Ringrazio innanzitutto il Prefetto Stelo - al quale mi lega un'amicizia nata in un periodo non breve di intenso lavoro comune al Ministero dell'Interno - per avermi dato l'occasione di parlare, dinanzi ad un uditorio così qualificato, del problema tanto attuale quanto delicato al quale è stata intitolata questa conversazione.
Trasparenza, riservatezza, e segreto sono tre temi accomunati dalla loro attualità e dalla loro delicatezza.
Emergenti i primi due, antichissimo il terzo, per il quale Tacito aveva già coniato la bellissima locuzione degli "arcana imperii". La trasparenza è infatti entrata nel nostro ordinamento con pieno diritto di cittadinanza solo nel 1990 e, quanto alla riservatezza, proiezione delle libertà tradizionali consacrata anche normativamente dal legislatore del 1974, sembra ovvia la constatazione che la più recente legge in materia, quella sulla protezione dei dati personali, è ancora fresca di stampa. La problematica relativa a trasparenza e riservatezza è dunque in pieno travaglio, ma non diversamente stanno le cose per il tema del segreto che, per essere antico, non è per ciò meno scottante e controverso, tanto da aver indotto autorevole dottrina ad affermare che il concetto di segreto rimane tuttora un segreto.
Procedendo a una prima annotazione di carattere generale, si può preliminarmente osservare che riservatezza e segreto sono due species dello stesso genus, come dimostra anche la comune radice semantica indicativa di un regime di "separazione".
La notizia riservata o segreta è infatti la notizia "separata" da quelle conoscibili. Con il termine "segreto", poi, si opera una sintesi lessicale che riassume tutta una serie di segreti normativamente individuati e regolati ciascuno con proprie caratteristiche.
Una seconda notazione merita di essere dedicata al diverso regime del segreto nel pubblico e nel privato.
Nel migliore dei mondi possibili e nella più avanzata delle democrazie il governo della cosa pubblica ha per regola, infatti, la trasparenza e per eccezione il segreto; la vita privata dei cittadini ha invece per regola (quel segreto minore che è) la riservatezza e per eccezione la trasparenza.
Non è certo un caso che il diritto del singolo alla riservatezza debba cedere al diritto di informazione e al diritto di cronaca, quando il singolo in questione sia un personaggio pubblico.
Ma non intendo certo avventurarmi sul terreno privatistico della riservatezza, sarebbe un pericoloso sconfinamento in territori a me poco noti. Intendo invece soltanto limitarmi all'aspetto pubblicistico della problematica che sembra potersi affrontare con l'aiuto di un filo conduttore unico che discende dalle osservazioni generali sopra svolte. Un filo conduttore che conduce ad uno dei più delicati punti di frizione tra principio di libertà e principio di autorità, fra trasparenza e pubblico segreto: quello oggi regolato dalla normativa del ‘90 sulla trasparenza.
Alludo ovviamente alla l. 7.8.1990 n. 241 sul procedimento e l'accesso che, nell'enunciare espressamente il principio della necessaria trasparenza dell'operare pubblico, regola anche i rapporti fra trasparenza e segreti pubblici (segreto di Stato e segreto d'ufficio) e fra trasparenza e riservatezza, nei limiti in cui questa rileva rispetto all'operare dell'Amministrazione.
L'introduzione nel nostro ordinamento dell'istituto del diritto di accesso, ad opera delle quasi coeve leggi sulle autonomie locali e sul procedimento amministrativo e l'accesso, è stato salutato come fatto di rilevanza epocale.
In particolare sembra interessante notare come l'approvazione e la gestazione della l. n. 241 del 7 agosto 1990 recante Norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi siano state accompagnate da contrastanti manifestazioni emotive, oscillanti tra catastrofismi e trionfalismi, ottimismi volontaristici e pessimismi razionalizzanti.
Infatti, alle entusiastiche affermazioni di chi considera tale legge una tappa fondamentale per la soluzione dei problemi derivanti dal divenire dei rapporti fra cittadino e pubblica amministrazione (1) o addirittura la più importante riforma dell'Amministrazione fatta dall'ordinamento repubblicano (2) , hanno fatto eco le preoccupazioni di chi ritiene che le strutture non troppo robuste né troppo efficienti del nostro apparato amministrativo siano inadeguate alla portata "dirompente" (3) della legge sul procedimento amministrativo e sull'accesso.
Ad attenuare le preoccupazioni i pessimisti hanno lanciato, però, un segnale ottimistico di speranza: la speranza di essere cattivi profeti. E qualche speranza in tal senso indubbiamente c'è perché la storia di questa legge è piena di cattivi profeti, a cominciare dal suo padre spirituale, Mario Nigro, Presidente della sottocommissione di studio che elaborò i testi originari, poi divenuti, con alcune modifiche, legge dello Stato. Il grande amministrativista scomparso, poco prima della sua fine, prevedeva infatti che il disegno di legge avrebbe dormito nel Parlamento sonni lunghissimi e forse eterni, perché "le leggi sulla pubblica amministrazione.....sembra non le voglia nessuno" (4) .
