GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
Per Aspera Ad Veritatem n.1
Diritto d'informazione dello Stato (a proposito di una recente polemica)

Arturo Carlo JEMOLO




Le polemiche che nei mesi scorsi si sono svolte per l'esistenza, e poi la distruzione, di fascicoli intorno ad uomini politici creati presso un servizio informazioni dello stato maggiore, mi hanno ispirato alcune considerazioni che espongo nella forma più piana. Lieto se potessero offrire spunto a qualche giovane costituzionalista per trattare, con il tecnicismo che io non posseggo, le questioni di diritto che esse implicano; od anche semplicemente per porre a disposizione di qualche docente, nelle grandi università sempre assillato dalla ricerca di temi che non si ripetano troppo ai laureandi per le loro dissertazioni, alcuni possibili argomenti.
Queste mie considerazioni non hanno maggiori pretese.


C'è una pretesa giuridica tutelata a che altri non si occupi della mia vita?

Da vari anni si parla molto di un diritto alla riservatezza; è divenuto un tema molto in voga, qualche scrittore ne ha fatto uno dei suoi argomenti preferiti, trattandolo sotto vari aspetti; qualche sommo giurista vi ha dedicato osservazioni acute e sagaci.
Quando peraltro si guarda addentro nel dibattito, ci si accorge che i casi pratici e le relative controversie partono sempre da quei punti in cui il diritto positivo offre qualche caposaldo; il diritto alla propria immagine, quello sulle lettere che si sono scritte e ricevute, al più la non intercettabilità delle comunicazioni telefoniche. Fuori di queste ipotesi, si dà poi l'ambito penalistico della diffamazione e della reazione a questa: che evidentemente non può trattare le invasioni nella intimità in cui non ci sia nulla che possa toccare la fama della persona nella cui vita si è voluto penetrare.
Ma si può configurare un diritto, od una pretesa tutelata, a che altri non si occupi degli affari nostri? A che altri non indaghi nella mia vita, se pure sappia che non c'è nulla da occultare, che sono marito fedele, padre amoroso, amico leale, professionista solerte e scrupoloso?
Temo che questa pretesa - che penso risponda poi ad un desiderio di moltissimi - non trovi tutela nel diritto. La circostanza stessa che gli artt. 131-137 del t.u. della l. di p.s. 18 giugno 1931 n. 773 prevedano persone ed enti che diano vita ad uffici d'investigazioni, ricerche, raccolta d'informazioni per conto di privati, sottoposti ad una licenza il cui rilascio è subordinato tra l'altro alla dimostrazione della capacità tecnica per i servizi che s'intendono esercitare, sta a confermarlo. So che nelle licenze a questi istituti si pongono condizioni, così il divieto di pedinamento; sono peraltro limiti, che presuppongono la liceità di una organizzazione per indagare.
Ora mi avviene di chiedermi quali possano essere - e se possano essercene - mie reazioni e difese su un terreno giuridico, ove mi avvedo che qualcuno mi segua per via, sia pure molto discretamente, a debita distanza, e cercando di non farsene avvedere, e sappia che questi stesso domandi poi notizie di me al portiere, alla segretaria, ad altri.
A parte le reazioni che con il diritto non hanno a vedere, potrò rivolgermi al commissariato di p.s., che esercita presso di noi, per lo più con tatto e garbo, una funzione conciliativa anche per quanto è sui margini del giuridicamente rilevante; ed il commissario convocherà l'indiscreto. Ma poi? Se per es. quegli desse la spiegazione che si legge spesso nei romanzi e novelle ottocentesche, che segue quella signora o signorina perché è l'immagine vivente di una moglie o figlia morte, o che s'interessa a quel capodivisione perché sta scrivendo un romanzo o prepara un film sulla burocrazia e gli preme di conoscere nei dettagli la vita di un burocrate cinquantenne di grado medio, o non volesse dare alcuna spiegazione, cosa potrebbe l'autorità di p.s.? Il t.u., accanto ai provvedimenti prefettizi dell'art. 2, su cui ha dovuto pronunciarsi la Corte Costituzionale, menziona genericamente all'art. 4 provvedimenti dell'autorità di p.s., ma non mi pare porga alcuna base per ritenere ammissibile una ordinanza formale che intimi a Tizio di non occuparsi oltre della vita e degli affari di Caio. E, per porre la questione in termini più schiettamente giuridici, potrebbe Caio convenire Tizio dinanzi al giudice civile con un'azione volta a far dichiarare che questi commette un illecito, curiosando - ma senza violare alcuna specifica norma - intorno alla vita di lui Caio?
Mi sembra che no.
È pessimo gusto quanto giornali, e spesso rotocalchi, pubblicano intorno ad amori, promesse di matrimonio, maternità incipienti o deluse, di principesse od attrici. Lì ci sarebbero spesso gli estremi della diffamazione, e talora dell'azione per danni.
Ma ove questi manchino (come mancano certamente allorché il foglio parla dei pellegrinaggi e dei voti che un donna sposata pone in essere nella speranza di divenire madre) l'offesa è soltanto al gusto, non al diritto.
Chi studia quel tema sempre attraente su cui non si può mai dire l'ultima parola, della linea divisoria tra giuridicamente rilevante ed irrilevante, tra beni protetti e non protetti dal diritto, riscontra qui una fattispecie, di un'aspirazione quasi unanimemente sentita, di non essere oggetto della curiosità altrui (gli stessi esibizionisti vorrebbero che convergesse su di loro soltanto una certa curiosità, che piacerebbe loro dirigere, che cogliesse solamente determinati dati), e che non trova protezione nel diritto. Ciascuno deve qui proteggersi da sè.


