Può sembrare strano che su una rivista di intelligence si parli dell'acqua. La stessa osservazione si faceva un tempo per il petrolio, usato da millenni, ma che solo nel 1906 salì alla ribalta internazionale, quando la Royal Navy su proposta di Churchill, allora primo Lord dell'Ammiragliato, decise di passare dalla navigazione a carbone a quella a nafta. L'acqua è più essenziale del petrolio. Se ne parla, principalmente per il ruolo svolto nel conflitto arabo-israeliano e nel "processo di pace". In realtà il problema è molto più esteso e destinato a incidere sulle scelte politiche di un futuro non molto lontano per almeno quattro motivi: 1) il tenore di vita è destinato a salire, anche nei paesi in via di sviluppo; 2) l'inquinamento atmosferico accompagnato dalla deforestazione è destinato ad alterare il clima del pianeta; 3) la crescita demografica va dallo 0,3% in Europa al 3% nei paesi arabi e 2,9% in Africa; 4) i fiumi transnazionali in condizione di carenza idrica sono suscettibili di suscitare conflitti. E' questo il punto più appariscente sul piano politico e del diritto che cumulato agli altri può divenire incontrollabile. I punti 1) e 3) non hanno bisogno di commento. E' il secondo che forse richiede qualche chiarimento.
C'è relativa concordia sul fatto che la temperatura terrestre subirà nei prossimi decenni un rialzo.
La discordia nasce sull'entità, valutata da 1° a 5°, con punte massime ai poli, dove la temperatura potrebbe crescere di 10-12°. Il disgelo accompagnato dal rialzo della temperatura potrebbe elevare, sia pur di poco, la superficie del mare
(1) . Si pensi quali disastrosi effetti potrebbe avere il fenomeno su regioni fertili, quali il delta del Nilo o lo Shatt al-'Arab. Il nostro pianeta ha già subito variazioni climatiche di ben altra entità, ma esse sono avvenute in archi di tempo lunghissimi, mentre le attuali alterazioni dell'uomo, sono avvenute in un centinaio di anni. Se anche l'impatto sarà limitato, potranno verificarsi alterazioni climatiche anche brusche, come inaspettate siccità, seguite da piogge torrenziali, con effetti catastrofici, forse già in atto. La piovosità potrebbe aumentare del 15% che se equamente distribuita potrebbe avere un effetto benefico
(2) . Ma le previsioni sono di segno contrario, poiché la piovosità si concentra maggiormente nelle regioni montuose, dove nascono i fiumi con effetti talvolta catastrofici per le regioni a valle. I paesi che traggono le loro risorse idriche da fiumi transnazionali potrebbero essere soggetti a inondazioni più frequenti, più pericolose della stessa siccità. E' certamente prematuro addentrarsi in queste previsioni, ma se dovessero avverarsi le conseguenze potrebbero essere molto gravi, dai flussi migratori, sempre più intensi, a veri e propri conflitti.
Le potenzialità di un conflitto sono evidentemente maggiori nel caso dei fiumi transnazionali, quando cioè il bacino fluviale è condiviso da più paesi e il paese a monte ha di fatto il controllo delle acque. Il caso si presentò per la prima volta nel Rio Grande tra Stati Uniti e Messico e diede origine alla cosiddetta dottrina Harmon
(3) , dal nome del generale che nel 1985 sostenne che il paese a monte non aveva "doveri" nei confronti del paese a valle, in sostanza non esisteva un "bacino fluviale" con diritti e doveri per tutti i paesi interessati. Questa dottrina è oggi contestata da convenzioni e istituti internazionali, ma è pur sempre il punto di riferimento, qualora un determinato paese se ne voglia avvalere per ragioni economiche o politiche o, stando alle previsioni più pessimistiche del futuro, di pura necessità
(4) .
L'acqua non è nuova agli interessi internazionali. La politica egiziana sin dall'epoca faraonica tendeva al controllo delle sorgenti del Nilo. L'incidente di Fascioda tra Francia e Gran Bretagna fu motivato anche dalla determinazione di controllare le fonti del Nilo. Ma oggi la politicizzazione è molto più evidente. Nel processo di pace arabo-israeliano, ad esempio, il problema idrico è forse il più scottante, per non dire irrisolvibile.
Non è quindi sorprendente il susseguirsi di incontri e convegni. Soltanto il 1997 ne ha registrati due, il primo dall'8 al 10 marzo nel Kuwait
(5) , il secondo a Marrakech in Marocco dal 21 al 22 marzo. Quest'ultimo è giunto alla conclusione che intorno al 2050 soltanto una trentina di paesi avranno la piena autosufficienza
(6) . Non molto diverse le conclusioni della conferenza di Parigi del marzo 1998. Le Nazioni Unite parlano di trecento zone a "rischio" di conflitto, mentre la Banca Mondiale ritiene che molti paesi dovranno ricorrere a importazioni d'acqua, come qualsiasi bene di consumo, e già si parla di privatizzazioni, come sperimentato in Cile. I costi globali per risolvere il problema sono valutati a 200-250 miliardi $.
Il 2050 è ancora lontano, ma le previsioni per gran parte del mondo arabo sono molto più vicine e in taluni casi già attuali. I ventuno paesi della Lega Araba si estendono su una superficie di circa 14 milioni di kmq, cioè il 9,2% della terra, ma il 40% è deserto e un altro 40% semideserto. Sono pochi i paesi in cui le precipitazioni sono sufficienti per l'agricoltura (Libano, parte della Siria, dell'Iraq, del Maghreb e dello Yemen). Il 67% non supera all'anno i 100 mm. A ciò bisogna aggiungere l'irregolarità delle piogge e l'alta temperatura, la prima può suscitare inondazioni, particolarmente in Iraq che ha un'intera letteratura al proposito, la seconda contribuisce all'evaporazione e quindi all'alta salinità dell'acqua fluviale, entrambi i fenomeni sono presenti anche nei wadi, i corsi d'acqua stagionali, la cui acqua finisce in gran parte perduta.
Si ritiene che le acque rinnovabili del mondo arabo siano 338 miliardi mc all'anno. L'uso presente si aggira intorno ai 172 miliardi mc all'anno. Ma verso il 2030 la richiesta sarà di 435 miliardi mc, con un deficit quindi di 100 miliardi mc, che secondo l'ACSAD
(7) , potrebbe giungere a 258 miliardi mc
(8) . Queste risorse sono distribuite in modo alquanto disuguale. Si va da 115 mc pro capite in Libia, ai 5000 mc, nelle stagioni piovose, in Iraq, dove però l'acqua è molto salina, tanto che il paese, un tempo grande produttore agricolo, era prima dell'embargo un grande importatore di prodotti alimentari. Ma anche l'Iraq è ben al di sotto della media mondiale che è di circa 12.000 mc. Quanto all'uso, secondo le statistiche del 1996, esso è così distribuito: agricoltura 164.925 milioni mc, industria 10.189 milioni mc, uso domestico 12.451 milioni mc.
I paesi arabi hanno in media una crescita demografica del 3%
(9) che è la maggiore del mondo. Nel 1970 la popolazione era di 126 milioni, nel 1995 raggiunse i 252 milioni, alla fine del 2000 sarà di 290 milioni. Tale crescita non è equamente distribuita. Dall'1,7% della Tunisia, si arriva ai 4,2% del Kuwait e dell'Arabia Saudita. Soltanto in pochi paesi, come l'Egitto, si è registrata un'inversione di tendenza. I paesi del CCG hanno il maggiore tasso di crescita, in quanto poco popolati, tendono a sostituire al più presto la manodopera straniera da cui dipendono. In questi paesi metà della popolazione ha meno di quindici anni con tutte le conseguenze per lo stato sociale che questa situazione comporta.
In Arabia Saudita fino a pochi anni or sono l'acqua era gratuita. Nella crisi che ha colpito il paese, il governo è stato indotto a introdurre tariffe differenziate sulla base del reddito familiare. Nel paese in cui le precipitazioni sono molto scarse, le acque sotterranee costituiscono una risorsa considerevole. Purtroppo queste acque non sono rinnovabili e d'altra parte risalendo ad antiche epoche geologiche, spesso necessitano di un trattamento, prima di essere utilizzate. Inoltre, talvolta sono condivise con un paese vicino il che come nel caso della Giordania può suscitare attriti.
Nel Golfo quindi i paesi sono stati costretti a intensificare la produzione mediante gli impianti di desalinazione. L'Arabia Saudita è in testa con una produzione annua pari a 4,2 miliardi mc che costituiscono il 57% dell'acqua prodotta in questo modo in tutto il mondo. Esistono nel paese 1137 impianti di desalinazione capaci di produrre al giorno oltre 100 mc
(10) . L'Italconsult era attiva in questo settore già negli anni Sessanta
(11) .
La desalinazione cui dovranno puntare un po' tutti i paesi arabi è un sistema piuttosto costoso. Il costo al mc si aggira da 1 a 1,9 $, ma con i costi per la distribuzione arriva a 2,5 $ al mc. Nelle monarchie del golfo, il sistema è agevolato dal basso costo energetico. Con tutto questo, però, persistendo l'attuale crescita demografica, si ritiene che 1/5 delle entrate petrolifere al prezzo attuale, relativamente basso, andranno alla desalinazione
(12) . I costi potrebbero sensibilmente diminuire ove esistesse maggiore competitività nel settore e i centri di ricerca locali fossero in grado di dare un contributo significativo.
Anche gli altri sistemi alternativi comportano un problema di costi. Tentativi di pioggia artificiale sono stati fatti in vari paesi arabi, Siria, Giordania, Libia e Marocco, ma soltanto in Siria hanno dato risultati promettenti. Il sistema di produrre acqua utilizzando la nebbia, è stato sperimentato in Cile, Canada e Germania. Nei paesi arabi, dove il fenomeno è raro, è stato sperimentato nell'Oman, ma con scarso successo. Si parla del trasporto dell'acqua via mare specialmente con le petroliere che al ritorno ripartono vuote.
Ecco un quadro dei costi dei sistemi alternativi per mc: desalinazione: 1-1,9 $; pioggia artificiale (Siria): 0,02 cents; trasporto marittimo: 0,2-0,6 $; trasporto con acquedotto (Peace pipeline): 0,8 -1 $; sorgenti sotterranee: 0,17-0,5 $; trattamento salinità: 0,25-0,5 cents
(13) .
Il fattore più rilevante sul piano politico è il fatto che buona parte delle risorse idriche (per taluni l'85%) ha origine nei paesi vicini (Etiopia, Turchia, Guinea, Iran, Senegal, Kenya, Uganda e Zaire). I paesi arabi sono cioè (con l'eccezione dell'Oronte) a valle del bacino fluviale e quindi più vulnerabili. La situazione dei bacini sotterranei sotto questo aspetto è migliore, ma nulla esclude possibili attriti, come nel caso del Great Man-Made River
(14) libico del costo di almeno 25 miliardi $ che attinge da un enorme deposito condiviso tra Libia, Ciad, Sudan ed Egitto.
Non è sorprendente quindi che il problema delle acque transnazionali abbia attirato l'attenzione delle istituzioni internazionali almeno dagli anni Settanta. I risultati, però, sono stati scarsi, poiché si tratta di indicazioni che devono essere accettate dalle parti in causa, come le raccomandazioni dell'International Law Association di Helsinki, e il Draft Treaty Concerning Transboundary Groundwater di Bellagio nel 1988. Tutto è lasciato dunque agli accordi bilaterali e multilaterali che il più delle volte sono provvisori
(15) .
I paesi arabi sono percorsi da fiumi famosi, come il Nilo, il Tigri e l'Eufrate, tutti e tre però hanno origine al di fuori del mondo arabo. Il bacino del Giordano a sua volta è conteso tra Siria, Giordania e Israele e costituisce, come vedremo, uno dei maggiori problemi del processo di pace. Agevole fu a suo tempo soltanto la soluzione per il bacino del Senegal che interessa, oltre al Senegal, il Mali, la Guinea e tra i paesi arabi la Mauritania. Gli accordi di Bamako nel 1963 e Dakar nel 1964 hanno portato alla costituzione di un "consiglio" ministeriale, ma non sono mancate complicazioni.
Il bacino del Nilo interessa: Etiopia, Sudan, Egitto - i paesi più interessati - e inoltre Eritrea, Uganda, Kenya, Tanzania, Ruanda, Burundi e Zaire. La questione delle sorgenti del Nilo interessò la diplomazia europea già nell'800 con gli accordi di Berlino nel 1884. Seguì il protocollo di Roma nel 1891, tra Gran Bretagna, Italia e Francia e gli accordi tra Gran Bretagna e Etiopia nel 1902 e Gran Bretagna e Congo nel 1906. Le intese raggiunte stabilivano che nessuno dei paesi firmatari poteva iniziare lavori senza consultare le parti interessate. Nel 1929 la Gran Bretagna riuscì a concludere un accordo tra Egitto e Sudan, al tempo entrambi occupati dagli inglesi. Venne stabilito che all'Egitto andassero 48 miliardi mc/anno e 4 miliardi mc al Sudan. La disparità deriva dal fatto che l'Egitto dipende per il 90% dalle acque del Nilo, laddove il Sudan, almeno nel Sud è relativamente ricco d'acqua. Queste percentuali furono corrette nel 1959 con 55,5 miliardi mc che dovevano andare all'Egitto e 18,5 miliardi mc al Sudan. Gli eventuali contenziosi dovevano essere risolti da un organismo internazionale.
Nel 1967, Egitto, Sudan e i paesi del Corno d'Africa si impegnarono a elaborare un sistema equo per la distribuzione delle risorse idriche del bacino, soprattutto negli anni di siccità. Venne così costituita una commissione di esperti nella quale l'Etiopia entrò come osservatore. Nel 1992 i paesi del bacino del Nilo hanno istituito un Consiglio Ministeriale, Egitto, Sudan ed Etiopia, sono tutti paesi a "rischio" idrico, ma è indubbio che è l'Egitto a trovarsi nelle condizioni peggiori. La sua popolazione è assiepata intorno al Nilo e sul delta. L'incremento demografico implica un'estensione dell'area urbana, che toglie all'agricoltura terre altamente produttive, per non parlare dell'inquinamento delle acque. L'Etiopia, a parte l'irregolarità delle precipitazioni, è il paese più privilegiato, tra l'altro la sua conformazione consente meglio che altrove la creazione di laghi artificiali, ma anche qui l'effetto demografico potrebbe portare a modificare l'atteggiamento attuale, deviando, ad esempio, le acque del Nilo Azzurro. L'Etiopia, inoltre, paese non ricco, potrebbe essere indotto a "vendere" l'acqua così come un tempo si parlò di fare tra Sudan e Arabia Saudita, poi tra Libano e Paesi del Golfo e come oggi parla di fare la Turchia con il Peace Pipeline.
Il Sudan ha grandi potenzialità agricole, tanto che a Khartum ha sede l'Organizzazione della Lega Araba per l'Agricoltura. Il Nord ha comunque un clima molto simile all'Egitto. Con tutto questo il paese nel suo complesso potrebbe divenire uno dei granai del mondo arabo. Nel periodo di Sadat, Egitto e Sudan avevano tentato l'unificazione. Si parlò di un "Parlamento del Nilo". Nel 1975 fu raggiunto un accordo per il Jonglei Schema che avrebbe dovuto recuperare parte delle acque che vanno perdute, senonché i lavori furono interrotti nel 1983 in seguito alla guerra civile.
Sul Nilo dopo la pace con l'Egitto nel 1979, puntava anche Israele, ma l'allora presidente etiopico Mengistu si oppose. I lavori alla famosa diga di Aswan hanno consentito in talune zone anche tre raccolti. Essi hanno inoltre attenuato l'effetto delle inondazioni e consentito di evitare i danni della siccità, specialmente quella terribile del 1984, ma l'acqua esposta più a lungo all'evaporazione è soggetta ad alta salinità. Al passivo anche la riduzione delle acque sotterranee rinnovabili
(16) e i danni alla pesca nel Mediterraneo.
Più complessa è la situazione dei grandi fiumi mesopotamici, il Tigri e l'Eufrate che entrambi però nascono in Turchia per congiungersi a Qurna, 140 km dal Golfo formando lo Shatt al-'Arab nel quale si riversa anche il Karun all'altezza del Khurramshahr, fornendo così all'Iran un ulteriore motivo per la sua controversia con l'Iraq
(17) .
Ma è con la Turchia che il contenzioso sta assumendo dimensioni preoccupanti da quando la Turchia ha avviato negli anni Ottanta il progetto del GAP (Guney Anadolu Projesi) che comporta la costruzione di ventidue dighe che dovrebbero bonificare una vasta zona meridionale, mentre il Peace Pipeline dovrebbe produrre 2,5 milioni di mc al giorno per l'esportazione
(18) . Si parlò anche di Gulf Pipeline diretto al Golfo. 2/3 dell'acqua dovrebbe arrivare dall'Eufrate e 1/3 dal Tigri. E' chiaro che il progetto, la cui conclusione è prevista per il 2010, danneggia la Siria e l'Iraq e pertanto può alterare l'intero assetto regionale già soggetto alle note tensioni
(19) .
I due fiumi hanno regimi e percorsi differenti. Il 98% delle acque dell'Eufrate ha origine in Turchia, laddove il Tigri che nasce anch'esso in Turchia ha un percorso diverso. Per 32 km, esso segna il confine tra Turchia e Siria, in base al protocollo del 1930, concluso all'epoca del mandato francese. Il Tigri nasce anch'esso in Turchia, ma il 58% dell'acqua appartiene all'Iraq anche se in parte calando dallo Zagros, qualche rivendicazione potrebbe essere avanzata dall'Iran.
I confini tra Turchia, Siria e Iraq sono stati tracciati in epoca coloniale. Il trattato di Losanna nel 1923 (senza la Siria), sottolineava la necessità di consultazioni dirette tra Iraq e Turchia, qualora dovessero intervenire modifiche al naturale percorso dei fiumi. Seguì nel 1926 il Trattato di Amicizia e Buon Vicinato tra Turchia e Siria (senza l'Iraq). Le disposizioni del 1923 furono confermate nel 1946, ma soltanto tra Turchia e Iraq che fino all'uscita dell'Iraq dal Patto di Baghdad militavano nella stessa alleanza. Ma dopo la caduta della monarchia in Iraq nel 1958 i rapporti si complicarono, fino a quando la rivoluzione islamica in Iran nel 1979 non portò al riavvicinamento e alla firma di un protocollo di cooperazione tecnica ed economica, esteso soltanto nel 1983 alla Siria con la costituzione di una commissione che iniziò lunghe trattative che portarono, però, a un accordo soltanto tra Siria e Turchia. Nel 1987, la Turchia si impegnò a cedere alla Siria 500 mc d'acqua al secondo delle acque dell'Eufrate. Fu quindi raggiunto un accordo tra Siria e Iraq con la quale la Siria si impegnava a cedere all'Iraq il 58% delle acque cedute dalla Turchia. L'intesa del 1987 fu confermata nel settembre 1992 al vertice di Ankara. Senonché l'avvicinamento turco-israeliano culminato negli accordi del marzo 1996 ha indotto la Siria a convocare a Damasco i MAE di sette paesi arabi che hanno sollecitato un accordo permanente in sostituzione degli accordi precedenti
(20) .
Ancora più complessa è la situazione nel bacino del Giordano che interessa Siria, Giordania, Israele, territori occupati, e se vogliamo il Libano. Il bacino del Giordano produce all'anno 1,88 miliardi mc, di cui però 630 milioni mc si perdono per l'evaporazione. I principali affluenti sono il Hasabani che nasce nel Libano e il Banyas che nasce nel Golan. Del bacino del Giordano fa parte anche lo Yarmuk che nasce in Siria. Interessando una delle aree più delicate del mondo, nella questione intervenne nel 1953 lo stesso presidente USA Eisenhower che incaricò il suo inviato Eric Johnston a elaborare un piano accettabile a tutti. La sua mediazione non fu formalmente accettata da nessuna delle parti in causa, ma di fatto costituì un modus vivendi. Negli anni Sessanta, Israele iniziò la colonizzazione del Negev, l'area meno ricca d'acqua del paese. Fu prosciugato il lago Hula, e deviate le acque dello Yargon, ma iniziarono anche lavori a danno del Giordano e Israele minacciò l'uso della forza nel caso Giordania e Siria avessero tentato di deviarne le acque
(21) . La situazione cambiò radicalmente, dopo la guerra dei "sei giorni" nel 1967, in quanto Israele si impadronì delle principali sorgenti del Giordano, ma non dello Yarmuk. Successivamente con l'invasione del Libano del 1982, Israele rafforzò ulteriormente il controllo delle risorse idriche regionali.
Bisogna ricordare che le fonti idriche del bacino sono già sovrasfruttate, specialmente in Giordania e territori occupati, che hanno un incremento demografico del 3,6% e del 3,8% rispettivamente. Le condizioni di Israele sono migliori, ma l'80% dell'acqua è tolta ai territori occupati. Israele controlla 2000 milioni mc di acqua, le cui sorgenti si trovano nei paesi arabi. In Cisgiordania la situazione è particolarmente a sfavore dei palestinesi, da quando Israele iniziò la colonizzazione programmata della regione
(22) . Dei 700-900 mc d'acqua sotterranea prodotta all'anno, soltanto 130 milioni mc vanno ai palestinesi. Il vespaio della striscia di Gaza coi suoi campi profughi e oltre 4000 abitanti per kmq è in condizioni ancora peggiori; alle poche migliaia di coloni ebraici vanno le risorse idriche migliori. E' ben vero che ai profughi l'acqua serve soltanto per uso domestico. Non è quindi sorprendente come nell'intifada scoppiata a Gaza nel dicembre del 1987 l'acqua sia già entrata nella protesta araba.
In Giordania le acque rinnovabili sono 275 milioni mc all'anno, quelle non rinnovabili, cioè sotterranee, sono 190 milioni mc. Il resto viene dalle piogge che, però, interessano soltanto poche province e consentono una limitata produzione agricola. Se non interverrà la desalinazione, verso il 2005 il paese entrerà in una grave crisi idrica, malgrado l'accordo del 1987 con la Siria per la costruzione delle diga dell'"unità" sullo Yarmuk.
Il trattato di pace tra Giordania e Israele dell'ottobre 1994 (allegato II, 3) invitava Israele a trasferire dal lago di Tiberiade in Giordania 50 milioni mc all'anno entro l'ottobre del 1995. Altri 50 milioni mc dovevano essere trasferiti dalla Bayt She'an Valley. Ma questa seconda parte suscitò proteste in Israele e il governo di Netanyahu non ha certo favorito la soluzione. Il 6 maggio 1997 i negoziati furono interrotti e soltanto dopo lunghe trattative il 18 maggio 1997 Israele iniziò a trasferire 20 milioni mc dal Lago di Tiberiade al King Abdallah Canal in Giordania
(23) , ma questo soltanto perché c'era stata una stagione piovosa. Il 10 novembre 1997 fu raggiunto un accordo tra i due paesi per il Jordan Plan Development che prevede anche impianti di desalinazione, ma esso è stato criticato negli ambienti palestinesi, dove non si è andato molto oltre al comitato congiunto con poteri transitori, previsto dall'Allegato III, 40, di Oslo II.
Questa situazione è destinata a pesare sul processo di pace. Un rapporto dell'UE prevede che verso il 2020 le risorse idriche di Israele saranno dimezzate, e in Giordania ridotte di 2/3. A Gaza la disponibilità non andrà oltre i 45 mc pro capite. E' quindi comprensibile come gli accordi sull'acqua siano criticati da entrambe le parti: per gli Arabi non risolvono il problema, mentre in Israele c'è la sensazione che una conclusione equa del processo di pace finirebbe inevitabilmente col danneggiare le riserve idriche del paese. Israele ha quindi in mente soluzioni regionali di più ampio respiro. Abbiamo già ricordato il tentativo del 1979 di attingere al Nilo. Il rovesciamento di Mengistu in Etiopia avrebbe potuto agevolare tale prospettiva, se non fosse intervenuta la guerra civile nel Sudan. D'altra parte i buoni rapporti che Israele mantiene tradizionalmente con i paesi non arabi, come l'Etiopia, a più riprese hanno insospettito l'Egitto. Nelle condizioni attuali dell'Iraq l'attenzione potrebbe volgersi verso i fiumi della Mesopotamia che nascono in Turchia. Nei vari accordi turco-israeliani del 1996 è da vedere anche questa prospettiva. L'ostacolo è la Siria che gioca da tempo la carta del PKK contro il governo di Ankara. Vale la pena di ricordare che il Peace Pipeline per giungere in Giordania, Israele e Arabia Saudita dovrebbe passare per la Siria, ma una soluzione alternativa è attraversare il Kurdistan iracheno che tra l'altro raccoglie gran parte delle acque che si riversano nel Tigri. Ma il problema curdo, dopo le due guerre del Golfo, è divenuto talmente grave da indurre i paesi dove esiste questa minoranza a una certa collaborazione.
Come si vede esistono nel Medio Oriente tutte le potenzialità per un conflitto sull'acqua
(24) . Abbiamo lasciato da parte la guerra civile nel Sudan, l'intervento libico nel Ciad a l'occupazione israeliana del Libano meridionale, tutti problemi nei quali l'acqua svolge o ha svolto un ruolo importante. Il conflitto potrà essere evitato soltanto nell'ambito di una collaborazione regionale nella quale i paesi del bacino del Tigri, Eufrate, Nilo e Giordano diventino non dico "alleati", ma perlomeno vincolati da un trattato di pace, ipotesi che l'attuale situazione di alleanze contrapposte e lo stallo dei negoziati arabo-israeliani sembrano escludere. La Turchia, ad esempio, (assieme a Cina e Burundi) ha votato contro la Convention on the Law of Non-Navigational Use of International Watercourses, approvata a larghissima maggioranza il 21 maggio 1997
(25) .
D'altra parte il commercio e la privatizzazione del settore può risultare destabilizzante, accentuando i già gravi scompensi sociali a tutto vantaggio dei movimenti estremisti. Ricordiamo che per il diritto islamico l'acqua è un bene comune. Naturalmente, esiste l'alternativa della pace assicurata con la forza, con Turchia, Israele ed Egitto, trasformati in una sorta di "guardiani" delle risorse idriche regionali. Una soluzione, però, alquanto pericolosa per i paesi "deboli" che bene o male dovrebbero subire il ricatto militare dei paesi "forti", due dei quali, Egitto e Turchia, potrebbero fare la stessa fine dell'Iran dello shah, già "guardiano" del petrolio del Golfo.