L'organizzazione della società civile sta rapidamente cambiando e lo Stato, inteso nella sua accezione di amministrazione pubblica degli interessi collettivi, non poteva e non può rimanere avulso da simili mutazioni. Il processo di rinnovamento di strutture e metodologie, seppur accettato e compreso a livello concettuale trova però un significativo momento di impasse quando si tratta di operare quei concreti adeguamenti alle regole "pubbliche" che presiedono ai comportamenti dell'Amministrazione, spesso stretti in rigide procedimentalizzazioni.
Nel tentativo di comprendere la struttura organizzativa di un ordinamento si va alla ricerca del "punto di origine" ed allora oggi sembrano così lontane le puntualizzazioni teoriche che fanno da introduzione ad ogni studio sull'assetto costituzionale di un Paese e che riconducono la posizione di supremazia alla Istituzione, quale pluralità di soggetti riuniti in un corpo sociale giuridicamente organizzato (Santi Romano), ovvero alla Norma (H. Kelsen) intesa come funzione di porre quelle regole che sono momento indispensabile e presupposto di ogni organizzazione.
Ma, a ben vedere, al di là della soluzione del dilemma su cui si è avviluppata per decenni la dottrina, non si possono comprendere gli assetti attuali e futuri della Pubblica Amministrazione se si trascende dalla comprensione dell'evoluzione dello Stato-Organizzazione.
Fino agli anni ‘80 l'attività della Pubblica Amministrazione era strutturata su procedimenti quasi esclusivamente finalizzati alla emanazione di singoli provvedimenti o atti di amministrazione e rimedi giudiziali si incentravano su un processo "demolitorio" il quale richiedeva, sempre nell'ottica di annullamento, la presenza - anche se fittizia - di un provvedimento formale.
Solo nell'ultimo ventennio, ma in particolare con i governi Amato e Ciampi si è aperta un'importante fase legislativa tesa alla creazione di uno Stato multiorganizzativo (secondo la definizione che ne dà S. Cassese) o di uno Stato pluriclasse (secondo M.S. Giannini), articolato su centri di decisione, dotati di rilevante autonomia, anche finanziaria, i quali facciano da cesura tra uno Stato-Amministrazione finalmente riformato e settori privatizzati, mobili frontiere tra la spesa pubblica e agili procedimenti di decisione.
Un'evoluzione questa che, se da un lato privilegia nuovi canoni di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa, dall'altro pone un problema di controlli improntati ai medesimi criteri.
E' pertanto necessario cercare una chiave di lettura nuova e diversa delle sinergie che si possono creare attraverso un reticolato normativo formulato in termini positivi di "programmabilità" e "controllabilità" dell'azione amministrativa e della gestione finanziaria (1) .
L'attuazione dei principi costituzionali di "buon andamento" e di "imparzialità" non può essere avulsa dalla ricerca di una garanzia di qualità che consenta di concretizzare e trasformare un concetto teologico in una sintesi concreta che altro non significhi che un buon e corretto uso dei poteri di spesa.
Tempestività e trasparenza appaiono così come caratteristiche basilari della nuova azione amministrativa ed esprimono tendenze, direzione e scopi e, in buona sostanza, il mutamento di una prospettiva. Si è obbligati, perciò, a riformulare molte delle tradizionali categorie del diritto amministrativo e cercare nuovi punti di riferimento, diversi da quelli canonici di una "amministrazione per atti".
In quest'ottica deve essere rivisto anche il significato del "controllo" e del modo di controllare l'operato degli amministratori del denaro pubblico.
Controllo è, come è noto, un francesismo. Significa, originariamente, contro-ruolo, nel senso di contro-registro o doppio registro, inteso quale registro che fa da riscontro e parametro di riferimento all'altro. Nel lessico tradizionale si preferivano espressioni come "riscontro" e "revisione" ma in quello corrente esso ha finito per assumere il significato di ancoraggio all'attività di taluno che agisce per sindacare l'operato di qualcun altro.
Sotto un profilo organico va pertanto depurato il controllo da ogni connotazione sanzionatoria e ci si deve perciò porre nella prospettiva di un controllo il quale, agendo direttamente sul funzionamento di un apparato, ne registri i mutamenti delle varie "grandezze" adeguandone, automaticamente, i valori.
La vera rivoluzione è questa: da un controllo esterno, teso solo a verificare parametri di legittimità con conseguenze sanzionatorie si passa ad un controllo, sia interno che esterno, con finalità collaborative e di segnalazione delle disfunzioni emerse.
Ci si allontana così da un controllo statico per avviarsi verso un controllo dinamico proprio di un sistema in movimento e con potenzialità autocorrettive.