La formazione del documento

Ci sono curiosità che mirano soltanto a sapere, ma ciò che è appreso resta nella mente del curioso.
A volte invece viene fissato sulla carta.
Comincerei a ricordare che accanto a quel curiosare di cui dianzi dicevo, che si esplica con il pedinamento o con le interviste al portiere, ce n'è un altro, di cui possono essere oggetto soltanto persone in una data posizione, e di cui esse non hanno alcun modo di accorgersi: si tratta della formazione del dossier.
Si spulciano nelle emeroteche vecchie raccolte di giornali, si leggono diari, oggi molto di frequente pubblicati, talora si accede ad archivi italiani o stranieri, specializzati (archivi della resistenza, dell'antisemitismo, ecc.), e si prendono appunti o fotocopie. Cosa scriveva Tizio ai tempi del fascismo? era presente a quella cerimonia in onore di una missione nazista? quali articoli redasse a proposito dell'asse italo-tedesco? quali al tempo delle leggi razziali? nei resoconti parlamentari quali brani di suoi discorsi presentano un qualche interesse?
Così, con passi di giornali o di resoconti, tutti di pubblica ragione, si forma il dossier. E sulla liceità giuridica di questo tipo d'indagine (che normalmente renderà solo un aspetto dell'uomo, che potrà anche essere falsato, ove vi siano colte soltanto le singole frasi che potevano interessare per lo scopo propostosi da chi formava il dossier) non è possibile sollevare eccezioni.
Ma ritorniamo al curiosare, alle indagini dirette; chi le compie consegna i risultati della sua ricerca ad un diario od un libretto di appunti.
Sembra che si sia ancora nell'ambito del giuridicamente irrilevante. Quel che tengo chiuso nel mio cassetto non può costituire oggetto d'illecito: sia lo sfogo di miei risentimenti verso il regime politico in cui vivo o del mio odio per Sempronio, o di ossessioni lubriche. Il reato dell'art. 282 cod. pen. (l'offesa all'onore od al prestigio del capo del governo; per la storia del periodo fascista è bene guardare anche nei repertori di giurisprudenza le varie massime in proposito) presupponeva pur sempre che ci fosse una persona presente al momento in cui alcuno pronunciava le parole offensive, o che queste venissero scritte in luogo visibile (magari il muro di una latrina).
E tuttavia un regime tirannico potrà anche processare e condannare per gli scritti che abbia trovato nel corso di una perquisizione; o quanto meno adottare in base ad essi misure di sicurezza contro il cittadino che ormai è provato essere un mal pensante.
Comunque il consegnare sulla carta è già un fissaggio, un trapasso fuori di noi; il nostro ricordo muore con la nostra persona, l'appunto resta; non solo ci sopravvive ma può esserci sottratto.
Nella teologia morale del seicento e del settecento hanno il loro luogo gli appunti per la confessione, cioè il frutto della preparazione ad una buona confessione, che il penitente compiva, fissando sulla carta il ricordo dei peccati commessi, dei dubbi nutriti in materia di fede. Tali appunti sottratti o smarriti partecipavano in qualche modo del segreto della confessione? commetteva un particolare peccato chi li divulgasse? (1) poteva sulla loro base instaurarsi un processo?
Nel diritto odierno c'è giurisprudenza e letteratura sulla possibilità di giovarsi nel processo, civile o penale, di documenti indebitamente acquisiti (2) ; e direi che sia molto interessante per cogliere la reazione dell'opinione pubblica di fronte alle varie forme di reati, il vedere se approvi o meno le intercettazioni di lettere, di telefonate, le registrazioni delle conversazioni su nastri, ed altresì gli agenti provocatori (non scorgo alcuna reazione allorché questi strumenti siano usati in tema di spionaggio militare; ciò che mostra come l'opinione dei più scorga sempre nella difesa militare il massimo bene da proteggere, dando assai più tenue posto alla difesa contro il contrabbando, le infrazioni valutarie, ecc.).
Mi chiedo: ove apprenda che alcuno, venuto ora a morte, ha lasciato un diario od appunti frutto delle sue ricerche sulla mia vita privata (sulla mia vita semplicemente, ove io non sia né uomo politico, né artista, né tra quegli industriali che assurgono a notorietà nazionale: sicché quegli appunti non possano ad alcun titolo considerarsi come preparazione di un'opera di storia), ho io qualche difesa per impedire che essi, fin qui conservati ma non divulgati, possano divenire oggetto di divulgazione?
Non scorgo la possibilità di sostenere un mio diritto di comproprietà su di essi, che apra la via al sequestro giudiziario ai sensi del n.1 dell'art. 670 c.p.c.; ma non è neppure invocabile il n. 2, non vedendosi quale diritto possa vantare la persona oggetto di un'indagine all'esibizione di quelli che sono i risultati dell'indagine stessa (salvo casi eccezionali che si riferirebbero piuttosto all'ipotesi del dossier che non a quella del diario: fotografia di un documento conservato in un archivio ora distrutto). E nemmeno vedo la possibilità di invocare l'art. 700, che esige sempre l'affermazione di un diritto che possa essere fatto valere in giudizio; con esclusione delle situazioni non suscettibili di tutela giurisdizionale, come appunto appare quella che qui si presenta. Ammesso anche che la pubblicazione del diario o dei brani di esso, o la loro divulgazione, il giorno che seguisse, rappresentasse un illecito a danno della persona delle cui vicende il diario tratta, non scorgo nel nostro diritto un mezzo preventivo per parare a questo pericolo in fieri. Non solo il provvedimento del Pretore di cui all'art. 700 non potrebbe venire rivolto a terzi indeterminati, ma non vedrei neppure come potrebbe essere giustificato se rivolto agli eredi di chi aveva formato il diario con l'ordine di non disperderlo e di non pubblicarlo (ciò che oltre tutto imporrebbe un'esibizione in giudizio, ed una valutazione del suo contenuto).
Per ottenere un qualsiasi provvedimento occorrerebbe che chi lo invoca potesse provare un suo diritto, alla proprietà od almeno alla esibizione del diario. Ma se lo stesso autore di un'opera d'ingegno protetta nulla potrebbe contro quegli che ne sapesse plagiario, finché questi tenesse il prodotto del plagio nel suo cassetto (tra i miei divertimenti posso anche avere quello di costruire imitazioni o varianti di opere note, purché tenga queste imitazioni ben chiuse), meno che mai potrà quegli che è il protagonista delle vicende fissate nel diario avanzare dinanzi ai giudici la costruzione pirandelliana del protagonista che rivendica il suo diritto contro l'autore.
E non esiste un rimedio preventivo contro il pericolo che altri venga a diffondere notizie, vere o non vere, a mio danno, finché non c'è alcun'avvisaglia, alcun inizio di attuazione di un tale proposito.
Mi pare quindi che allorché si tratta della indagine che un privato compie su un altro privato, possiamo partire dal dato che la legge di p.s. prevede un'attività consistente nel tenere uffici di informazioni; attività controllata, soggetta a licenza, ma lecita; e dall'altro dato che non si è mai dubitato della liceità delle informazioni che in via riservata le banche forniscono ai clienti intorno alla solidità di ditte commerciali. E constatare poi che non si ravvisa alcun divieto a questa raccolta d'informazioni.
Che direi indifferente per il diritto finché è soltanto un appagamento di curiosità, e delle informazioni non viene fatto uso.
Certo il diritto stabilisce anche essere talora il fine a qualificare un'attività; poter costituire illecito anche la minaccia di attuare una misura lecita, di far valere un proprio diritto, se si voglia con ciò ottenere un profitto che non si aveva titolo per pretendere.
In sé non può dirsi illecito il pubblicare fatti veri, non infamanti, ma il cui ricordo è sgradevole per chi ne fu il protagonista - gli incarichi che ebbe, le onorificenze che ottenne, il suo modo di comportarsi, in un regime antitetico a quello in cui ha conquistato una posizione segnalata, antitetico alle idee che oggi manifesta -; viceversa costituirebbe un reato minacciare quella pubblicazione e pretendere un compenso per rinunciarvi.
Ma la semplice preoccupazione che quella pretesa sia avanzata, o che quella pubblicazione venga effettuata, non permette d'invocare alcuna misura protettiva, mancando nel nostro diritto la disposizione occorrente, che sarebbe limitatrice del diritto di chi ha operato quella ricerca, o dei suoi eredi che posseggono il testo che ne fissa i risultati.



I limiti del lecito per tale organo

Ho preso le mosse da lontano (3) . Ma evidentemente la situazione è diversa allorché si tratti d'indagine promossa da organi dello Stato.
Qui intanto mi pare valga il principio che, mentre il privato è libero di disporre del suo tempo come creda, di compiere viaggi per vedere emeroteche od archivi lontani, e così di mettersi ad indagare sulla vita di alcuno per mera curiosità, o col vago intento di scrivere un romanzo naturalista che poi non scriverà mai, per gli organi dello Stato non è lecito impiegare tempo ed attività in ciò che non risponda ad un fine pubblico.
A rigore c'è già un illecito nel fatto di quel prefetto che, profilandosi sull'orizzonte un giovane che probabilmente domanderà la mano di sua figlia, scriva ad un collega perché lo informi sulla famiglia di origine di quel giovane. Un rigorista potrebbe persino parlare di un peculato per distrazione di attività di organi statali, eccitati ad una ricerca che non interessa affatto lo Stato.
Ma sta però altresì che non può negarsi allo Stato, nell'esercizio della sua attività di polizia, un compito di prevenire gli illeciti, che lo porta a dover tenere d'occhio persone sospette. Sospette nei più vari ambiti: in quello della comune delinquenza - mondo dei ricettatori, dei trafficanti di droga, dei biscazzieri, degli sfruttatori di donne - ma anche nell'altro, dei sospetti di spionaggio militare o di quanti si può sospettare preparino tentativi insurrezionali, od azioni violente contro la costituzione dello Stato.
Siamo qui ad un punto di estrema delicatezza, in quanto un'attività preventiva in questo senso è sicuramente necessaria (con una necessità che si dà sempre rispetto a quella che è delinquenza comune, varia in intensità di momento in momento per le altre ipotesi; vi sono stati periodi felici in cui nessuno pensava a pericoli d'insurrezione o di colpi di Stato), e la stessa opinione pubblica sarebbe severa verso un governo che si lasciasse sorprendere da un tentativo insurrezionale, e dovesse confessare che non aveva alcun sospetto di una sua preparazione. Viceversa le Costituzioni, che seguono vecchi modelli, e continuano a mettere in evidenza piuttosto i diritti e le garanzie dei cittadini che non i diritti dello Stato, ad essere delle chartae libertatum, anziché un fedele specchio della struttura statale, ignorano (ed è male) questa attività preventiva e gli strumenti attraverso cui deve articolarsi, se pure i loro autori, in quanto uomini di governo attuali o di domani, sappiano benissimo che non potranno fare a meno di ricorrervi.
Un'attività di sorveglianza può essere non soltanto lecita, bensì doverosa; peraltro la linea di separazione tra lecito ed illecito in quest'attività statale, ci sembra stia qui; che per renderla lecita occorre vi sia una base sufficientemente ragionevole per sorvegliare Tizio e seguirne le attività, e che quel che ragionevolmente si teme è che si proponga d'infrangere leggi dello Stato, non già di nuocere al partito al governo.
Il primo punto è particolarmente delicato, perché la ragionevolezza del sospetto muta da ambiente, da periodo storico ad altro periodo.
William James parlava d'ipotesi vive ed ipotesi morte, ed esemplificava: per un europeo divenire seguace del Mahdi è una ipotesi morta; per un arabo che non sia né seguace né simpatizzante, è tuttavia una ipotesi viva.
Nel 1910 solo un pazzo avrebbe potuto sospettare che il capo di stato maggiore degli Stati Uniti Bell pensasse ad un colpo di Stato per deporre il presidente Taft; o che il nostro capo di stato maggiore Pollio facesse sorvegliare il Presidente del Consiglio Giolitti; invece la Francia negli anni 1898-1900 era stata sotto l'incubo di colpi di Stato.
C'è un certo grado di discrezionalità nell'apprezzamento; ma questo non è sufficiente per ritenere giustificato qualsiasi sospetto, per poter disporre indagini rifacendosi semplicemente alla propria intuizione. Un punto fermo che si deve tener presente è che la sorveglianza di un cittadino per le idee politiche che professa costituisce violazione dell'art. 3 Cost.; occorre ci sia un'altra e diversa ragione per temere ch'egli intenda commettere atti illeciti. Il ritenere virtualmente pericoloso un cittadino per il partito cui appartiene è in contrasto con gli artt. 3 e 49 (ed anche 21 e 18) della Carta costituzionale (salvo, s'intende, l'ipotesi morta di un partito che abbia l'esplicito proposito della insurrezione). Potranno essere sospetti gli appartenenti ad alcune associazioni di giovani fascisti che si sono distinti e continuano a distinguersi in episodi di violenza; ma non sarebbe lecito considerare sospetti tutti gli appartenenti al Movimento sociale.
L'illecito nell'attività indagativa comincia se non ci sia alcun punto di partenza per temere di quella determinata persona; e si dà sicuramente se l'uomo sia un oppositore politico che nessuno può sospettare di voler agire fuori delle vie legali. Per dare ancora un esempio, riferendoci a situazioni di tre quarti di secolo fa, se Crispi faceva assumere informazioni sui suscitatori dei moti dei fasci in Sicilia, non agiva illecitamente, ché, secondo i criteri del tempo, quelli erano moti che integravano reati (e sicuramente illeciti erano quando bruciavano esattorie delle imposte od uffici del dazio); ma se invece avesse fatto raccogliere dalla direzione generale di p.s. un dossier sulle vicende familiari del suo avversario di Rudinì, avrebbe commesso un illecito, perché nessuno poteva pensare che un Rudinì intendesse andare al governo se non per vie legali.
Illecita è la ricerca compiuta nell'interesse del proprio partito: che solo negli Stati a partito unico assurge ad un aspetto dello Stato; direi: diviene l'organo statale con la funzione di propaganda politica, di acquistare consensi al regime.


