"Il comunismo non è un sistema politico ... ma una malattia di massa, simile all'epidemia di una peste". È solo una delle numerose affermazioni "forti" che Vladimir Bukovskij inserisce nel suo libro Gli archivi segreti di Mosca, edito da SPIRALI in Italia nel febbraio 1999.
Si tratta di un'opera molto interessante sotto molteplici profili. In primo luogo dal punto di vista strettamente storico e documentale, in quanto l'Autore riporta una consistente mole di atti classificati segreto e segretissimo che, in vari modi, più o meno rocamboleschi, e in tempi diversi, è riuscito a visionare e riprodurre dall'archivio del partito comunista sovietico.
Contribuisce a rendere ancora più interessante la lettura di questa sofferta opera la possibilità di riflettere sugli avvenimenti storici che hanno coinvolto la Russia nel corso di questo secolo, attraverso una visuale che potremmo definire senza ironia "privilegiata", propria di colui che insieme a numerosi altri ha vissuto dall'interno e sulla propria persona le terribili vicende di cui narra, fornendo una chiave di interpretazione che trova le proprie radici in una cultura profondamente diversa da quella di molti di coloro che in Occidente hanno tentato di comprendere e dare significato alle medesime vicende. Proprio a molti di costoro, intellettuali e responsabili di governo occidentali, l'Autore attribuisce alcune responsabilità di un certo rilievo. In primo luogo quella di aver assistito passivamente ai crimini compiuti dal regime sovietico, atteggiamento che si sarebbe successivamente trasformato, secondo Bukovskij, in aperto sostegno alle presunte riforme realizzate da Gorbacev. Va notato come Bukovskij fornisca un'interpretazione del ruolo storico svolto nella politica interna russa da Gorbacev profondamente difforme dall'immagine che parte dell'Occidente ha di tale personaggio. Considerato da molti un riformatore democratico, viene descritto invece come uomo di partito, manovrato dai vecchi apparati del PCUS, mosso dagli stessi interessi, obiettivi e modalità d'azione dei vetusti apparatcik e responsabile con la sua troika di aver avviato, in ritardo, riforme che la Russia non era in grado di sostenere. Ciò in quanto le stesse non tenevano conto dell'assenza - né ne favorivano la formazione - di forze sociali indipendenti in grado di gestire quella che avrebbe dovuto costituire la necessaria fase di transizione nel passaggio da una economia di Stato centralizzata ad una economia di mercato. E non poteva essere diversamente, secondo Bukovskij, se si considera che i russi non hanno ottenuto la libertà dal regime attraverso un processo da loro stessi avviato e gestito, in modo più o meno rivoluzio
nario, bensì attraverso un "dono" che, in quanto tale, può essere loro sottratto nuovamente e in qualunque momento. Le ragioni del caos in cui versa la Russia attualmente vanno quindi rintracciate - secondo l'Autore - negli stessi cittadini russi che non hanno saputo appropriarsi autonomamente della loro libertà, esattamente come accadde quando passarono dalla schiavitù della servitù della gleba a quella instaurata dai rivoluzionari bolscevichi con la rivoluzione d'ottobre.
Non senza rammarico Bukovskij ricorda come molti dei dissidenti russi in esilio siano stati apertamente criticati da taluni intellettuali per aver sostenuto simili tesi e per aver invitato i governi occidentali a favorire il crollo del regime non credendo nella possibilità che questo potesse essere riformato dall'interno, da coloro che fino a pochi giorni prima erano stati esecutori fedeli delle decisioni del PCUS.
Il comunismo quindi non è mai stato veramente sconfitto, è solamente crollato su se stesso. Questa sarebbe la ragione per la quale non è stato compiuto per la Russia quello che invece si è realizzato - e con successo a giudicare dalla sua storia successiva - per la Germania attraverso il processo di Norimberga. Lo stesso Autore ha partecipato alla fase iniziale, con speranze successivamente deluse, di un vano tentativo di "processo" al regime.
Dopo il tentato golpe del 1991, si è tentato di indebolire il potere del KGB il quale è stato scorporato in vari dipartimenti e servizi separati, ma inutilmente in quanto ciò che maggiormente rilevava, ossia i suoi archivi segreti, non solo non sono mai stati resi pubblici, ma nel gennaio 1992 lo stesso Eltsin ha firmato un decreto con il quale, di fatto, è stato ripristinato sugli stessi il precedente sistema di segretezza. "Vi immaginate se dopo la disfatta della Germania tutta la documentazione sul fascismo fosse stata sottoposta a un regime di segretezza trentennale?" commenta amaramente Bukovskij.
Un volume corposo, quindi, e denso di avvenimenti e riflessioni che nel corso di circa 800 pagine accompagnano il lettore attraverso la storia sovietica degli ultimi sessanta anni: vi possiamo trovare le purghe staliniane, la guerra fredda, la crisi della Polonia e quella dell'Afghanistan, la politica del disarmo e della distensione, la stagione delle riforme, della glasnost e della perestrojka.
Una lettura impegnativa, dunque, e difficile che lascia - potremmo dire eufemisticamente - dell'amaro in bocca. La storia raccontata, una volta tanto, da coloro che sono, nonostante quello che forse si potrebbe credere, i veri sconfitti. Non tanto e non solo per quello che hanno dovuto subire dal passato regime o per il triste e vano epilogo cui questo sembra essere destinato, quanto - e forse soprattutto - perché, come afferma Bukovskij all'inizio della sua pubblicazione, tutto ciò sembra oggi non interessare nessuno. Who cares? si chiede l'Autore, nel rammentare con quanta difficoltà sia riuscito a trovare un sostegno editoriale alla sua opera.
E così, su tali accadimenti passati e meno lontani nel tempo, di cui forse una volta si è discettato schierandosi su fronti opposti, si stende un velo d'oblio, inconsapevole o che volutamente finge di non comprendere che le radici, gli echi, i riflessi, le conseguenze di tali realtà non possono non coinvolgere pesantemente i cd. Paesi sviluppati, che di tutto ciò non sanno o non vogliono farsi carico.
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