"Con l'intervento praticamente unilaterale degli Stati Uniti nel conflitto di Bosnia, in campo sia politico che militare, e con l'allineamento dell'Europa su Washington, stiamo entrando in una quarta fase, dagli esiti ancora incerti" - scriveva nel 1996 Carlo Jean, discutendo l'incapacità dell'Occidente (europeo) ad affrontare la nuova conflittualità del post-bipolarismo, e la rassegnazione, il fatalismo pessimista, l'incapacità di reagire al caos che dominavano la scena di quella che egli definiva la "terza fase", quella in cui per l'appunto stava scrivendo, caratterizzata dalla erosione dei grandi disegni e progetti, dall'impotenza delle istituzioni internazionali, dall'incredulità di fronte al proliferare dei conflitti e all'espandersi delle violenze e dei massacri, dalla mancanza di nuove visioni credibili per il futuro e della volontà per realizzarle.
Su tutto domina una nuova ossessione: quella dei "missili", il nuovo simbolo globale del potere.
La dissuasione nucleare sta gradualmente cedendo il passo a quella dei missili, intelligenti e più economici, più facili a costruirsi e a mantenere, più agevoli anche ad usarsi poiché non implicano il coinvolgimento di un intero esercito o il rischio di esporre questo stesso ad azioni di elevate casualità. E' la sfida che il Terzo Mondo - e soprattutto il continente asiatico - stanno portando all'Occidente. Sono emblematiche in tal senso le manifestazioni del Pakistan e dell'India; non meno emblematiche sono le ripetute, recenti sfide Cinesi a Taiwan, o i perduti missili della Corea in Giappone.
In altri termini, è ancora la forza che si impone e crea ordine - sia pure nel paradosso.
Anche se sono trascorsi soltanto pochi anni da quello scritto, le nuove dimensioni dell'ordine (o meglio, del disordine) mondiale e della sicurezza globale inducono a riprendere quel discorso, aggiungendo alcune postille.
E tali postille sono suggerite non tanto (e non soltanto) dagli eventi in corso nella regione balcanica, quanto dalle votazioni turche di questo 18 aprile, che possono perfettamente riconfigurarsi nell'ordine/disordine di una cosiddetta "quarta fase".
Per molti aspetti, determinate chiavi di lettura stanno rivelando tutta la loro validità; né si sono dimostrati obsoleti taluni parametri di valutazione e analisi. In particolare, mi riferisco a quelle chiavi di lettura etnico-culturali, tuttora attuali quando si voglia procedere all'analisi di determinate realtà regionali e relativi meccanismi di potere, a loro volta preliminari indispensabili a scenari realistici. Né è venuto meno il "Paradigma Islamico" - delineato nei suoi tre termini essenziali di Amministrazione, Forze Politiche tradizionali, Islam - e il suo rapporto col "fattore Militare", ossia la Forza e il suo uso. Si tratta di chiavi interpretative che, in questa fase, stanno sempre più interagendo con le politiche regionali, contribuendo a spostarne gli equilibri interni e regionali, determinando in più di una circostanza conflittualità anche armate. In questa categoria certamente sta tornando a giocare un ruolo centrale il nazionalismo turco, un nazionalismo che può (e, in passato, ha dimostrato di potere efficacemente) trasformarsi in potente fattore di emotività transnazionali e transfrontaliere.
In più sedi (tutte molto autorevoli) e da studiosi di ogni cultura e lingua (tutti non meno autorevoli) è stato ampiamente scritto e parlato della crisi e fine del bipolarismo, della disintegrazione dell'Unione Sovietica, della crisi dello Stato tradizionale e del nuovo ordine mondiale. Si è a lungo dibattuto - fra bilanci e previsioni - del nuovo millennio, e della nuova fase epocale che si apre con questo. Molte sono le definizioni e i termini-concetti cui la ricca letteratura degli storici, dei politologi, degli studiosi di relazioni internazionali, degli economisti ecc. E' ricorsa per individuare e designare questa nuova fase di transizione/riconversione.
Per lo più vi è convergenza nell'ammettere che il nuovo millennio si apre all'insegna di una crescente "globalizzazione" - che sembra ormai avere definitivamente scardinato il tradizionale sistema delle relazioni internazionali soprattutto sul piano diplomatico, economico e finanziario -, e che questa globalizzazione sta evolvendo in un nuovo sistema, una super-struttura globalizzante imposta dall'importante balzo in avanti di determinate tecnologie, ma, soprattutto, dalla forza dell'unipolarismo (finanziario, economico e militare) statunitense.