Ed anzi, proprio in questa prospettiva, qualche anno prima aveva concepito l'intelaiatura dell'articolato più in chiave teorica che operativa, come creazione di un modello sperimentale di avanguardia, destinato a servire più che come supporto tecnico per il legislatore di oggi come stimolo intellettuale per lo studioso e per il legislatore di un imprecisato e lontano domani.
La stessa sperimentalità del disegno, che prevedeva addirittura in un articolo finale la sua revisione dopo un triennio di applicazione, veniva sottolineata da autorevoli membri della Commissione (5) e la prevedibile lunghezza dell'iter parlamentare veniva enunciata come "facile profezia" anche dal Presidente Longo, il quale, nella presentazione del Tema del XXXII Convegno di Varenna, osservava come, contrariamente a quanto sarebbe stato da augurarsi per rispetto dell'ordine logico, l'iter parlamentare della legge sul processo era stato fino allora e dava segni che sarebbe stato in futuro assai più rapido di quello della legge sul procedimento (6) .
Come sappiamo oggi, queste profezie sono risultate errate: la legge sul processo segna il passo mentre quella sul procedimento ha compiuto tutto il suo iter formativo e non sembra azzardato ritenere che non poche norme della legge sul processo andranno ripensate alla luce delle innovazioni introdotte dalla legge sul procedimento.
Al di là di ogni eccesso emotivo, è innegabile, comunque, che la legge generale sul procedimento amministrativo costituisce un grande passo in avanti nel processo di adeguamento ai principi costituzionali della normativa che regola i rapporti tra Amministrazione e cittadini. Nella ricerca, poi, del punto di equilibrio fra garanzia ed efficienza nello svolgimento dell'azione amministrativa, assume un ruolo significativo il principio di trasparenza che, come è stato posto in evidenza, lungi dal costituire un istituto giuridicamente preciso, rappresenta il punto di confluenza di regole dell'azione amministrativa costituzionalmente garantite (buon andamento, imparzialità, legalità e metodo della partecipazione democratica) ossia un risultato al cui raggiungimento cospirano e concorrono strumenti diversi (7) .
La l. 241/1990 enuncia espressamente il principio della trasparenza dell'azione amministrativa che essa mira ad attuare soprattutto attraverso il riconoscimento del diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Tale istituto è regolato nel capo V della l. 241/1990 ed andrà subito precisato che il tema relativo aveva formato oggetto di studio nel quadro di un autonomo articolato. La sottocommissione incaricata dello studio sul procedimento era infatti partita dalla esatta considerazione che se il diritto di accesso è connesso con il procedimento, ha però una sua area di operatività anche al di fuori di esso.
Il diritto di accesso si pone, infatti, in connessione con tre possibili diritti del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione: quello di difesa in giudizio, quello di partecipazione al procedimento e quello generico alla informazione.
Il primo si correla, in particolare, con la regola di giudizio del processo amministrativo e con l'istituto dei motivi aggiunti nonché con la nota giurisprudenza elaborata in tema di elementi di prova tratti dalla inottemperanza dell'Amministrazione all'ordine di esibizione; il secondo discende da una concezione partecipativa del procedimento amministrativo e da una piena esplicazione in esso del principio del contraddittorio; il terzo, infine, corrisponde ad un principio liberale avanzato di trasparenza che dovrebbe condurre ad una amministrazione "dai cassetti aperti" o "casa di vetro" (naturalmente con eccezioni funzionali di segretezza in campi quali la difesa esterna, l'ordine pubblico interno, la privacy, ecc.)
In questa sua ultima e più comprensiva accezione il diritto di accesso rappresenta il verso di una medaglia che porta sul recto l'istituto del segreto amministrativo discrezionale. Non a caso si è parlato in proposito di un discrimine di civiltà: da una parte quella del diritto di accesso e dall'altra quella del segreto amministrativo.
La tradizione italiana, fino all'entrata in vigore della legge sul procedimento e l'accesso, è stata indubbiamente quella del segreto e ciò non può, d'altronde, costituire traccia di particolare arretratezza perché, come si vedrà subito, fino a pochissimi anni or sono la situazione era comune a quasi tutti i Paesi del mondo. D'altro canto la l. 241/1990 si pone, fra le legislazioni sull'accesso, in posizione abbastanza avanzata; la sua approvazione sembra segnare, quindi, il primo passo verso un vero e proprio mutamento di civiltà giuridica in quella che, alle soglie del millennio, ben possiamo definire una crisi di trasformazione interepocale della nostra società e del nostro Stato.