Si ripropone anche qui la questione: limiti della indagine; raccolta di un dossier.
Poniamo il caso d'indagine giustificata, gli organi ad essa preposti non potranno probabilmente limitarsi ad un solo lato della vita dell'uomo, si sospettava che le relazioni con quella donna fossero con una spia od emissaria di una organizzazione sovversiva, e quando si va a fondo si trova che è una relazione puramente carnale (4) . Ma è lecito approfittare di quanto l'indagine ha fatto scoprire intorno alle debolezze della vita intima di alcuno, per poterlo poi sopraffare o marchiare? per potere poggiare sui risultati della indagine una qualsiasi sanzione? per potere con la minaccia di rivelare quanto si è appreso determinare comunque il suo comportamento?
La risposta non può non essere nettamente negativa.
Senza peraltro ignorare che dove non c'è la possibilità di discussione dinanzi ad un giudice, la pratica che impera è quella opposta; e che, anche dove ci fosse una possibilità di difesa, quegli che ha delle tare preferisce di solito sottostare (a parte i casi tragici, della liberazione mediante il suicidio), anziché rendere pubbliche le proprie debolezze (5) .
Peraltro nessuno si sente di difendere a viso aperto l'abuso, palese e grave, dell'indagine di polizia che rileva gravi tare nella vita sessuale di alcuno - non tali da dare vita a reati perseguibili di ufficio - e fa poi filtrare la notizia ad un giornale di partito.
In un gioco onesto e leale (o semplicemente informato a quella che é la distinzione tra interesse dello Stato ed interesse di parte) di quelle informazioni assunte, che non toccano la persona pubblica e la minaccia di sue non inverosimili o prossime attività illegali, che non concernono cioè la pericolosità dell'uomo, non dovrebbe restare traccia.
E qui più che mai occorre introdurre la distinzione tra il referto orale - l'ispettore generale od il capo della polizia che comunicano certe notizie al Ministro dell'interno - e la relazione scritta.
Questo perché le carte dello Stato hanno un certo regolamento e su un dossier del suo ministero il Ministro non può scrivere, come può il privato, bruciare alla mia morte, od alle mie dimissioni.
Qui viene anche la distinzione tra le carte di Stato, tra cui sono sicuramente la corrispondenza ufficiale (e così le relazioni, le note di ufficio), e corrispondenza ufficiosa: distinzione che dubito molto abbia una ragion d'essere (allorché lo Stato ha rivendicato delle carte, in causa contro le famiglie di uomini politici morti ha sempre sostenuto la tesi più rigorosa; anche le lettere Petacci sono state ritenute, e credo a ragione, carte rivendicabili dall'Archivio di Stato).
Ogni giovane burocrate sa che il dispaccio ufficiale è quello che reca al termine la qualifica "Il Ministro", "Il Prefetto", "Il Direttore generale"; mentre c'é la carta intestata, di diverso formato, che nell'intestazione "Ministero dell'Interno - Il Ministro", od analoga scritta, ma che viene adoperata per la corrispondenza officiosa (servirà talora in fatto anche per quella del tutto privata; ma non dovrebbe; un rigido burocrate piemontese del tempo di Lanza o Sella credo non avrebbe usato quella carta per scrivere alla propria moglie), cioè la corrispondenza che tocca questioni d'ufficio, ma non dà luogo a provvedimenti, né lega l'Amministrazione. E' la carta su cui scrivono le decine di migliaia di lettere i parlamentari: "Ho preso buona nota del Tuo interessamento a favore di Caio; confido che entro l'anno il Tuo raccomandato possa ottenere la destinazione cui aspira": firmando senza qualifica: tuo aff.mo.
Questa corrispondenza officiosa è essa pure preparata dai singoli uffici, e di essa il gabinetto e la segreteria del Ministro tiene un protocollo (molte volte le lettere recano un numero di protocollo, per lo più a penna). Nella giurisprudenza del Consiglio di Stato se ne sente talora parlare per stabilire se la lettera officiosa costituisca un provvedimento impugnabile (si ritiene di no) o se il suo arrivo apra un termine per ricorrere contro il provvedimento che annuncia, dandone all'interessato la conoscenza.
Questa corrispondenza - le lettere ricevute e le veline delle risposte - è proprietà privata del Ministro o del prefetto o dell'alto funzionario? So che molti Ministri ritengono sia cosa tutta loro, che possono portare con sé mutando di dicastero, o distruggere. Non sono di questo avviso, e forse non lo sarebbe neppure il Ministro se chiedendo ad un prefetto la corrispondenza officiosa scambiata con parlamentari intorno a questioni della provincia, si sentisse rispondere che sono lettere private che non può pretendere di conoscere.
Si tratta sempre di corrispondenza con notizie che vengono date dallo scrivente in quanto copre quell'alto ufficio pubblico, ed in cui egli formula promesse, rifiuti, talora apprezzamenti, od enuncia programmi, inerenti alla sua qualità di capo di una grande branca dell'amministrazione. E quelle lettere costituiscono anche materiale storico; interessa invero allo storico, tra l'altro, conoscere il tipo di rapporti tra componenti il governo ed oppositori politici, che naturalmente è diverso nei diversi momenti e regimi: saggiare anche attraverso la corrispondenza la sincerità di certi atteggiamenti ostentati (al principio del secolo c'era un deputato repubblicano, fierissimo anticlericale in discorsi ed interpellanze; ma giungevano con estrema frequenza al direttore generale del Fondo per il culto sue lettere di raccomandazione a favore di parroci che dovevano aver liquidato il supplemento di congrua, di suore che reclamavano locali: effetto delle segnalazioni fatte al deputato da una sorella monaca, cui gli era teneramente affezionato).
Riterrei quindi che siano carte appartenenti allo Stato tutte quelle che integrano sia il risultato di inchieste o ricerche disposte da Ministri, sia corrispondenza officiosa dei Ministri ed alti funzionari.
Ora le carte di Stato hanno un loro regime; il macero dopo un certo numero di anni per quelle che non presentino alcun particolare interesse, l'Archivio di Stato per le altre; dove resteranno riservate per un certo numero di anni, per poi essere poste a disposizione degli studiosi.
Da qui la necessità che in queste carte non resti fissato nulla che non tocchi un interesse pubblico; e pertanto l'implicita illiceità che nel rapporto riservato per il Capo della polizia o per il Ministro dell'Interno intorno a quegli che si vuole tenere d'occhio perché si teme possa predisporre un'attività illecita, si menzionino sue relazioni amorose od altre sue debolezze, di natura strettamente privata.
So che questo può apparire utopistico; che tutte le indagini del genere tengono a porre particolarmente in luce se l'uomo sia corruttibile o meno, abbia bisogno di danaro, e la relazione sarà tanto più pregiata in quanto farà intravedere al Ministro la buccia di banana su cui sia possibile fare scivolare l'avversario. Qualcuno potrà poi anche obiettare che gli uomini non sono scindibili nella loro essenza; che non si dà il profilo di un capo rivoluzionario o di un generale che ha la tentazione del colpo di Stato se non si parla del suo attaccamento alla famiglia od all'opposto della sua carenza di affetti, se non si ponga in luce s'egli sia sensibile alle donne, al gioco, al guadagno; che nel compilare i dossier si guarda al passato anche remoto, a tutto ciò che può essere portato contro l'uomo.
Peraltro se si vuole porre qualche regola giuridica in materia - e quando sorgono scandali, come l'episodio da cui ho preso le mosse, e si parla di comportamenti illeciti, evidentemente si ritiene che ci siano regole, una linea di separazione tra il lecito e l'illecito, e che non si cammini in una giungla inesplorata - bisogna accettare questa norma, che l'indagine fa parte della polizia di prevenzione, e questa non ha di mira neppure la distruzione o la mortificazione degli avversari dell'ordine costituito, ma soltanto vuole impedire ch'essi compiano azioni vietate; pertanto non possano divenire carte di Stato, che un giorno abbiano a ricevere pubblicità, rapporti che tocchino la vita privata, i fatti intimi delle persone inquisite.
Con la conseguenza che non tutto ciò che farà parte del rapporto verbale, cui sarebbe difficile porre limiti, avrà ad essere fissato nel documento scritto.
Diversamente occorrerebbe ammettere un tipo di atto, la relazione stesa dal funzionario, nelle sue incombenze di ufficio, e destinata al suo superiore, che dovesse essere da quest'ultimo distrutta in un breve volgere di tempo. Esito ad ammettere questa possibilità (pure conoscendo che nella pratica amministrativa l'inferiore predispone talora appunti che non verranno conservati; ma questi non hanno una propria individualità, si confondono con la relazione od il provvedimento del superiore; sono assimilabili alle minute che vengono poi rifatte, anziché venire passate alla sigla superiore e quindi alla copiatura); esito ad ammetterla, non tanto per l'idea che quanto è creato in un'attività pubblica non possa venire distrutto per l'apprezzamento insindacabile di un funzionario, quanto per il pericolo alla sicurezza giuridica, e così alla garanzia di difesa dei cittadini, inerente al consentire che possano esserci provvedimenti, misure, decisioni, di cui non sia più possibile controllare l'iter formativo; sì che il Ministro, chiamato a giustificare la determinazione adottata, possa appellarsi a relazioni ch'egli ha giudicato opportuno distruggere.