Come accennato, la comprensione della novità registrata in materia di controllo deve porre a suo chiaro fondamento la distinzione tra atto e attività amministrativa che contraddistinguono due modi di intendere il "fare amministrazione" da parte dello Stato e degli enti locali territoriali.
Da un lato vi è un modello che si esprime, secondo la visione tradizionalistica (ed ormai risalente) per atti tipici e formali nella quale la volontà dell'Amministrazione non è tanto rivolta a modulare gli effetti del provvedimento ma limitata solo ad esprimere l'intenzione di porre in essere proprio quello e non altri atti, dall'altro si trova un'amministrazione che viene giudicata soprattutto per quello che fa e come lo fa.
La prima impostazione, così rigida, non poteva non scontare tutte le problematiche innescate dalla continua ricerca di porre a confronto l'atto o provvedimento amministrativo con il negozio giuridico, strumento sicuramente più agile, e a riverberare su quello l'immancabile difficoltà di adattare istituti privatistici in modelli che non erano stati concepiti per il perseguimento di interessi dinamici.
Sullo sfondo rimane il principio di legalità che non significa solo un formale assoggettamento alla legge ma anche criterio della giuridicità e limite alla discrezionalità.
Un'amministrazione per attività esprime invece un approccio sistematico completamente nuovo: non si tratta solo di un insieme di atti coordinati tra loro e finalizzati al raggiungimento di un risultato ritenuto giuridicamente rilevante sol perché normativamente disciplinato. Su tale piano le "scelte" non sono legittime unicamente perché compiute all'interno di una funzione amministrativa ma debbono trovare la loro legittimazione nel raggiungimento di un obiettivo congruo, il che fa perdere anche significato alle distinzioni scolastiche tra attività interne, esterne, principali, accessorie e così via.
Recenti introduzioni di norme "pensate" in questi termini testimoniano l'importanza di una sequenza di atti preordinati ad un fine e soprattutto seguono il riemergere di un dibattito (ad onor del vero mai sopito) sulle regole costituzionali dell'agire amministrativo. Lo sfondo è rappresentato dall'art. 97 Cost., con un nuovo rilievo ai principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della gestione e dell'attività.
In linea con questo nuovo modo di pensare l'amministrazione la legge 7 ottobre 1990 n. 241 ha introdotto alcuni principi fondamentali (2) soprattutto nel settore della misurabilità e controllabilità della gestione: di particolare rilievo la disciplina dell'iniziativa e dei tempi del procedimento, la figura del responsabile dello stesso e le regole sull'accesso alla documentazione.
Tuttavia ogni forma di controllo funzionale al raggiungimento di un obiettivo non ha un significato di rilievo se a monte non vi è una programmazione. La sua nozione più che giuridica è, come si comprende, essenzialmente economica e, in un'economia di mercato come la nostra, programmazione ha come naturale postulato l'individuazione della migliore allocazione delle risorse, soprattutto nel senso di realizzazione di taluni obiettivi economici e sociali ritenuti prioritari, propri di uno Stato ad economia mista (pubblica e privata).
La sequenza di programmazione rientra pertanto nella più ampia categoria delle funzioni di indirizzo e coordinamento (3) che appartengono, essenzialmente, al potere politico.
Si avrà perciò una programmazione economica globale, una programmazione di bilancio, una per settori ed obiettivi e via dicendo ma le classificazioni non servono più di tanto se non si accetta la centrale riflessione che ogni programmazione è servente rispetto ad un progetto, visto come momento decisionale degli investimenti pubblici e come strumento di selezione e valutazione di finalità ed obiettivi.
Programmazione ed attuazione, scelta e controllo, si pongono pertanto come aspetti diacronici di una funzione che solo per rispetto di concetti tradizionali possiamo continuare a chiamare "amministrativa" ma che invece ha sempre più un profilo di "gestione" di tipo privatistico.
La comprensione della nuova disciplina normativa che ne è scaturita, anche sotto il profilo della responsabilità degli amministrativi e dirigenti, richiede qualche richiamo concettuale su attività politica ed azione amministrativa. Per decenni l'una e l'altra sono state unite indissolubilmente in un groviglio quasi inestricabile, tanto da apparire l'una il potere e l'altra il suo pratico esercizio. Una differenza deve invece cogliersi sul piano funzionale: se è vero che l'azione amministrativa ha come suo parametro la conformità a legge, la valutazione comporta l'apprezzamento di quanto sia più o meno grande la distanza tra gli obiettivi posti e quelli raggiunti. Lo stesso parametro di valutazione vale per l'attività politica, vista però nel suo momento di predisposizione di norme ed indirizzi adeguati a consentire con un principio di ragionevole pretesa, proprio quegli obiettivi.
