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Per Aspera Ad Veritatem n.11
Mercati ed intelligence

Osvaldo CUCUZZA




Un illustre economista (1) ha recentemente affermato che alcune case editrici "sembrano convinte che inserire la parola globalizzazione nei titoli sia un modo sicuro di vendere libri".
In realtà il termine "globalizzazione" è vittima del suo stesso successo, uscito dai confini dell'analisi scientifica, esso è entrato a far parte del linguaggio comune, rischiando di divenire una espressione generica, puramente evocativa, con la quale si fa riferimento a processi, dei quali però manca una chiara definizione (2) .
Ed infatti, il termine globalizzazione viene adottato con significati e riferimenti molto diversi, se non addirittura contraddittori.
Con esso, di volta in volta, si designa la crescita di interdipendenze a livello planetario, l'intensificazione delle relazioni in ambito mondiale, l'incorporazione degli abitanti del nostro pianeta in un'unica società mondiale, la comprensione del mondo e la sua strutturazione in un tutto unico.
Vero è che il fenomeno della "globalizzazione" ha connotazioni assai complesse e non necessariamente solo attuali.
Con riferimento, infatti, all'avvio del processo di globalizzazione ed alle sue dinamiche storiche, è possibile registrare posizioni diverse.
C'è chi sostiene che esso abbia accompagnato sin dall'inizio il cammino umano sebbene i suoi effetti si siano manifestati solo recentemente. Altri fanno coincidere l'inizio del processo con la modernizzazione e con lo sviluppo del capitalismo. Altri ancora ritengono la globalizzazione un fenomeno recente, conseguente alla modernizzazione, associato ad altri processi sociali designati, di volta in volta, come post-industrializzazione, post-modernizzazione, disorganizzazione del capitalismo.
Nonostante l'indubbia importanza riconosciuta a fattori contingenti legati allo sviluppo tecnologico ed alle trasformazioni economiche, si riscontra un ampio consenso nel ritenere che la globalizzazione non possa essere correttamente intesa se si prescinde dal processo storico che è alle sue spalle.
A tale riguardo, Robertson (3) ha individuato le linee guida del sentiero storico-temporale che avrebbe portato alla situazione attuale, caratterizzata da "alta densità e complessità globale", suddividendo il percorso in cinque fasi.
Egli colloca la fase "germinale" del processo di globalizzazione tra l'inizio del XV Secolo e l'inizio del XVIII, in concomitanza con le prime grandi scoperte geografiche, che hanno visto come protagonista l'Europa e che segnano anche l'inizio dell'egemonia dell'Occidente sul globo (4) .
Successivamente il fenomeno, avendo sempre come centro l'Europa, è entrato in una fase definita "iniziale", che va dalla metà del XVIII Secolo al 1870, periodo in cui si registra un forte consenso verso l'idea di Stato unitario e nazionale, cioè culturalmente omogeneo e con una cittadinanza amministrata.
Nascono le relazioni internazionali formalizzate, aumentano le convenzioni ed i trattati, così come gli organismi che si occupano di regolazione e comunicazione nazionale e transnazionale. è in questa fase che la globalizzazione raggiunge livelli per certi aspetti insuperati, il Paese più avanzato del periodo, il regno Unito, esporta più di 1/3 del P.I.L., cioè a dire, in proporzione, tre volte il volume complessivo delle esportazioni degli Stati Uniti negli anni '90 del Novecento (5) .
Per la prima volta si presenta il problema dell'ammissione di Paesi non europei alla "società internazionale" con il conseguente emergere della tensione nazionalismo-internazionalismo: è questa l'epoca in cui si registra anche la comparsa delle prime tecnologie mondiali della comunicazione.
A ciò poi deve aggiungersi l'importanza come elemento unificante della presa di coscienza del carattere universale della scienza, direttamente proporzionale all'enorme prestigio progressivamente acquisito da quest'ultima.
Una terza fase, detta "fase del decollo" va dal 1870 al 1920 circa, periodo in cui per la prima volta si ha l'ammissione di alcuni Paesi non europei nella c.d. "Società internazionale", mentre si assiste ad un incremento fortissimo in numero e velocità delle forme globali di comunicazione.
Il processo di globalizzazione va estendendosi ad alcune società non europee, mentre si affermano concezioni sempre più globali per quanto riguarda il "giusto profilo" di una società nazionale "accettabile" e le idee concernenti l'identità nazionale e personale vengono ampiamente sviluppate.
A tale fase, subentra quella della c.d. "lotta per l'egemonia" che va dall'inizio degli anni '20 alla metà degli anni '60 e registra una serie di dispute sui fragili termini del processo di globalizzazione fissati alla fine del periodo di decollo. Nascono le Nazioni Unite, basate sulla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, ma questa è anche l'epoca dell'internazionalismo politico-ideologico: comunista (internazionale comunista a guida bolscevica), fascista (le potenze dell'Asse proclamano l'instaurazione di un "nuovo ordine" a livello globale), liberal-capitalista (mondo libero a egemonia U.S.A.)
La fase che stiamo vivendo è quella c.d. "dell'incertezza" che, iniziata negli anni '70, ha già mostrato segni di crisi nei primi anni '90. è il periodo in cui si ha la forte crescita della percezione individuale e collettiva di appartenere ad un unico mondo in relazione sia ad alcuni cambiamenti economici, tecnologici e politici, sia all'emergere di nuove istanze di portata sovranazionale.
Il numero dei movimenti e delle istituzioni globali si accresce notevolmente, mentre le società sono poste sempre di più di fronte ai problemi concernenti la multiculturalità e la polietnicità. Lo stesso modo di pensare l'individuo è reso più complesso da considerazioni etniche, razziali e di genere, mentre si moltiplicano gli allarmi per l'esplosione demografica, per la proliferazione della produzione di armi nucleari e, più in generale, di armi di distruzione di massa.
Il sistema politico internazionale diventa più fluido con la fine del bipolarismo.
A livello economico, la comparsa delle multinazionali, in grado di agire in modo indipendente dal controllo degli Stati-Nazione, pone nuove questioni relative alla regolamentazione dell'attività economica, questioni che diventano ancora più urgenti con la nascita del mercato internazionale della droga, connesso con la trasformazione delle associazioni criminali in imprese economiche di grandi dimensioni, che operano a livello transnazionale.
Non è detto che il fenomeno della globalizzazione sarà la caratteristica permanente nei rapporti tra gli Stati nel corso del III Millennio, ma è certo che, pur con tutte le sue incertezze, il fenomeno non ha ancora sviluppato appieno tutte le sue potenzialità che vanno progressivamente palesandosi, ma insieme alle quali vanno definendosi i rischi connessi con il fenomeno in argomento.
Fatta questa presentazione panoramica, è necessario ora analizzare le caratteristiche attuali della globalizzazione.
Innanzitutto è da registrare la vanificazione del concetto di territorialità degli Stati, con la conseguente caduta delle frontiere e delle barriere tariffarie, con la progressiva perdita della sovranità dei singoli Paesi a favore di organismi nazionali e/o sovranazionali e la vanificazione delle regole fissate dagli Stati-Nazione.
Altra connotazione è costituita dallo spostamento della competizione tra gli Stati dal campo geopolitico a quello geoeconomico (inteso questo nel senso più ampio). Lo Stato geostrategico e quello del welfare devono trasformarsi in uno Stato geoeconomico, perché è l'economia e non più la forza militare a determinare la gerarchia delle potenze sulla scena internazionale.
Da ciò è derivata la vanificazione del concetto che la potenzialità di un Paese sia legata all'entità della popolazione, all'ampiezza del territorio, nonché la vanificazione del teorema c.d. "ciclo prodotto", per il quale solo gli Stati più avanzati in chiave tecnologica avevano titolo, in passato, a dominare i mercati. Nel passato, i Paesi industrializzati avevano produzioni tecnologicamente superiori - e quindi a più alto valore aggiunto - di quelle dei Paesi di nuova industrializzazione, che non potevano far concorrenza ai primi perché i loro manufatti erano prodotti con tecnologie superate o obsolete che li ponevano fuori mercato. I primi quindi dominavano il mercato mondiale: ad esempio, la produzione tessile inglese determinò il collasso di quella indiana. Ora, invece, sono le imprese dei Paesi emergenti a mettere fuori mercato quelle dei Paesi di più vecchia industrializzazione. Basti pensare alle produzioni elettroniche del Sud-Est asiatico.
Nasce il concetto di "interesse nazionale" e, al tempo stesso, si tenta di definire a livello internazionale le politiche ambientali, sui diritti umani, sullo sviluppo sociale, sulla urbanizzazione. In Europa, in particolare, emerge l'esigenza di un ripensamento e di una revisione degli assetti del welfare.
Una ulteriore caratteristica del processo di globalizzazione è costituita dalla vanificazione del principio che l'aumento di produttività determini lavoro, nonché dalla rapida obsolescenza delle strutture organizzative di tipo gerarchico-funzionale - con poli decisionali accentrati - a favore di un deciso sviluppo delle strutture a rete tendenti ad assicurare una maggiore adesione alle realtà locali, ovunque esse siano, a livello mondiale. Per taluno, già si può parlare di "Stati reticolari", tra i quali viene citata come esempio emblematico la Cina.
Ma forse l'aspetto più qualificante dello stadio attuale del processo di globalizzazione è dato dal tumultuoso sviluppo delle tecnologie di frontiera - delle tecnologie hi-tech - quali l'informazione, la telematica e, più in genere, tutte le forme di comunicazione.
Si è così assistito ad una progressiva dematerializzazione della ricchezza nonché al superamento del principio che i mercati finanziari siano dominati dalle istituzioni: è vero il contrario. I flussi di capitale che giornalmente attraversano e si allocano nell'ambito del mercato mondiale hanno un'entità di gran lunga superiore alla somma delle riserve di tutte le banche centrali.
I flussi finanziari e la ricchezza in genere tendono a polarizzarsi in aree tra loro ben collegate e pienamente integrate, con la conseguenza che l'isolamento determina la mortificazione di uno Stato e l'uscita dalla competizione globale. Gi stessi Stati Uniti hanno dovuto prendere atto di questa realtà allorquando, nel 1994, il Congresso americano ha approvato l'adesione piena degli Stati Uniti al trattato dell'Organizzazione Internazionale del Commercio.
La panoramica dello sviluppo delle tecnologie di frontiera non può chiudersi senza far riferimento alla facilità di acquisizione e di trasmissione delle notizie che forse, ai nostri fini, è l'aspetto operativamente più interessante.
Ma la società mondiale che è andata così costruendosi presenta rischi che devono essere affrontati con l'attivazione delle attività di intelligence a supporto di una adeguata attività previsionale, cui deve seguire una elevata rapidità decisionale.
Mi limiterò a indicare quelli che ritengo essere i rischi più strettamente connessi con il processo di globalizzazione:
- il risveglio dei nazionalismi, che determina conflitti etnici e lo sviluppo di attività terroristiche;
- il risveglio degli integralismi religiosi, talvolta a copertura di conflitti politico-economici, che a loro volta possono portare al terrorismo;
- le tensioni sul piano sociale, politico ed economico (sul piano interno ed internazionale) in relazione alla tendenza della ricchezza ormai dematerializzata a polarizzarsi in aree tra loro ben collegate ed evolute con la conseguente determinazione di contrasti fra periferia e centro e tra regioni ricche e regioni povere;
- l'andamento sincronico delle situazioni congiunturali, con pericolosi effetti di amplificazione direttamente proporzionali al tasso di globalizzazione delle singole economie, come la crisi asiatica ha ampiamente dimostrato;
- l'incertezza nelle relazioni valutarie conseguente alla caducazione del vecchio assetto posto dagli Stati-Nazione e le spinte per la fissazione di nuove regole, che è estremamente difficile definire;
- tensioni socioeconomiche - che rischiano di compromettere i rapporti intergenerazionali - connesse con le riforme del welfare, specie nell'ambito degli Stati europei;
- emersione di forme difficilmente regolabili di democrazia transnazionale, di cui l'esempio più noto è costituito da Greenpeace.
Dal quadro così delineato, emerge evidente che la capacità di uno Stato a reggere la competizione globale è direttamente proporzionale alla rapidità delle decisioni, supportate dall'acutezza delle capacità di previsione dei rischi. Ma ciò presuppone la conoscenza tempestiva e reale delle situazioni - che sul piano operativo si traduce in capacità di intelligence - mentre il parametro "tempo" assurge a fattore critico dei rapporti internazionali.
In concreto, occorre rendersi conto che la globalizzazione non è un'opzione: essa è un dato di fatto e una sfida. Se le scelte non ne tengono conto, ci si isola dal mondo e si decade. Nessuno può più permettersi il lusso della diversità, soprattutto nell'area regionale in cui è integrato.
L'impatto della globalizzazione obbliga a ripensare i fondamenti stessi del concetto di cittadinanza e ad elaborare una strategia geoeconomica.
Il sistema post-bipolare è dominato da tre poli, ciascuno caratterizzato da un tipo particolare di capitalismo.
Quello americano, ampiamente liberista, capace di assorbire la disoccupazione, ma caratterizzato dalla pauperizzazione di circa un terzo della popolazione. Quello europeo, meno dinamico, incentrato sulla protezione sociale dei lavoratori e degli anziani, ma contraddistinto da una minore crescita economica e dalla disoccupazione di masse di giovani. Quello confuciano, infine, proprio del Sud-Est asiatico, è caratterizzato da uno sfruttamento massiccio della forza lavoro, da un consumo indiscriminato di risorse ecologiche, ma da una crescita eccezionalmente rilevante (10% di incremento annuo del PIL, rispetto al 3-4% degli Stati Uniti e all'1-2% dell'Europa).
Se l'Europa non riprenderà la crescita economica non solo non potrà sostenere lo sviluppo degli emarginati, ma neppure proteggere il proprio benessere e la propria tranquillità dalle instabilità di questi ultimi, finendo per dipendere sempre più dagli Stati Uniti, il cui sostegno, rispetto al passato, sarà più costoso, in termini sia politici che economici.
Troppo facilmente taluni hanno pronosticato la fine dello Stato-nazione e la sua progressiva irrilevanza nel "villaggio globale". Di fatto gli Stati sono erosi da forze subnazionali (localismi, regionalismi, internazionalismi, ecc.), transnazionali (finanza, imprese multinazionali, ma anche criminalità internazionale) e sovranazionali (istituzioni internazionali, come l'ONU, o regionali come l'UE, la NATO, ecc.).
Tuttavia, anche se la sua sovranità in molti settori è stata erosa, lo Stato rimane la struttura politica fondamentale dell'intero sistema internazionale.
Occorre tener conto, nei rapporti esterni, che non esiste una comunità internazionale, ma solo interessi comuni fra gli Stati. L'interesse non è un concetto astratto, ma è legato alla capacità di raggiungerlo, cioè al potere di cui dispone lo Stato. Solo determinando le condizioni per poter competere, uno Stato può concorrere con gli altri alla costruzione di un nuovo ordine confacente ai propri principi, valori ed interessi. In caso contrario diviene oggetto della storia; è espropriato dalla possibilità di influire sul destino proprio e su quello dei suoi cittadini.
Una risposta alla globalizzazione è data dalla regionalizzazione, di cui l'Unione Europea è la realizzazione più importante, che tuttavia non è in grado ancora di sostituire quella nazionale.
La regionalizzazione tende a creare nuove differenze, anche se offre numerose opportunità di economie di scala e di competizione. In un certo senso, la regionalizzazione è un apprendistato alla globalizzazione. Ma nei sistemi regionali permangono le differenze dovute alla cultura economico-politica, alla struttura e alle vocazioni nazionali.
Gli Stati dovrebbero poi darsi politiche geoeconomiche orientate a incidere sulle condizioni dell'economia all'interno del Paese e sulla presenza organizzata nelle differenti aree mondiali.
In altre parole, lo Stato, in tutte le sue articolazioni e livelli di governo, si impegna in modo significativo a promuovere il mantenimento o il miglioramento all'interno di una situazione di efficienza competitiva diffusa per rendere conveniente l'esercizio di attività economiche sul proprio territorio, e si assume in maniera sistematica il compito di favorire la presenza internazionale della propria economia.