Quest'attività va esplicata in vari ambiti, ed in ciascuno dagli organi preposti a questo ramo di attività politica governativa

L'informazione è dunque parte indispensabile dell'attività di prevenzione dello Stato.
Ma questo ha molteplici organi, con mansioni distinte. E l'esercito è legato alla funzione bellica (per l'art. 52 Cost. alla difesa della patria, che nel significato tradizionale, rafforzato dal concetto del servizio militare obbligatorio, è quella del nemico esterno). Le onorificenze tipicamente militari (medaglie al valore militare, ordine al merito militare) sono riservate a comportamenti che presuppongono il coraggio, il pericolo della vita, l'azione violenta, non la semplice astuzia o l'intelligenza adoperata a tavolino. La polizia politica è del tutto estranea ai compiti dell'esercito (il termine include naturalmente anche la marina e l'aeronautica).
Quindi solo l'indagine che mira ad acquisire le posizioni migliori per una guerra eventuale, lo spionaggio ( non uso mai il termine controspionaggio; mi sembra una insigne tartuferia usare due vocaboli diversi per la stessa cosa, a seconda che sia opera nostra o di altri) può essere affidato ad organi militari.
Vero che in Italia c'è sempre stata una zona promiscua tra polizia ed esercito costituita dall'arma dei carabinieri, che è non solo parte dell'esercito, ma arma combattente, che in tutte le guerre ha dato reparti all'esercito operante; ed al tempo stesso gli ufficiali ed i sottufficiali dell'arma sono ufficiali di polizia giudiziaria, ed i carabinieri sono agenti di detta polizia (art. 221 c.p.p.), con gli stessi doveri, obbligo del segreto, sanzioni disciplinari degli altri ufficiali ed agenti; ed è ben noto che nelle campagne tutta l'attività di p.s. è affidata ai carabinieri (nei cartelli stradali plurilingue, carabinieri è tradotto Polizei). Maggiore confusione si è creata quando nel luglio '43 si sono date le "stellette", e fatti così corpo militare, agli agenti di pubblica sicurezza e di custodia; una singolarità che ritengo non abbia riscontro in altri Paesi, questa generale assimilazione all'esercito vero e proprio.
Peraltro è chiaro che la polizia e gli agenti di custodia sono del tutto estranei alla organizzazione dell'esercito; mentre per i carabinieri e la guardia di finanza, al comando dell'arma è un generale che non viene dai loro ranghi.
Per i carabinieri fino ai primi anni del secolo, quando non c'erano differenziazioni in seno agli ufficiali generali, che tutti appartenevano allo stato maggiore generale (in teoria il colonnello medico promosso maggior generale avrebbe potuto avere qualsiasi comando) il comandante dell'arma dei carabinieri proveniva dai suoi ranghi, in cui aveva percorso tutta la carriera, essendo entrato nell'arma con il grado di tenente. Aveva quindi l'abito mentale di un collaboratore di prefetti, e, nei gradi più alti, del Ministro dell'interno.
La tradizione è venuta meno, all'incirca negli anni della prima guerra mondiale: essa rappresentava una garanzia di separazione tra le funzioni di polizia spettanti all'arma, e quella bellica, nella cui preparazione ha parte preminente il capo di stato maggiore.
Se vogliamo chiamare compito di polizia politica quest'attività preventiva, d'informazione, di sorveglianza contro persone che si teme - su qualche base - possano tentare azioni violente contro l'ordine costituzionale, diremo che essa può venire diretta soltanto dal Ministro dell'interno e dagli organi da questo dipendenti, i quali potranno giovarsi per espletarla di tutti gli organi di polizia, compresi i carabinieri. I quali possono essere e sono adoperati del pari dagli organi militari per il servizio relativo allo spionaggio militare.
La questione che può sorgere è quella del segreto d'ufficio; non si pone in dubbio che gli organi militari che adoperino ufficiali o sottufficiali o carabinieri per i compiti inerenti allo spionaggio militare possano prescrivere il segreto anche di fronte agli organi di polizia civile, da cui i carabinieri non dipendono direttamente; resta a vedere se potrebbero Ministro dell'interno o capo della polizia prescrivere analogamente il segreto di fronte ai superiori militari.
E' un punto di estrema delicatezza che occorrerebbe chiarire - ecco un altro tema di esercitazione didattica -; se la risposta dovesse essere negativa, sarebbe opportuno che in questo compito di prevenzione politica Ministro dell'interno e capo della polizia si giovassero soltanto degli organi di p.s., senza ricorrere all'arma dei carabinieri, per quanto ciò potesse rendere ben più difficile il loro compito.
Quel che preme è che restino distinti i due settori, dell'attività inerente ai compiti della difesa militare del Paese, che è difesa dal potenziale nemico esterno, e dell'attività di prevenzione da attentati interni all'ordine costituzionale.
La confusione delle due attività è estremamente grave (ed è anche a ricordare come l'attività spettante allo stato maggiore, d'informazione militare e difesa dall'attività altrui della stessa specie, non dovrebbe passare ad atti esterni senza aver inteso il Ministero degli affari esteri; la più importante vicenda che si ricordi, l'affare Dreyfus che sul finire del secolo scorso sconvolse la Francia, derivò dall'aver voluto il Ministro della guerra passare oltre l'opposizione del collega degli esteri, che contrastava la possibilità d'iniziare un processo, quando alla base c'era una infima agente del servizio d'informazione militare francese che era stata assunta come donna di pulizia all'ambasciata di Germania, ed aveva potuto recare carte raccolte nel cestino dell'addetto militare: almeno era stata questa la narrativa).
Se gli organi militari assumono compiti di sorveglianza di partiti o di appartenenti a questi, non si altera soltanto un ordine di competenze; bensì la funzione che la Costituzione assegna all'esercito, e che è alla base non solo dell'art. 52, ma anche del comma 9 dell'art. 87, che è poi alla sua volta connesso con il primo comma, il Presidente della Repubblica che rappresenta l'unità nazionale (la posizione deteriore fatta comunque ad un partito o per l'appartenenza a questo è in contrasto con l'idea di unità; saggiamente si è finto d'ignorare la ricostituzione del partito fascista; si ferisce l'unità ponendo fuori legge un partito, quando non sarebbe possibile applicare le norme di diritto comune sulle associazioni a delinquere).
Ove poi organi militari agiscano di loro iniziativa, e non per ordine del Ministro della difesa, il sovvertimento è ancora più grave, in quanto si ha non soltanto una usurpazione di funzioni e di compiti, ma un portare l'esercito, ad iniziativa di organi militari, a compiti estranei a quelli assegnatigli dalla Costituzione. Potrebbe dirsi che si ha già una attività preparatoria a quello che sarebbe il sovvertimento costituzionale di un esercito che pretendesse di estromettere uomini o partiti dalla scena politica.
Se è invece il Ministro della difesa a prendere l'iniziativa, si ha una usurpazione di funzione che egli compie a danno di un suo collega; di una gravità politica, è facile comprendere, ben maggiore di quelle che sarebbero altre usurpazioni (del Ministro dei ll. pp. a danno di quello dei trasporti, o simili): sempre per quel profilarsi della possibilità di forze militari che rompano l'ordine costituzionale attraverso ostracismi, palesi o larvati.
L'esempio della Grecia che segue a vari altri, sta ad ammonire.
Nella polemica sul S.I.F.A.R. sono stati indicati alcuni testi che avrebbero giustificato il comportamento degli organi del Servizio.
Anzitutto un decreto che destò al suo apparire molte critiche, a mio avviso ben giustificate, il d.p. 18 novembre 1965 n. 1477 sull'ordinamento dello stato maggiore, e precisamente la lett. g di quell'art. 2 per cui il capo di stato maggiore della difesa "sopraintende al servizio unificato di informazioni delle forze armate il quale provvede, a mezzo dei propri reparti, uffici e unità, ai compiti informativi di tutela del segreto militare e di ogni altra attività di interesse nazionale per la sicurezza e difesa del paese, attuando anche l'opera intesa a prevenire azione dannosa al potenziale difensivo del Paese" (6) .
Poi, una disposizione interna dell'ufficio D (servizi di controspionaggio nel campo nazionale), per cui il capo di questo ufficio concorda con il comandante generale dell'arma dei carabinieri "le eventuali azioni che possono essere svolte in comune in quanto anche di specifico interesse per le funzioni politico-militari di pertinenza dell'arma stessa in campo nazionale". Ed ancora l'art. 28 di un regolamento organico e regolamento generale dell'arma dei carabinieri, che non ho potuto consultare, per cui "il Comandante generale informa direttamente il Presidente del Consiglio di tutto ciò che può interessarlo nei riguardi della situazione generale e particolare del Paese".
Non mi sembra che nessuna di queste norme sposti i termini del problema di quella che possa essere l'iniziativa dell'autorità militare: naturalmente ricordando che ogni norma va interpretata nel quadro del sistema generale del diritto positivo ed anzitutto dell'assetto costituzionale dello Stato: senza di che attraverso disposizioni dal tenore indeterminato si potrebbe anche considerare legittimo l'assassinio degli avversari di un regime.
Per cominciare dall'ultima norma, quel che può interessare il Presidente del Consiglio sono gli stati di malcontento che vadano determinandosi, il modo con cui siano sussidiati partiti politici, il delinearsi sull'orizzonte di nuovi partiti; il secondo punto potrà consentire di raccogliere informazioni sull'inopinato arricchimento, vero o fittizio, di un uomo politico che si sospetti essere affluenza di capitali per creare o sussidiare un moto od un partito, non mai sulla sua vita privata; e sempre con quella distinzione cui si è accennato tra relazione verbale e rapporto scritto.
Invece le norme sulle incombenze dello stato maggiore debbono venire interpretate nel senso che è solo la prevenzione dello spionaggio militare e di azioni di sabotaggio ai danni delle forze armate quello di cui può interessarsi il S.I.F.A.R.; e le funzioni politico-militari dell'arma dei carabinieri non vanno oltre il rilievo dello stato generale del Paese, e la prevenzione d'insurrezioni; in comune col S.I.F.A.R. sarebbe soltanto la scoperta d'interventi stranieri per provocare diserzioni o rivolte tra le forze armate, o sobillamento tra queste per promuovere atti d'insubordinazione; che grazie a Dio sembrano ipotesi che non trovino alcun riscontro nella nostra realtà.