Di risultati, di obiettivi, di traslazione di contenuti economici nel procedimento di azione amministrativa si cominciò a parlare, ad onor del vero, con il D.P.R. n. 748 del 1972 sulla responsabilità dirigenziale.
L'art. 19 stabiliva infatti che "i dirigenti sono responsabili sia dell'osservanza degli indirizzi generali dell'azione amministrativa emanati dal Consiglio dei Ministri e dal Ministro del dicastero di competenza, sia della rigorosa osservanza dei termini e delle altre norme di procedimento previste dalle disposizioni di legge o di regolamento, sia del conseguimento dei risultati dell'azione degli uffici cui sono preposti".
Un risultato negativo avrebbe avuto come conseguenza il deferimento del dirigente all'organo collegiale (Consiglio dei Ministri o Consiglio di Amministrazione) per gli eventuali provvedimenti censori.
Fin da allora il mancato raggiungimento dei risultati postulava una differenza funzionale tra il "fallimento" per inosservanza degli indirizzi politici e quello da inadeguatezza dell'azione svolta. Mancava, tuttavia, un sistema di controlli e, soprattutto, la predisposizione di parametri oggettivi con la conseguenza che il tutto veniva affidato alla discrezionalità del Ministro.
Ne è conseguita, sul piano dei rimedi giustiziali, la declaratoria di illegittimità di molti provvedimenti adottati ex art. 19 sulla base di "motivazioni soggettive", attinenti alle attitudini ed alla capacità professionale, senza alcuna considerazione (e valutazione) di ragioni obiettive quali il conseguimento di risultati negativi a causa di "disorganizzazione dell'ufficio" (4) .
L'ancoraggio a più sicuri sistemi di valutazione si è realizzato con la riforma della Pubblica Amministrazione del 1992/93 (legge di delegazione n. 421/92 e d. lgvo n. 29/93) che altro non è che il portato di una sensibilità progressivamente accresciutasi negli anni precedenti (5) e che ha avuto inequivocabili testimonianze in norme di settori diversi, come la riforma dell'INPS (art. 13 l. 9.3.89 n. 88) e quella delle autonomie locali (art. 51 6° comma l. 8.6.90 n. 142).
Finalmente l'art. 3 del d. lgvo n. 29/93 ha stabilito che:
1) gli organi di direzione politica definiscono gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite;
2) ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l'adozione di tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione e controllo. Essi sono responsabili della gestione e dei relativi risultati.
La distinzione sembra chiara e netta tra predisposizione delle finalità e loro raggiungimento ma si ricadrebbe nell'errore già verificatosi con l'attuazione del DPR n. 742/78 qualora non fosse finalmente attuato un sistema di controlli (interni ed esterni). Ma soprattutto vi è l'esigenza di costituire ex ante un insieme di parametri di efficienza ed efficacia predisposti con cadenza annuale per consentire un giudizio comparativo tra costi e rendimenti e, da ultimo, una stretta contiguità tra razionalità giuridica e razionalità economica (6) .
Questa nuova impostazione costituisce il necessario prologo ad una diversa strutturazione dello stesso Bilancio dello Stato, sfrondato di circa 3000 capitoli di spesa e che, a decorrere dal corrente esercizio finanziario, viene articolato per "unità previsionali di base" e con una ripartizione delle spese in funzione-obiettivo (l. 3.4.97 e d. lgvo 7.8.97 n. 279).
Il risultato sul piano squisitamente politico (ma anche programmatico) ha il significato di una autentica scommessa perché il Governo deve dimostrare un'effettiva capacità gestionale della manovra finanziaria attraverso la predisposizione di modelli organizzativi efficienti ed efficaci, ottenibili solo con una revisione delle procedure contabili.
D'altronde la Pubblica Amministrazione si trova a dover fare i conti anche con le direttive comunitarie, specie quelle self-executing, le quali impongono rapporti nuovi in diversi settori, quali i lavori pubblici e le forniture dei servizi. Ne è esempio la legge quadro sui LL.PP (l. 11.2.94 n. 109), imperniata sulle centralità delle funzioni di programmazione e di progettazione.
La prioritaria esigenza è quindi quella di razionalizzare i criteri di spesa attraverso un oculato esame delle risorse e degli obiettivi posti.
Non è senza significato che in materia di responsabilità dirigenziale è stato previsto che il dirigente risponda non tanto della mancata realizzazione degli obiettivi posti quanto della negatività dei risultati conseguiti (art. 20 co. IX d. lgvo 29/93).