Il problema affrontato dalla normativa sull'accesso riguarda, dunque, sia pure in chiave positiva, lo scottante problema del "segreto"; un problema di cui opinione pubblica, dottrina e legislatore italiani hanno di recente avuto varie occasioni per occuparsi. Basti ricordare in proposito le vicende che condussero alla riforma dei servizi segreti (8) , con sostituzione del segreto di Stato al segreto politico-militare e quelle che portarono alla attuazione dell'art. 18 della Cost. con introduzione del divieto penalmente sanzionato di associarsi segretamente (9) e tutto il quadro di polemiche, di vicende giudiziarie e di dibattiti dottrinali in cui le due normative ora citate si collocano. Non è certo questa la sede per tentare di cimentarsi in quel vero e proprio sesto grado del diritto che è la definizione dogmatica del segreto ma converrà limitarsi pragmaticamente ad alcune osservazioni. La prima da farsi sembra essere quella che occorre guardarsi dalla istintiva valutazione del segreto come valore negativo. Vi sono in realtà dei segreti che esprimono valori positivi, come quello professionale e sono addirittura tutelati a livello costituzionale, come quello epistolare. Sembra, quindi, di poter dire che il segreto non è un valore, ma uno strumento polivalente e che acquista dunque un segno positivo, negativo o neutro a seconda dell'interesse a tutela del quale si pone. Così il segreto assumerà connotazione negativa quando sia volto a coprire una associazione che abbia per scopo fini politici; sarà indifferente per l'ordinamento quando i fini di quella stessa associazione siano non politici; assumerà un valore positivo quando sia volto a proteggere un interesse giuridico tutelato, quale ad esempio quello della riservatezza o della libertà individuale come nel segreto epistolare, o l'integrità dello Stato democratico, come nel segreto di Stato, o quello del corretto svolgimento di una funzione. Così accade, ad esempio, per il segreto istruttorio nel processo penale essendo tale segreto finalizzato, secondo la concezione tradizionale, a garantire la funzionalità del processo stesso.
Sullo stesso piano del tradizionale segreto istruttorio penale si pone, nella nostra tradizione, il segreto amministrativo, garanzia, secondo una tradizionale dottrina cinica e pragmatica, modellata sugli schemi francesi, non solo di "tranquillità del funzionario" ma anche di efficacia dell'azione amministrativa. Secondo tale tradizionale dottrina "il diritto comune è il segreto, l'accesso l'eccezione", e "l'autorità si afferma nella misura della distanza a cui è tenuto l'interessato" (10) .
Nel nostro ordinamento il segreto amministrativo era, per vero, andato ancora più in là della garanzia della funzione, ipostatizzandosi in "canone fondamentale dell'organizzazione" (11) .
Questo non deve però indurci a quei riti autoflagellatori cui spesso indulgiamo noi italiani lamentando l'arretratezza del nostro ordinamento rispetto ad altri.
L'affermazione di un potere generale di segretazione discrezionale attribuito, fino a tempi recentissimi, all'Amministrazione nei confronti del cittadino era valida - quanto meno a livello di diritto di accesso indifferenziato (e cioè non correlato con un processo o con un procedimento) - per tutti i Paesi del mondo con due sole eccezioni, delle quali l'una provava troppo e l'altra non abbastanza.
La prima è quella della Svezia che, con l'eccezione di una breve parentesi a cavallo tra il ‘700 e l'800, riconosce un diritto di accesso generalizzato ai cittadini sin dal 1766, anno sin dal quale trasformò in legge il principio kantiano dell'attività di governo come "uso pubblico della propria ragione" (12) . Ma si sa, in materia di democrazia avanzata, la Svezia suole essere un enfant prodige ed ogni comparazione con essa risulta scarsamente producente. La seconda eccezione è quella degli Stati Uniti d'America in cui si è da sempre affermato, con riferimento al primo emendamento della Costituzione, il right to know. Sta di fatto, però, che alla generale affermazione di principio (13) non corrispose, fino al 1967, negli Stati Uniti, un effettivo diritto di accesso, sì che il famoso right to know doveva considerarsi nulla più che uno slogan giornalistico (14) . La prima timida regolamentazione la si trova, infatti, nella legge di procedura del 1946 (15) nella quale, peraltro, il diritto di accesso aveva le seguenti notevolissime limitazioni: era riconosciuto soltanto ai diretti interessati, a fronte della richiesta di accesso l'Amministrazione poteva opporre un segreto desunto da clausole generali quali "l'interesse pubblico" e la "confidenzialità" della notizia; non era prevista, infine, alcuna possibilità di ricorso al giudice avverso la decisione amministrativa di segretazione (16) .
Si può, dunque, concludere che negli Stati Uniti d'America, anche dopo il 1946 (e, come si vedrà, fino al 1967) sotto l'egida di una formale enunciazione del diritto di accesso vigeva il principio del segreto amministrativo.