Tra le questioni affiorate nella polemica intorno al S.I.F.A.R., c'è pur stata quella dei rapporti tra il Presidente della Repubblica ed organi militari.
Come tutti sanno, per l'art. 5 dello Statuto il Re comandava tutte le forze di terra e di mare; da qui la discussione teorica se potessero esserci in materia militare suoi atti efficaci se pur non coperti dalla firma di un ministro responsabile.
In effetti il re non esplicò mai alcuna attività personale in materia militare (rientra nell'azione politica la riserva che fino ad Umberto I il re faceva circa la scelta del Ministro della guerra, come la posizione che quel re assunse per mantenere intatti i dodici corpi d'armata, che ministri - allora generali - preoccupati delle esigenze di bilancio volevano ridurre a dieci), e non consta che infliggesse mai personalmente neanche sanzioni disciplinari, gli arresti ad un ufficiale.
Nella Costituzione vigente per l'art. 87 il Presidente della Repubblica non soltanto ha il comando delle Forze armate, ma presiede il consiglio supremo di difesa.
Ripetere la norma del comando delle forze armate, è stato sicuramente opportuno ad evitare che potesse ritenersi che vi fosse qualche organo, qualche formazione dello Stato, che non facesse capo al Presidente, cioè al vertice dello Stato.
Invece l'affidare al Presidente la presidenza di consigli (questo e quello superiore della magistratura) mostra la poca chiarezza di idee del costituente: che da un lato non volle neppure chiarire che vi erano almeno due atti, la nomina dei cinque senatori e quella dei cinque giudici costituzionali, in cui il Presidente era talmente svincolato dal governo che non occorreva per questi controfirma ministeriale (per l'autentica sarebbe bastata quella del segretario generale della Presidenza, se pure abbia una qualche consistenza questa preoccupazione dell'autentica), dall'altro, affidò al Presidente la presidenza di due consigli, dove il suo voto potrebbe anche essere decisivo, e non si vede come potrebbe venire coperto da responsabilità ministeriale.
Comunque ci sembra si debba dire che il Presidente non possa avere rapporti che non siano puramente formali con organi militari se non per il tramite del Ministro della difesa; che così non solo non possa impartire ordini a tali organi, ma neppure possa richiedere da solo informazioni se non per quel tramite; e che andrebbe contro la struttura voluta dalla Costituzione il Presidente il quale volesse trattare direttamente con organi militari saltando il Ministro della difesa, e, peggio, chiedendo ad organi militari il segreto nei riguardi di tale Ministro sui rapporti che avessero con lui, sull'oggetto delle loro conversazioni. Lo stesso generale addetto alla casa del Presidente come consigliere militare non cessa di essere alle dipendenze del Ministro della difesa, e dovrebbe informarlo di tutto quanto svolgendosi nei rapporti tra lui e il Presidente venisse a toccare comunque la sfera della politica, rappresentasse qualcosa di cui il ministro responsabile dovesse essere informato (7) .