In questo ordine sembra pertanto ormai praticamente impossibile parlare di una regione come scenario a sé o come sistema isolato di sicurezza. Non fa eccezione la Turchia odierna, la quale, per la sua stessa collocazione geografica, è cerniera di tre continenti: l'Europa, l'Asia e - nella sua proiezione Mediterranea - l'Africa.
Si tratta di uno Stato relativamente giovane, caratterizzato da un forte senso di identità etnico-nazionale, ricco di contraddizioni culturali, ponte dell'Eurasia, chiave degli stretti, cardine militare della sicurezza europea vis-à-vis dei particolarismi e delle irrequietezze del mondo arabo da un lato e delle ipersensibilità islamiche persiane dall'altro, vigile sentinella degli ultimi bagliori dell'orgoglio russo. I Turchi d'Anatolia principalmente genti Oghuz e Turcomanni, appartengono al ceppo altaico, sono fieri della loro storia più antica - incluso il ricco filone dell'eroico epos preislamico -, hanno connotazioni ben precise. Di ingegno forse meno brillante degli Arabi e dei Persiani, i Turchi conservano ancora oggi tutti i requisiti dei militari di mestiere: coraggio, pazienza, addestramento eccezionale e resistenza alle fatiche fisiche e alle avversità della natura, disciplina ferrea, e soprattutto devozione ai capi che si scelgono. Vera e propria casta militare, per secoli giocarono nel mondo dell'Islam il ruolo di "tutori" di un ordine islamico, e di un'autorità anch'essa affondante le proprie radici nell'Islam. E poi - con la caduta di Costantinopoli nel 1543 - i sultani Ottomani si presentarono al mondo fondando un loro impero che riunificava militarmente e politicamente tre-quarti del bacino Mediterraneo; ancora una volta si imposero come i grandi restauratori dell'Islam, vittoriosi esportatori di jihad di fronte a una Europa sbigottita e sempre più divisa. Il loro dominio durò - con fasi e vicende alterne - per circa ben quattro secoli. La "secolarizzazione" fu un processo violento, imposto dall'alto, limitato all'Altopiano Anatolico, recente quanto la Turchia stessa, voluto dalla ferrea volontà di Kemal Ataturk. Fu il genio militare e politico di quest'uomo a dar corpo al moderno stato turco della Penisola Anatolica negli anni '20 di questo secolo, uno stato "nazionale" secondo l'ideologia europea di nazione, dotato di istituzioni moderne secolari su modello europeo, sorretto da una "base" militare decisamente turca - in larga parte fornita da contingenti richiamati dalle postazioni che l'impero continuò a difendere con determinazione, orgoglio e coraggio fino alla fine del Primo Conflitto Mondiale. E nel corso di questi decenni sarà sempre la "base militare" a porsi al centro di ogni crisi politica, tutrice e garante di "quelle" istituzioni nel rinnovarsi di una tradizionale continuità culturale.
Parlare di "nazionalismo" turco senza tenere conto di questi elementi (Islam, tradizione, forte senso di devozione ai capi) diviene riduttivo e fuorviante.
E diviene riduttivo e fuorviante parlare di Turchia nel post-bipolarismo senza parlare anche di Europa e di Asia.
Ma: quale Europa? E, soprattutto, vuole l'Europa del post-bipolarismo anche la Turchia all'interno delle sue nuove connotazioni?
Certamente questo ultimo decennio ha assistito a uno sforzo tecnologico e a un sopravanzamento del sapere scientifico incredibile. Questo tuttavia non ha schiacciato l'elaborazione intellettuale di determinati parametri né ha soffocato il dibattito politico-strategico, il quale, anche se talvolta si esprime in termini rabbiosi ed angosciosi, è tuttora estremamente vivace sia da parte per così dire Occidentale che da parte del cosiddetto Terzo Mondo. Si tratta di un dibattito che coinvolge l'assetto globale, in cui tutti si sentono protagonisti, soprattutto laddove l'ordine bipolare e la disintegrazione delle strutture sovietiche hanno lasciato incredibili vuoti di potere e pericolose asimmetrie.