Negli oltre quarant'anni del confronto bipolare, si riteneva che la sicurezza risiedesse essenzialmente nell'assenza di minacce militari o nella protezione della comunità nazionale da attacchi esterni; pertanto i sistemi di sicurezza avevano lo scopo di garantire l'integrità del territorio nazionale, delle sue risorse e delle sue Istituzioni.
La sicurezza veniva così ad essere caratterizzata da una connotazione quasi esclusivamente militare. D'altra parte, il sistema internazionale era condizionato dalla continua e pregnante minaccia di una guerra mondiale, ed era caratterizzato altresì da una inconciliabile contrapposizione politico-ideologica che ben poco lasciava ai metodi specifici di risoluzione dei conflitti. In concreto, le due superpotenze protagoniste del secondo dopoguerra, operando in un contesto di reciproco antagonismo, decidevano ogni loro azione secondo una logica che sottendeva il principio di reciproca distruzione.
A questa situazione, si sommava la presenza di cospicui arsenali nucleari, che avevano introdotto il concetto di distruzione totale del nemico e della propria distruzione in virtù della cosiddetta second strike capability, in sostanza della disponibilità da parte di entrambe le superpotenze di effettuare una rappresaglia devastante contro il territorio e la popolazione avversari anche dopo aver subito il primo attacco nucleare. Ne derivò che la guerra nucleare divenne irrazionale, l'impiego della forza da effettivo divenne potenziale; la minaccia del ricorso alla forza ne sostituì l'uso concreto.
In tal modo, Stati Uniti e Unione Sovietica affidarono la propria sicurezza alla dissuasione nucleare, che avrebbe dovuto impedire anche il realizzarsi di attacchi convenzionali attraverso il meccanismo del coupling, che - almeno in teoria - garantiva gli europei che ad un attacco convenzionale sovietico si sarebbe risposto da parte americana non solo con armi convenzionali ma anche con missili nucleari tattici ed eventualmente strategici, attraverso una escalation deliberata, flessibile e graduale.
In tale contesto, la dimensione militare condizionò lo stesso concetto di potere, talché una corrente di pensiero ispirata al cosiddetto "realismo politico" poneva la forza militare e/o la minaccia del suo uso quale parametro fondamentale di valutazione della potenza di una entità statuale. Morgenthau, caposcuola di questa corrente di pensiero, sosteneva che "la dipendenza del potere di uno Stato dal livello della sua organizzazione militare è talmente ovvia da rendere superflua ogni ulteriore aggiunta".
Orbene, tali paradigmi e tali visioni non hanno più una concreta attualità nel mondo post-bipolare, ma si impone l'esigenza di nuove categorie e di nuovi strumenti teorici per comprenderne meglio strutture e funzionamento e conseguentemente di nuove strategie per poter ragionevolmente incidere su tale nuova realtà.
Nel periodo della cosiddetta "guerra fredda", l'attività dei servizi segreti non poteva che essere finalizzata verso obiettivi di natura prevalentemente politica e strategica, in stretta aderenza alle principali minacce che erano appunto di carattere militare.
Ciò non implicava che le questioni economiche fossero estranee alle attività dei servizi di intelligence dei Paesi più sviluppati, tanto che un illustre autore sosteneva che essa dovesse "mirare a nuove colture e allo sviluppo di nuovi metodi di coltivazione..., deve seguire la scoperta di nuovi procedimenti industriali e il sorgere di nuovi settori, deve seguire i cambiamenti nelle tecniche e nei modi di realizzazione della distribuzione... nuove vie di trasporto...e modifiche dei mezzi di trasporto...."
Ciononostante, per tutto il periodo di confronto bipolare l'intelligence economica venne trattata come una sottocategoria dell'intelligence tradizionale e le sue finalità furono essenzialmente politico-militari.
L'espressione più concreta di tale ruolo attribuito all'intelligence economica fu la costituzione del Cocom - organismo informale con sede a Parigi di cui facevano parte i Paesi membri della NATO, il Giappone e l'Australia - avente come scopo quello di armonizzare i controlli alle esportazioni alle frontiere, la redazione di liste di beni soggetti ad embargo, di analizzare richieste individuali di esenzioni a provvedimenti di embargo. Lo scopo finale era quello di evitare il trasferimento oltre "cortina" di tecnologie e beni che potessero incrementare le capacità tecnologiche del blocco orientale in campo militare.
L'attività di tale organismo, connotata peraltro da non pochi contrasti derivanti dal ruolo dominante degli Stati Uniti, sia in seno al Comitato stesso sia sul piano unilaterale, era orientata - ma anche condizionata - dalle rilevazioni dei servizi segreti occidentali, ed in particolar modo dalla CIA, nonché dalla legislazione interna americana in materia di controlli alle esportazioni di alta tecnologia.
Questo era il massimo dell'attività di ricerca in campo economico: conoscere lo "stato dell'arte" in campo tecnologico del blocco orientale nei vari settori che comportassero l'impiego di sistemi d'arma ovvero di alta tecnologia mutuabili in campo militare da quelle a valenza duale, con l'evidente obiettivo di rallentare il processo di miglioramento tecnologico dei Paesi del blocco comunista. Allo stesso modo, la principale attività di controspionaggio economico era rivolta a contrastare i servizi segreti del blocco orientale estremamente attivi ed incisivi nella sottrazione di informazioni, conoscenze e progetti ad imprese e centri di ricerca occidentali.
Altro ambito, sempre collegato ai precedenti, in cui veniva condotta attività di intelligence economica, era quello del monitoraggio dei rifornimenti delle materie prime, attività questa la cui importanza divenne evidente nel corso degli anni '70 a causa delle due crisi petrolifere che paralizzarono i Paesi più industrializzati. In quelle circostanze fu chiaro che, specie per i Paesi dipendenti dall'estero in materia di fonti energetiche, un ruolo attribuibile ai servizi segreti è quello di prevenire ed evitare che i rifornimenti di materie prime strategiche vengano meno in modo improvviso e senza possibilità di rimedio.
Il campo in cui verosimilmente i servizi segreti occidentali hanno ottenuto i risultati più deludenti è stato quello dell'analisi delle condizioni economiche dei Paesi comunisti e di quelle sovietiche in particolare, peraltro con finalità precipuamente strategiche, in quanto gli studi congiunturali avevano come unico scopo quello di prevedere di quanto sarebbero potute aumentare le spese militari del nemico. Valga per tutti il macroscopico errore di valutazione fatto dagli analisti della CIA del prodotto interno lordo pro-capite nella Repubblica democratica tedesca in rapporto a quello della Repubblica federale di Germania: nel 1987, giunsero a valutare il primo addirittura maggiore del secondo.