E' fuor di dubbio, infatti, che ogni valutazione gestionale debba compiersi su dati concreti commensurabili e non su astratti giudizi, non prescindendosi quindi dalla serena considerazione delle risorse umane disponibili, delle capacità finanziarie, e, soprattutto, dalla situazione normativa incidente sia sul fattore organizzativo che sul processo produttivo.
Appare quindi di centrale importanza la previsione di un apparato di controlli istituzionali che consenta una valutazione che sia la più possibile oggettiva e finalizzata al raggiungimento dello scopo principale di adattare, con continuità, l'azione della Pubblica Amministrazione ai criteri di efficienza ed efficacia. Il modello interno presso ciascun Ministero è stato introdotto con l'art. 20 del d. lgvo n. 29/93 quale funzione di un nucleo di valutazione o di un servizio composti da esperti in tecniche di gestione, al fine di consentire al Ministro una verifica dei risultati dell'azione svolta dai dirigenti.
L'importanza di questa funzione "servente" alla discrezionalità (e responsabilità) politica emerge altresì dalla direttiva 27.1.94 del Presidente del Consiglio dei Ministri recante la "carta dei servizi pubblici" secondo la quale (titolo ITI, par. 1 co. 3) "ciascun soggetto erogatore" deve istituire un ufficio interno di controllo il quale, oltre ad esercitare le funzioni di valutazione dei risultati costituisce l'interlocutore degli utenti che presentino reclamo "circa la violazione dei principi stabiliti nella presente direttiva".
In questo caso l'ufficio di controllo interno assume una duplice corrispondenza: da un lato offre strumento di valutazione agli organi di direzione politica e dall'altro consente agli "utenti" di verificare la qualità, quantità e tempestività del servizio ricevuto. Non si legga questo con l'ormai consolidata prudenza del cittadino di fronte alla Pubblica Amministrazione in quanto, anche se le rigidità burocratiche ci hanno reso ormai avvezzi a profondi scetticismi, l'impianto della nuova azione amministrativa sembra essersi irreversibilmente messo in moto.
La prospettiva che ci accingiamo, ognuno di noi, a verificare nel prossimo futuro, è proprio questa: la capacità di un sistema di rinnovare non solo le proprie strutture ma anche la propria mentalità.
E che ci si voglia avviare in questa direzione lo conferma l'introduzione di un sistema di controlli esterni affidato dall'art. 3 della l. 14.1.1994 n. 20 alla Corte dei Conti. Le linee essenziali di questa riforma prevedono:
- una limitazione del controllo preventivo obbligatorio di legittimità a materie ben individuate;
- una previsione di controllo successivo su atti;
- un controllo su attività (di gestione e sulla gestione) in base a criteri di efficacia, efficienza ed economicità, in adesione al principio costituzionale del buon andamento (7) .
L'innovazione di maggior significato è rappresentata dalla modifica dell'angolo visuale cui, nel sistema, si pone sia il controllo di gestione che quello sulla gestione: non più in prospettiva sanzionatoria e paralizzante degli effetti ma essenzialmente collaborativo verso le Amministrazioni interessate le quali, nel ricevere le pronunce della Corte, debbono poi riferire le misure adottate in conformità (Art. 1 co. 6 della legge n. 20/94).
La finalità collaborativa è stata autorevolmente precisata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 29 del 1995 la quale ha posto in evidenza il "rapporto fortemente collaborativo" tra Corte ed Amministrazioni rilevando che il controllo dei risultati di gestione è, prima di tutto, diretto a stimolare nell'Ente o nell'Amministrazione controllati processi di autocorrezione sia sul piano delle decisioni legislative, dell'organizzazione amministrativa e delle attività gestionali, sia sul piano dei controlli interni.
Quindi assume rilevanza anche la verifica della sinergia tra controlli interni e controllo esterno.
Per i primi appare utile sottolineare come si richieda agli organi di direzione politica, più orientati a decisioni gestionali di grande respiro che all'individuazione di obiettivi e programmi, una modificazione di tipo culturale che presupponga una riforma della Pubblica Amministrazione operante per obiettivi diversificati, dai più generali ai più specifici ed operativi. La precisazione è importante in quanto l'autonomia gestionale cui si vuol tendere deve consentire a chi amministra l'assunzione di decisioni su obiettivi di dettaglio inquadrabili in quelli più generali, senza passivamente attendere specifiche e puntuali indicazioni da parte dell'autorità politica. Il controllo interno non si pone, pertanto, solo in veste sanzionatorio-repressiva ma, come le scienze aziendalistiche hanno sempre sottolineato, esso è promotore di funzionalità (8) , suggeritore del management per migliorare e meglio monitorare l'efficacia dei sistemi produttivi.
