle attività che i Servizi sono chiamati a svolgere. Su questo terreno non possiamo nasconderci che sopravvive un'ambiguità, che credo derivi soprattutto dalla legge o dalle leggi, ancor più complicata, a mio avviso, da un sistema politico in cui i Governi hanno avuto vita relativamente breve, con ciò che ne consegue. Per rispondere più pienamente alla domanda, sono convinto che i compiti dell'intelligence siano compiutamente descritti dalla legge 801 del 1977. Più arduo, come Lei ha ricordato, è vedere quali sono i mezzi a disposizione, e come colmare quello scarto, che indubitabilmente esiste, in un quadro di legittimità.

D. Discorso che ci porta direttamente al tema dei rapporti con l'Autorità Giudiziaria.

R. È vero. Muoverei da considerazioni "in positivo". I due aspetti che soprattutto mi colpiscono sono rappresentati dal fatto che nelle ordinarie disposizioni gli appartenenti ai Servizi sono svincolati dall'Autorità Giudiziaria, non hanno l'obbligo di fare rapporto a questa ma esclusivamente ai Direttori dei Servizi. Inoltre, questi ultimi, pur nell'ambito di un generale obbligo di fornire ai competenti organi di Polizia Giudiziaria le informazioni e gli elementi di prova relativi ai fatti configurabili come reati, possono, quando ciò sia strettamente necessario per il perseguimento delle attività istituzionali e nel rispetto di una specifica procedura, ritardare queste informazioni. L'intero contesto, mi sembra, offre margini di libertà. Oltretutto, io propendo per la tesi che il Direttore del Servizio in realtà non sia obbligato a fornire alla Polizia Giudiziaria la notizia di reato. C'è un obbligo di collaborazione, ma non un obbligo in senso stretto, cioè cogente. So che qualcun altro opina diversamente, ma a me pare che la formulazione che dice di fornire ai competenti organi le informazioni e gli elementi di prova relativi ai fatti configurabili come reato si riferisca ai processi già in corso, non ad eventuali notizie di reato. Un altro aspetto è secondo me importante, e discende dalla circostanza che gli appartenenti ai Servizi non rivestono la qualità di ufficiali o agenti di Polizia Giudiziaria. Non sussiste, a mio parere, l'obbligo di impedire l'evento ai sensi dell'articolo 40, capoverso del codice penale. Non si commette reato nel caso in cui non si impedisca la commissione di un reato. Ulteriore elemento è quello relativo alla non sussistenza dell'obbligo di rivelare i nomi delle fonti e degli informatori, in un ambito che resta estraneo al segreto di Stato. Tale obbligo non sussiste neppure nel caso di reati di eversione, per i quali appunto la copertura del Segreto di Stato, come è noto, non vale. Mi viene di rammentare, in quanto coerente con il discorso che ho sviluppato rispondendo alla prima domanda, la vicenda credo ben nota dell'articolo 204 del codice di procedura penale e del collegato articolo 66 delle disposizioni di attuazione al codice stesso. Con il secondo comma dell'articolo 66, al Presidente del Consiglio dei Ministri è stata restituita l'ultima parola sul segreto di Stato anche in ordine ai reati di eversione, ribaltando la disposizione del codice secondo cui "se viene opposto il segreto la natura del reato è definita dal giudice". La realtà vera è che secondo me ci si era accorti di aver fatto qualcosa di sbagliato, proprio per non aver avuto il coraggio di liberarsi da un passato che incombeva e che quindi faceva ritenere più affidabile, lo dico senza che mi risulti alcuna sollecitazione al riguardo, la Magistratura. Ma è giusto, invece, che in questo campo la responsabilità sia del potere politico e non della Magistratura.