La caduta del mondo bipolare - che per oltre quattro decenni era stato connotato da un contesto stabile e prevedibile delle relazioni internazionali - ha comportato un vero e proprio stravolgimento dell'assetto di queste ultime ed un ripensamento delle funzioni dell'intelligence nel nuovo assetto mondiale. Il dibattito è particolarmente vivace negli Stati Uniti, in Europa è limitato essenzialmente alla Francia, mentre in Italia si susseguono da tempo istanze di cambiamenti prevalentemente strutturali.
Allo stato attuale, le sfide principali che si pongono alle attività di intelligence tradizionali sembrano essere rappresentate dal crescente numero di conflitti etnici o interstatuali di tipo convenzionale, dalla necessità di gestire informazioni pubblicamente accessibili che si trasmettono in gran quantità e ad alta velocità ed all'accresciuta importanza dell'economia come parametro di valutazione del potere degli Stati nel sistema internazionale.
In una economia caratterizzata sempre di più dalla globalità e con tassi di sviluppo estremamente contenuti, specie per i Paesi più industrializzati, la competizione si fa di giorno in giorno più accesa; in tale ambito, lo Stato ha la funzione insostituibile di contribuire all'allestimento di un sistema-Paese moderno ed efficiente.
In un'era in cui i cambiamenti tecnologici hanno luogo in tempi brevissimi e che, quindi, vede crescere di pari passo la tentazione di evitare gli esorbitanti costi della ricerca - con il ricorso allo spionaggio economico-industriale - l'approntamento di un sistema di intelligence economica adeguato alle nuove sfide costituisce parte integrante del processo che ogni Stato deve seguire per la creazione di un ambiente adeguato al sostegno del proprio sviluppo.
Così come i servizi di informazione hanno sempre avuto un ruolo nella protezione degli interessi economici vitali di un Paese, oggi - in un contesto così altamente competitivo - l'intelligence economica si pone come strumento indispensabile non solo per una migliore comprensione dei fenomeni economici internazionali, ma anche per la difesa del patrimonio tecnologico ed informativo nazionale e per la tutela del sistema economico del Paese ora più che mai soggetto all'attacco insidioso della criminalità, sia essa organizzata od economica.
La fine del confronto bipolare ha comportato una ridefinizione del concetto di sicurezza, nel senso di un suo ampliamento non solo alla dimensione economica, ma anche agli aspetti ambientali, demografici, informatici, dei flussi migratori e delle comunicazioni, visti peraltro in un'ottica del tutto nuova.
In sintesi, per minaccia alla sicurezza nazionale oggi si può intendere una situazione in cui una comunità non può realizzare un progetto politico od economico ovvero in cui una azione esterna impedisce che i valori fondamentali di quella comunità possano essere realizzati.
Tale definizione non esclude di per sé la dimensione militare, ma permette che ad essa se ne affianchino altre. D'altra parte, anche nel mondo post-bipolare permangono seri pericoli di natura bellica, come è ben noto: alle scarse possibilità che durante la guerra fredda si determinasse un conflitto militare con esiti letali per l'intera umanità, con la conseguenza che entrambe le superpotenze controllavano i rispettivi alleati e limitavano i conflitti locali per evitare i pericoli di una escalation nucleare incontrollata, sono subentrate minacce militari a breve e medio termine in numero maggiore, anche se di minore pericolosità.
Nel contesto sopra delineato, per sicurezza economica deve intendersi la creazione delle migliori condizioni per aumentare la produttività tramite la costruzione di un sistema-Paese moderno, sicuro ed efficiente, in grado di favorire l'innovazione tecnologica ed organizzativa e di incentivare gli investimenti sia nazionali che stranieri, sì da assicurare un adeguato continuo incremento del benessere dei cittadini.
E' ormai acquisito, anche da parte dei Governi che meno incoraggiano la presenza dello Stato nell'economia - quali il Regno Unito e gli Stati Uniti - che la sicurezza economica non riguarda solo la politica estera e quella di difesa di un Paese, ma investe il concetto stesso di benessere della comunità impegnata in una competizione economica internazionale, tanto più impegnativa quanto più globalizzate sono le relazioni internazionali ed il sistema economico mondiale. Infatti, la rivalità tra i Paesi più avanzati nel mondo post-bipolare si manifesta sub specie di competizione economica ed il potere militare, in quanto tale - a parte la proliferazione di armi nucleari, chimiche e biologiche - può contrastare solo minacce secondarie rispetto a quelle che provengono dal sistema dell'economia mondiale.
Lo stesso esito del confronto bipolare può essere visto in una prospettiva essenzialmente economica piuttosto che militare. Secondo questa visione, il fatto che il sistema economico occidentale riuscisse a garantire un livello di benessere maggiore e, allo stesso tempo, una macchina militare più efficiente ed avanzata di quella comunista - a fronte del fallimento economico dell'Unione Sovietica - fu decisivo per l'esito del confronto tra i due blocchi: ciò, tuttavia, non significa che la dimensione economica non debba essere correlata con quella politica e militare, ma proprio nell'armonica compenetrazione della sicurezza nei vari campi è da rinvenire la sfida che il terzo millennio pone ai servizi di intelligence.
Analoghe considerazioni valgono per i rapporti tra sicurezza e tecnologia, nella consapevolezza che la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, che comunque sempre hanno un riflesso diretto o indiretto sul potenziale bellico di uno Stato, saranno condizionati, in futuro, dalla maggiore o minore possibilità di accesso a mercati di notevoli dimensioni.
Si può affermare che la possibilità di sviluppare tecnologie sofisticate non solo influisce in modo determinante sulle capacità militari, ma anche sul grado di autonomia politica di uno Stato. Non creare l'ambiente ideale per la ricerca e lo sviluppo ha implicazioni che vanno al di là della sfera economica; avere un livello eccessivo di dipendenza tecnologica dall'estero significa essere relegati in secondo piano nel sistema internazionale, non avere elevati tassi di crescita della produttività e non creare le condizioni per investimenti nazionali e stranieri - ossia l'incapacità di garantire la sicurezza economica - segna in modo determinante il futuro di una comunità nazionale.
Ciò è tanto più vero in un momento storico in cui l'informazione e la comunicazione assicurano la conoscenza, ma sono indubbiamente condizionate dalla capacità di uno Stato a procedere sulla via della ricerca e dello sviluppo in un campo che ha portato ad un vero e proprio stravolgimento del tessuto connettivo delle comunità sia a livello nazionale che internazionale.
Anche se da sempre l'informazione è alla base della sicurezza e, in ultima analisi, del potere, attualmente l'incertezza che domina lo scenario mondiale e la compressione dei tempi, nonché la moltiplicazione del numero di informazioni disponibili, costituiscono i fattori di una accresciuta importanza dell'informazione stessa. Chi è in grado di assicurarsi le informazioni più attendibili in tempi brevi è indubbiamente avvantaggiato su chi più che sfruttare queste nuove possibilità le subisce.
L'esplosione della informazione e della comunicazione aumenterà in prospettiva le differenze di status tra gli Stati: quelli che si adatteranno all'era dell'informazione vedranno crescere il proprio potere e la sicurezza con ritmi e in termini prima sconosciuti, mentre gli altri subiranno un declino rapidissimo e difficilmente arrestabile. Questi ultimi saranno quindi costretti a strategie di tipo difensivo, tese a limitare l'accesso alle informazioni che li riguardano.
In sintesi, in una economia sempre più imperniata sulla flessibilità organizzativa, sul continuo accorciamento dei cicli di produzione, sul ritmo crescente degli aggiornamenti tecnologici, sullo sviluppo continuo di sempre più sofisticate tecniche di management, sull'esigenza di garantire i sistemi economici dall'inquinamento dei capitali illeciti provenienti dalle organizzazioni criminali, la capacità di reagire prontamente a notizie non ancora divenute di dominio pubblico costituisce una risorsa critica.
La fine del controllo bipolare e l'avvio dell'era della informazione hanno segnato due passaggi chiave per i servizi segreti dei Paesi più industrializzati. Peraltro, nessuno di questi eventi ha ridotto l'importanza delle agenzie di sicurezza e di informazione che invece hanno visto riorientare il proprio ambito di azione e le finalità perseguite.