Se c'è qualcosa di mutato rispetto alla situazione che vigeva sotto la monarchia è quello strettissimo rapporto con organi militari stranieri, quell'inizio di esercito comune, che è stato portato dalla partecipazione italiana alla Nato.
Se il trattato di alleanza è conosciuto, vi sono certamente protocolli, note, accordi verbali, modus vivendi che non sono noti; dipendenze effettive di organi italiani da organi stranieri.
Non mi consta che questo sia stato adeguatamente considerato da un punto di vista giuridico.
In particolare come ciò possa conciliarsi con il principio della sovranità nazionale.
E quando si parla di sovranità nazionale, può essere non superfluo qualche chiarimento.
In ogni Costituzione, anzi in ogni diritto positivo, accanto alle norme scritte si danno nozioni implicite, postulati che appare superfluo formulare, tanto sono nella coscienza di ciascuno, e sulla cui base si sviluppa tutto il restante diritto; e che possono distinguersi dalle regole non scritte, ma sicuramente ricavabili da tutto il complesso delle altre norme formulate (le une sono degli a priori; le altre degli a posteriori); e si dà altresì una tradizione che vale ad illustrare il significato delle singole norme e ad indicarci ciò che è stato nei propositi del costituente o del legislatore ordinario. Chiunque legga la nostra Costituzione vede prospettarsi le preoccupazioni che sono state presenti ai costituenti, da quelli della prima metà dell'ottocento ai più recenti; troppo spesso anzi una tradizione continua ad esercitare la sua influenza quando sono mutati i termini di fatto su cui essa sorse. (Per dare un esempio di elementi estranei alle preoccupazioni di un costituente, ad ecclesiastici che vorrebbero scorgere nell'art. 7 della nostra Carta un diniego alla Chiesa della potestas indirecta, oppongo che le potestà della Chiesa sia directa che indirecta son da gran tempo fuori dell'orizzonte costituzionale; sicché in un Concordato non si domanda al Papa l'impegno di non deporre il sovrano e non dichiarare irrite le leggi dello Stato).
Ora tra questi postulati della Costituzione, porrei quello della sovranità nazionale, che del resto è già presupposto al capoverso dell'art. 1.
A chi obiettasse che il principio della sovranità nazionale è oggi attaccato, e che le tracce di questo suo deterioramento si scorgono nell'art. 11, sarebbe da far rilevare l'equivoco in cui cadrebbe.
Di limitazione di sovranità nazionale si parla nei testi di diritto internazionale a proposito dei protettorati o degli Stati semisovrani; in parole povere, di Stati che non hanno la piena disponibilità vuoi delle loro relazioni estere, vuoi dell'assetto della propria legislazione. Ma potrebbe anche usarsi il termine a proposito di non meglio definibili vincoli di dipendenza non esclusivamente politici, ma traenti origine da titoli giuridici (nei rapporti tra l'Austria ed il granducato di Toscana, finché questo è esistito, si sente ricordare da Vienna che la Toscana è una secondogenitura della casa di Asburgo-Lorena).
Quando gli europeisti insistono contro il dogma della sovranità nazionale esclusiva, o quando l'art. 11 Cost. accenna a limitazioni di sovranità, non si intende sicuramente alludere a nulla di simile. Nessuno pensa che possa accettarsi che una potenza straniera abbia ad imporre una data linea di condotta politica od a vietare la emanazione di certe leggi. La realtà sarà quel che sarà; ma non crediamo che né in occidente né nell'Europa orientale ci sia Costituzione alcuna che ponga in dubbio la libertà di ogni popolo di disporre di sé.
Di limitazione di sovranità si può parlare, in un diverso significato, a proposito di un Paese che, conservando la soggettività di diritto internazionale, sia incluso in una confederazione. Se dopo il 1871 in Baviera od in Sassonia si parlava di restringere sempre più l'ambito della legislazione e della giurisdizione bavarese o sassone, a profitto di quella imperiale, si intendeva di fare passare determinati poteri ad organi confederali, che Baviera e Sassonia contribuivano a costituire; ad una sovranità di cui esse stesse erano elementi; e gli assertori dei cedimenti della sovranità nazionale vogliono semplicemente dire che l'Italia dovrebbe inserirsi sempre più profondamente in organismi federativi, facendo assumere agli organi di questi delle mansioni che oggi sono proprie degli organi nazionali. Ed in effetti gli europeisti sono anche assertori di un Parlamento europeo, eletto a suffragio diretto, le cui statuizioni sono vere delibere e non semplici raccomandazioni ai governi.
La realtà è però che oggi non ci sono organi supernazionali che dettino norme cui i cittadini italiani debbano sottostare, e che il nostro Stato può assumere obblighi verso altri soggetti di diritto internazionale soltanto nella tradizionale forma dei trattati.
Chiarito questo, è solo a ricordare che per l'art. 80 Cost. un trattato internazionale che importi modifica del diritto vigente deve essere approvato con legge; ed anche in mancanza di una esplicita disposizione in tal senso sembra certo che dovrebbe venire approvato nelle forme richieste per la modifica della Costituzione un trattato internazionale con cui il nostro Stato si impegnasse a fare un trattamento particolare, di favore o di sfavore, a determinati gruppi di cittadini, per qualsiasi ragione, così per l'appartenenza ad una confessione o ad un partito; alterando il principio di parità.
Vero è che una delle tante imperfezioni della Carta costituzionale è data da ciò, che dal collegamento tra gli artt. 80 e 138 potrebbe apparire che occorresse legge costituzionale per qualsiasi modifica dello statuto di una regione a statuto speciale, ma bastasse una legge ordinaria per approvare la cessione ad un altro Stato di una Provincia di regione che non possegga uno statuto speciale. Per evitare una conclusione così aberrante occorre interpretare il termine variazioni di territorio dell'art. 80 come equivalente a rettifiche di frontiera, riferentesi cioè a quelle rettifiche che non comprendono centri abitati, non comunque Comuni: che sempre si sono fatte, per ragioni di controllo doganale, o di regolamento di acque o di frane, o per altre simili ragioni, e che sfuggono del tutto all'attenzione pubblica, anche nella Provincia di confine; occorrendo invece una legge costituzionale per la variazione che importasse il passaggio di un Comune dall'uno all'altro Stato.
Comunque non ci sarebbe alcun addentellato nella Costituzione per consentire l'approvazione di un trattato internazionale che in qualsiasi modo derogasse al principio della eguaglianza di tutti i cittadini, e che verrebbe a derogare all'art. 3; e va da sé che quel che vale per il trattato varrebbe per qualsiasi protocollo, scambio di note, ecc.. Ma anche l'impegno di sottoporre ad una particolare sorveglianza date categorie di cittadini, mettiamo per la loro appartenenza ad un partito politico, costituirebbe una deroga al principio di eguaglianza. Chè se poi la vigilanza o la raccolta di informazioni con la formazione di relativo dossier, dovesse avere ad un oggetto personalità che abbiano avuto uffici politici elevati, ex ministri, parlamentari in carica, questa vigilanza e raccolta impegnerebbe nei singoli momenti in cui si svolgesse la politica generale del Governo. L'impegno di attuarla darebbe natura politica al relativo trattato, sicché pure a tale titolo si darebbe la riserva di legge.
Sarebbe quindi una violazione della Costituzione un qualsiasi impegno assunto verso uno o più Stati esteri dal nostro, di tenere un determinato comportamento, fosse pure quello di una sorveglianza non apparente, e fosse pure senza comunicare i risultati di tale sorveglianza a questi altri Stati, verso certi suoi cittadini.
In proposito presenterebbe certo interesse un esame dei patti del Trattato Nord-Atlantico e dei vari accordi, alcuni almeno a prima vista strettamente militari, ch'esso ha generato: rispetto al Trattato può notarsi l'anomalia che nella Raccolta ufficiale delle leggi non ne figuri il testo in appendice alla l. 1° agosto 1949 n. 465, con cui il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare ed il governo a dare intera esecuzione al trattato firmato a Washington il 4 aprile precedente, (8) mentre invece in tale Raccolta si trovano allegate alle leggi che vi danno esecuzione (l. 30 novembre 1955 n. 1355; 19 novembre 1954 n. 1226; 30 novembre 1955 n. 1338) le varie convenzioni ed accordi generati dal Trattato - quella di Londra del 13 giugno 1951 sullo statuto delle forze armate dei Paesi aderenti al Trattato; quello di Ottawa del 20 settembre 1951 sullo statuto dell'organizzazione del Trattato nord-Atlantico; quella di Parigi del 28 agosto 1952 sullo statuto dei quartieri generali militari - che interessano direttamente le nostre forze armate, toccano la materia giudiziaria, quella fiscale, quella della circolazione dei veicoli, la monetaria, la doganale, e creano obblighi anche, almeno indirettamente, finanziari, allo Stato.
Ecco un altro possibile argomento per dissertazioni di laurea, nel corso delle quali potrebbe pure essere toccato il punto se, come a me pare, sia semplice acqua fresca, o, come diceva il povero Ernesto Rossi, aria fritta, il terzo comma dell'art. 52 Cost..
Ma porterebbe troppo lontano dilungarsi su tali punti.
Leggo in un noto testo di diritto internazionale: la situazione creatasi per il trattato NATO "è quella medesima esistente in tempo di guerra tra Stati alleati quando le forze armate dell'uno operano sotto il comando altrui e nel territorio altrui, pure restando sempre forza armata dello Stato cui appartengono, e restano quindi soggette per molteplici aspetti a detto Stato, il quale ad esempio può, anche illecitamente, richiamarle o comunque disporne. Esse restano sottoposte ad ordini stranieri solo in virtù del consenso dello Stato nazionale e solo per quel tanto e solo fino a quando dura tale consenso. Gli impegni internazionali in proposito restano semplici impegni internazionali i quali non alterano, se non in quanto vi sia congrua esecuzione, i rapporti interni tra lo Stato e le sue forze militari. Ma i comandi istituiti dalla NATO e appartenenti alla NATO sono previsti da norme e da impegni internazionali, e lo Stato ha il dovere internazionale di lasciar loro esercitare le funzioni ad esse demandate nei confronti dei propri corpi di truppe, come pure di lasciargli esercitare ogni altra funzione prevista dagli accordi internazionali. Queste funzioni sono oggi assai varie, consistendo nell'assumere il comando di certi corpi di truppe, nello studiare piani di comune difesa, nel richiedere a ciascun Stato di curare la preparazione militare necessaria a tal fine... la NATO non opera nei rapporti internazionali, ma solo nei diritti interni degli Stati cercando di ottenere quei certi provvedimenti e certe azioni concordi, predisponendo certe misure in tal modo che resti potenziata l'attività altrimenti insufficiente di ciascuno Stato" (9) .
Questo non illumina sul punto di ciò che gli organi della NATO possano richiedere ai singoli governi degli Stati aderenti od agli organi militari nazionali in tema di eventuali discriminazioni, e, per restare al nostro tema, in tema di sorveglianza di date persone.
Ma se si accetta la premessa che dagli artt. 3 e 21 Cost. discende che nessun cittadino può avere un trattamento diverso dagli altri per le opinioni, religiose, politiche od altre, ch'egli professi a viso aperto; che l'attività di prevenzione (comprendente il tenere sotto una particolare sorveglianza, il fare oggetto di indagini) dello Stato è lecita, anzi doverosa, quando è volta a determinate persone che certi indizi fanno ritenere temibili, all'uno od all'altro effetto, ma viene invece a cozzare contro il disposto costituzionale ove si indirizzi a categorie qualificate per appartenenza a partiti politici od a confessioni religiose: i corollari da trarre sono chiari. Non solo il Governo, ma comandi militari italiani dovrebbero rifiutare qualsiasi richiesta NATO che chiedesse esclusioni da impieghi civili o militari per chi appartenesse a date confessioni o partiti, o sottoposizione ad indagini di soggetti per cui la richiesta non fosse giustificata da loro atteggiamenti positivi; restando sempre, specie se si tratti di soggetti non appartenenti alle forze armate, ai nostri organi nazionali, in definitiva al Ministro della difesa, ed in casi di dubbio all'intero governo, di dire l'ultima parola sull'essere o meno la richiesta giustificata. Il consenso dato ad organi NATO di impartire istruzioni o comandi ad organi militari italiani deve ritenersi sottoposto al limite: purché quelle istruzioni non cozzino contro l'ordine pubblico italiano, e così con la Costituzione.
Un trattato internazionale che avesse voluto esigere dall'Italia oltre questi limiti avrebbe dovuto essere approvato nella forma della legge costituzionale; approvato con legge ordinaria, deve sempre intendersi, quale ne sia il contenuto, sottoposto a detti limiti.
Il non rispettarli è violare la Costituzione.