D. E cosa vede, Signor Procuratore, sul versante "negativo"?

R. Quello che io ho notato è che per la vostra attività non c'è nessuna norma di legge che disciplini quella che invece ho sempre considerato un'attività tipica operativa appannaggio dei Servizi. Oltre alla raccolta e alla elaborazione dei dati, mi pare, elemento peculiare dovrebbe essere l'attività di infiltrazione ed eventualmente di provocazione. Per le letture da ragazzo, ho sempre pensato che il servizio segreto per avere le notizie dovesse infiltrarsi nelle compagini sociali e, se queste sono criminali, in quelle criminali. Questo era quello che pensavo, ritenendo altresì che un Legislatore dovesse prendersi la briga di qualche norma in proposito. "Si può fare, non si può fare, che cosa non si può fare", questo non l'ho trovato. Personalmente trovo anche alquanto paradossale che sull'attività di raccolta, elaborazione e comunicazione dei dati conoscitivi raccolti dai Servizi vi sia un intervento della legge sulla tutela della privacy. Io debbo dire che la trovo una cosa paradossale. Voglio precisare che sono un grande estimatore del Prof. Rodotà, che ho letto con attenzione le sue considerazioni proprio su questa Rivista, e che anche personalmente credo sia la persona migliore per esercitare il ruolo di Garante. Ma ugualmente ritengo che il fatto che le attività dei servizi segreti così come quelle della Procura Nazionale Antimafia o delle Direzioni Distrettuali Antimafia e delle banche dati che stiamo realizzando debbano essere sottoposte, anche ad istanza di privati, ad un controllo sotto il profilo della privacy, lo trovo francamente una cosa assurda. Un controllo che può assumere anche aspetti penetranti. Mi chiedo, per esempio, cosa significa la correttezza dell'acquisizione del dato. Le notizie acquisite attraverso atti giudiziari considerati dall'Autorità Giudiziaria nulli o inutilizzabili nello stesso o in un altro procedimento, sono correttamente acquisiti se vengono resi disponibili? Supponiamo che al Servizio arrivi un dato di conoscenza proveniente da un documento che un confidente ha preso in maniera illecita. Cosa dovreste fare? Rifiutarlo, respingerlo, cos'altro? Analogamente per quanto riguarda la legittimità della raccolta. Se vi dicono che il boss mafioso è stato visto insieme ad una persona insospettabile è legittima o non è legittima questa informazione? E per quale scopo? E fino a che punto? E per quale scopo determinato diverso da quello generico di avere insieme un patrimonio di dati conoscitivi che potranno essere utilizzati in seguito per fatti comunque collegabili al mondo dell'eversione politica? Mi pare di poter dire che il terrore dell'uso cattivo si rifletta nell'impedire l'acquisizione delle conoscenze buone. è un po' come impedire l'acquisto del bisturi solo perché qualche chirurgo sbaglia gli interventi. Non mi sembra proprio che si possa trasformare un servizio segreto in un servizio segreto pubblico.

D. Ha fatto riferimento, Signor Procuratore, al tema dell'infiltrazione. C'è un versante legislativo, di cui Lei ha rilevato la carenza, ma anche un versante giurisprudenziale di questo problema, cui i Servizi sono molto attenti per garantire il massimo possibile di garanzie funzionali ai propri operatori, nell'attesa di una migliore disciplina legislativa che è comunque indispensabile, perché se parliamo di giurisprudenza ci riferiamo ad un processo già in atto. Cosa può dirci su questo punto?