Questa indicazione sembra maggiormente valevole nel campo degli enti pubblici ove il controllo interno deve avvilire la dirigenza pubblica ma incentivare soprattutto il fattore umano con meccanismi premiali, esaltandone i meriti e le capacità, coinvolgendo - dirigenti e non - nei fini "aziendali".
Ne deriva che appare ineludibile una Pubblica Amministrazione che ragioni in positivo e che predisponga modelli di controllo secondo una metodica che costi benefici puntualmente determinati.
Diversa è la finalità del controllo esterno della Corte dei Conti, costituito da analisi che coinvolgono, in concreto, l'efficacia, l'efficienza (ed economicità) di una gestione, non potendolo ritenere limitato ad una mera verifica del funzionamento dei controlli interni.
La riforma, che è intervenuta a conclusione di un tormentato iter (con la reiterazione di alcuni decreti-legge), si è posta in linea diretta con i principi fissati dall'art. 100 Cost. quale strumento di soluzione delle patologie e delle disfunzioni rilevate in tema di controllo preventivo di stretta legalità (9) .
Ora l'attribuzione alla Corte dei Conti del controllo successivo "sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche" (art. 3 co. 4 l. 14.1.94 n. 20) consente - in una col sistema delle informazioni, misurazioni e valutazioni finalizzate al controllo del costo del lavoro - di verificare i risultati delle gestioni sia in termini di efficienza (in relazione ai costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa) sia in termine di efficacia (in relazione al raggiungimento degli obiettivi posti dalla legge o dagli atti di programmazione generale).
Il contenuto innovativo delle valutazioni conclusive del controllo successivo sulla gestione risiede "nell'accertamento e nella misurazione di efficienza ed efficacia della gestione e nella possibilità che degli esiti del controllo siano rese partecipi le amministrazioni e il Parlamento in sede di referto.
Il configurarsi dei controlli come misurazione e valutazione dell'esperienza amministrativa sembra finalmente attuare un insegnamento classico: "l'amministrazione è per sua natura un'attività rivolta a soddisfare i bisogni, i quali si presentano in veste sempre nuova e pongono sovente gli organi amministrativi di fronte a situazioni impreviste; onde un legislatore consapevole dei suoi limiti non pretenderà in via assoluta di forzare l'attività amministrativa entro schemi prefissati né potrà costringerla all'immobilità se, per avventura, esso non sia in grado di far udire la sua voce in determinate circostanze (10) .
Allo stato, mentre quello esterno appare già avviato, molte amministrazioni stentano a far decollare i controlli interni e solo ad avvenuto consolidamento di questi ultimi si potrà pensare, semmai, ad una limitazione dell'attività della Corte ad un controllo di tipo indiretto (11) .
A ben vedere comunque sembra che un controllo esterno, anche quando quello interno arriverà "a regime", non cessi di rivestire una sua funzione di complementarietà e stimolo anche per quella posizione di terzietà ed autonomia che la posizione magistratuale della Corte conferisce.
Il sistema così ideato appare pertanto assolutamente funzionale al raggiungimento di quella finalità di tipo efficientistico, spesso enunciate con enfasi nelle norme e con altrettanta regolarità mortificate dalla realtà.
L'equilibrio del controllo, inquadrato tutto nel principio del buon andamento e quindi ricondotto nell'alveo costituzionale della disposizione dell'art. 97 Cost., sembra però trovare un momento di crisi nell'istituzione, nel settore dei servizi pubblici, delle amministrazioni indipendenti, meglio note come "Authorities".
Taluni le indicano addirittura come una tipologia intermedia (prima di arrivare al controllo esterno) quanto a posizione organizzativa (inserimento all'interno di un apparato statale ma con pronunciate garanzie di neutralità e indipendenza) e a regime funzionale (attribuzione di regolazione di attività amministrative e valutazione sulla legittimità e regolarità dei procedimenti e delle attività). Momento qualificante sarebbe il nesso funzionale che lega "regolazioni e valutazioni" (12) ma questa è un'affermazione che merita un'ulteriore riflessione.
L'istituzione di "autorità amministrative indipendenti" (così è stato tradotto nel nostro ordinamento il termine authority) è avvenimento piuttosto recente per il nostro panorama politico-istituzionale e rappresenta un elemento di forte innovazione (se non di rottura come vedremo) nel complessivo quadro degli assetti amministrativi.
Punto di partenza per una migliore comprensione è la distinzione tra spazi amministrativi "aperti" e spazi amministrativi "chiusi" (13) . La dicotomia ha ragion d'essere proprio perché l'amministrazione indipendente non ha spazio vitale in un'organizzazione statuale assolutamente rigida e rigidamente controllata, tant'è che nei regimi socialisti e dittatoriali appare preclusa ogni possibilità per l'affermazione di un'autorità amministrativa indipendente (14) .