Da un lato, protagonista indiscutibile, si torna a collocare l'Europa. Non mancano tuttavia le contraddizioni.
Si assiste cioè a una ricompattazione dell'Europa versus un nuovo sistema europeo; ma a questa ricompattazione fa viceversa riscontro in altre regioni (tradizionalmente europee per territorio) una disordinata parcellizzazione politica all'insegna di neo-irredentismi nazionalistici. Da un lato si assiste allo sforzo europeo di pervenire a un superamento dei tradizionali termini di "stato nazionale" con l'affermarsi - insieme a una nuova realtà territoriale - di nuove forme di identità subnazionali e sovranazionali; ma a questa tensione "culturale" europea fa riscontro - in altre regioni - la confusa ascesa di nazionalismi e particolarismi a base etnica o, addirittura, etnico-tribale e/o religiosa.
Ed ancora, strettamente correlato a questo processo di ridefinizione territoriale di Europa all'interno dell'Europa stessa, si assiste a un altro processo non meno difficile, quello di ridefinizione della società europea e dei suoi antichi termini "innovazione" e "tecnologia", all'interno e versus quelle altre società che da questa erano direttamente e/o indirettamente filiate, e che, con gli strumenti del sistema bipolare, di questa stessa Europa hanno fatto per circa mezzo secolo la propria "posta in gioco".
La crescente circolazione di uomini, idee, prodotti, e l'improvviso balzo in avanti di alcune tecnologie dell'informazione - annullando le distanze tradizionali - hanno conferito alla società in generale una indiscutibile dimensione nuova e mondiale al tempo stesso, ove, oggi, prevale la dimensione economica e finanziaria, strettamente connessa all'ambiguo termine-concetto di sviluppo. Anche da parte di questa Europa nuova si assiste allo sforzo di riappropriarsi - attraverso pianificazione e ricerca - di quelle tecnologie e di quel sapere scientifico, il cui raggiungimento e sopravanzamento da parte di determinate società - fossero esse di origine europea oppure collocate nell'Oriente asiatico - aveva costituito una delle realtà del sistema bipolare. Non vi è dubbio che all'epoca del sistema bipolare non fosse certamente più l'Europa a portare la propria sfida alle altre società; l'Europa era costretta ad accettare le sfide altrui e a cercare forme più o meno adeguate di risposta in un sistema in cui - se non una delle periferie - essa occupava certamente una posizione tutt'altro che centrale. Con la fine del bipolarismo, in un mondo non più multicentrico, l'Europa si è illusa di potere recuperare le proprie posizioni e di riconquistare una propria centralità nel nuovo sistema di relazioni finanziarie, economiche e politiche. Tuttavia, la sfida sembra perduta e l'asimmetria precedente non è stata annullata. Ai tradizionali limiti di carattere politico-organizzativo si sono aggiunti fattori ritardanti connessi alla tradizione culturale propria dei paesi europei (quali la prevalenza della cultura umanistica, lo scarso sviluppo della ricerca empirica assorbita dal prevalere di esercitazioni e discussioni ideologiche, la diffusione di ideologie e fenomeni pacifisti e tutto a scapito di un efficiente sistema difensivo e di sicurezza integrato).
Per di più, l'improvvisa comparsa sulla scena internazionale di nuove forme di ricchezza (accanto a quelle più tradizionali, tipiche del secolo XX, legate all'oro nero) - e relative strutture di sostegno politiche, militari e finanziarie - hanno infine rivoluzionato rapporti di potere e di forza in una dimensione nuova e decisamente sempre più globalizzante (e confusa).
In questo quadro di asimmetrie, incertezze politico-strategiche e culturali, si colloca anche l'ambigua posizione dall'Europa nei confronti della Turchia. Le memorie del passato, i miti del feroce Saladino campione di un Islam della riconquista, l'ortodossissima proclamazione di jihad con cui Istanbul entrava in guerra nell'autunno 1914 a fianco delle Potenze Centrali non mancano di influenzare le scelte europee; né contribuiscono a dissiparne le reticenze la presenza turca nella NATO e le pressioni statunitensi.