In Europa, poi, con quell'unica eccezione svedese sopra citata, fino a pochi anni fa, alla disciplina sostanziale si accompagnava anche l'enunciazione teorizzata del principio del segreto amministrativo discrezionale. Il che non deve, d'altronde, stupire, quando si pensi a tutta una serie di circostanze e di fattori. Alla vischiosità delle prerogative reali, innanzitutto: l'amministrazione del monarca assoluto era stata istituzionalmente una amministrazione segreta. Logico, quindi, che tale caratteristica sia stata conservata - per tradizione e per comodità - anche dopo la fine dell'Ancien Régime.
Secondo importante fattore è la limitatezza delle funzioni assunte al suo nascere dallo Stato liberale: esso era, infatti, uno "Stato carabiniere" con compiti limitati a settori - quali la difesa, l'ordine pubblico e simili - in cui il segreto appariva funzionalmente giustificato (tanto che ancora oggi esso è conservato come tale - seppure in via di eccezione - anche nelle più avanzate legislazioni sull'accesso). E' logico quindi che esso venisse mantenuto anche dopo il passaggio dallo stato liberale allo stato sociale, e quindi dopo l'avocazione alla mano pubblica di funzioni con cui il segreto appariva meno o per nulla incongruente, in virtù di tradizioni e di isteresi burocratica. Un terzo aspetto da considerare è che prima della rivoluzione tecnologica portata da macchine da scrivere, fotocopiatrici, sistemi di videoscrittura e simili il documento amministrativo era un prezioso e costoso esemplare unico da proteggere gelosamente con una disciplina che, per traslato, si estendeva dall'oggetto alle notizie in esso contenute.
Nell'evoluzione europea della disciplina del diritto di accesso, possiamo riconoscere tre tappe logiche (e temporali) fondamentali.
Nella prima, l'area coperta dal segreto amministrativo discrezionale era praticamente indefinita e si estendeva a tutti i casi non diversamente regolati con norme espresse. Era questo il regime vigente fino a pochissimi anni fa, ad esempio, in Italia (17) ed in Francia (18) dove solo l'azione evolutiva della giurisprudenza introdusse - in sede di giustizia amministrativa - un diritto di accesso funzionalizzato al diritto di difesa (19) .
In altri Paesi l'area del segreto amministrativo era già da tempo, invece, limitata ai soggetti non direttamente interessati, in quanto l'accesso era riconosciuto in linea di principio da normative generali sul procedimento introdotte a partire dal tempo fra le due guerre e che contemplavano il diritto dei privati alla partecipazione al procedimento stesso (Austria, Germania, Jugoslavia, Polonia e in genere Paesi dell'Est europeo) (20) .
La linea di tendenza di ammettere un diritto di accesso dell'interessato agli atti del procedimento ha fatto poi breccia più di recente - pur in carenza di normativa sul punto - anche nei Paesi in cui la tradizione del segreto amministrativo era più fortemente radicata come la Francia e l'Italia (21) .
L'ultima tappa è quella della piena liberalizzazione, cioè dell'affermazione di un diritto all'accesso limitato soltanto da espressi divieti, con configurazione, quindi, di un diritto all'informazione limitato soltanto dalla tutela di altri diritti o valori con esso confliggenti, quali sicurezza interna, difesa esterna, privacy, ecc. è il caso di tutti i Paesi scandinavi che in questo dopoguerra si sono, in date varie, adeguati alla normativa svedese (22) e della Francia a partire dal 1978 (23) .
Si è detto in generale che il previgente ordinamento italiano era ispirato al principio del segreto amministrativo con correlativo diniego di un diritto di accesso ai documenti dell'Amministrazione: naturalmente la situazione era molto più sfumata ed articolata di quanto non risulti da una enunciazione di principio di tale tipo e, quello che più importa, era in atto da diverso tempo una tendenza evolutiva che, attraverso l'attività normativa a vario livello, l'evoluzione giurisprudenziale e l'elaborazione dottrinale, preparava in qualche modo il terreno per la svolta segnata nell'agosto 1990.
L'esigenza di affermare un diritto di accesso come principale strumento di realizzazione di un diritto all'informazione, concepito come diritto di libertà, andava divenendo sempre più viva e non è certo un caso che la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (Commissione Bozzi) abbia proposto, nel 1985, l'introduzione nella Costituzione di un art. 21-bis contemplante un diritto costituzionalmente riconosciuto all'informazione ed all'accesso ai documenti amministrativi.
Oltre che de iure condendo il diritto di accesso trova, poi, negli anni ottanta, numerosi riconoscimenti de lege lata anche se si tratta, in genere, di riconoscimenti meramente platonici. Così, l'art. 2 della legge quadro sul pubblico impiego (l. 29 marzo 1983 n. 93) enuncia una riserva relativa di legge per la regolamentazione del diritto di accesso, di cui viene affermata una implicita quanto nebulosa esistenza.
Così ancora l'art. 25 della l. 27 dicembre 1985 n. 816, (intitolata ad Aspettative, permessi e indennità degli amministratori locali) attribuisce a tutti i cittadini il diritto di prendere visione di tutti i provvedimenti adottati da comuni, province, unità sanitarie locali, comunità montane.