La problematica riguarda quindi essenzialmente i regimi c.d. liberali, dove vi siano norme sufficienti a garantire l'inserimento di queste nell'assetto globale della cura degli interessi, attribuendole una funzione specifica non assegnata ad altri.
E' perciò essenziale precisare che lo sviluppo delle autorità amministrative indipendenti è legato a due parametri: quello dei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo nonché tra governo e amministrazione.
Il potere legislativo, si osserva (15) , può più facilmente procedere all'istituzione di autorità amministrative indipendenti laddove vi sia una funzione di governo nell'amministrazione della cosa pubblica non particolarmente forte e stato-centrica, come avviene nei paesi anglosassoni (GB e USA).
Nei paesi dell'Europa continentale, specie quelli a costituzione rigida come la nostra, i problemi sono invece ben maggiori.
Su tale tema la dottrina non ha mancato di rilevare la netta distinzione esistente tra i due sistemi costituzionali, dei quali solo il primo conferisce adeguata copertura costituzionale alla creazione della figura dell'authority. Sono presenti nei paesi anglosassoni e specie negli USA, le Independent Regulatory Commissions nei più svariati campi d'intervento, dalla politica monetaria ai trasporti al controllo sul finanziamento delle campagne elettorali. A stretto rigore vi è però da dire che non si tratta di organi "previsti" in Costituzione USA ma essendo nati per rispondere all'esigenza di "sottrarre ai gruppi privati settori di rilevante interesse pubblico", è stato ritenuto, conformemente ai principi costituzionali e alla flessibilità dello stesso testo costituzionale, che dessero maggiore garanzia di apoliticità e di conduzione tecnica dell'amministrazione dei servizi pubblici (16) .
Le nomine dei membri vengono effettuate dal Presidente degli Stati Uniti in accordo con il Senato ed hanno poteri "quasi legislativi" e "quasi giurisdizionali" (17) nel senso che, pur non ponendo direttamente in essere attività di mera produzione legislativa ma solo di studio e di supporto conoscitivo per l'attività del Congresso, hanno poteri di amministrazione puntuale esercitati mediante atti autorizzativi e di approvazione.
Simile modo di amministrare, unito all'imparzialità ed indipendenza dei membri di detti organismi, ha però fatto sopravvenire talune perplessità in ordine alla legittimità costituzionale di questo "quarto potere" (Strauss, op. cit. pag. 616), titolare di una sorta di giurisdizione, ancorché i suoi atti siano sindacabili dinanzi alla Corte Suprema (18) .
In Gran Bretagna (con le Quasi - Autonomus Non Governmental Organizations) la responsabilità nei confronti delle autorità politiche è indiretta e limitata ed elevato è il grado di indipendenza dal potere politico.
Se ne conclude che elemento paradigmatico per identificare un authority è proprio il grado di autonomia e di indipendenza che consente di svolgere con efficienza ed efficacia la sua funzione, anche in virtù dei poteri repressivi di cui sono dotate.
Nei paesi anglosassoni, l'assetto dei poteri costituzionali non spiega, da solo, l'indipendenza di cui godono e pertanto la spiegazione va ricercata nei modi di esercizio del loro potere, talvolta assurto a "balance" tra il Presidente e d il Congresso degli Stati Uniti.
Lo snodo delicato è proprio il rapporto tra i principi di subordinazione e di separazione tra i poteri. Nel campo amministrativo infatti vi è sempre l'esigenza (e nel nostro ordinamento il d. lgvo 29/93 ne è testimonianza) di equilibrare la subordinazione delle "istanze amministrative" alle "istanze politiche" (19) da un lato e dall'altro di separarle per evitare confusioni di metodo e di gestione.
Conseguenza è che, al di là di uno stato di perenne tensione alla ricerca dell'equilibrio, è necessario che l'ordinamento acquisisca un certo grado di elasticità, pur senza consentire la sottrazione delle autorità indipendenti ai principi di subordinazione e separazione anzidetti.
Il problema non è da poco e non è di facile soluzione se fin dalla fine del secolo scorso Minghetti ed altri sottolineavano la iattura dell'indebita ingerenza del potere politico nell'Amministrazione dello Stato pur intravedendo la soluzione in una minuziosa previsione legislativa che se garantiva l'amministratore da eventuali responsabilità riconducibili all'autorità politica, ne "ingessava" però l'azione con una serie di lacci e laccioli alla fine inestricabili.
Se vogliamo, la Carta Costituzionale vigente è figlia di questa dialettica.
La stretta aderenza letterale alle disposizioni costituzionali se dev'essere osservata nei limiti del rispetto dei principi fondamentali, non deve condurre ad una sorta di "pietrificazione" del dato normativo.
Un concetto dinamico dell'interpretazione è stato colto, anche se in anni recenti, dalla stessa Corte Costituzionale (20) , con la conseguenza che un possibile riferimento ad una legittimazione di questi organi - anche in assenza di un richiamo esplicito - può rinvenirsi negli artt. 97 e 98 Cost.
Ma il problema della loro legittimazione non è che uno degli aspetti problematici dell'introduzione nel nostro Paese delle Authorities, a cui debbono aggiungersi l'individuazione dei settori "sensibles" dello Stato multifunzionale e multiorganizzativo da affidare alla loro vigilanza, e, soprattutto, il delicato rapporto tra autorità e assetto amministrativo sia in funzione di amministrazione attiva che di controllo.
Si ha l'impressione che la costituzione di varie autorità autonome ed indipendenti non sia il frutto di un programma organico, avendo il legislatore, quasi con accorta distrazione, introdotto termini come autonomia e indipendenza i cui contorni giuridici risultano di non facile definizione (vds. al riguardo l'ordinamento della Banca d'Italia e cp. con ISVAP, CONSOB e Garante per l'editoria).
Questa ipotesi nasce da una lettura coordinata della normativa che presiede all'attività delle varie Autorità indipendenti.
Se la disposizione di generale previsione contenuta nell'art. 1 della legge 24 novembre 1993 n. 537 (legge finanziaria 1994) la quale autorizza il Governo a "istituire organismi indipendenti per la regolazione dei servizi di rilevante interesse pubblico" nulla sembra dire di conflittuale nell'assetto dei rapporti istituzionali, lo stesso non può dirsi in virtù delle norme specifiche dettate per le varie authorities.
L'autorità per l'informatica, istituita con d. lgvo 12.2.1993 n. 39, sovrintende alla progettazione, sviluppo e gestione dei sistemi informativi automatizzati della Pubblica Amministrazione, il cui utilizzo risponde (art. 1) alle seguenti finalità co. 2 lett. d) "contenimento dei costi dell'azione amministrativa", co. 3 lett. b) "rispetto degli standard definiti anche in armonia con le normative comunitarie".
L'autorità per la tutela della concorrenza e del mercato vigila sugli abusi di posizione dominante nel settore commerciale, conseguenti attraverso intese tra imprese e/o loro concentrazioni, accordi in materia di prezzi di acquisto o di vendita o tesi a limitare o impedire investimenti (altrui).
Da ultimo l'autorità di vigilanza sui lavori pubblici tra i suoi compiti ha quello di vigilare affinché sia assicurata l'economicità di esecuzione dei lavori pubblici (art. 4 l. 109/94).
Non può sfuggire come il piano prospettico sia mutato: non più una mera funzione di regolazione dei servizi ma una più incisiva funzione di verifica e di controllo (anche se di tipo particolare con finalità inibitorie e sanzionatorie).
Vi è quindi il rischio, reale non virtuale, di un conflitto determinato dall'esercizio di poteri diversi di controllo sulle medesime attività.
In sintesi si è voluto mutuare la figura anglosassone traslandola in un modello burocratico-amministrativo assolutamente diverso, dal quale lo Stato cerca ora di uscire lasciandosi alle spalle l'archetipo di Stato regolatore assoluto del mercato economico fino a qualche tempo fa assolutamente prevalente.
Questo atteggiamento sembra rafforzare la tesi che siano state accolte le istanze di separazione tra politica ed amministrazione attraverso queste amministrazioni indipendenti viste in funzione di strumento regolatore, assunto dall'esperienza anglosassone, nonché quale arbitro di interessi omogenei. L'esperienza anglosassone però insegna che connotato essenziale delle authorities è la possibilità di una piena assunzione di responsabilità di fronte alle direttive politiche le quali, a questo fine, non possono essere stringenti più di tanto. L'efficacia dell'azione discende quindi dall'intensità ed ampiezza di quei poteri quasi legislativi e quasi giurisdizionali di cui si è detto.
Cosa ben diversa dalla nostra discrezionalità amministrativa, la quale richiede una serie di garanzie procedimentali, organizzative e di trasparenza che potrebbero essere date solo da una disciplina di livello costituzionale attualmente assente nel nostro ordinamento.
Si è criticato, non senza ragione (21) , che la "categoria" ha un rilievo, a livello di definizione, solo in negativo: non sono organi di amministrazione, non sono strutture del Parlamento, non sono giudici e così via. L'unico elemento rimarcato è l'indipendenza.