L'incertezza e l'imprevedibilità delle situazioni, da un lato, e l'autonomia, che deve connotare ogni decisione nazionale, dall'altro, impongono l'esistenza di strumenti adeguati. Questi sono di natura sia istituzionale (pianificazione a lungo termine della politica estera, gestione delle crisi, etc.), sia informativa (intelligence) sia operativa (militare, economica, etc.).
Al riguardo, è sempre da tenere presente che quanto maggiore è l'incertezza tanto più necessaria è la disponibilità di un'intelligence efficiente, poiché ogni decisione presuppone la conoscenza e la comprensione dei fenomeni e, sempre più frequentemente, la loro previsione.
Non è un caso che, dopo la caduta del mondo bipolare, tutti gli Stati europei abbiano provveduto a ristrutturare i loro servizi di intelligence. Questi, infatti, sono essenziali per l'autonomia di ogni Stato e, quindi, per la sua indipendenza ed il suo livello di democrazia reale: se manca una intelligence nazionale, mancano i presupposti per far sì che le scelte fatte siano veramente autonome e non eteroreferenziali o eterodirette. D'altra parte, l'informazione è potenza ed è proprio per questo che i Servizi non sono integrati neppure in ambito NATO, così come nessuna organizzazione internazionale ne dispone: ne dispongono solo gli Stati, perché i Servizi costituiscono una componente indispensabile per rendere operante ed effettiva la sovranità.
Nel contesto così delineato, emerge, in tutta evidenza, che l'intelligence economica è attività indispensabile e di pertinenza delle agenzie di informazione e sicurezza statuali. A questo punto, peraltro, sembrano necessarie alcune precisazioni terminologiche.
Per intelligence economica si intende la raccolta, l'analisi e la distribuzione di informazioni - segrete, aperte e grigie - di carattere economico, dando all'aggettivo economico la più ampia accezione, tale da includere tutti gli aspetti della base materiale della potenza nazionale. Questa parte di attività dei servizi segreti, che ha per oggetto l'economia in senso lato, comprende anche il controspionaggio economico, cioè l'azione volta ad impedire che informazioni economiche vengano acquisite da operatori stranieri, le sue connotazioni, quindi, sono difensive. Di natura offensiva, invece, è lo spionaggio economico che consiste nella raccolta, anche con fonti occulte, di informazioni economiche segrete.
L'esigenza dell'intelligence economica, volta sia al potenziamento che alla protezione del sistema economico nazionale, rientra indiscutibilmente nel novero dei compiti dello Stato, e la necessità di adeguare in questo senso i servizi segreti è universalmente riconosciuta. Per contro, un vivace confronto riguarda le finalità ed i limiti dell'attività dell'intelligence economica.
Per quanto attiene al primo aspetto, il tema dell'utilizzazione dei prodotti di tale attività ha dato luogo ad una viva discussione tra gli esperti: se è vero che c'è un diffuso consenso sulle informazioni destinate alle autorità governative, altrettanto vero è che per quelle da distribuire ai privati l'arco delle diverse posizioni è ampio e variegato.
Gli obiettivi dell'intelligence economica si possono suddividere in due grandi gruppi: quello del controspionaggio economico e quelli di macro e di micro economia, rilevanti per l'intero sistema economico nazionale e conseguibili sia per mezzo di fonti aperte che con l'ausilio dei tradizionali metodi di spionaggio.
L'intelligence economica, con finalità micro e macro economiche, riguarda: la preparazione di negoziati e trattative internazionali; lo studio della congiuntura economica internazionale e la comprensione delle intenzioni dei principali competitori economici; l'analisi dei fattori economici in grado di influenzare la stabilità internazionale; la valutazione delle conseguenze economiche di provvedimenti quali sanzioni economiche o aiuti allo sviluppo; la descrizione dei meccanismi di funzionamento dei principali sistemi economici di altri Paesi, quali sussidi all'esportazione, possibilità di lobbyng, corruzione della pubblica amministrazione e restrizioni alle importazioni, il monitoraggio degli sviluppi in settori strategici come computers, semiconduttori, telecomunicazioni, satelliti ed altri; il rispetto degli accordi economici internazionali e delle sanzioni economiche e, infine, l'identificazione di fusioni ed acquisizioni societarie che potrebbero danneggiare il patrimonio tecnologico nazionale ovvero essere frutto di attività di riciclaggio su larga scala. Peraltro attività della specie possono trovare legittimazione solo in un contesto in cui sia elevato il tasso di identificazione nell'entità statuale da parte della popolazione.
Ad un livello diverso è l'attività di controspionaggio economico, la cui giustificazione e legittimazione presso l'opinione pubblica è più agevolmente ottenibile tramite la rivelazione dell'esistenza di imprese e Governi stranieri che conducano operazioni di spionaggio a danno dei soggetti economici nazionali. Sulla sua opportunità gli specialisti sono sostanzialmente concordi.
Per quanto poi, in particolare, attiene alle attività di intelligence orientate alla lotta al riciclaggio, è da sottolineare - come già, peraltro, posto in rilievo in occasione dell'esame di tale fenomeno criminale - che la strategia del money laundering è connotata dalla condotta unitaria, in Italia ed all'estero, delle singole operazioni. Ciò determina l'esigenza - a mio giudizio - che anche l'attività d'intelligence sia condotta su un piano di unitarietà, nel senso che non deve esistere soluzione di continuità tra le azioni condotte all'interno e quelle sviluppate all'esterno (e viceversa), ovviamente e tassativamente al di fuori dei normali canali investigativi e giudiziari.


Definito lo scenario di riferimento, cercherò di delineare quale è - a mio avviso - la situazione geopolitica in cui è venuta a trovarsi l'Italia con la fine della guerra fredda.
Innanzitutto, è da sottolineare come il Paese abbia perso alcune rendite di posizione che indubbiamente possedeva durante il conflitto bipolare e, conseguentemente, non possa più limitarsi ad essere un consumatore di sicurezza prodotta da altri, ma debba diventare a sua volta produttore di sicurezza.
L'Italia, quindi, deve definire il ruolo che intende giocare nella competizione che si è sviluppata e, in tale ambito, individuare e perseguire i suoi interessi specifici, i suoi "interessi nazionali" - definibili come tutto ciò che garantisce la reale ed efficace autonomia politico-economica dello Stato - se non vuole essere emarginata nella nuova organizzazione del mondo.
Il principio dell' "interesse nazionale", di per sé, non è un concetto statico, ma eminentemente dinamico: la difesa delle linee di comunicazione e di passaggio delle materie prime essenziali al sistema produttivo; il controllo delle aree geopolitiche strategicamente rilevanti per la difesa dell'autonomia politica dello Stato; la difesa e la protezione dell'espansione delle attività economiche, sia all'interno, sia, soprattutto, all'estero, sono - singolarmente e nel loro complesso - esempi, tra i tanti, di "interessi nazionali", che come tali costituiscono altrettanti obiettivi dei servizi di intelligence.
Nessun potere politico può contemporaneamente valutare le pressoché infinite variabili di una linea di mantenimento o di affermazione dell'autonomia strategico-economica del proprio Paese: pertanto, è assolutamente necessario un costante flusso di notizie tra il Servizio e il potere, in un rapporto di interdipendenza decisioni-informazioni, tale da consentire la tempestiva precisazione, il chiarimento e/o l'immediata modifica di linee politiche ovvero di attività operative in atto. Ciò non può essere stabilito con una legge, quanto piuttosto elevando il prestigio, lo stile, l'affidabilità del Servizio.
D'altra parte, l'attrazione per l'Est, e la vera e propria "bomba" demografica e islamica del Sud hanno oggettivamente diminuito l'interesse dell'Europa e della NATO per il Mediterraneo, con la conseguenza che l'Italia è più esposta, può contare meno sui suoi alleati tradizionali per proteggere e perseguire i suoi interessi ed è posta ineludibilmente di fronte alla scelta di definire la dimensione della sua politica estera in chiave globale ovvero marittima oppure continentale. In concreto, non è più in gioco la nostra appartenenza all'Occidente, ma il modo in cui intendiamo stare in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo.
Tuttavia, la scomparsa del mondo bipolare presenta anche opportunità per l'Italia. Oltre alla sostanziale caduta delle barriere ideologiche interne, è scomparsa la contrapposizione tra una politica interna basata sul cosiddetto "consociativismo" ed una politica estera fondata sull'omologazione nell'Occidente anticomunista. Ciò ha aperto la possibilità di nuovi rapporti con l'Est europeo ed i Paesi dell'ex URSS, ma tale opportunità comporta di per sé un aumento dei costi della politica estera e di sicurezza. Peraltro, essa è anche la chiave per influire con maggiore incisività sulle alleanze multilaterali di cui facciamo parte, che non possono più essere considerate fine a se stesse, bensì uno strumento per meglio realizzare i nostri interessi nazionali di sicurezza e di stabilità nonché la nostra visione del mondo e del sistema internazionale.