In merito è stato scritto e dibattuto largamente, e non si intende qui affrontare un esame - o riesame - della letteratura esistente. Quanto si vuole piuttosto sottolineare sono i possibili riflessi delle incertezze e oscillazioni europee sulla opinione pubblica turca, di cui il voto di aprile potrebbe ben essere una significativa espressione. Certamente il voto di aprile - con i suoi risultati - è espressione del rianimarsi di un nazionalismo turco (peraltro mai sopito), che trova nuovo alimento nell'ondata sempre più diffusa di ri-emergenti nazionalismi a base etnica e storico-culturale, i quali non riconoscono le frontiere di quegli stati territoriali - artificiosa costruzione e architettura di volontà istituzionali e diplomatiche considerate, ormai, un retaggio del passato.
Anche in Asia il mito del "villaggio globale" crollava ben presto. La fine dell'ordine sovietico lasciava improvvisamente "orfane" cinque repubbliche, e faceva ben presto riemergere tensioni e forze sempre latenti nella regione. Si determinava un nuovo pericoloso vuoto di potere in Afghanistan - infine riempito dalla forza strutturale e istituzionale del narcotraffico.
Anche in questa regione, all'ordine della guerra fredda subentravano nuovi inquietanti interrogativi di natura sociale, economica e istituzionale. Nonostante la formale congiunta dichiarazione di "intoccabilità dei confini", individualismi etnici e religiosi non mancavano di infiammare quel mosaico di genti, artificialmente messe insieme dal genio di Stalin per assicurare il controllo strategico della regione e impedire il re-insorgere di nazionalismi transfrontalieri e unitari. In particolare, sia Lenin che Stalin avevano vissuto le sanguinose ondate delle insurrezioni panturciche e panturaniche. La consapevolezza della pericolosità di quelle "ideologie" ri-emergenti a ondate cicliche con particolare virulenza avevano indotto i due statisti a riconsiderare e ridisegnare la mappa politica ed etnica della regione centroasiatica, spostando arbitrariamente confini e popoli, onde ridefinire gli equilibri interni e regionali in modo da impedire il nuovo coagulo di aspirazioni unitario-nazionalistiche-indipendentistiche e garantire stabilità e sicurezza sia interna che regionale e inter-regionale. Il fattore Islam non fu sradicato, bensì assorbito nelle strutture del sistema. E il sistema funzionò (più o meno) fino alla disintegrazione dell'URSS.
Con il brusco risveglio dell'indipendenza, i vari gruppi etnici cominciarono a interrogarsi sul loro essere, sulle rispettive tradizioni culturali, sui propri dèi di riferimento; e con il brusco risveglio dell'indipendenza, miti, epos ed eroi, santi e santuomini di un passato più o meno ricreato cominciarono a rivivere nell'immaginario collettivo a giustificazione e legittimazione di indipendenze non volute.
E così, mentre l'Europa indugiava in sottigliezze "filosofiche" che denunciavano in pieno la sua incapacità/impreparazione politico-strategica ad affrontare la complessità della nuova realtà post-bipolare (prova evidente fu anche l'immediata esplosione della ex-Jugoslavia e il risveglio di una identità istituzionale islamica proprio nel cuore dell'Europa stessa), in Asia nuove "gerarchie" di Stati si venivano formando sotto l'egida degli Stati Uniti e della "loro" forza e dottrina: erano i primi chiari segnali del nuovo ordine, un ordine necessariamente statunitense, imposto dalla sua forza, di fatto l'unico gendarme in grado di agire anche con la Forza (laddove necessario). Erano anche i primi chiari segnali che le vecchie strutture dell'ordine bipolare, e quelle istituzioni cui esse avevano dato espressione e vita per circa mezzo secolo, erano ormai obsolete, del tutto inadeguate a intervenire laddove il ritiro sovietico aveva lasciato impressionanti vuoti di potere.
Su quei teatri lontani fu all'inizio giocata la carta dei fattori "economici" e "finanziari". Percependone le implicazioni strumentali in uno scenario politico-strategico globale, non si mancò di sottolinearne la rilevanza, soprattutto in una delicata fase di trapasso come l'attuale e di transizione verso una economia di mercato. Delle trattative - insieme a petrolio, gas e risorse naturali - fecero parte anche termini-concetti come "stato nazionale", "democrazia", "diritti umani".
E a questo punto - verso la fine del 1995 - l'equilibrio si ruppe bruscamente. Gli input dell'Occidente "democratico" misero in moto la tradizione e le forze tradizionali locali, mai spente e neppure mai cancellate dalle strutture politiche dell'URSS, bensì da queste riassorbite all'interno del sistema socialista.
E così - anche in questo scacchiere - dal "nuovo ordine mondiale", quello del governo dell'ONU che si sarebbe dovuto avvalere come braccio armato degli Stati Uniti, o della Banca Mondiale e del FMI, si passava al disordine dell'impotenza delle istituzioni internazionali e dell'incredulità di fronte al proliferare di nuove nazionalità e particolarismi etnico-culturali e religiosi, e all'espandersi della violenza e dell'uso della violenza ad opera di strutture parallele (Tagikistan, Afghanistan soprattutto).
Quanto al fattore Islam, sebbene non ancora al potere in nessuna delle repubbliche centroasiatiche, continuava a svolgere un ruolo centrale insieme alle forze di potere tradizionali e alle alleanze etnico-tribali.
L'Islam è insito nella cultura locale, soprattutto fra le genti turche (quattro su cinque delle repubbliche di riferimento). Esso affonda le proprie radici in un passato spesso molto remoto e profondamente radicato nella coscienza popolare, assume connotazioni del tutto peculiari espressione di tradizioni preesistenti, che ben lo distinguono dall'Islam delle regioni contermini (quella iranica sciita, ad esempio, oppure quella "tatara" più settentrionale). Rigidamente sunnita e ortodosso da un punto di vista formale, esso è viceversa caratterizzato da sincretismi affatto particolari, da un accentuato culto di "santi (morti e viventi)" locali, e da rituali anche sacrificali. E' un Islam fortemente mistico, scandito dalla presenza di confraternite religiose, il quale si distingue per la personalità dei rapporti (maestro-discepolo), la fluidità e la flessibilità delle sue strutture che non hanno mai tenuto conto dei confini istituzionali delle singole realtà statuali. Caratteristica comune è quella della coesistenza - accanto a un Islam che si può definire "ufficiale" - di un altro Islam che si può definire "parallelo" o popolare. Quest'ultimo in particolare costituisce una vera e propria forza religiosa e sociale al tempo stesso, la quale - in determinati periodi e contesti culturali - ha dato vita a movimenti, autentiche forze politiche transfrontaliere in grado di porsi come vere e proprie alternative alle forze al potere.
L'intrusione di nuovi modelli politico-sociali ed economici legati all'Occidente vittorioso si avvalse, in un primo momento, del fattore Islam nelle sue espressioni saudite e turche a contrapposizione di una possibile (e temuta) presenza iranica nella regione come Paese esportatore di rivoluzione e terrorismo.
In questo grande progetto, soprattutto la propaganda turca, appoggiata dagli Stati Uniti, e facendo leva su affinità etniche (ma non culturali) si proponeva di esportare nel centroasiatico dei modelli di Islam "secolare". Si trattò di facili assunzioni, che ben presto cozzarono contro l'Islam centroasiatico e, soprattutto, contro quelle espressioni "popolari" più sentite e diffuse nelle coscienze locali. E così, questi stimoli esterni ed etero-diretti finirono col mettere in moto forze religioso-politico-sociali "trasversali", di indubbia forza destabilizzante, quelle forze tanto temute da Lenin e Stalin.
Oggi, questo Islam - andato al governo in Afghanistan sia pure con strutture parallele e particolari - sta tuttavia rientrando nel gioco dei poteri anche nel centroasiatico. Qui condiziona più di una crisi e più di una conflittualità, la cui aggressività transfrontaliera rischia di espandersi a macchia d'olio con effetti destabilizzanti che oltrepassano la regione centroasiatica e attori contermini (se ne sono visti gli esiti in Cecenia, dove domina la Naqshbandiyya, il cui centro spirituale e rituale è in Uzbekistan vicino a Bukhara).
Di fronte al pericolo di un Islam radicale, gli establishment centroasiatici, espressione di forze di potere tradizionali ancora fortemente legati a Mosca, si sono arroccati su posizioni fortemente conservatrici (rafforzate dall'andata al potere di Primakov nel 1998) e, pur senza interrompere il processo di transizione finanziaria ed economica, hanno preferito ripiegare su forme di evoluzione sociale e istituzionale graduali e autoreferenziali, bandendo ogni forma di "libertà democratica" e "religiosa" a modello occidentale e pertanto etero-referenziale - considerate premature e fattori di alta destabilizzazione e caos.
All'ordine dei confini - ufficialmente sempre più intoccabili - continua a provvedere la forza militare di Mosca, sia pure con vicende molto alterne e, soprattutto, sempre più incerte.
In questo contesto, il nazionalismo turco ha operato una brusca sterzata.
Significativa cassa di risonanza di questa conversione turca sono per l'appunto le votazioni di aprile.
Il 1999 - con gli interventi politico-militari praticamente unilaterali degli Stati Uniti nel Golfo (1991) e, forza trainante nell'ambito della NATO, nei Balcani (1999) - come si è detto in premessa sigla l'ingresso in una nuova fase delle relazioni internazionali, una fase dagli esiti quanto mai incerti, dominata dalla forza della superpotenza uscita vincente dal confronto bipolare.
La forza (militare) e il suo uso ben determinato sembrano rispondere a una logica nuova, quella appunto di un ordine nuovo, un ordine globale e globalizzante al tempo stesso, dove il sistema della guerra fredda, dei conflitti di decolonizzazione e delle guerre sovversive e rivoluzionarie ha lasciato il posto a una conflittualità diffusa, allargantesi a macchia d'olio, sempre più frequentemente caratterizzata da conflitti intrastatali, identitari, etnici, religiosi.
Si tratta di una situazione nuova. Si tratta certamente di una situazione in cui è la forza - e il suo impiego - a dominare e condizionare la pace, al di là della tradizionale logica dei negoziati diplomatici, dell'azione mediatrice delle istituzioni internazionali e delle tradizionali istituzioni di sicurezza e difesa collettiva.
In questo nuovo contesto globale e globalizzante i risultati delle votazioni turche non costituiscono affatto una sorpresa, e neppure una incognita.
L'ascesa del Partitito Nazionalista d'Azione era stata preceduta da una capillare campagna elettorale dominata da giganteschi poster ove campeggiava lo slogan di una "Grande Turchia" che includesse le ex-repubbliche sovietiche fra cui in primis il Kazakistan (e i suoi ricchi giacimenti petroliferi).
Non si tratta di un nazionalismo nuovo e neppure a sorpresa. Si tratta di sentimenti largamente diffusi, che affondano ancora una volta le loro radici nella storia e cultura di queste genti d'Anatolia.
è il mito della Grande Turchia, del panturchismo ottocentesco, transfrontaliero, fortemente etnico-identitario, disancorato dall'Islam e dalle sue strutture religioso-politico-sociali. Si tratta di un nazionalismo decisamente orientato all'Asia, alla culla primigenia delle popolazioni turche, ai filoni eroici del pre-islamico, alle glorie dei grandi imperi turchi delle steppe (celeberrimo e oggi celebratissimo è l'impero dei Turchi Celesti, VI-VIII sec. d.C.), laddove i valori base sono quelli del valore personale, della forza e del coraggio individuali, della gerarchia, dell'ordine nella disciplina e nel rispetto dei propri capi.
Si tratta di un nazionalismo che celebra le glorie militari del passato turco, anche quelle islamiche, ma anche - se non soprattutto - quelle pre-islamiche, nelle quali trova la sua ragione di identità e unità nazionale.
Si tratta di un nazionalismo che si accinge a celebrare con grandi fasti - nella Università di Ankara - le glorie del grande impero Selgiuchide, che, sconfitto a Manzikert l'imperatore di Bisanzio Romano Diogene nel 1071, aveva riunificato in un ordine nuovo, militare, le vaste regioni centroasiatiche fino al Mediterraneo, entrando nel cuore della romanità latina. Si trattò di un Ordine dove - sconfitta la forza Dailamita sciita dei Buhidi - califfo arabo e sultano turco poterono coesistere nella piena legittimazione istituzionale islamica.
Alla rinascita odierna di questo filone nazionalistico, non sono certamente estranee le contingenze attuali. Si tratta di un nazionalismo che affonda le sue radici nel malcontento e nel disagio popolare nella Penisola anatolica - ben alimentati dalla corruzione e da un'inflazione ormai galoppante -, e si nutre di emotività e sentimenti etnico-referenziali (e pertanto anti-kurdi, anti-greci, anti-arabi). Si tratta certamente di un nazionalismo auto-referenziale. Ma, a questo punto, è anche possibile ipotizzare che a una siffatta ripresa nazionalistica non abbia contribuito solo la situazione interna turca, ma anche le oscillazioni europee e la freddezza di questa Europa post-bipolare nei confronti della Turchia. E quindi, ideologie e aspirazioni si sono tornate a rivolgere all'Asia. E se sull'auto-referenzialità non vi sono dubbi (da un punto di vista squisitamente culturale), è legittima qualche perplessità circa il fatto che tale revival possa essere in qualche (sia pur minima) misura eterodiretto.
L'avere guadagnato circa il 20% dei voti non stupisce. Le posizioni del Partito di Azione Nazionalista sono coerenti con la sua storia: negli anni '70, quando la Turchia era scossa da fazioni di destra e di sinistra che si combattevano apertamente per le strade, il Partito di Azione Nazionalista entrò nell'arena politica del Paese con una reputazione anti-comunista, fortemente avverso a ogni tendenza di sinistra, e diede vita a quella corrente radicale di destra nota da noi come "I Lupi Grigi" (gli anni anche dell'attentato al Papa). Fu un'utile barriera alle incertezze turche nella NATO, prodigioso strumento anti-sovietico durante quegli anni critici della guerra fredda. Dopo avere preso la direzione del partito circa due anni fa, Devlet Bahceli impose una brusca sterzata, adeguandosi alla nuova situazione del post-bipolarismo. Non vi era più un Partito Comunista da demonizzare e combattere in nome del riscatto delle popolazioni turche d'Asia; numerose sedi giovanili furono pertanto chiuse, in quanto "non controllabili per le loro tendenze radicali", e ciò facilitò la campagna. Viceversa, le emozioni anti-kurde - sollevate dalla cattura e dal processo Ocalan - consentirono una brillante propaganda elettorale a tutto svantaggio del Partito dell'Islam, il quale, dal canto suo, accentuò a sua volta pesantemente i propri "simboli".
Analisti e politici occidentali sono preoccupati per la svolta che un simile nazionalismo potrebbe imporre alla politica turca nei confronti non soltanto della Grecia, bensì dell'Europa e della crisi balcanica tuttora in corso. Anche esponenti dell'establishment politico turco ed elementi moderati, fra cui Dogu Ergil - professore nell'Università di Ankara, e direttore di un gruppo di ricerca per la riconciliazione con la minoranza kurda - non nascondono sgomento e preoccupazione. Meno sgomento di tutti si dimostra Bulent Ecevit: comunque sia, gli equilibri del Paese saranno definiti come sempre dall'Esercito, e non da partiti riottosi.
Altri osservatori e diplomatici occidentali, viceversa, minimizzano: in sostanza, sembra uno dei tanti e ricorrenti rigurgiti di nazionalismo anatolico, scaturiti dalla miseria del sottoproletariato urbano che continua a infestare con la sua violenza Istanbul e Ankara.
Ma l'Unione Sovietica ben sapeva dove simili rigurgiti potevano arrivare.
Esclusa dal club europeo, la Turchia guarda all'Asia - l'altra sua anima - e ciò - alla luce di quanto detto - non dovrebbe stupire. Ma quanto invece stupisce, e merita di essere sottolineato, è la forza - anche numerica - con cui si esprime questo ri-sorgente nazionalismo asiatico, e la sua reale natura: non più con sentimenti islamici bensì con un affondo "secolare", molto più sottile, ambiguo e - non vi è dubbio - oggi di forte presa sulle tradizioni e la cultura locali, islamiche e non.
E' vivace espressione di quella "quarta fase" delineata da Jean; è la nuova inquietante esplosione di un nazionalismo che si potrebbe rivelare, anche nel breve-medio termine, un elemento aggiuntivo di crisi e destabilizzazione, i cui effetti domino potrebbero travolgere non soltanto la Federazione Russa ma - ribaltandosi con violenza - avere ripercussioni dirette anche sul Mediterraneo orientale, ricomponendo equilibri precari in nome di nuove insorgenze nazionalistico-identitarie, ed aggravando conflittualità, massacri e aggressioni già in corso.
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