Questa espressione solenne di "violare la Costituzione" mi fa sovvenire di considerazioni più volte fatte alla lettura della nostra Carta.
Per l'art. 51 di questa tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi; per l'articolo 91 il Presidente della Repubblica presta giuramento di fedeltà alla repubblica (all'Italia ed alla forma repubblicana?) e di osservanza della costituzione; per l'art. 93 i Ministri prestano giuramento, ma non ne è indicato l'oggetto; la Costituzione non parla di giuramento dei parlamentari né dei militari né degli impiegati né dei magistrati, contenendo solo la riserva delle ultime parole dell'art. 54; è per l'art. 5 della l.11 marzo 1953 n. 87 che i giudici della Corte Costituzionale prestano "giuramento di osservare la Costituzione e le leggi"; ai dipendenti civili e militari dello Stato e degli enti pubblici si continua a fare prestare giuramento nella formula rispettivamente degli artt. 3 e 2 della l. 23 dicembre 1916 n. 478, e naturalmente in tale formula non si parla di Costituzione, ma solo di fedeltà alla repubblica ed al suo Capo.
Non dò molta importanza a queste formule; i giuramenti non hanno mai impedito colpi di Stato o rivoluzioni o pronunciamenti militari. Si è ricalcata per il Presidente la vecchia formula dell'art. 22 dello Statuto albertino; non si è creduto di esigere un giuramento di fedeltà alla costituzione, che è qualcosa di più dell'osservarla (cosa poteva significare per l'impiegatuccio che prestava il giuramento nella formula dell'art. 6 del r.d. 30 dicembre 1923 n. 2960, promettere di "osservare lealmente lo Statuto"?); ma dovrebbe essere la promessa di difenderla. Si parla di fedeltà alla Repubblica, quasi ignorando le varie forme di repubblica oggi esistenziali, e che rivoluzioni e colpi di mano, da destra e da sinistra, porterebbero sempre a forme repubblicane, non monarchiche.
E' noto altresì, in questa occhiata ai testi, che l'art. 90 Cost. ipotizza un alto tradimento o un attentato alla Costituzione da parte del presidente della Repubblica, senza meglio spiegare in cosa consisterebbero questi reati (ah, i termini tradizionali! c'è forse un "basso tradimento" di cui non si risponderebbe?), mentre per i Ministri è solo prevista l'accusa "per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni".
Questi testi non mi risolvono il dubbio del come dovrebbero comportarsi il Presidente della Repubblica, i Ministri, funzionari civili o militari venendo per ragione di ufficio a conoscenza vuoi di un impegno internazionale contrario alla Costituzione non di pubblica ragione, vuoi di ordini, circolari, altri atti in contrasto con la nostra Carta costituzionale.
Gli autori di questa non hanno pensato ad un tribuno del popolo, o, per usare un termine meno sconcertante, ad un procuratore generale presso la Corte, cui dovessero venire indirizzate denuncie di attentati alla Costituzione o di pericoli che questa corresse. Mentre mi pare difficile sostenere che provvedano gli artt. 361-363 c.p., proprio perché non è stato configurato, con la chiarezza occorrente per individuare un reato, il comportamento, in rapporti internazionali od interni, in contrasto con le disposizioni della Costituzione.
Intanto sarebbe da chiedersi - ecco ancora un argomento di tesi di laurea - se l'art. 326 c.p. copra anche le notizie di ufficio che rappresentino un illecito dell'Amministrazione (e non dubiterei della illiceità di ogni comportamento in contrasto con la Costituzione, anche se siano ragionevoli i dubbi sul grado che questo illecito debba rivestire per integrare un reato). Il punto mi pare vada attentamente considerato, anche fuori delle ipotesi che sono oggetto del presente articolo; la risposta positiva implica la possibilità pratica di spezzare una catena di mal fare. Comunque riterrei che il funzionario, civile o militare, che venga a conoscenza di disposizioni non di pubblica ragione in cui ravvisi una violazione della Costituzione, debba informarne il superiore, e sia pure per via gerarchica, il punto debba essere sottoposto al Ministro.
Poi sarebbe ad affermare un diritto alla disobbedienza.
Se, magistrato od anche funzionario dell'Amministrazione, avessi conoscenza di una circolare riservata che mi facesse divieto di affidare gli incarichi di consulenza od altri che a me spetta conferire, a chi appartenga ad una data confessione religiosa, o ad un certo partito, o putacaso ad una certa regione di confine, non mi riterrò vincolato da queste disposizioni, se pure sottoscritte da un Ministro, che a termini di legge era competente a dettare norme circa gli affidamenti d'incarichi di consulenza.
Resta ad esaminare il comportamento degli organi, che sarebbero poi tra i più elevati dello Stato, i quali, prendendo possesso del loro ufficio, venissero a conoscenza di disposizioni date o d'impegni assunti dai loro predecessori, in contrasto con la Costituzione. Non dubiterei che se lasciassero la disposizione o l'impegno in vigore, essi s'inserirebbero nella situazione d'illegittimità, di violazione della norma costituzionale, iniziatasi con la creazione della disposizione o con l'assunzione dell'impegno; valgono qui i principi generali, comuni al diritto civile e penale, di chi s'inserisce in un meccanismo delittuoso (od in una frode civile) già iniziato da altri. La disposizione andrebbe quindi revocata; e riterrei fosse revocabile anche l'impegno verso un altro Stato, pure ricordando che il diritto internazionale non distingue tra capacità di diritto e capacità di agire, e che è contrastato se in tale diritto viga la regola che il potere di stipulare accordi sia per ogni Stato regolato dalle norme interne od invece valga ancora il principio della validità in ogni caso dell'accordo stipulato dal Capo dello Stato (10) . Penso invero che non ci troveremmo mai di fronte a norme di trattati che recassero la sottoscrizione del Presidente della Repubblica, ma a protocolli, note, spesso accordi verbali, posti in essere da autorità minori, probabilmente inferiori anche al Ministro degli esteri: non mi pare infondata l'ipotesi che fossero altresì redatti in termini vaghi, tali da giustificare più di una interpretazione.

La mia conclusione non può non essere quella di chi ha sempre creduto nello Stato, ritenuto che non si avvantaggiano i singoli smantellando lo Stato, togliendosi ogni possibilità di difesa. Ed altresì di chi guarda alla realtà delle cose, ritiene che non sia possibile negare allo Stato un'attività di prevenzione, che implica anche la necessità di compiere indagini riservate, e soprattutto sa che nessuna norma di legge riuscirebbe ad impedire ad un governo di guardarsi intorno, d'intuire le minacce di rivoluzioni o di colpi di Stato, di difendersi da queste.
Chi ama la libertà sa che non la si difende non volendo che mai siano previste misure eccezionali, allorché è nell'ordine delle cose che talvolta si presentino situazioni eccezionali, bensì che è bene segnare per tempo le vie secondo cui dovrà svolgersi l'azione dello Stato in queste ipotesi, le forme che dovrà assumere, gli organi che dovranno attuarla, anziché lasciare un vuoto legislativo, entro il quale, nel nome del salus pubblica, suprema lex, possano poi compiersi i peggiori arbitri.
Penso che in mancanza di leggi scritte, sia la dottrina che debba porre alcuni capisaldi: tra cui il primo è quello del rispetto all'art. 3 Cost., l'eguaglianza senza distinzione di religione e di opinioni politiche.
Il secondo, la ripartizione degli ambiti, la esclusione degli organi militari da ogni forma di attività di pubblica sicurezza, e sempre un Ministro responsabile che sia conscio di tutte le forme in cui si esplica quel ramo dell'attività preventiva che è l'informazione, dia le direttive, attesa la delicatezza della materia non lasci mai le briglie sul collo agli organi dipendenti, assuma piena responsabilità di quanto essi compiano od omettano.
Il terzo, l'indisponibilità attraverso accordi internazionali, di quanto tocca questa funzione politica e le garanzie dei cittadini che ne formano uno degli aspetti.
Ma difendo l'esistenza di un diritto dello Stato ad essere informato su determinati aspetti (non tutti, non l'intimità coniugale) della vita di chi si trovi in certe posizioni. Ho sempre ritenuto opportuna la norma per cui ogni persona assunta a pubblico impiego o carica pubblica dovesse depositare in una busta chiusa l'elenco delle sue risorse, di ciò che possegga la moglie, e, sempre in busta chiusa, rilasciare in seguito dichiarazione dei suoi acquisti o delle sue permute. So che molti sorridono, ricordando come siamo nell'epoca delle società fittizie, dei prestanome, delle frontiere inesistenti per investimenti all'estero; so bene che è un filtro che molto, moltissimo lascerebbe passare; sono tuttavia dell'avviso che un filtro poco efficiente è ancora preferibile alla mancanza assoluta di filtri, che c'è un sia pur piccolo numero di persone ancora riluttanti alle dichiarazioni false. Sarebbe comunque un meccanismo che permetterebbe sempre di constatare che il parlamentare o l'alto funzionario che oggi conduce vita lussuosa è partito dal nulla, e non c'è in atti pubblici od in accertamenti fiscali od in sue dichiarazioni traccia che sia mai uscito dallo stato di nullatenenza.
Quel su cui insisto è che dovunque si svolga questa attività d'informazione, e comunque siano regolate le sue modalità, nelle tracce scritte che ne restano, nella segretezza dei dati raccolti, deve vigere la legge dell'eguaglianza. Vi siano sottoposti tutti i parlamentari, se si crede, non mai solo quelli di un dato partito; tutti i dipendenti di una certa amministrazione, ma, ancora, nell'accesso ai ranghi di questa amministrazione non dovranno essere consentite discriminazioni.
Ed altresì che si tratta di una garanzia costituzionale dei cittadini, cui lo Stato non può derogare, direttamente od indirettamente, attraverso trattati internazionali, se questi non siano approvati nella forma delle leggi costituzionali, se cioè non sia una modifica della Costituzione.
Nel porre termine a queste brevi note, non posso non riflettere con amarezza come questo tema delle libertà costituzionali appaia simile ad un marmo variegato, con zone chiarissime (la libertà di discussione e la tranquillità con cui è dato affrontare le questioni sulla legittimità di norme che impongano tributi) e zone assai oscure (come quelle dove i principi di libertà e di eguaglianza vengono a sfiorare i temi della difesa militare).
In massima ho l'impressione che i grandi giorni della libertà siano dietro a noi, all'incirca nel cinquantennio che separa l'unità italiana raggiunta e l'inizio della prima guerra mondiale; i giorni in cui non si dava, nella più gran parte dei Paesi d'Europa, né l'assillo di rivoluzioni né quello di colpi di Stato o di pronunciamenti militari; in cui ogni Stato poteva realmente disporre della propria politica estera, stringere e denunciare trattati; i giorni in cui popoli e governi non vivevano sotto le molteplici paure, che da parecchi anni assillano ogni popolo, e estendono la loro ombra anche su quelli che furono un tempo i paesi più liberi ed orgogliosi.
Ragione vorrebbe che si formasse un diritto aderente a questa realtà. Sembra invece si ritenga doveroso ignorarla, credersi ancora nell'ambiente ricco di fiducia e di speranze del 1945. Lo struzzo che nasconde la testa sotto l'ala.