E' abbastanza diffusa la convinzione che il termine "criminalità organizzata" sia sinonimo di "mafia", "camorra", "‘ndrangheta", comunque di organizzazione di stampo mafioso.
L'opinione è errata, perché ben può esistere una associazione criminale organizzata - nel senso che tutti gli aderenti perseguono fini delittuosi comuni o comunque coordinati, sono consapevoli e partecipi di una sorta di "divisione del lavoro", riconoscono nel loro ambito una scala gerarchico/funzionale - senza che ciò necessariamente implichi l'adozione di metodi operativi e rituali di stampo mafioso, pur conseguendo l'accumulazione di ingenti proventi, profitto di reati che l'ordinamento giuridico individua quale necessario presupposto del delitto di riciclaggio.
Può essere fatto risalire ai primi anni '60 il fenomeno dell'evoluzione - in chiave di potenziamento sotto il profilo organizzativo - delle organizzazioni criminali, che sino ad allora erano vissute in "nicchie" circoscritte all'ambito regionale, salvo qualche azione episodica di sequestro di persona. Solo nell'Italia del Nord operavano le prime bande armate di rapinatori.
Fu quello il momento in cui le organizzazioni allacciarono sistematici rapporti internazionali ed, all'interno del Paese, diedero inizio ad una vera e propria escalation delle loro imprese, specializzandosi nei vari settori d'azione: prostituzione, stupefacenti, gioco d'azzardo, estorsioni, rapine a mano armata, contrabbando intraispettivo ed extraispettivo di generi di monopolio ovvero intraispettivo di merci ad alta incidenza fiscale. Ed, indubbiamente, il salto di qualità fu determinato dall'inizio del traffico in grande stile di stupefacenti, attività in grado di assicurare un'elevatissima remunerazione dei capitali investiti. Contemporaneamente, si assistette ad una proliferazione delle organizzazioni, che iniziarono a combattersi per la conquista di territori di influenza.
In concreto, gli anni '60 segnarono l'inizio di un processo di selezione "elitaria" sia nell'ambito delle stesse consorterie criminali - in cui la "carriera" era riservata agli elementi più dotati sul piano "professionale" e più affidabili sul piano della lealtà - sia tra le stesse associazioni, con la progressiva emarginazione dai circuiti delinquenziali più remunerativi degli elementi incapaci di sollevarsi dal piano dell'artigianalità ovvero più deboli sotto il profilo organizzativo. Per essi, rimanevano disponibili attività criminose marginali ovvero zone di territorio non particolarmente appetibili, ovvero - limitatamente ad attività che imponevano una particolare ed elevata specializzazione - veri e propri ingaggi a cachet per singole operazioni.
L'associazione criminale - più spesso inconsciamente, ma talvolta opportunamente diretta da qualche soggetto culturalmente evoluto, se non addirittura "insospettabile" - tendeva così a strutturarsi secondo principi analoghi a quelli indicati dalla scienza dell'organizzazione per le attività lecite: separazione e distribuzione delle funzioni, adozione di moduli gerarchici, regole di comportamento estremamente rigide, in alcuni casi articolazione strutturale secondo schemi paramilitari, definizione di "figure professionali" tipiche.
Le cause che avevano portato a tale evoluzione erano diverse e concorrenti: dalla permanenza, in alcune regioni, delle condizioni che già nel passato avevano portato a significative forme delinquenziali (analfabetismo, miseria, disoccupazione, grandi sperequazioni sociali, etc.), allo scadimento di determinati valori etici (tra i quali, in primo luogo, il senso dello Stato, ma anche il valore della famiglia, il senso religioso), all'emarginazione economica di determinati strati sociali, ad un garantismo malamente inteso come strumento di lotta politica, a carenze chiaramente avvertibili a livello di Istituzioni. A tali condizioni negative, si sommavano gli effetti dello sviluppo economico del Paese, con il conseguente consumismo, il sempre più spinto intervento dello Stato per la gestione dell'economia, la facilità di movimento e di comunicazione, l'effetto amplificatore e, in determinati ambienti, di aberrante emulazione provocato inconsciamente dai mass media - che riportavano, con dovizia di particolari, le gesta criminali - le frequenti misure di clemenza (amnistie, condoni, indulti), l'oggettiva constatazione dell'alta percentuale di crimini impuniti.
Nel contesto, si affermavano prima in alcune ben precise aree del Paese e, successivamente - grazie anche all'istituto del soggiorno obbligato, adottato in misura massiva nell'erronea convinzione che, allontanando determinati soggetti dal loro ambiente, essi sarebbero stati posti nella condizione di non più nuocere - in altre Regioni, le organizzazioni cosiddette "di tipo mafioso", tra le quali vanno certamente annoverate mafia, camorra e 'ndrangheta, ma anche altre realtà criminali, connotate non solo dalle caratteristiche tipiche delle associazioni per delinquere:
- esistenza di un vincolo associativo, non necessariamente di natura stabile, volto all'attuazione di un programma delittuoso;
- forza di intimidazione espressa da tale vincolo nonché dal numero delle persone partecipanti alla consorteria;
- esistenza di una struttura organizzativa strettamente piramidale, comune - anche se in diversa misura, come abbiamo visto - a tutte le organizzazioni criminali, ma anche da caratteristiche del tutto peculiari, che ne configurano l'enorme capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico e che perciò stesso le rendono figure sui generis nel mondo della criminalità.
Intendo riferirmi, in particolare:
- ai principi di assoluta segretezza e di omertà, ai quali devono ispirarsi gli appartenenti all'organizzazione, legati peraltro tra loro da vincoli "di sangue" secondo rituali affatto singolari e di antica tradizione, vincoli peraltro assai frequentemente esistenti in concreto con il coinvolgimento di interi gruppi familiari;
- al vincolo di totale subordinazione alla struttura gerarchica;
- al terrore - eretto a costante del modus operandi della organizzazione - nei riguardi di chiunque costituisca o solamente possa costituire un ostacolo ovvero un pericolo per il perseguimento dei fini illeciti decisi dal vertice dell'organizzazione stessa;
- alla ricerca di un "profitto" nelle attività criminose, da ripartire tra i consociati in funzione del loro livello gerarchico-funzionale. A tale proposito, è opportuno sottolineare che si è soliti riconoscere tre livelli di attribuzioni funzionali:
1) il primo livello comprende la schiera di soggetti destinati al compimento materiale delle attività illecite, volano indispensabile per l'accumulazione primitiva del capitale;
2) il secondo livello raggruppa i personaggi deputati al money laundering, che provvedono quindi alla collocazione dei capitali nei circuiti bancari e finanziari in genere, gestendoli successivamente a fini di riciclaggio; spesso sono persone insospettabili, quando non sono veri e propri intermediari finanziari "associati" all'organizzazione o comunque elementi di fiancheggiamento della stessa;
3) il terzo livello, infine, comprende coloro che si occupano delle attività imprenditoriali, costituite con i capitali riciclati.
A tutto ciò deve aggiungersi che l'associazione per delinquere di tipo mafioso presenta caratteristiche di duttilità del tutto peculiari.
Il fenomeno del "pentitismo", che ha colpito profondamente il sistema mafioso, e lo stesso maxi-processo di Palermo, che ha gettato uno sguardo di luce significativo sulla struttura di vertice di "cosa nostra", individuando precise responsabilità - hanno comportato peculiari modifiche delle organizzazioni criminali, con particolare riguardo alla "mafia" siciliana. Da parte delle organizzazioni, infatti, si è compreso che, da un lato, è indispensabile mantenere il clima di terrore all'interno - in quanto base fondamentale del potere del vertice criminale - e, dall'altro, aumentare il grado di affidabilità dei consociati, acquisendo al sistema, per quanto possibile, soggetti estranei all'ambiente criminale. In pratica, è stata messa a fuoco l'esigenza di garantire al sodalizio criminale una più rigida impenetrabilità, da conseguire attraverso una più spinta compartimentazione sia territoriale sia funzionale, per evitare che possibili "pentiti" (rectius, collaboratori di giustizia) producano guasti non recuperabili con la necessaria immediatezza, indispensabile per mantenere il controllo sul territorio, sulle attività economiche di interesse e, in definitiva, su parte della società italiana.
Lo sviluppo in grande stile del traffico di stupefacenti comportò naturalmente l'allacciamento di rapporti internazionali con altre organizzazioni criminali operanti, in un primo tempo, nei Paesi di produzione e successivamente - quando l'Italia, a cavallo degli anni '70 divenne il trait-d'union tra Paesi produttori e mercati di spaccio oltre che, a sua volta, Paese consumatore in rapida ascesa - con i Paesi principali consumatori di stupefacenti (in particolare, gli Stati Uniti d'America).
L'elevatissima remunerazione dei capitali impiegati nel traffico di droga, consentì ben presto alle organizzazioni criminali di estendere le proprie zone di influenza, di potenziare la presenza italiana nello specifico settore sino ad arrivare alla raffinazione dell'eroina e, infine, di diversificare le proprie illecite attività, comprendendo anche il traffico d'armi e lo spionaggio industriale. In particolare, non pochi sono gli episodi nei quali è emersa la prassi del baratto armi-droga, mediante il quale le organizzazioni italiane, acquisivano stupefacenti in cambio di armi destinate a gruppi politici in conflitto tra loro nelle zone tradizionali di coltivazione dell'oppio, della coca o in prossimità delle principali rotte di traffico. Ne derivò un notevole ampliamento, da parte delle associazioni criminali, delle conoscenze sull'organizzazione politico-economica di numerosi Paesi, che ritornò particolarmente utile allorché venne avvertita l'esigenza di investire gli enormi profitti conseguiti.
Ovviamente, la ricerca di aree di investimento in grado di assorbire gli ingenti capitali e di remunerarli adeguatamente fu inizialmente ed è tuttora agevolata dal ricorso ad esperti finanziari gravitanti nell'orbita della criminalità organizzata per pochi scrupoli, ma soprattutto per l'aspettativa di ottenere a propria volta notevoli "ritorni" di carattere economico. E tali "specialisti", spesso, sono persone ineccepibili e particolarmente preparate sotto il profilo professionale, in grado di dirigere banche e società finanziarie a livello internazionale.


a. Generalità
In via preliminare è opportuno ricordare le principali modalità d'impiego dei profitti della criminalità organizzata, correlate ai già individuati livelli di responsabilità nell'ambito delle singole associazioni di tipo mafioso.
In linea di massima si può affermare che gli introiti conseguiti dalle associazioni criminali vengono impiegati secondo il seguente criterio:
- una parte, in genere di modesta entità, viene rimessa immediatamente nelle attività illecite di primo livello per potenziarle sotto il profilo qualitativo e - attraverso l'acquisizione di nuove aree di influenza - sotto il profilo quantitativo;
- una parte, più consistente, viene immessa nel circuito economico e finanziario legale italiano, ovvero dei Paesi destinatari dei traffici illeciti;
- una parte, la più cospicua, viene esportata in attesa di investirla nel modo più remunerativo possibile. In merito, è da sottolineare che tra il momento dell'accumulazione della ricchezza illecita e quello del vero e proprio investimento spesso intercorrono tempi piuttosto lunghi, dovuti all'esigenza di svincolare i proventi di reato dalla loro origine delittuosa attraverso le attività di "riciclaggio", delle quali tratteremo in prosieguo;
- una parte, infine, rappresenta "l'utile netto spendibile", ripartito tra tutti i membri dell'organizzazione in relazione alla loro posizione gerarchico-funzionale.
In tal modo, la ricchezza illecitamente prodotta serve a finanziare nuove e più importanti attività criminali ovvero ad aprire vere e proprie attività imprenditoriali oppure ad acquisire beni immobili e/o cosiddetti "beni rifugio". A questo proposito, uno degli status symbol più appetito dai capi è proprio il possesso di mobili di antiquariato o, ancor più, di opere d'arte acquisite in modo lecito, attraverso aste o acquisti da privati, senza ovviamente disdegnare i furti su commissione presso privati, gallerie, chiese, etc.
Il riciclaggio o money laundering è l'attività posta in essere per "ripulire" i proventi illeciti, al fine di separarli dalle attività criminose che hanno consentito di conseguirli, rendendo difficile l'accertamento della loro origine. In concreto, esso si sostanzia in una serie di atti volti a reintrodurre sul mercato economico-finanziario denaro o altri valori di provenienza illecita, facendone apparire legittimi e regolari l'acquisizione ed il possesso.
In linea di massima, il fenomeno del riciclaggio, si articola nelle seguenti tre fasi:
- processo di accumulazione di capitali illeciti, quale risultato delle attività tipiche della criminalità;
- trasformazione dei capitali illeciti in leciti attraverso il loro mascheramento, ottenuto con l'interposizione di schermature idonee ad allontanare il provento dalle sue origini illecite, non solo sotto il profilo giuridico, ma anche dal punto di vista geografico. Esempio tipico, e al tempo stesso sofisticato, è rappresentato dalle interposizioni societarie, cioè da quelle procedure mediante le quali si accede alla costituzione ed al finanziamento di società a capitale azionario tra loro interconnesse. Queste imprese - che già di per sé sono in condizioni di "oscurare" la titolarità giuridica del capitale e la legittimità dei finanziamenti - sono ordinariamente compartecipi di ulteriori assetti societari, sostanzialmente anonimi, i quali a loro volta sono "capifila" di altre strutture della stessa specie. Attraverso questa progressiva schermatura, l'originaria illiceità e la stessa titolarità del denaro vengono confuse già nella prima "proprietà" per disperdersi nelle altre. Tale effetto si produce quando la società madre, che dà l'avvio alla c.d. "cascata societaria", è situata all'estero, impedendo qualsiasi sondaggio sulla liceità del primo, come degli ulteriori finanziamenti. La ricostruzione per pervenire alla fonte originaria, attraverso questa "stratificazione", appare a questo punto assai difficile;
- investimenti dei capitali "lavati" in attività lecite: è questa la fase di collocamento, la più delicata perché comporta l'emersione di ricchezza in capo ad un determinato soggetto. Ne sono esempi tipici l'acquisto di beni mobili ed immobili, la concessione di prestiti, di finanziamenti, di sovvenzioni, gli acquisti di azioni, di obbligazioni, di titoli di stato e così via. Se la fase di collocamento va a buon fine, è possibile passare a quella dell'integrazione, cioè dell'assunzione - da parte della nuova ricchezza - di un'apparente legittimità nel sistema. Una forma classica di integrazione si individua nella costituzione di società di capitali, quindi di soggetti dotati di personalità giuridica, autonomi produttori di reddito e di ricchezza, idonei schermi di interposizione per la fonte illecita del capitale originario.
Le tre fasi possono esaurirsi in un Paese, ma possono - e questa è la norma - intersecarsi ed intaccare territori di più Paesi attraverso il sistema delle compensazioni, da sempre sfruttato in via preferenziale dalla criminalità organizzata.
Da tale modus operandi scaturisce una prima considerazione, utile - a mio giudizio - per rispondere ai quesiti postimi: l'attività di riciclaggio è normalmente condotta in un contesto unitario che abbraccia più Paesi e che può vedere l'Italia come Paese originatore e/o destinatario dell'attività stessa. Non può dimenticarsi, infatti, che non è solo la criminalità organizzata italiana a ricercare nuovi ambiti per il lavaggio e l'impiego dei capitali illeciti, ma altre criminalità non meno agguerrite vedono nel nostro Paese un mercato ove investire utilmente i capitali accumulati nei Paesi d'origine. Ed ancora, l'Italia può essere, nel contesto della stessa operazione di riciclaggio, Paese originatore e paese destinatario finale, attraverso procedure più o meno sofisticate.
Peraltro, occorre precisare che alle procedure indicate, che rappresentano le forme più tipiche dell'illecita attività, occorre sommare un'infinità di varianti, dipendenti dalle possibili attività di reinvestimento all'estero - lecite ed illecite - dei capitali esportati (6) ovvero dallo sfruttamento delle opportunità offerte da disonesti operatori nazionali (7) . Al riguardo, è ancora da sottolineare che, nel loro complesso, le varie metodologie usate a fini di riciclaggio comportano il compimento di ulteriori attività criminose, delle quali ricordiamo le più ricorrenti: l'emissione o l'utilizzazione di fatture a copertura di operazioni economiche inesistenti, la frode fiscale, le truffe in campo commerciale, i reati societari e fallimentari, le frodi su contributi comunitari, l'usura, della pericolosità della quale - anche nella prospettiva di una progressiva acquisizione di attività economiche - si è ormai acquisita coscienza. Si viene così a determinare una vera e propria spiralizzazione delle attività criminali, che tende ad intaccare ed inquinare tutto il sistema economico. Se a ciò si unisce la pratica del "metodo mafioso", si può dedurre la situazione di estrema pericolosità che il fenomeno del riciclaggio sta determinando sia in ambito nazionale che internazionale.

b. Le condizioni che favoriscono lo sviluppo del riciclaggio
Il progresso tecnologico, lo sviluppo dell'informatica e della telematica insieme alla libertà concessa al capitale internazionale di andare laddove compaiono le migliori opportunità di guadagni hanno reso tecnicamente possibile quel fenomeno oggi comunemente indicato come "globalizzazione dell'economia".
L'integrazione economico-politica di vaste aree del mondo ed il ricorso da parte di alcuni gruppi di Paesi a "barriere" non tariffarie sono state alla base dello sviluppo di nuove forme finanziarie utilizzate per accedere o rimanere nei mercati esteri.
Il passaggio, infine da parte di alcuni governi, da atteggiamenti di cautela a politiche di incentivazione degli investimenti esteri e di apertura verso una liberalizzazione delle operazioni commerciali possono essere considerati i presupposti - in assenza di idonee regolamentazioni - per lo sviluppo di azioni di criminalità economica.
La caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti nell'Europa centro orientale ha impresso una fortissima accelerazione ad un processo di ristrutturazione dell'economia internazionale, in virtù della quale economie pianificate, fino ad allora chiuse ai movimenti finanziari internazionali, hanno modificato le loro legislazioni in senso liberistico, aprendosi ai principi dell'economia di mercato nel tentativo di "recuperare il tempo perduto", introducendo incentivi per gli investimenti esteri.
Questa evoluzione non ha interessato soltanto gli aspetti economico-finanziari, provocando la caduta dei sistemi di controllo dell'economia, ma ha contemporaneamente anche interessato gli aspetti amministrativi, comportando ad esempio una politica di generale abolizione dei visti di ingresso nei Paesi dell'Europa centro-orientale.
L'accordo Gatt-Uruguay Round, la scomparsa dell'URSS e l'accordo di Maastricht rappresentano nel contesto storico recente gli eventi determinanti che hanno contribuito al passaggio dell'economia internazionale verso la forma del "villaggio globale", delle cui opportunità e libertà la criminalità organizzata indubbiamente sta approfittando.
Sintetizzando, possiamo affermare che il notevole sviluppo del fenomeno in esame è stato favorito in questi ultimi anni da alcuni presupposti individuabili nella:
- facilità con cui il denaro può essere immesso nel circuito monetario;
- possibilità di trasferire liberamente e senza successivi controlli ingenti capitali da un Paese all'altro, mutuando le tecniche ed i sistemi sofisticati introdotti dalle società multinazionali;
- elevata capacità imprenditoriale ed efficienza delle organizzazioni criminali, che si avvalgono dell'apporto di consulenze finanziarie altamente qualificate.
A tali condizioni, che si possono definire di carattere generale, sono da aggiungere quelle peculiari di ogni Paese od area connotata da una specifica caratterizzazione.


a. Generalità
Una compiuta valutazione del fenomeno del riciclaggio non può prescindere dal prendere in considerazione anche il ruolo di quei Paesi i cui ordinamenti prevedono particolari facilitazioni, tanto nel settore fiscale che in quello bancario, a favore di persone fisiche e/o giuridiche, spesso non residenti. Tali Paesi sono comunemente definiti con il termine di "paradisi" fiscali o bancari, espressione che, per l'indubbia efficacia ed il trasparente significato, è entrata ormai a far parte del lessico abituale di quanti si occupano di problemi finanziari, tributari, valutari e bancari anche in campo internazionale.
L'approccio ai singoli ordinamenti giuridici è, tuttavia, impresa assai ardua non tanto per il numero consistente dei Paesi potenzialmente interessati al fenomeno, quanto per l'estrema riservatezza di cui essi si circondano, spesso agevolata dalla mancanza di fonti giuridiche scritte.
Peraltro, sia a causa dell'accentuata fluidità delle situazioni, sia per il fatto che il concetto di "paradiso", fiscale o bancario, ha validità del tutto relativa, in ragione degli ordinamenti giuridici che vengono comparati, un'analisi dei diversi sistemi non potrebbe considerarsi assolutamente esaustiva. Laddove, poi, tale comparazione fosse effettuata con un sistema come quello italiano, che presenta un "segreto bancario" condizionato dalla normativa vigente ed un onere impositivo molto accentuato (la ritenuta sugli interessi da depositi bancari praticati in Italia è forse la più alta d'Europa), la validità della considerazione innanzi formulata si presenta ancora più evidente poiché nei confronti dell'Italia possono considerarsi come paradisi fiscali e/o bancari non solo moltissimi Paesi del mondo, ma anche dell'Europa e della stessa U.E.
Alcuni esperti hanno posto in evidenza come, anziché distinguere i "paradisi" in "fiscali" e "bancari", sarebbe forse più opportuno e significativo denominarli sinteticamente, "paradis financiers", usando un termine onnicomprensivo che faccia riferimento alle caratteristiche fondamentali di quei Paesi presso i quali:
- il segreto bancario è rigidamente tutelato e salvaguardato;
- le operazioni valutarie e finanziarie in genere sono rese rapide ed agevoli da idonei e specifici strumenti legislativi;
- gli istituti di credito garantiscono alla clientela il più assoluto anonimato;
- lo svolgimento di accertamenti bancari o patrimoniali è inibito o, quantomeno, reso difficile e limitato a casi di assoluta indispensabilità;
- l'assistenza giudiziaria ad eventuali Commissioni rogatoriali estere non è assicurata e garantita dalla esistenza di accordi internazionali;
- l'irrisorietà (se non inesistenza) di gravami fiscali sui redditi societari e/o delle persone fisiche e sui redditi da capitale rende particolarmente vantaggiosi e lucrosi i depositi monetari, gli investimenti ed i traffici di valuta.
La legge finanziaria per l'anno 1992 ha introdotto - per la prima volta in Italia - la nozione di paradiso fiscale, rinviando ad un decreto (il D.M. 24.4.1992) la sua specificazione che rileva sotto un duplice profilo:
- individuazione della categoria reddituale da utilizzare quale parametro in sede di confronto dell'onere complessivamente sopportato dal soggetto italiano e dal soggetto estero;
- elencazione dei Paesi che, terminato il confronto, rientrano nella definizione di Stato o territorio a sistema fiscale privilegiato.
Orbene, è del tutto intuitivo come, nell'ambito dei "paradisi fiscali", la denominazione di "paradisi bancari" si attagli specificatamente a quei Paesi in cui siano maggiormente privilegiati gli aspetti correlati all'attività bancaria in genere ed al segreto bancario in particolare, mentre possono definirsi "paradisi fiscali" quelli dove assumono più marcata rilevanza le agevolazioni fiscali, soprattutto ai non residenti che compiono operazioni finanziarie di varia natura. Al riguardo, giova anche osservare che, nella maggioranza dei casi, nei "paradisi" è riscontrabile un'accentuata permissività in entrambi i settori: ciò del resto appare ovvio ove si consideri che le attività economiche che possono essere sottoposte a gravami impositivi devono essere svolte, pressoché necessariamente, mediante l'ausilio, diretto o indiretto, di enti creditizi. In realtà, l'attenzione deve essere rivolta soprattutto ai "paradisi bancari", poiché per le organizzazioni criminali l'esigenza dell'anonimato nelle operazioni economiche e della correlata, rigida tutela del segreto bancario è senz'altro preminente rispetto a quella del maggior lucro ottenibile attraverso le agevolazioni fiscali. D'altro canto, per le "holding internazionali del crimine" l'unico sistema oggettivamente valido e possibile per "lavare" il denaro "sporco" è quello di immetterlo nel circuito del sistema bancario internazionale.
Da quanto innanzi osservato, consegue che è proprio nell'accentuata ermeticità del sistema bancario che si rinviene la caratteristica saliente dei "paradisi" ai quali le grandi organizzazioni rivolgono la loro attenzione, mentre, al contrario, è proprio nella "trasparenza" delle attività bancarie che le Autorità politiche ed economiche di quei Paesi, che "paradisi" non sono, riconoscono ed indicano il più valido sistema per combattere il fenomeno del riciclaggio.
Per meglio comprendere la problematica in argomento occorre soffermarsi sulle più importanti caratteristiche geoeconomiche e geopolitiche dei "paradisi".
In ordine al primo dei suddetti aspetti, è da rimarcare che, di norma, i "paradisi finanziari" albergano in nazioni che - non disponendo a monte di un solido potenziale economico, ovvero avendo visto ridursi nel tempo le proprie risorse e capacità produttive oppure affievolirsi e talora addirittura sparire il sostegno loro originariamente assicurato da Stati economicamente più solidi e potenti - forniscono "ospitalità agli ingenti capitali di soggetti residenti in Paesi terzi, contraddistinti da ordinamenti giuridici più severi e quindi attratti da una sommatoria di predisposizioni specificamente finalizzate a sopportare e rendere più agevoli, sicure e lucrose le attività finanziarie e valutarie. è il caso sia di numerose ex colonie (Antille, Cayman, Seychelles, Barbados, Hong-Kong, etc.) che hanno, in tutto o in parte, ottenuto l'indipendenza politica ed economica, perdendo però, contestualmente, il supporto finanziario delle nazioni "colonizzatrici", sia di taluni Paesi della stessa Europa, poco estesi territorialmente e di modeste capacità produttive (Liechtenstein, Lussemburgo, Isole del Canale).
Sul piano politico, invece, i "paradisi" sono caratterizzati dalla presenza di Governi stabili ed omogenei (spesso totalitari), capaci quindi - o ritenuti tali - di conferire continuità alla politica e durevolezza alle regole economiche e valutarie. è infatti assiomatico che nessuno affiderebbe la gestione dei propri capitali - lecitamente o illecitamente accumulati - ad istituti di credito od a società finanziarie ubicate in Paesi in cui un improvviso sovvertimento dell'ordine costituito potrebbe provocare un repentino dissesto economico o, addirittura, la confisca di tutti i capitali esistenti su quel territorio.

b. I paradisi fiscali emergenti in ambito europeo
Con l'attuazione delle norme dettate dal Trattato di Roma del 1957 e dal successivo Atto Unico Europeo, nel 1992 le frontiere che ancora delimitavano i territori dei Paesi membri della C.E.E. sono venute a cadere, con la conseguente progressiva totale liberalizzazione - in ambito comunitario - di tutte le attività economiche e finanziarie, ivi compresa la circolazione dei capitali. Per le organizzazioni criminali - e prima fra tutte la criminalità organizzata di tipo mafioso - ciò ha comportato una decisa semplificazione delle attività di riciclaggio.
Dal canto loro, gli Stati membri dell'Unione Europea - sia pure tra le difficoltà e le divergenze che derivano da conflitti di interesse e dalle notevoli differenze che contrassegnano gli ordinamenti giuridici dei singoli Paesi - hanno adottato specifiche Convenzioni volte a colpire ogni aspetto del fenomeno riciclaggio, ovvero hanno dato attuazione a Direttive comunitarie rivolte ad assicurare la totale "trasparenza" delle banche - mediante la soppressione dell'istituto del segreto bancario ai fini degli accertamenti fiscali oltre che delle indagini di natura penale - con la conseguenza, tuttavia, che sarà notevolmente esaltata in futuro l'importanza dei "paradisi finanziari" extracomunitari ai fini del riciclaggio internazionale.
In proposito, va sottolineato che all'inversione di tendenza riscontrabile ormai da alcuni anni nell'ambito della Confederazione Elvetica fa riscontro l'affacciarsi sulla scena internazionale di altri Paesi europei i quali, per motivazioni di ordine politico, geografico ed economico, sembrano avviarsi decisamente a prenderne il posto, rilevandone la funzione di compiacente depositaria del capitale internazionale, favorendo l'afflusso di capitali nei rispettivi sistemi bancari con apposite agevolazioni normative. è il caso dell'Austria, dell'Ungheria, della minuscola Repubblica di Andorra e del Principato di Monaco, Paesi con i quali sarebbe utile stabilire intese e accordi che valgano ad evitare agevole ricetto al riciclaggio.
Qualora, infatti, non vengano adottate altre incisive misure di valenza internazionale in tema di regolazione e controllo dei flussi finanziari, la circolazione senza barriere di merci, persone e capitali faciliterà l'accesso di ingenti quantitativi di denaro "sporco" nelle banche europee e, attraverso queste, nella rete costituita dai "paradisi finanziari".


Nel mondo creditizio si sostiene che il denaro "sporco" che transita per i canali ufficiali costituisce una minima percentuale del totale: tuttavia, l'esistenza, tra l'altro, di sistemi bancari clandestini pone in dubbio tale diffusa opinione.
Esiste, infatti, un'attività bancaria clandestina - che, probabilmente, percorre gli odierni sistemi ordinari del credito - la cui nascita, sebbene non documentata, viene generalmente collocata in Asia. Il sistema aggira le procedure bancarie legali ed è maggiormente diffuso e disponibile nei Paesi in cui vigono disposizioni a controllo del cambio, in quanto consente di non lasciare tracce documentali delle transazioni.
Le motivazioni che spingono i "clienti" a servirsene sono diverse e vanno dall'invio di piccole somme di denaro a parenti residenti in Paesi poveri all'elusione fiscale, dall'evasione fiscale al finanziamento di attività criminali, quali il traffico di stupefacenti ed il terrorismo. Pertanto, se da una parte il sistema si presenta come un servizio per la comunità appropriato ed accettato, dall'altra potrebbe presentarsi come un'attività interamente criminale.
Il sistema bancario clandestino è noto ai propri "clienti" con varie denominazioni: ai cinesi come sistema bancario "Chop Chop"; nel sub continente indiano, sistema "Chiti", "Hundi" e "Hawalla"; tra i latino-americani come sistema "Stash House" termine quest'ultimo in via di diffusione anche nel Nord America, in conseguenza dei fenomeni di emigrazione. In particolare, "Chop" e "Chiti" sono i nomi dati ad un documento che funge sia da ricevuta che da tratta a vista; "Hawalla", invece, è un termine che significa "riferimento", mentre "Hundi" significa "fiducia".
In effetti, alla base del sistema bancario clandestino c'è proprio la fiducia, senza la quale l'intera struttura crollerebbe.
Per brevità si può definire "Hawalla" il sistema bancario clandestino organizzato, a livello internazionale, sulla scia degli emigranti e dei commercianti che si sono stabiliti in altri Paesi.
I banchieri Hawalla, spesso, sono membri di antiche famiglie di cambiavalute. Essi possono essere costituiti da negozianti, commercianti, agenti di viaggio, orefici o da esercenti attività commerciali o professionali - notoriamente rispettabili - che hanno usuali rapporti con un gran numero di clienti e per ingenti somme di denaro contante. Gli stessi godono di fiducia e rispetto nell'ambito delle proprie comunità e, con il trascorrere del tempo, acquisiscono anche un certo grado di potere nei confronti dei loro clienti.
La forma di comunicazione chiusa ed informale esistente nelle comunità di immigrati fornisce ai potenziali clienti un facile mezzo per individuare i locali cambieri Hawalla e parimenti non sussistono reali difficoltà - per questi ultimi - ad ottenere clienti, sebbene non pubblicizzino apertamente i propri servizi.
Inoltre, frequentemente il banchiere Hawalla riveste anche un ruolo chiave nella vita della comunità in cui vive quotidianamente, egli si adopera per l'invio di somme di denaro derivanti dai profitti ottenuti da commercianti della comunità, evitando in tal modo il pagamento di eventuali imposte sul reddito; lo stesso, altresì, potrebbe aver concordato o potrebbe essere stato corrotto o obbligato a trasferire, verso altri Paesi, ingenti capitali che potrebbero rappresentare il provento di attività criminali o essere destinati a finanziare traffici illeciti.
L'utilizzo del sistema bancario clandestino manifesta ancor più la propria pericolosità se si affianca alle organizzazioni criminali, ovvero ne costituisce parte integrante.
Come noto, ogni "transazione criminale" necessita di finanziamenti: le spedizioni di droga, ad esempio, devono essere pagate in anticipo, prima che la droga stessa possa essere rivenduta. Lo stesso vale per le armi e le munizioni.
Il relativo denaro, qualora non già disponibile, deve pertanto essere acquisito o dal sistema creditizio ufficiale - cui ovviamente le sottostanti operazioni non sono rese note, ma al quale in ogni caso occorre fornire una giustificazione e delle garanzie con relative tracce documentali - ovvero da quello clandestino, che consente di mantenere l'assoluto anonimato.
Peraltro, è verosimile ritenere che il banchiere Hawalla gestisca anche conti presso gli enti creditizi convenzionali dei quali può utilizzare, a favore del proprio cliente, tutti i servizi offerti.
Le garanzie di assoluto anonimato e l'elevato margine di profitto che conseguiranno dall'operazione illecita in cui sarà investita la somma, giustificano più che adeguatamente il ricorso a tale sistema.


La crescita convulsa dei prezzi nel settore immobiliare, nel sistema distributivo ed in altri vari comparti economici sull'onda del "costi quel che costi" discende, con una elevata probabilità, dalla necessità del cosiddetto "denaro sporco" di "lavarsi" con rapidità.
Grosse disponibilità di capitali richiedono la necessità di dimostrare di essere il risultato di una qualche attività. Siamo quindi di fronte alla motivazione della ricerca di "sbocchi" all'estero, specie quando ad un regime di controlli interni si contrappongono sistemi esteri che per varie motivazioni non sono attrezzati, o non lo sono sufficientemente, per fronteggiare questo tipo di problema.
Solo recentemente i Paesi che per primi hanno avviato processi di liberalizzazione dell'economia, hanno introdotto delle norme per fronteggiare il fenomeno del "money laundering". è, ad esempio, il caso dell'Ungheria che ha iniziato il processo di trasformazione economica sul finire degli anni '80 e che solo nel maggio 1994 ha emanato una legge, entrata in vigore a giugno 1994, che richiede di accertare l'identità degli operatori economici nel caso di operazioni di valore superiore a 2 milioni di fiorini (circa 20.000 USD).
A questo punto, sembra opportuno porre in evidenza alcuni effetti del riciclaggio che non sempre è dato percepire nella loro giusta dimensione. Innanzitutto, occorre considerare che l'immissione di enormi masse di denaro liquido, provenienti da attività illecite, ha sempre effetti distorsivi sui sistemi economici nazionali ed internazionali.
Il principio della libera concorrenza economica, infatti, viene ad essere fortemente turbato se gli operatori - mafiosi o non - sono in grado di finanziare le loro operazioni senza dover far ricorso al credito bancario, ovvero ai normali canali di finanziamento.
In sostanza, le regole economiche di mercato e di competitività imprenditoriale risultano fortemente alterate a favore di piccoli gruppi ed a danno della intera collettività, con conseguenze non solo sotto il profilo economico, ma anche sociale.
Tale forma di sleale competitività finanziaria prevale su ogni forma di sana impresa tradizionale potendo persino pervenire a dominare gli stessi enti creditizi. Il deposito di forti capitali liquidi di provenienza illecita nella stessa Banca può comportare anche il rischio di una sua crisi. Infatti, se l'entità del denaro sporco depositato raggiunge livelli allarmanti rispetto alle riserve "pulite", un suo ritiro improvviso può provocare la crisi dell'Istituto che può essere impedita soltanto cedendo ad azioni ricattatorie.
Per quanto attiene all'impatto degli ingenti capitali accumulati dalla criminalità organizzata sui mercati internazionali va notato che l'infiltrazione criminale si è sviluppata secondo due prevalenti e coesistenti linee direttrici: quella degli investimenti monetari e quella degli investimenti finanziari.
La prima, come già visto, si sviluppa per il tramite di circuiti bancari.
Per quanto riguarda la seconda direttrice, quella degli investimenti finanziari, la criminalità organizzata mira ad acquisire il controllo di imprese operanti in settori economici contraddistinti da elevata redditività.
Questa duplice azione monetaria e finanziaria può in qualche maniera connotarsi come "un'arma economica" atta anche a minare la stabilità dello Stato destinatario dell'azione criminale.
La criminalità organizzata è infatti in condizione di mobilitare ingenti masse monetarie indirizzandole verso speculazioni che possono in alcuni casi influire sul corso dei cambi condizionando la politica economica di alcuni Paesi.
Parallelamente, l'azione delle organizzazioni criminali rivolta agli investimenti finanziari può arrivare - attraverso l'infiltrazione di capitali da riciclare in attività anche multinazionali - ad influenzare pesantemente i mercati borsistici.
Risulta quindi evidente la gravità della minaccia dell'impatto dei capitali illeciti sul sistema economico non soltanto di un solo Stato ma - trattandosi di un fenomeno che si qualifica a livello mondiale - anche a livello internazionale, rendendo sempre più indispensabile una stretta collaborazione tra gli Stati sia sul piano giudiziario che di polizia.



(*) Contributo del Gen. Osvaldo Cucuzza reso nell'ambito del 1° Seminario di aggiornamento in economia presso la Scuola di Addestramento del SISDe - Roma, 21/24 aprile 1998.
(1) Dore, La globalizzazione dei mercati e la diversità dei capitalismi, in Il Mulino, XLV, 368, pag. 1017.
(2) Cesareo, La società della globalizzazione: regole sociali e soggettività. Una introduzione al tema, in Studi di sociologia, Università cattolica del Sacro Cuore, Milano, n.3-4/1997, pag. 251.
(3) Robertson, Globalization: social theory and global culture, Sage, London, 1992.
(4) Secondo Braudel, I tempi del mondo, Einaudi, Torino, 1984, le prime tracce della "economia-mondo" capitalista, caratterizzata dell'integrazione geografica dei processi produttivi e, di conseguenza, dal tentativo di controllo politico militare del globo, possono essere fatte risalire addirittura al 1500.
(5) Traendo spunto da tali valutazioni, è ben sostenibile la tesi che, sotto il profilo quantitativo complessivo, la globalizzazione è un mito. Infatti, per quantità - sia del commercio mondiale sia degli investimenti diretti - non ci troviamo in condizioni molto diverse da quelle che esistevano nel periodo immediatamente precedente il primo conflitto mondiale. In Italia, ad esempio, la percentuale dell'export globale sul Pil era nel 1914 del 12,9% e nel 1993 del 14,3%. Gli investimenti diretti all'estero ammontavano al 3% del PIL nel 1913 e al 4% nel 1990.
(6) Basti pensare ad ulteriori investimenti in traffici d'armi, in petrolio, in oro, in diamanti, in azioni di società multinazionali, in titoli al portatore, etc.
(7) Oltre a società finanziarie comunque collegate con l'organizzazione criminale, si prestano assai bene allo scopo - in dipendenza della loro attività, che presuppone frequenti contatti con operatori esteri e con movimentazione di somme cospicue - le agenzie di viaggio, le gallerie d'arte, le società di produzione e di distribuzione cinematografica, etc.

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