Vi è talora, da parte di questa dottrina, il sospetto che esse rappresentino una via di fuga per affrontare e risolvere solo alcuni aspetti problematici di settori definiti "sensibili" e non risolubili con la normale organizzazione dello Stato. Ovvia la riflessione che invece di adeguare e modernizzare la struttura esistente si creino delle appendici cui "scaricare" il problema, conferendo loro autorevolezza attraverso pomposi richiami all'indipendenza ed all'autonomia.
Ritengo, tuttavia, che nel campo istituzionale, soprattutto in materia organizzativa, ogni critica debba trovare un suo riferimento, oltre che nella comparazione con le esperienze di altri Paesi, anche nell'ordinamento giuridico-sociale italiano.
Semmai per trovare un fondamento alle perplessità in ordine alla via di fuga rappresentata dalle autorità amministrative indipendenti, deve verificarsi se oggi la loro presenza possa trovare un sicuro presidio nella Costituzione. Il dilemma è proprio questo: la loro legittimazione deriva dall'ambito costituzionale o solo dal fatto che esistono effettivamente? (22) Non è questo un problema di pura dottrina in quanto se si prescinde dalle autorità storicamente presenti (Banca d'Italia, CONSOB) la creazione di numerose altre, dotate oltre che di poteri di regolazione anche di capacità sanzionatoria-repressiva (e conseguente giustiziabilità dei loro provvedimenti), deve inquadrarsi armonicamente in un sistema di garanzia che sia di tutela anche per i destinatari dell'azione di queste autorità.
Occorre perciò dare una specifica copertura costituzionale, oggi rinvenibile con uno sforzo interpretativo a costituzione invariata, che le renda compatibili con il quadro istituzionale esistente e, de futuro, con una posizione costituzionale ad hoc.
Il problema oggi si risolve nel ritenere che la norma dell'art. 97 Cost. dia idonea garanzia di legittimazione ma non può ritenersi che il buon andamento possa giustificare qualsiasi stravolgimento della Pubblica Amministrazione. E che di autentico stravolgimento si debba parlare lo si desume dal numero di autorità amministrative indipendenti istituite negli ultimi anni, segnale inequivocabile di una tendenza non a decentrare l'amministrazione attiva (cosa assolutamente commendevole) ma solo i poteri di disciplina, controllo e sanzione di attività primarie, già presenti nel campo economico ed ora anche quello dei diritti costituzionalmente garantiti.
E' necessario, pertanto, che nel formulare i canoni fondamentali che ne disciplinano l'attività il legislatore tenga sempre presente che l'autorità indipendente svolge una funzione di controllo che deve essere limitata al solo aspetto esterno, quale vigilanza per il rispetto delle regole senza possibilità di ingerirsi nelle modalità operative interne per il raggiungimento di quegli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità il cui controllo è affidato ad altri organi interni ed esterni.
Si tratta di un punto delicato di equilibrio non certamente facile da raggiungere e mantenere e che appare ancora più problematico ove la riflessione investa l'aspetto sanzionatorio-repressivo della funzione. In questo campo l'autorità ha il potere di emettere provvedimenti coercitivi contro i quali è ammesso il ricorso all'Autorità Giudiziaria ed allora si deve trovare una motivazione esauriente sulla necessità di questo potere "quasi giudiziario" per giustificare la compresenza di delicate competenze in capo ad un unico organo al di fuori di ogni previsione costituzionale.
Il che non è facile, salvo a volersi rifugiare nella affermazione che mentre l'autorità ha il potere di imporre immediatamente, attraverso provvedimenti esecutivi, la correzione di un comportamento in violazione di norme, l'Autorità Giudiziaria Amministrativa non ha (se non con ricorso ai procedimenti cautelari ex art. 21 l. 1034/71 sulla cui ampiezza il dibattito è sempre aperto) la stessa possibilità di incidere con altrettanta, diretta efficacia.
Il fenomeno è quindi destinato ad espandersi, soprattutto all'insegna del modello di decentramento della competenza che sembra essere la via imboccata dall'attuale Parlamento.
Fondamentale è comunque che la disciplina delle autorità trovi sostanziale copertura nel nuovo assetto costituzionale, evitando il ricorso ad una interpretazione particolarmente estensiva dell'art. 97 Cost. o in altre norme quali l'art. 41 (libertà di iniziativa economica) e art. 21 (libertà di manifestazione del pensiero), poste a presidio sì di valori fondamentali ma che proprio per tale motivo non possono essere invocate a presidio di un equilibrio di mercato.
Solo questo può essere l'auspicio di un assetto dei controlli omogeneo e razionale che consenta alla Pubblica Amministrazione di dotarsi di modelli comportamentali i quali, pur senza sottrarsi, ovviamente, al principio di legalità, consentano un adattamento dinamico continuo e credibile verso una "utenza" sempre più esigente e sensibile.
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