"Culture is a system for creating, sending,
storing and processing information ..."
E. Hall
Il termine cultura è senz'altro uno dei più abusati dei nostri tempi. Evocato sempre più spesso nell'ambito di dibattiti, pubbliche discussioni, riflessioni e analisi di vario genere, porta ormai con sé un contenuto tanto astratto quanto vagamente superficiale e indefinito.
Quante volte abbiamo sentito tirare le fila di semplicistiche considerazioni ma anche di complicate concettualizzazioni con l'espressione, buona per ogni circostanza, ma un po' deprimente "è un problema culturale" ovvero "bisogna cambiare la cultura"?
Una simile conclusione spesso sottintende confusione ed incomprensione del procedere degli eventi: nella migliore delle ipotesi (si dice senza affermarlo), la soluzione richiederà tempi lunghissimi, le variabili sono indipendenti e i possibili interventi difficilmente manovrabili.
Il fatto è che l'utilizzazione di questa sorta di arma segreta, nel ragionamento intellettuale così come nella progettazione dei cambiamenti, reca in sé il rischio di qualunque postulato che, volendo rappresentare tutto, finisce inevitabilmente per non significare nulla, o quasi.
Se tutto è cultura, niente è cultura.
E' vero, d'altra parte, che il concetto di cultura viene indicato con un termine che si presta a differenti interpretazioni.
Elaborato originariamente nell'ambito della scienza antropologica (la prima definizione conosciuta, che risale al 1871, è dell'antropologo inglese Edward Burnett Tylor: "Culture ... is that complex whole which includes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a member of society" ), e avvertito fin dall'inizio, nell'ambito degli studi sociali, come termine in qualche modo privo di concretezza, si è venuto nel corso del tempo ritagliando significati e caratterizzazioni più specificamente legati al campo dell'esperienza umana nel quale ricade, di volta in volta, la sua applicazione.
Fatto singolare, ma significativo, è che una vasta bibliografia si occupa esclusivamente delle definizioni del termine cultura, siano esse di carattere filosofico, psicologico, normativo, storico, sociologico ecc.. Esistono altresì diffusi approfondimenti sulla dimensione individuale della definizione di cultura, ovvero della sua lettura in una prospettiva sociale che, muovendo dalle relazioni tra gli individui, sviluppano il tema in correlazione con il più antico termine di civiltà o civilizzazione.
L'evoluzione della vita sociale, indubitabilmente, ci ha fatto riconoscere il pluralismo delle diverse culture.
Sono per buona sorte lontani i tempi in cui qualcuno, per vero o leggendario che sia, alla parola cultura metteva d'istinto la mano alla pistola; ma anche, d'altro canto, quelle concezioni totalizzanti mai definitivamente superate che finivano per appiattire la ricchezza dell'esperienza umana confondendo la cultura con l'erudizione o con alcune, e solo alcune, forme della conoscenza o dell'evoluzione di popoli, classi sociali, esperienze umane.
In termini concreti e attuali, potremmo dire fortunatamente, la chiara consapevolezza di un significato comune di cultura, quello che siamo convinti di cogliere attraversando le sale di un museo, passeggiando tra le bellezze architettoniche di un'antica città, sfogliando le pagine di Borges o di Calvino, seguendo le fantasiose genialità di uno spartito di Mozart, non ci impedisce di riferirci, quotidianamente, alla cultura giovanile così come a quella dell'impresa, alla cultura politica o a quella accademica, alla cultura new age come a quella underground.
Non è questa la sede, ovviamente, per un approfondimento del tema, per sua natura vastissimo: ma se lo scopo di queste riflessioni è quello di muoversi nell'ambito delle due definizioni dichiarate nel titolo (cultura dell'intelligence, cultura delle istituzioni), non può essere elusa la necessità di capire di cosa esattamente si parla, indirizzandoci direttamente verso la questione di fondo che muove il nostro discorso. Posto da parte il quesito su cos'è la cultura, vale la pena di ricercare qualche indicatore su qual è la cultura che ci interessa.
Il rischio principale che abbiamo intravisto, in questo senso, (se tutto è cultura, niente è cultura) è che l'astrattezza o l'insufficienza terminologica o definitoria finisca per essere un ostacolo alla progettualità, all'innovazione, al cambiamento. Un "alibi culturale", si potrebbe affermare giocando con il contenuto delle considerazioni già formulate. Dall'esigenza di eludere un tale rischio consegue la necessità di ricercare dei parametri linguistici o concettuali che consentano di intendersi, che rendano i processi di comunicazione virtuosi e costruttivi, che scongiurino il pericolo, così come per la cultura, che parlare del cambiamento costituisca il principale ostacolo al cambiamento stesso.
In tal senso, l'ampio dibattito sulla cultura, nei suoi connotati più universali, dalle definizioni dei maestri latini alle significative riflessioni di Voltaire e Montesquieu, si è venuto sintetizzando, nell'esperienza europea, in un contenitore nel quale storia della cultura e storia civile dei popoli hanno seguito un processo di comunanza simbiotica.
Si potrebbe dire, anzi, che la storia della cultura è storia dei valori, cioè esattamente lo sviluppo sociale così come viene ad esprimersi e a delinearsi, visione d'insieme di diverse e concomitanti "culture".
Se ci si pone dal punto di vista dell'organizzazione sociale e politica, i valori che le diverse culture esprimono non possono che collegarsi a precise interdipendenze, con un legame oggettivo con la gerarchia di realizzazione dei valori sociali.
Nello stato di diritto, la summa di tali valori trova riferimento nella Costituzione, pur avendo ben presente che gli stessi principi costituzionali tendono da un lato a storicizzarsi, e necessitano quindi di cambiamenti, e dall'altro sono soggetti alla ricerca di continui equilibri finalizzati alla loro realizzazione.
E' in tale ultimo specifico ambito che trovano sede sia la cultura delle Istituzioni che, in un contesto ancora più particolare, la cultura dell'intelligence.
Questa Rivista reca nel sottotitolo l'indicazione "rivista d'intelligence e di cultura professionale". Il concetto, a ben vedere, nell'intento dichiarato di uscire da una certa astrazione inevitabilmente connessa alla categoria logica, può essere decifrato attraverso la descrizione di un profilo interno alle organizzazioni e di un profilo esterno alle stesse.
Sotto quest'ultimo aspetto (esterno alle organizzazioni), cultura dell'intelligence può essere definita come la diffusa e accettata consapevolezza che il procedimento di raccolta delle informazioni, la loro analisi finalizzata al supporto delle decisioni politiche sui temi che costituiscono minacce alla sicurezza nazionale, rappresenta esperienza imprescindibile dello stato moderno. Tale consapevolezza, che superando il mero dato normativo, dovrebbe trovare estrinsecazione nella concreta azione di Governo, comprende ovviamente l'accettazione dei metodi dell'intelligence, connotati da riservatezza e talora da segreto, pur nel quadro di uno stato di diritto che, attento alle garanzie costituzionali, eserciti gli opportuni controlli. In altre parole, l'attività di intelligence non è quella di una polizia segreta, che ovviamente sarebbe incompatibile con i principi di tutti gli ordinamenti più evoluti. E' qualcosa di diverso, che, muovendo in ambiti non necessariamente connessi a fenomenologie criminali e in un'ottica prevalentemente previsionale, adotta tipologie peculiari in quanto l'obiettivo che persegue (l'informazione sensibile per la sicurezza dello Stato), di massima rilevanza costituzionale, in alcuni casi non può essere raggiunto in altro modo che con l'utilizzazione di un modus operandi, ancorché non legalmente codificato, legittimo nei fini.
All'interno delle organizzazioni, cultura dell'intelligence può voler significare innanzitutto una salda consapevolezza della delicatezza della funzione, un'adeguata formazione, di alto profilo ed elevato livello, una ferrea deontologia, una leale apertura a tutte le forme di controllo previste dalla legge.
I due momenti di un simile (e auspicato) processo evolutivo di crescita culturale sono come due motori strettamente interdipendenti. Se è certamente impossibile la crescita di una siffatta cultura a fronte di organizzazioni inefficienti o infedeli, è del tutto ovvio che nessuna possibilità di utilizzare pienamente le potenzialità di questo servizio (l'intelligence) per la collettività potrà essere colta se, chi vi opera, vede il suo lavoro circondato da diffidenze e sospetti, da strumentalizzazioni e dietrologie, senza una direzione politica che nel contesto dell'attività informativa per la sicurezza è conditio sine qua non.
I due motori muovono o dovrebbero muovere, del resto, all'interno della concreta realtà interna e internazionale.
Anche tale contesto rappresenta una variabile interdipendente per cui, talvolta, il processo di cambiamento può somigliare piuttosto ad un tortuoso cammino. Ciò vale, in generale, per quella carenza di informazioni che non di rado costituisce un ostacolo serio al superamento dei problemi che l'intelligence pone; ma anche, in particolare, per esempio in relazione ad uno di quei paradossi che il nostro sistema legislativo conosce, tutte le volte che norme rigide tutelano segreti inesistenti e, viceversa, nessuna norma riesce a proteggere effettivamente i segreti necessari.
In Italia, non è difficile affermare che una cultura dell'intelligence, dai due punti di vista che siamo venuti descrivendo, non è mai realmente esistita, e solo da un tempo relativamente breve si sta affermando un positivo processo in tal senso, come più precisamente si dirà più avanti.
Difficile ritenere, infatti, che negli anni passati la cultura dell'intelligence abbia trovato audience sul versante istituzionale o all'interno dei Servizi. E' un dato ormai storico, al di là di giudizi che ovviamente non competono in questa sede, ma che trova riscontro in migliaia di carte processuali o di commissioni parlamentari, che la ricerca informativa è stata per lungo tempo intesa come esclusiva dell'ambito militare ovvero, quando rivolta sul versante interno, come mera raccolta di dati su movimenti o persone, non sempre legittima, con influenze esterne più o meno rilevanti al variare dei contesti storici. Esattamente in coerenza, probabilmente, con i limiti che il complessivo funzionamento delle Istituzioni presentava in quel momento.
Gli stessi organismi hanno probabilmente evidenziato carenze rispetto ad un ruolo e ad una funzione moderna e democratica. Organizzazioni prive di reale identità e di reale peso, con effettivo ritardo a quanto sul piano internazionale veniva maturando, relegate ad un ruolo subalterno e non trasparente.
Eppure, fin dal 1977, anno di emanazione della vigente legge n. 801, si sono aperte prospettive nuove. Proprio nel momento in cui si discute di una riforma del sistema, certamente necessaria, si può apprezzare il moderno e intelligente impianto della legge che già venti anni fa ha aperto, per la prima volta, la reale prospettiva di un'intelligence moderna in Italia.
Basti citare, rispetto all'ordinamento preesistente, alcune delle sue più significative innovazioni, tutte ancora attuali e certamente pietre angolari di qualsivoglia moderna intelligence. La costituzione di due servizi di sicurezza, ad esempio, uno dei quali per la sicurezza interna, in linea con tutte le moderne democrazie. La chiara differenziazione del ruolo di queste strutture rispetto a quello proprio delle forze di polizia; al personale dei servizi, infatti, non viene riconosciuta la qualifica di agenti o ufficiali di polizia giudiziaria, con ciò cogliendo la specificità dell'attività informativa. Inoltre, la portata finalistica dell'attività dei Servizi, chiaramente indicata dalla legge. La creazione di meccanismi di controllo al più alto livello, quello parlamentare. La possibilità di gestire con oculata flessibilità gli aspetti amministrativi e quelli relativi alle risorse umane.
Naturalmente, e l'esperienza di questi anni in qualche modo lo avvalora, il solo dato normativo non è di per sé sufficiente, e questo è proprio il motivo per il quale solo la crescita di una cultura condivisa può essere la chiave di un progetto di cambiamento connotato di effettività, per raggiungere il quale non serve solo la modifica di una legge, bensì, dovrebbe essere a questo punto chiaro, una crescita complessiva della sensibilità sociale e politica su questi temi.
Non sarà certo un caso se la nostra dottrina giuridica, pur disponendo di indizi sparsi nel testo costituzionale e poi, da un certo periodo, anche di pronunce della stessa Consulta, non ha rintracciato indicatori precisi che possano portare all'identificazione del concetto di sicurezza nazionale. Le vicende istituzionali che, attraverso fasi diverse, hanno segnato la storia del nostro Paese, hanno tardato a far emergere l'identità e l'interesse statuale come fattori unificanti della comunità. L'alternarsi continuo dei Governi, la diffidenza della cultura politica rispetto al mondo "dell'informazione", amplificata dalla mancanza di una progettualità (e responsabilità) di medio-lungo periodo, le "responsabilità" stesse dei Servizi hanno fatto sì che l'intelligence fosse percepita per lungo tempo dal mondo istituzionale più, e nel migliore dei casi, come informazione riservata che invece, come dovrebbe essere, parte di una politica, rafforzamento di una politica, cura dell'interesse più delicato dello Stato stesso.
Cultura, insomma, del bene comune.
Solo negli anni più recenti, pur con tutte le difficoltà e le contraddizioni ben note, quell'ampio movimento di mutamento istituzionale, non ancora pienamente delineato, mosso da fatti politici e da fattori diversi ed esterni, quali la fine della guerra fredda e le vicende di tangentopoli, ha portato al centro del dibattito politico alcuni elementi prima certamente estranei alla nostra esperienza politico-istituzionale, diffondendo la chiara sensazione che sia possibile aprire una fase nuova di cambiamento.
La diffusa condivisione di concetti quali la "cultura di Governo" e la "cultura di opposizione", la stabilità, l'alternanza ecc., così come il peso che l'istituto del referendum ha assunto negli ultimi anni per determinare svolte sostanziali nelle politiche istituzionali, la riconsiderazione del ruolo dei partiti, già visti da alcuni come salvatori dell'identità nazionale mentre da altri come ostacolo a una sua affermazione - con i conseguenti nuovi modelli di organizzazione del consenso e della politica - sono tutti indicatori di un processo che muove verso una cultura dell'interesse comune, nazionale appunto, che va lentamente permeando il sistema istituzionale portando con sé logiche nuove di identità collettiva e comunanza di interessi super partes.
Questo nuovo quadro che muove i primi passi è il riferimento obbligato di un'intelligence non neutrale, nel senso dell'aderenza ai valori costituzionali, ma imparziale, cioè tutela di interessi che sono della comunità nella sua interezza. Una prospettiva che avvicina finalmente le possibilità di evoluzione del nostro sistema ai tanto celebrati modelli anglosassoni che sull'imparzialità dell'informazione hanno acquisito i migliori riconoscimenti, in termini di efficiente organizzazione e di tutela degli interessi vitali dello Stato.
La legge n. 801 del 1977, cui prima facevamo riferimento, costituisce certamente un'occasione non colta fino in fondo, ma anche la testimonianza che non si parte da zero nel mondo dell'intelligence, che anzi con il rinnovamento delle nostre Istituzioni può trovare una sua occasione storica di progettualità, efficienza e modernizzazione.
Una politica della sicurezza, in altri termini, dovrebbe poter individuare gli interessi fondamentali andando al di là di esigenze contingenti e di parte. La gestione della politica estera in Gran Bretagna e negli Stati Uniti in momenti storici cruciali ha dimostrato ampiamente che una tale prospettiva è realistica e possibile. Non si tratta, a ben vedere, di diminuire i poteri di indirizzo politico del Governo ma, appunto, accedere ad una cultura nuova.
Sarebbe troppo semplicistico e probabilmente di parte affermare che i Servizi funzionano se funziona il sistema istituzionale e la politica della sicurezza, nella prospettiva che si è cercato di descrivere. Tuttavia, è un dato di fatto che la crescita della cultura istituzionale, intesa in senso ampio, cioè come momento di sintesi dei valori e degli interessi strategici del sistema-Paese, ricadano essi nella sfera pubblica ovvero in quella privata, è un passaggio essenziale per una moderna democrazia.
Ci siamo già soffermati sulla circostanza che, per molti versi, l'occasione data dalla legge n. 801 poteva e può essere intesa come una splendida opportunità di un modello efficace. La necessità, largamente condivisa, di integrarne il contenuto su tre momenti (le garanzie funzionali, i controlli, il segreto di stato) sui quali l'esperienza e la sensibilità corrente suggeriscono di intervenire, è conferma di un impianto sostanzialmente valido.
Ciò che anche occorre, è un'effettiva integrazione dell'intelligence nell'azione di governo, rendendo effettivo il dialogo e la presenza dell'informazione in tutti i momenti decisionali che ne possano avvertire la necessità di supporto. Non solo, dunque, Servizi che dialoghino con le forze di polizia, ma che siano parte dell'amministrazione nel suo complesso. In altre realtà, operazioni "coperte" dei Servizi si esplicano mediante accordi esclusivamente amministrativi con organismi dello Stato, nel riconoscimento di una funzione. Importanti centri decisionali in Francia come in Gran Bretagna vedono confluire allo stesso tavolo il prodotto dell'intelligence e altri importanti riferimenti della società civile e delle Istituzioni, sempre a supporto del momento decisionale. Momento che, nello scenario della globalizzazione, si presenta di solito complesso e ricco di implicazioni in settori diversi, sul piano interno e su quello internazionale, ormai strettamente interconnessi.
E' dunque possibile che un percorso simile trovi nel nostro Paese una prospettiva?
Se si considerano taluni indicatori, il futuro sembra incoraggiante. L'esperienza in questa Legislatura del Comitato Parlamentare di controllo sui Servizi appare, ad esempio, sicuramente significativa. Estraneo ad ogni posizione preconcetta, l'organismo parlamentare si è assunto finora responsabilità istituzionali molto importanti, qualificando l'attività di intelligence, nonché tutelando, pur nell'esercizio dei doverosi rilievi, i Servizi da strumentalizzazioni. Ciò dimostra che può esercitarsi una funzione di controllo anche incisiva senza necessariamente mettere in discussione la funzione. Esempio significativo in tal senso è certamente la vicenda di una recente opposizione di segreto di Stato, portata dal Governo all'attenzione della Corte Costituzionale, davanti alla quale è stato elevato per ben due volte conflitto di attribuzione nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, e in relazione alla quale il Comitato si è espresso all'unanimità a tutela dell'operato del SISDe, su una questione nel suo contenuto strategica per l'intelligence.
Altre considerazioni avvalorano la nostra ipotesi. E' certo che solo pochi anni fa la riflessione sulla tematica delle attività non convenzionali dell'intelligence, ovvero le c.d. operazioni sotto copertura, che possono determinare un'attività ultra legem, e in relazione alle quali da tempo si avverte la necessità di una disciplina autorizzatoria e di controllo, nonché garanzie funzionali per gli operatori che le pongono in essere, incontrava diffuse perplessità e diffidenze. Il fatto che oggi, disegni di legge di ogni parte politica hanno a fattor comune la disciplina di tale aspetto, significa probabilmente che una maggiore informazione ha comportato una crescita della cultura specifica, sulla cui base spetta ovviamente al Parlamento assumere i propri indirizzi. Ma ancora, rilevante appare come, a differenza di ciò che avveniva nel passato, le relazioni periodiche che il Governo presenta al Parlamento e che contengono le linee generali delle analisi e delle previsioni che i Servizi producono sulla situazione della sicurezza, incontrino un'audience sempre più attenta e qualificata.
E' pertanto augurabile che, su tali nuove basi, anche la politica della sicurezza sia parte del processo di rinnovamento dell'organizzazione istituzionale, secondo un modello che, come si è cercato di illustrare, è già presente nella nostra struttura ordinamentale pur non essendo stato, finora, connotato da effettività.
In tale contesto, è destinata ad essere superata definitivamente la vecchia cultura che, nella migliore delle ipotesi, relegava i Servizi ad un ruolo secondario o marginale, nella consapevolezza che essi partecipano ad una essenziale funzione costituzionale, rappresentando una risorsa la cui piena utilizzazione, così come per ogni funzione pubblica, è nella responsabilità del Governo e nell'interesse stesso della garanzia di sicurezza che la comunità domanda.
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