L'enunciazione è amplissima ma la norma si conclude con un periodo: "Le amministrazioni disciplinano con proprio regolamento l'esercizio di tale diritto" che ricorda - come è stato spiritosamente notato (24) - la locuzione dello Statuto Albertino: "La stampa sarà libera ma la legge ne reprime gli abusi", che consentì una pressoché totale soppressione della libertà di stampa.
Altra enunciazione è contenuta nell'art. 14 della legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (25) : "qualsiasi cittadino ha diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell'ambiente". Enunciazione la cui ampiezza è però bilanciata dalla frase limitativa che segue: "in conformità delle leggi vigenti" che nega praticamente l'affermazione di principio.
Alle fonti di legge statale sin qui elencate - esemplificativamente, si intende, e senza nessuna pretesa di completezza - possono poi aggiungersi fonti comunitarie, quali ad esempio la Direttiva del Consiglio 7 giugno 1990 sulla libertà di accesso all'informazione in materia di ambiente e fonti regionali.
In moltissimi statuti regionali di regioni a statuto ordinario è contenuta, infatti, l'enunciazione di un diritto all'informazione nei confronti dell'autorità regionale, soggetta al corrispondente obbligo (26) .
Alle enunciazioni di principio non è però seguita, se non eccezionalmente e per settori, una disciplina di dettaglio adeguata (27) .
Tirando le fila del discorso sin qui svolto, può quindi concludersi che al di là delle aperture giurisprudenziali in tema di processo e di procedimento e nonostante numerose enunciazioni legislative di principio, scarsamente effettive al di là dell'effetto declamatorio, l'ordinamento italiano, alla vigilia dell'entrata in vigore della l. 241/1990, (a parte, ovviamente, l'art. 7 della legge sulle autonomie locali che immediatamente la precedette (28) ), era ancora ispirato al principio del segreto amministrativo.
La ragione "politica" della legge sull'accesso si basa sulle dichiarazioni programmatiche del Governo dell'agosto 1983, in cui veniva affermata la necessità di por mano ad un complesso di riforme istituzionali quale tema centrale della IX legislatura. Fra queste, particolare importanza assumeva la riforma della pubblica amministrazione lungo la triplice direttiva della democraticità, dell'efficienza e della semplificazione. In particolare era stata sottolineata l'esigenza di porre fine alla "imperscrutabilità.... dei comportamenti amministrativi" e di affermare il "diritto del cittadino all'acquisizione di dati e informazioni sul funzionamento dei servizi che lo interessano" in nome di un principio di "trasparenza".
Veniva così enunciata la necessità di introdurre nel nostro ordinamento l'istituto del diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione.
Il relativo lavoro di studio effettuato dalla sottocommissione Nigro si era mosso sulla falsariga dell'esperienza francese e americana, con la predisposizione di un testo come si è accennato, dichiaratamente sperimentale (29) . Così le prove fatte oltralpe, come quelle effettuate oltre Atlantico, avevano dimostrato, infatti, la necessità di procedere ad aggiustamenti e correzioni di tiro nell'introduzione di una normativa innovatrice in modo così radicale. per cominciare con l'esempio francese, gioverà notare, in proposito, che l'originaria l. 1° luglio 1978 n. 753 richiedette delle modifiche ad appena un anno di distanza dalla sua entrata in vigore (l. 11 luglio 1979, n. 587).
Il meccanismo della legge che si apre - nel testo novellato - con l'enunciazione del riconoscimento "a chiunque" del diritto di accesso, è fondato su una distinzione tra atto nominativo e non nominativo su di una lunga elencazione dei casi in cui può essere opposto il segreto al richiedente (e che riguardano le classiche ipotesi di difesa nazionale, sicurezza interna, privacy, ecc.) e su di una ordinaria tutela giurisdizionale garantita al cittadino nei confronti del rifiuto di accesso dinanzi al giudice amministrativo. Elemento caratteristico della normativa francese è l'istituzione di una Commissione dell'accesso: organo collegiale incaricato di vigilare sul rispetto della legge, di rendere pareri su richiesta delle amministrazioni o di cittadini (30) ed infine di redigere un rapporto annuale sulla applicazione della legge.
Quanto alla esperienza americana, giova ricordare che negli Stati Uniti d'America il diritto di accesso, nel più comprensivo senso del termine, fu effettivamente introdotto soltanto con il Freedom of Information Act (31) che affermò i seguenti principi:
- riconoscimento a tutti del diritto di accesso a qualunque documento identificabile dietro pagamento di un "diritto" non quantificato, fatti salvi soltanto nove tipi di notizie tassativamente elencati;
- attribuzione al richiedente che si veda rifiutata una notizia di un'azione dinanzi al giudice che può emettere ingiunzione nei confronti dell'Amministrazione;
- capovolgimento del principio di presunzione di legittimità dell'azione amministrativa: compete infatti all'Amministrazione provare la legittimità del diniego e non al richiedente provare la fondatezza della sua richiesta;
- particolare disciplina della judicial review azionata in subiecta materia dal privato e non limitata ad un giudizio di tipo cassatorio ma consistente in un riesame completo (de novo) della questione;
- procedura d'urgenza prevista per la judicial review stessa.
L'Act fu emendato nel 1974-75 (32) e le modifiche rivelarono in modo assai chiaro quali disfunzioni si fossero verificate. La novella del ‘75 introdusse, infatti, le seguenti innovazioni:
- Determinazione, per i diritti di copia, del tetto di un ragionevole standard di costo vivo, con libertà per l'Amministrazione soltanto di ridurlo.
- Previsione per l'Amministrazione di un termine di 10 giorni per rispondere alla richiesta di informazioni con atto ricorribile gerarchicamente al Capo dell'Amministrazione, tenuto a decidere nei venti giorni successivi.
Il mancato rispetto dei termini di cui sopra è stato equiparato all'esaurimento delle vie di ricorso amministrative con conseguente accedibilità alla judicial review, salva la facoltà per il giudice, in casi particolari, di accordare all'Amministrazione un termine di grazia nel corso del giudizio.
- Espressa previsione - nell'ambito del riesame de novo - del potere del giudice di esaminare in Camera di Consiglio tutti i documenti e di decidere quali - o in quale parte - siano ostensibili.
- Obbligo dell'Amministrazione di costituirsi in giudizio - esponendo le sue ragioni - nei 30 giorni successivi alla notifica dell'atto introduttivo.
- Possibilità per il giudice di condannare l'Amministrazione alle spese di lite.
- Trasmissione degli atti all'Amministrazione per l'inizio dell'azione disciplinare in caso di condanna alle spese di lite e se il rifiuto di documenti sia stato ritenuto "arbitrario" o "capriccioso".
- Obbligo di porre in calce ad ogni diniego di informazione nomi e qualifiche dei funzionari responsabili.
La principale eccezione al diritto di accesso, che nel testo originario veniva individuata nelle materie che dovevano rimanere segrete nell'interesse della difesa nazionale o della politica estera su "ordine dell'Esecutivo", risultò radicalmente trasformata dalla novella del '75, che concesse al giudice il potere di sindacare se la "segretazione" corrispondesse effettivamente a criteri generali previamente stabiliti dall'Esecutivo nell'interesse della difesa nazionale e della politica estera.
L'articolato della legge italiana, ispirato soprattutto al modello francese, si apre con una enunciazione di principio contenuta nell'art. 22 secondo cui ".... è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi....", che si discosta dalla proposta della Commissione Nigro, il cui testo riconosceva a tutti i cittadini il diritto in questione relativamente a tutti i documenti in mano pubblica, con una formulazione che era molto vicina a quella contenuta nella Raccomandazione n. 19/1981 del Consiglio d'Europa.
Il diritto di accesso viene riconosciuto "al fine di assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale....", con una formula che legittima i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza amministrativa quando aveva individuato il fondamento costituzionale del diritto di accesso negli artt. 97, 1° comma, e 98, 1° comma, Cost.
La formula, alquanto inusuale, che ricollega la titolarità dell'accesso ad un interesse per la tutela di situazioni soggettive giuridicamente rilevanti, si pone a metà strada fra quelle adottate nell'ordinamento francese e tedesco, occupando una posizione intermedia fra il "chi è parte di un procedimento" del secondo ed il "chiunque" del primo. Il diritto in questione è stato in tal modo configurato come pretesa strumentale per l'eventuale tutela di posizioni normativamente qualificate (33) e non come strumento di controllo "popolare" o politico dell'azione della pubblica amministrazione o come strumento di partecipazione.
Per quanto attiene all'oggetto del diritto, il legislatore, rifuggendo dal sistema dell'enumerazione adottata dal legislatore francese, ha fornito una nozione generale ed astratta di documento amministrativo, determinandolo come "ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie, del contenuto di atti" così abbandonando la tradizionale endiadi "atti e documenti" (34) perché "è certamente il documento (e non l'atto) a costituire il naturale oggetto del diritto" (35) e superando espressamente per la prima volta i confini "cartolari" del documento tradizionalmente inteso (v. anche art. 2, comma terzo, d.P.R. 27 giugno 1992 n. 352) e legittimando le opzioni informatiche, ormai divenute parte essenziale dell'operare amministrativo.
Le limitazioni all'esercizio del diritto di accesso sono state tassativamente elencate con riferimento ai classici valori del segreto di Stato o dei casi di segreti altrimenti previsti dall'ordinamento, tra i quali possono sottolinearsi il segreto militare (r.d. 11 luglio 1941, n. 161), il segreto industriale (arg. ex art. 263 c.p.), il segreto commerciale.
In secondo luogo il diritto di accesso può essere escluso in relazione a specifiche esigenze, quali quelle individuate nel secondo comma dell'art. 24 l. 241/1990.
Ulteriore limite è costituito dall'esclusione del diritto di accesso agli atti preparatori nel corso della formazione degli atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, nonché ai procedimenti tributari (art. 24, comma sesto, l. cit.)
L'art. 8 del d.P.R. 352/1992 disciplina, poi, i casi di esclusione del diritto di parola adottando il criterio del pregiudizio concreto degli interessi di cui all'art. 24 l. 241/1990 come discrimine per consentire o meno l'accesso ai documenti amministrativi anche in queste materie.
Sulla falsariga dell'esempio francese è stata inoltre prevista l'istituzione, presso la Presidenza del Consiglio, di una Commissione per l'accesso con il compito di vigilare sull'osservanza della legge (in alcuni casi con poteri di controllo sostitutivo), di riferire annualmente alle Camere e alla Presidenza del Consiglio dei ministri e di formulare proposte di modifiche legislative o regolamentari atte ad assicurare la effettività del diritto all'accesso (art. 27).
Ulteriori funzioni vengono attribuite alla Commissione dal Regolamento di attuazione 352/1992 già citato, che, all'art. 10, attribuisce alla Commissione un vasto potere consultivo in materia di normazione sull'accesso.
Il nostro legislatore, diversamente da quello francese, non ha ritenuto, però, di condizionare il ricorso del cittadino alla tutela giurisdizionale nella materia in esame al previo parere sulla questione della Commissione, competente in Francia in prima battuta a sindacare la fondatezza o meno del rifiuto di rilasciare la copia del documento amministrativo (36) .
La tutela giurisdizionale dell'accesso contempla una procedura a termini abbreviati dinanzi al giudice amministrativo, cui viene conferito il potere, in caso di totale o parziale accoglimento del ricorso, di ordinare l'esibizione del documento.
Le modalità di esercizio del diritto di accesso sono delineate nell'art. 25 della l. 241, 1° e 2° comma, ma il sistema trova una compiuta disciplina negli artt. 3 e seguenti del d.P.R. 352/1992, che prevede l' "accesso informale" come regola di esercizio del diritto in questione così "deprocedimentalizzando" l'istituto e facendone veramente la regola base dell'operare amministrativo.
Da ultimo giova ricordare la nuova disciplina del segreto d'ufficio nel nuovo testo dell'art. 15 del t.u. 3/1957 così come modificato dall'art. 28 l. 241/1990 di cui mi riservo di parlare tra poco. Fin da ora e conclusivamente sulla legge 241 sembra di poter dire che si tratta di una legge fra le più avanzate in materia di trasparenza e di rapporto fra accesso e segreto amministrativo. Un rapporto da eccezione a regola che è stato capovolto in rapporto da regola ad eccezione.
Venendo, da ultimo, a parlare della riservatezza e del segreto pubblico, gioverà innanzitutto rammentare, come si accennava all'inizio, che riservatezza e segreto sono categorie appartenenti allo stesso genere e che più che parlare di segreto bisognerebbe parlare di segreti.
Ognuno di essi è normativamente previsto e regolato con una specifica disciplina che determina il suo grado di resistenza di fronte ad altri interessi tutelati con esso confliggenti.
Sul gradino più basso della scala dei segreti è la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese che costituisce limite alla trasparenza fino a quando non confligga con la cura e la difesa di interessi giuridici altrui (art. 24, 2° comma lettera d l. 241/90).
La riservatezza è valore di segretazione che prevale dunque soltanto sul mero diritto di informazione, laddove esista, ma cede, ad esempio, di fronte al diritto di difesa in giudizio.
Sul gradino più alto della scala è il segreto di Stato, previsto e disciplinato dalla legge 24.10.1977 n. 801 in sostituzione del vecchio segreto politico-militare.
La legge 801/1977 di riforma dei Servizi è stata scritta, nella parte che qui ci riguarda, sotto dettatura della Corte Costituzionale, se mi si passa l'espressione. La Corte, infatti, con la sentenza 24.5.1977 n. 86, dichiarava illegittima la previgente disciplina ed enunciava quali valori fossero difendibili con il segreto di Stato, quale l'autorità competente ad opporlo, quale la sua responsabilità, quale la forza di resistenza del segreto di Stato di fronte ad altri diritti e poteri.
In puntuale applicazione di tali enunciati la legge 801/77 ha individuato nella sicurezza dello Stato democratico il valore da tutelare con il segreto di Stato. Tale segreto viene apposto in via amministrativa dagli uffici competenti in conformità degli appositi regolamenti di cui agli artt. 1, 3, 4 e 5 della legge ed opposto all'autorità giudiziaria per rifiutare la deposizione o l'esibizione di documentazione. Se l'autorità procedente non ritiene fondata la dichiarazione di segretezza, interpella il Presidente del Consiglio dei Ministri che, ove ritenga di confermarla, deve provvedervi entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta. In tal caso, se la conoscenza di quanto coperto dal segreto di Stato sia essenziale, l'autorità procedente dichiara di non doversi procedere nell'azione penale per l'esistenza di un segreto di Stato.
In sede civile o amministrativa è stata ritenuta applicabile la stessa norma (37) . Le conseguenze sono tuttavia parzialmente diverse, in quanto in sede civile e amministrativa non è ammessa la pronuncia di un "non liquet" ma il giudice dovrà invece decidere secondo la propria regola di giudizio rinunciando a conoscere quanto coperto dal segreto.
Il segreto di Stato ha dunque una forza di resistenza massima, perché dinanzi ad esso cede persino l'esercizio della funzione giurisdizionale (per tacere del diritto di difesa in giudizio, del libero esercizio dell'azione penale, della libertà di manifestazione del pensiero e del diritto all'informazione). La sua opposizione da parte del Presidente del Consiglio, è infatti atto politico, libero nei fini, pari-ordinato alla legge e di esso il Presidente del Consiglio risponde soltanto politicamente dinanzi al Parlamento.
Unico - ovvio - limite al segreto di Stato è la non segretabilità di fatti eversivi dell'ordine costituzionale.
La relativa segretazione si porrebbe infatti come fatto rivoluzionario in contraddizione con il valore da proteggere: l'integrità dello Stato democratico.
Tra riservatezza e segreto di stato che oppongono forze di resistenza rispettivamente minima e massima stanno tutti gli altri segreti che possiamo sintetizzare nella formula del segreto di ufficio, nella sua nuova formulazione fornita dalla legge 241/90.
Il previgente testo dell'art. 15 del T.U. sugli impiegati civili dello Stato recitava: " l'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio e non può dare a chi non ne abbia il diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a procedimenti od operazioni amministrative di qualsiasi natura ed a notizie delle quali sia venuto a conoscenza a causa del suo ufficio, quando possa derivare un danno per l'amministrazione o per i terzi. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato preposto ad un ufficio rilascia, a chi ne abbia interesse, copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dalla legge, dai regolamenti e dal capo del servizio".
Detta norma fu definita da Giannini "norma incomprensibile per quale tutto e nulla può essere segreto." (38)
In realtà la norma abilitava il pubblico impiegato ad opporre irresponsabilmente, per la propria tranquillità, un segreto latissimamente discrezionale.
Il nuovo testo della norma, introdotto dall'art. 28 della legge 241/90 recita: "L'impiegato deve mantenere il segreto di ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia il diritto informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalla norma sul diritto di accesso. Nell'ambito delle proprie attribuzioni, l'impiegato preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratto di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dall'ordinamento".
Tale norma va letta in combinato disposto con il precedente articolo 24 il quale riduce i casi di segreto d'ufficio a quelli previsti dall'ordinamento.
Il segreto d'ufficio diventa così soltanto una formula comprensiva volta ad individuare i segreti previsti normativamente anche in relazione a rapporti privatistici, quando questi vengano in qualche modo a riverberarsi sull'operare pubblico.
Ognuno di tali segreti ha poi una sua propria forza di resistenza rispetto ad altri interessi tutelati alla stregua della specifica disciplina che lo regge.
Così, esemplificativamente e non esaustivamente possiamo ricordare il segreto giornalistico sulla fonte della notizia.
Esso prevale sul dovere di testimoniare fino a quando, però, la veridicità della notizia non possa essere accertata se non attraverso la identificazione della fonte. Perché in tal caso, a differenza di quanto accade per il segreto di Stato, il giudice può ordinare al giornalista di rispondere (art. 200, 3° co. c.p.p.).
Un maggior grado di resistenza presenta il segreto professionale di fronte al quale il giudice ha non il potere di accertare comunque la veridicità della notizia, ma solo quello di sindacare la fondatezza dell'opposizione (art. 200, 2° co. c.p.p.).
In definitiva e per concludere la legge sul procedimento e sull'accesso sembra ricomporre a sistema gli istituti in parte antinomici della trasparenza e del segreto articolato in tutte le sue epifanie, capovolgendo, come si è detto, quello che era una volta rapporto da eccezione a regola in rapporto da regola ad eccezione. Regola è oggi l'accesso, eccezione il segreto.
Importante però è anche notare come l'eccezione resti e resti in tutto il suo vigore. Non esiste ordinamento democratico, per quanto avanzato, che possa sopravvivere ad una trasparenza indiscriminata. Il segreto è talvolta necessario e quando tale segreto vale per salvaguardare i massimi valori della Costituzione nessun controvalore può essergli opposto.
Credo che potremmo concludere, parafrasando Pascal, che così come il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce, così l'amministrazione (intesa come Esecutivo) ha dei diritti che il diritto non può amministrare.
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