R. Ho già prima accennato che sia per tradizione che per intimo convincimento ho sempre ritenuto che i Servizi dovessero soprattutto acquisire il proprio patrimonio informativo infiltrandosi direttamente nelle aggregazioni sociali e criminali oggetto di attenzione ovvero tramite i rapporti con qualcuno di questo mondo che consenta di attingere le notizie con relativa facilità. C'è tuttavia un punto nevralgico, di cui come Magistrato mi rendo benissimo conto, rappresentato dal fatto che nel caso di infiltrazioni l'appartenente al Servizio rischia di trovarsi implicato nei fatti di reato dell'organizzazione con una tutela giuridica che a mio avviso è inesistente. Posso anche dire che a mio parere qualche volta potrebbe esserci in via interpretativa di più di quello che non ci sia, ma in ogni caso sicuramente con dei margini di estrema opinabilità, incertezza e senza alcuna chiarezza. La necessità, che vale anche per la Polizia Giudiziaria, di tenersi pronti di fronte all'eventualità di essere scoperti e di essere chiamati a testimoniare, o di doversi difendere da qualche accusa che viene mossa, ha una rilevanza sicuramente pesante per gli appartenenti ai Servizi, che non hanno la copertura della Polizia Giudiziaria e oggettive problematiche ad essere coinvolti nei profili pubblici del processo penale. Qualcosa certamente, a partire dal 1992, è stato fatto per alcuni settori della Polizia Giudiziaria. Il quadro tuttavia non è sufficiente. L'appartenente al Servizio si muove quasi con la veste del privato; la costante giurisprudenza ammette in tal caso operazioni di provocazione solo quando obbedendo ad un ordine legittimo ci si adoperi per impedire la commissione del reato, farne cessare le conseguenze, determinare l'arresto dei complici, quando il fatto non sia conseguenza in qualche modo dell'opera diretta del privato. Poiché l'appartenente al Servizio ha tuttavia compiti istituzionali, la figura può essere ampliata e si può anche ammettere che si arrivi a considerare la copertura come di fatto analoga a quella dell'ufficiale o dell'agente di Polizia Giudiziaria. In generale, la giurisprudenza assolutamente prevalente e costante dice che l'intervento dell'agente provocatore deve essere indiretto e marginale nella ideazione e nella esecuzione del fatto, che deve essere esclusivamente opera altrui e in cui l'attività dell'infiltrato deve essere un'attività unicamente di controllo, osservazione e contenimento. Tuttavia, nel merito, ci sono due giurisprudenze contrastanti. La prima (Cassazione, 17.4.1994) rifiuta di riconoscere la legittimità di operazioni di provocazione portate a termine da persone diverse dagli appartenenti ai Corpi specificamente indicati dalla legge; la seconda (Cassazione, 31.3.1995) riconosce la non punibilità dell'agente di Polizia Giudiziaria anche se non sono state osservate le procedure della legge, fatto che al limite potrà rilevare sul piano disciplinare. Quanto ai limiti, sono assolutamente d'accordo con la giurisprudenza per cui, per esempio, non è lecito acquistare dello stupefacente per rimetterlo sulla piazza e arrestare gli eventuali compratori, così come è inconcepibile per fare un'operazione di servizio importare, produrre, procacciare stupefacenti per poi anche cercare di arrestare gli autori dello spaccio. Diverso discorso è entrare in un commercio esistente. In altre parole, non è che per scoprire un funzionario corrotto o corruttibile si possano fare degli atti di corruzione.

D. Può giocare un qualche ruolo, in questo contesto, la scriminante ex articolo 51 del codice penale (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere)?

R. Io credo che in questa fattispecie non è tanto il discorso dell'adempimento del dovere che viene in gioco quanto quello dell'elemento soggettivo del reato, cioè del dolo, con riferimento all'interesse penalmente tutelato. Tornando all'esempio degli stupefacenti, la persona che si limita ad acquistarne per mettere lo stupefacente a disposizione dell'Autorità Giudiziaria non pone in essere, sia pure per nobili fini, un atto di commercio. Non è che il mercato venga arricchito da quella sostanza stupefacente, né che ci sia uno spacciatore in più perché in realtà emerge che viene sottratta dal commercio una quantità di droga ed anzi c'è la scoperta di uno spacciatore in più. Quello che non si può fare è immettere in commercio la merce illecita, ma finché mi limito a sottrarre la merce illecita o a consentirne la scoperta ecco che questa operazione è sicuramente assistita non tanto dalla scriminante ex articolo 51 c.p., quanto dall'assenza di un reato commesso dall'agente provocatore in quanto in questa attività non si ha l'offesa dell'interesse giuridico protetto che è quello di evitare il commercio della sostanza.

D. Probabilmente non si può chiedere agli appartenenti a un Servizio di rischiare un'incriminazione per ogni operazione. Del resto, il solo avvio di indagini costituisce una compromissione della copertura e viene certamente recepito, all'esterno, come sintomo di un'attività illegale. In attesa di nuove norme, come dovrebbe essere orientata l'attività dei Servizi in questo campo?

R. Se è vero, come ho cercato di argomentare, che l'attività di infiltrazione e di provocazione sono estremamente difficili e pericolose non solo ex se, ma per le conseguenze giuridiche o giudiziarie che possono determinare, bisognerebbe principalmente sviluppare in profondità le parti dell'attività maggiormente tutelate, come il rapporto con le fonti e lo sviluppo del patrimonio conoscitivo. Il problema è anche quello dell'intelligenza applicata a questo patrimonio conoscitivo per dare le indicazioni a chi è chiamato ad operare. In questo senso ritorno alle precedenti considerazioni ritenendo che ci debba essere un qualcosa di più chiaro da parte del Legislatore e una maggiore assunzione di responsabilità e di sostegno. Io credo che tutti noi temiamo molto più i rischi che derivano dal discredito della sottoposizione ad un procedimento penale che non il rischio dell'incolumità personale. Se si vuole maggiore efficienza, sono necessarie regole diverse e soprattutto regole più chiare.


(*) Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Torino

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