(*) Il saggio è stato tratto dalla Rivista "Giurisprudenza Costituzionale" , 1967, pp. 875 e segg.
(1) Cfr. M. BOSENRAUM. Medulla Theologiae moralis, Roma 1670, 450; il punto è ancora ampiamente trattato in
F. CAPPELLO, Tractatus de sacramentis, II, De paenitentia. Torino-Roma 1953, 616.
(2) Cfr. M. CAPPELLETTI. Efficacia di prove illegittimamente ammesse e comportamento della parte, con richiami anche alla giurisprudenza nord-americana, in Scritti in onore di IEMOLO, Milano 1963, II, 173 ss.
(3) E non ritengo che questo sia del tutto inutile; a chi realisticamente ricordasse come in certi periodi la lotta politica sia implacabile ed attacchi ogni aspetto della vita degli avversari sarebbe dato ricordare in che limiti ciò che non può operare lo Stato con i suoi organi possono i privati ed i partiti: che non troveranno i limiti posti dalle regole che disciplinano i compiti dello Stato, bensì quelli scaturenti dalle leggi comuni, civili e penali, e, naturalmente, dovranno poi fare il calcolo con le reazioni, non sempre prevedibili, della opinione pubblica.
(4) M. PALEOLOGUE. Journal de l'affaire Dreyfus, Parigi 1955, 16 ss.: intorno al 1894 il Servizio informazioni militare francese scopre che una signora italiana residente a Parigi corrisponde ogni giorno mediante telegrammi cifrati con il conte di Torino; il servizio riesce a far sottrarre il cifrario di cui la signora si serviva; la corrispondenza occulta n'exprimait que des sentiments très simples, très naturels... et d'une complète nuditè.
(5) Per un episodio in quell'ambito dello spionaggio militare in cui l'opinione pubblica (tenace nel dare il primato assoluto alle esigenze di difesa militare e poco incline invece a considerare la difesa economica, ritiene tutto lecito) cfr. E. DE ROSSI. La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, Milano 1927, 188: intorno al 1907 il colonnello capo dell'ufficio informazioni del nostro stato maggiore ha commesso la imprudenza di andare in ricognizione a Lubiana; si apprende da un informatore che è piantonato in un albergo. Ma il suo collega austriaco ha una relazione omosessuale - che lo porterà più tardi al suicidio - con un tenente degli usseri, e questi è a Venezia, all'albergo Cavalletto. Lo si ricerca e si esige da lui che per essere lasciato libero di tornare in Austria mandi al suo colonnello un telegramma cifrato avvertendolo che non può rimpatriare se non rimpatria il colonnello italiano: come segue.
(6) Nella discussione della Camera, il 2 maggio '67 l'on. Almirante ricordava che fino al decr. 18 novembre '65 era rimasta in vigore la legge fascista, cioè il d.l. 15 ottobre 1925 n. 1909; ma questo si limita ad enunciare la costituzione del servizio alle dipendenze del capo di s.m. generale.
(7) Nella discussione alla Camera, tornata 2 maggio 1967, l'on. Pacciardi affermava non potere il Servizio informazioni avere "rapporti speciali" con il Presidente della Repubblica o con il Presidente del Consiglio; ciò non essere mai avvenuto con Einaudi e De Gasperi. Ma a suo avviso non potrebbe neppure avere rapporti con il Ministro della Difesa, che deve solo avere relazioni con il suo capo di s.m..
"Io vi domando se il ministro potrebbe avallare il rilascio di passaporti falsi, il pedinamento di persone, l'installazione di microfoni, il controllo dei telefoni, che sono gli ingredienti normali di un servizio per la sicurezza nazionale".
A prescindere da considerazioni moralistiche - che qualcuno debba presiedere a cose sporche pretendendo di restare pulito - direi sia in massima da escludere che il capo di un dicastero non possa conferire ed avere chiarimenti, ed anche dare istruzioni, con tutti gli appartenenti al suo ramo di amministrazione. Il seguire le vie gerarchiche può essere un dovere legale quando si procede dal basso verso l'alto; ma dall'alto verso il basso è solo questione di buona organizzazione, di mantenere l'ordine nel servizio, di non demoralizzare i superiori saltandoli, non già un obbligo legale. Ed un ministro non può giustificarsi col dire che conosceva soltanto i capi dei servizi.
(8) Difficile giustificare questa anomalia; tra le ragioni che ho sentito addurre sono la natura puramente politica del Trattato e il fatto che la legge autorizza il Governo a dare esecuzione, ma non contiene invece la formula "piena ed intera esecuzione è data". Per l'art. 80 Cost. le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica (termine che lascia estremamente indeterminato l'ambito di tali trattati); ed è questo comunque un notevole passo di fronte alla prassi della monarchia in cui venivano conchiusi trattati che importavano obblighi di interventi in guerra senza che il Parlamento potesse interloquire, anzi ignorandone il tenore (eco delle prime costituzioni in cui la politica estera era interdetta ai parlamenti); peraltro la fonte di conoscenza dei cittadini è la raccolta delle leggi, ed ivi dovrebbe essere inserito, in appendice alla legge che autorizza la sua ratifica, ogni trattato, anche se di natura meramente politica. Resta peraltro a vedere se siano ammissibili trattati internazionali in forza dei quali l'Italia sia impegnata ad entrare in guerra, fosse pure per la difesa di un alleato aggredito; o se l'art. 78 non resti paralizzato da un simile trattato. Lo spirito degli artt. 11 e 78 sarebbe nel senso che non possano esserci impegni che privino il Parlamento della libertà di decidere se debba dichiararsi una guerra, che a termini dell'art. 11 non potrebbe essere che strettamente difensiva; ma quella libertà più non esiste se si dia un trattato, la cui ratifica fu autorizzata da un parlamento precedente, forse molti anni prima ed in situazioni del tutto mutate, che contenga un tale impegno, sicché le Camere possano ora soltanto scegliere tra la guerra, od esporre il Paese alle responsabilità e forse alle sanzioni per aver mancato agli impegni assunti (ed è poi ingenuo pensare che possano togliere pericolosità ad un trattato, od eliminare i dubbi di un Parlamento circa l'opportunità di entrare in guerra, clausole come quella dell'art. 5 del Trattato Nato che prevedono lo scattare dell'impegno soltanto se si abbia un attacco armato contro uno degli Stati aderenti in Europa o nell'America del Nord. L'esperienza di ogni giorno afferma che quando scoppia una conflagrazione armata ogni Stato dichiara di essere esso l'aggredito; e che vi sono casi in cui uno Stato deve sparare il primo colpo perché bloccato nelle sue comunicazioni, e minacciato di privazione di risorse dall'azione illegittima di un altro. Quando poi un trattato operi solo in una certa area geografica, l'attacco in questa può essere la risposta all'attacco che per prima la Potenza, ora attaccata sull'area territoriale del Trattato, abbia effettuato fuori di quest'area). E mi chiedo altresì se nel quadro della Costituzione possano trovare posto trattati in forza dei quali l'esercito italiano venga ad essere posto, per un tempo determinato o meno, sotto un comando straniero od anche interalleato: soprattutto se ciò segua fuori della ipotesi di guerra, e per una durata che non sia quella di una guerra. Opinerei che no, proprio argomentando dall'art. 52 e dal comma nono dell'art. 87: e ritengo che non si possa invocare in senso contrario l'art. 11. Se si vuole risalire al pensiero dei costituendi, meglio ancora al clima del 1946-47, può ben dirsi che era fuori delle prospettive l'idea di alleanze militari che comportassero sottomissione dell'esercito nazionale a comandi extranazionali, come pure l'idea più radicale di un esercito plurinazionale in cui si fondessero le forze armate di più Stati, e così del nostro. Le prospettive erano nettamente pacifiste, l'esercito solo per la difesa del territorio nazionale quanto all'art. 11 a me sembra assolutamente programmatico, e non contenente già un'autorizzazione al legislatore ordinario a compiere qualsiasi limitazione di sovranità; l'aspirazione ivi espressa era semmai verso ordinamenti che comprendessero tutte le Nazioni, come l'ONU; e le organizzazioni internazionali auspicate erano quelle giudiziarie od economiche, non certo militari; l'alleanza militare di un ristretto gruppo di nazioni, fosse anche per una solidarietà nella difesa dei loro territori, mi pare esuli del tutto e dalle prospettive del costituente e dalla lettera dell'art. 11. Ad ogni modo le limitazioni di sovranità da potersi approvare con una legge ordinaria non potrebbero mai essere in deroga a norme espresse della Costituzione, e così alla dipendenza dell'esercito dal Presidente della Repubblica; una dipendenza inalienabile. Né mi pare giovi richiamare la distinzione tra ordinamento interno e pattuizione internazionale; ricordare che il Presidente potrà sempre sottrarre le proprie forze armate da quella dipendenza, anche se con ciò vada contro ad una pattuizione internazionale; regga o non regga la distinzione secondo le norme del diritto internazionale, mi pare si possa affermare tranquillamente che la Costituzione importi, nell'ordine interno, la illiceità di ogni trattato internazionale per rispettare il quale nostri organi dovrebbero fare qualcosa che fosse in contrasto con la Carta costituzionale, e tale ritengo sia ogni rinuncia, anche revocabile, al comando effettivo delle forze armate, ed una sottrazione di qualsiasi attività di queste alla direzione (ancor più alla conoscenza) del Ministro della difesa, ed attraverso questi del Governo, responsabile di fronte al Parlamento. Naturalmente sono queste considerazioni strettamente giuridiche. Possibilissimo che in qualsiasi momento dopo la formazione della Costituzione sia apparsa od abbia ad apparire l'utilità per l'Italia di inserirsi in alleanze che necessitassero quella limitazione di poteri del nostro Governo di fronte alle nostre forze armate; ma occorreva allora (od occorrerebbe) provvedere con legge costituzionale.
(9) G. Balladore Pallieri. Diritto internazionale pubblico, ottava edizione, Milano 1962, 169 ss.
(10) Cfr. R. Quadri. Diritto internazionale pubblico, quarta edizione, Palermo 1963, 110 ss..

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA