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Per Aspera Ad Veritatem n.13
Intervista all'autore: Edward LUTTWAK

La grande strategia dell'impero romano





Intervista all'autore (*)
D. - Un libro importante, un'analisi accurata di un periodo storico molto interessante ma lontano nel tempo. "Historia magistra vitae", oppure un interesse particolare ha motivato un esperto di strategia a compiere questo tuffo nel passato?

R. (Luttwak) - Quando decisi di studiare le strategie romane, nel 1973, e di farne il soggetto della mia tesi per il dottorato, la guerra fredda era un datum fisso della situazione internazionale, ed io lavoravo al Pentagono come consulente strategico. Volevo esplorare modelli di strategie di lunga durata, dove si "vince" tenendo duro senza tentare di "sfondare" in offensive impossibili, ma invece aspettando pazientemente la vittoria incruenta regalata dall'esaurimento dell'avversario. Ero interessato alle tattiche dell'esercito romano come ai metodi operativi e alle strategie di teatro per se stesse, senza scopi ulteriori (il loro studio è interessante in se stesso). Ma a livello di grande strategia si vedeva qualcosa di applicabile.

D. - L'impero romano è da ritenere, secondo il suo giudizio, un esempio di globalità politica ed economica?

R. - Sì, certamente, ma è un esempio ancora troppo avanzato per i nostri giorni poiché già nella metà del primo secolo i Romani erano diventati "transnazionali" con l'entrata dei primi Galli "comati" (dal nord della Francia di oggi) nel Senato. Noi invece siamo ancora legati al nazionalismo. Non credo che in Italia uno spagnolo potrebbe diventare Presidente del Consiglio come Traiano divenne imperatore.

D. - La multietnicità dell'impero romano può essere ritenuta elemento caratterizzante di un'organizzazione statuale aperta a qualsiasi apporto culturale, sociale, militare e religioso?

R. - Appunto. Chi accettava e sapeva esprimersi nelle lingue imperiali (latino in occidente, greco in oriente), chi accettava la legge romana era romano al cento per cento. Era un'appartenenza politica che liberamente permetteva le altre appartenenze (religiose, etniche...). Ciò che era avanzato in questo era la libertà di scelta lasciata all'individuo. Ciò che l'individuo non poteva controllare (il suo luogo di nascita, la sua razza, la sua religione di nascita) non contava; contava solo la sua volontà di essere romano, di essere fedele all'impero.

D. - La difesa dell'impero romano è da Lei considerata come quella che una civiltà avanzata pone a protezione dei propri interessi e sicurezza mediante un esercizio efficiente e ben organizzato nella logistica.
Considerando valida ancora oggi questa riflessione, è altrettanto acquisito che questa difesa ad un certo punto ha ceduto. In chiave moderna, quali sono gli elementi di corrosione destinati ad incidere in una difesa così concepita?


R. - Ormai nessuno crede che l'impero sia caduto per ragioni materiali. Gli studiosi moderni essenzialmente concordano con la tesi di Gibbon (rifiutata nel secolo scorso) che spiegò il declino come il risultato di una crisi ideologica causata dal cristianesimo. L'impero era basato su un'ideologia stoica che formava individui non solo indipendenti ma intrepidi, pronti a combattere per la dignità del combattimento, pronti a vivere nell'azione per l'azione, senza bisogno di credere in un aldilà, in un paradiso, senza bisogno di temere un inferno. Basta leggere Marco Aurelio. Il cristianesimo invece invitava i credenti a salvare le proprie anime e proponeva una religione definita più importante dell'impero, e perfino definita più importante dell'imperatore.
Con la sua sottomissione a un Dio onnipotente, il cristianesimo era una religione adatta per schiavi, non per individui intrepidi, che non hanno paura della morte.


(*) A cura della Redazione

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